Cooperative, associazioni e mutue nella normativa e nelle politiche
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Cooperative, associazioni e mutue nella normativa e nelle politiche
Cooperative, associazioni e mutue nella normativa e nelle politiche della Comunità europea Trento, 3 dicembre 1998 dott. Alceste Santuari Coordinatore dell’Istituto Studi Sviluppo Aziendale Non profit (ISSAN) Le imprese sociali nel contesto europeo dott.ssa Alice Copette Amministratrice principale - Commissione europea DG XXIII La politica europea a favore dell’economia sociale GIUNTA DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO - 1999 Copyright: Giunta della Provincia Autonoma di Trento, 1999 Centro Documentazione Europea Coordinamento redazionale: Giuliana Bassetti SANTUARI, Alceste Cooperative, associazioni e mutue nelle normative e nelle politiche della Comunitàè europea : Trento, 3 dicembre 1998. - <Trento> : Provincia Autonoma di Trento. Giunta, 1999. – 40 p. ; 21 cm. - (Quaderni del CDE ; 5) Contiene: Le imprese sociali nel contesto europeo / Alceste Santuari. La politica europea a favore dell’economia sociale / Alice Copette 1. Enti senza scopo di lucro - Diritto comunitario I. Copette, Alice 346.064 Alceste Santuari Le imprese sociali nel contesto europeo 1. Introduzione Le organizzazioni di terzo settore possono svolgere, in alternativa o in modo congiunto, più ruozsone di risorse, di produzione di beni e servizi. Nei sistemi di welfare universalistici, come quelli dei paesi europei, le organizzazioni di terzo settore sono state impegnate, fino alla fine degli anni ’70, soprattutto nelle prime due funzioni (advocacy e pionering), mentre il ruolo redistributivo e di produzione di beni e servizi era diffuso soprattutto tra le organizzazioni non profit degli Stati Uniti, caratterizzati da un sistema di welfare di tipo residuale. Nel corso degli anni ’80 la situazione si è modificata in modo significativo e nei paesi europei si è assistito non solo ad una crescita quantitativa delle organizzazioni di terzo settore, ma soprattutto al rafforzamento del loro ruolo produttivo. Questo rafforzamento è la conseguenza: a) dell’aumento della domanda di servizi che ha accompagnato la crescita del reddito e della sua progressiva differenziazione in conseguenza della aumentata articolazione dei bisogni; b) del ridimensionamento dei sistemi pubblici di welfare, soprattutto nei paesi europei, che si è tradotto soprattutto in una stazionarietà (o in una diminuzione) della spesa per la produzione, diretta o affidata a organizzazioni private di servizi sociali e di interesse collettivo. Lo sviluppo del ruolo produttivo del terzo settore si è quindi inserito nel gap tra bisogni crescenti e offerta, soprattutto pubblica, stazionaria o in via di ridimensionamento. Si spiega così perché molte organizzazioni nate per svolgere attività di advocacy (organizzazioni di consumatori o utenti, gruppi di volontariato) si siano trasformate in produttori di servizi, come condizione per realizzare la mission che ne aveva determinato la nascita. L’evoluzione verso la dimensione produttiva è stata successivamente e più di recente rafforzata e accelerata dal diffondersi di strategie di delega della produzione di servizi sociali da parte della pubblica amministrazione, in particolare a livello locale. Il rafforzamento del ruolo produttivo del terzo settore ha determinato una serie di conseguenze: a. ha evidenziato i limiti operativi delle forme giuridiche previste dai diversi ordinamenti per lo svolgimento di attività non lucrative, limiti a cui alcuni paesi hanno già iniziato a porre rimedio; b. ha reso necessaria una revisione delle strategie di molte organizzazioni di terzo settore (creando difficoltà alle grandi organizzazioni che operavano su scala locale nazionale e favorendo le piccole organizzazioni a dimensione locale) e dei rapporti tra le diverse tipologie organizzative (tra chi produce i servizi e chi mantiene i ruoli di advocacy e di redistribuzione); c. ha reso necessaria la revisione dei rapporti con la pubblica amministrazione (dal sostegno generico e parziale al contracting-out) e ha reso possibile la nascita di rapporti nuovi con il mercato (dalle donazioni, all’instaurarsi di contratti e rapporti di subfornitura); d. ha ampliato la tipologia di organizzazioni che compongono il settore e ha modificato la rilevanza attribuita alle diverse forme organizzative. E’ in questo contesto che si sviluppano forme di impresa sociale in conseguenza di un processo di rafforzamento della dimensione produttiva dell’associazione e della finalizzazione sociale della cooperativa. All’interno di questo processo, in molti casi associazioni e cooperative sono passate da forme organizzative a base sociale omogenea a multi-stakeholder, cioè a organizzazioni con base sociale e organi di controllo composti da più tipologie di portatori di interesse (consumatori, utenti, lavoratori, volontari, ecc.); Si è quindi venuta a creare una nuova figura organizzativo-imprenditoriale volta a soddisfare interessi di pubblica utilità: l’impresa sociale. 2. La definizione di impresa sociale Come possiamo definire un’impresa sociale? Indagare sul concetto di impresa sociale significa valutare similitudini e assonanze, ma altresì distanze, dicotomie e differenze esistenti nei sistemi giuridici dell’Unione Europea, così da individuare caratteristiche e peculiarità delle singole esperienze. In Europa, come in Italia, vige una tradizione storica di organizzazioni non profit, attraverso le quali i cittadini hanno approntato gli strumenti necessari per rispondere più adeguatamente ai propri bisogni. In Inghilterra, in Francia, in Germania e in Belgio, per esempio, si registrano numerose esperienze organizzative di natura ideale e/o solidaristica che, pur presentando diverse caratteristiche formali e giuridiche, sono da considerarsi a pieno titolo facenti parte della nozione di organizzazioni non profit.1 In ambito comunitario, infatti, si possono riscontrare alcuni importanti sviluppi e tendenze omogenee, soprattutto in relazione al fenomeno dell’impresa sociale, strumento imprenditoriale non profit che assomma in sé in modo innovativo tratti associativi e societari. E’ questo probabilmente il terreno più fertile per scorgere similitudini di trattamento e tendenze di sviluppo omogenee. Se, da un lato, infatti, nel panorama europeo, da un punto di vista giuridico ed istituzionale emergono alcune differenze legate per lo più a ragioni storiche e tradizionali delle forme organizzative impiegate, dall’altro lato, da indagini condotte in relazione alle attività, agli obiettivi e alle motivazioni su cui si fondano le azioni delle imprese sociali, si rilevano tratti che potremmo definire comuni. Alcuni autori sostengono persino che questi significativi aspetti comuni permetterebbero di avanzare l’ipotesi che si sia venuta configurando una forma di “impresa sociale” specifica dei paesi europei, diversa dalla tradizionale organizzazione non profit.2 Tralasciando le diverse forme giuridiche adottate nei diversi paesi europei, da alcune ricerche realizzate in ambito scientifico emerge che nel corso degli anni ’70 e ’80, in tutti i paesi europei, si sono create e consolidate organizzazioni private con obiettivi e finalità sociali, le quali sono definite da almeno due fondamentali aspetti che le differenziano da altre organizzazioni a finalità sociali o non profit: 1. un’evidente dimensione produttiva di servizi sociali, a favore della comunità, o di beni e servizi come strumento per l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati: ciò in buona parte spiega il ricorso a forme e strutture organizzative di tipo imprenditoriale, tra cui spicca quella cooperativa; 2. un’elevata ed incisiva partecipazione alla gestione dei diversi gruppi di portatori di interessi, quali volontari, lavoratori, utenti, enti pubblici e privati, la quale é garantita dalla composizione della base sociale e da forme di gestione di carattere democratico.3 Mentre il primo aspetto é il risultato innanzi tutto delle riforme dei sistemi di welfare state e dell’evoluzione della domanda di servizi, la seconda é la conseguenza di scelte consapevoli, motivate dall’importanza attribuita alla partecipazione dei volontari, degli utenti e più in generale dei rappresentanti della comunità nelle attività che si prefiggono di combattere l’esclusione sociale. Invero, partecipazione e democrazia costituiscono parte integrante della filosofia dell’azione dei promotori delle suddette attività. Di questa evoluzione vi é ancora scarsa consapevolezza, come dimostrano le resistenza, da parte sia delle organizzazioni sociali sia delle autorità pubbliche, a riconoscere la natura produttiva e, quindi, imprenditoriale di queste organizzazioni e ad adottare le conseguenti modifiche legislative e a definirne in modo coerente le caratteristiche. Dal consolidamento di detta forma imprenditoriale a finalità sociale possono però derivare alcuni indubbi vantaggi, quali un aumento dell’offerta di servizi sociali, l’alleggerimento delle responsabilità dei sistemi pubblici di welfare, la maggior soddisfazione dei bisogni ed infine, la creazione di nuova occupazione. Quest’ultimo risultato trova conferma nelle lungimiranti intuizioni contenute nel libro bianco di Delors dedicato a “Crescita, competitività e occupazione” pubblicato nel 1994. Da allora, le istituzioni comunitarie sono impegnate nella ricerca di misure ed azioni rivolte a promuovere la crescita del terzo settore. Accanto ai numerosi e proficui programmi di ricerca e di network finanziati, in questi anni, dalla Commissione Europea, è degna di nota la Comunicazione della Direzione Generale XXIII della Commissione sulla “Promozione del ruolo delle associazioni e fondazioni in Europa”, documento emanato nel gennaio di quest’anno. In esso, si specifica, tra gli altri punti, la necessità di definire un’adeguata disciplina giuridica delle organizzazioni non profit a livello degli stati membri, da realizzarsi in stretta connessione, a livello comunitario, con un maggiore riconoscimento e valorizzazione del ruolo di tali organismi nell’ambito delle politiche nazionali ed europee in generale. Quali sono, dunque, le caratteristiche che le imprese sociali devono presentare? a) esse devono avere natura privata, anche se possono ricomprendere tra i promotori e i soci istituzioni pubbliche. Queste ultime non devono tuttavia essere gli unici membri, né avere un ruolo dominante; b) devono avere un elevato grado di autonomia gestionale sia dagli enti pubblici sia da altre organizzazioni private; c) devono produrre e vendere servizi di interesse collettivo, cioè sia servizi a carattere strettamente sociale, sanitario ed educativo, sia, più in generale, servizi di interesse collettivo o comunitario, nonché servizi che sono percepiti come sociali dalla comunità (ad esempio il turismo sociale) o dalla collettività (ad esempio la manutenzione ambientale). Pertanto risultano escluse da questa definizione le organizzazioni che svolgono soltanto funzioni di advocacy o redistributive (ad esempio grant giving foundation or association of consumers); d) possono assumere qualsiasi forma legale, purché essa abbia le caratteristiche che la legislazione nazionale prevede per le iniziative che intendano definirsi a finalità sociale. Queste caratteristiche possono essere: non profit distribution constraint, partecipazione degli utenti, dei lavoratori o della comunità alla gestione d’impresa, gestione democratica; e) le entrate con cui l’impresa finanzia la propria attività possono avere indifferentemente provenienza pubblica o privata, ma esse devono essere almeno in parte commisurate ai servizi prodotti. Sono quindi escluse le organizzazioni che vivono esclusivamente o in prevalenza di donazioni private o contributi pubblici. Ma come si distinguono le imprese sociali dalle organizzazioni non profit tradizionali che, in alcuni paesi sono fortemente radicate e ampiamente sviluppate? Coerentemente con la definizione sopra delineata, i criteri principali di distinzione adottati sono i seguenti: la natura produttiva e la propensione alla vendita (a privati o a enti pubblici) dei servizi; a differenza delle imprese sociali, le organizzazioni tradizionali sono di norma impegnate o in attività di advocacy, o nella trasformazione di flussi finanziari in servizi distribuiti a titolo gratuito o sottocosto, senza corrispondenza tra la quantità dei servizi erogati e l’ammontare dei finanziamenti; u il grado di autonomia; a differenza delle imprese sociali, le organizzazioni sociali dipendono fortemente nei finanziamenti e nella gestione dell’attività dalla pubblica amministrazione o da grandi organizzazioni nazionali; u l’innovatività del servizio prodotto; cioè la capacità di soddisfare anche bisogni non rientranti in quelli tradizionalmente offerti dai sistemi pubblici di welfare. In sintesi per essere definita impresa sociale l’organizzazione deve essere caratterizzata da una forte natura produttiva, da un elevato grado di autonomia e da un certo livello di innovatività di prodotto o di processo. u 3. I vantaggi dell’impresa sociale Nella definizione adottata sono implicite alcune assunzioni concernenti da un lato, il ruolo che l’impresa sociale si avvia a svolgere e in parte sta già svolgendo nelle economie europee, dall’altro i vantaggi che l’impresa sociale presenta nella produzione e vendita di servizi collettivi nei confronti delle imprese for profit e delle altre organizzazioni non profit. Nell’ambito delle iniziative con finalità sociali volte a produrre servizi è possibile individuare due modelli organizzativi. Il primo, di derivazione statunitense e che sta avendo una certa eco anche in Europa, è legato strettamente al concetto di non profit che operativamente si esplica attraverso il vincolo alla distribuzione dei profitti. La presenza di un tale vincolo, tuttavia, non garantisce affatto la finalità sociale di un’iniziativa: negli Stati Uniti la maggioranza degli ospedali ha una configurazione non profit, ma i poveri possono accedervi con grandissima difficoltà; anche la Harvard University è una istituzione non profit, ma non sembra avere finalità sociale. Un vincolo alla distribuzione dei profitti quindi, appare essere una condizione necessaria ma non sufficiente a garantire un orientamento volto alla soddisfazione degli interessi della collettività. E’ però un formidabile meccanismo di sviluppo: l’obbligo di reinvestire in tutto o in parte gli utili, una volta remunerato il lavoro, garantisce un flusso di risorse per la crescita. Il secondo modello organizzativo è invece di derivazione europea ed è basato sul meccanismo della partecipazione e del controllo democratico. Le finalità dell’iniziativa sono garantite soprattutto da un’ampia e articolata base sociale. Questo significa che nella base sociale debbono essere presenti i portatori di interessi (quali: lavoratori, utenti dei servizi, consumatori dei prodotti, volontari) o almeno i più importanti tra essi. In un numero crescente di esperienze nella stessa organizzazione sono presenti più tipologie di portatori di interessi; si parla in questi casi di multi-stakeholder organisations. In questo tipo di organizzazioni la garanzia che l’organizzazione persegua finalità sociali non è affidata ad un vincolo, non è statica e stabilita una volta per tutte, ma è soggetta ad un processo trasparente di mediazione tra interessi diversi. In generale, l’impresa sociale, specie se multi-stakeholders, presenta tutti i vantaggi delle tradizionali organizzazioni non profit nei confronti delle imprese for profit e della pubblica amministrazione, a fronte di una maggiore efficienza e, in alcuni casi, di un maggiore controllo della qualità dei servizi offerti. In primo luogo, l’impresa sociale è la modalità organizzativa preferibile in presenza di asimmetrie informative. Una delle ragioni principali che ostacolano l’offerta privata for profit di servizi è l’esistenza di asimmetrie informative tra produttore e consumatore che determina opacità nelle transazioni e quindi riluttanza a orientare i consumi verso i servizi. Il consumatore infatti incontra particolari difficoltà a controllare la qualità di questi servizi, e spesso anche la quantità, e quindi a stabilire se il prezzo che gli viene chiesto corrisponde al loro valore reale. Il produttore, se orientato al profitto, è nelle condizioni di ingannare con relativa facilità il consumatore, massimizzando il proprio ricavo soprattutto a scapito della qualità. Questa situazione impedisce o limita il formarsi di una domanda pagante per i servizi e rallenta il processo di trasformazione del modello di consumo da un modello dove prevalgono i beni verso uno a maggior contenuto di servizi, processo già di per sé non facile perché richiede che i consumatori modifichino mentalità e comportamenti. Da questo punto di vista l’impresa sociale che è creata nell’interesse, anche se non esclusivo, sia dei consumatori/utenti e della comunità locale che di coloro che vi lavorano, in una situazione mista di mercato pubblico e privato, è in grado di garantire la qualità dei servizi offerti e di contribuire a creare un sistema di relazioni fiduciarie tra consumatori e produttori. Infatti essa è comunque limitata nella distribuzione di profitti e non è quindi incentivata a ridurre la qualità dei servizi offerti per far guadagnare di più i proprietari. A questa forma di controllo indiretto aggiunge, se multi-stakeholder il controllo diretto garantito dalla partecipazione alla membership e agli organi di gestione degli stessi consumatori, dei loro rappresentanti o dei rappresentanti della comunità locale, come i volontari. L’instaurarsi di relazioni fiduciarie tra produttori e consumatori di servizi favorisce inoltre il formarsi di una domanda pagante e, nello stesso tempo, rende più agevole la stessa individuazione dell’esistenza di domanda e la definizione della sua quantità. Le distorsioni nel modello di consumo evidenziate in precedenza, infatti, causano difficoltà a rilevare le preferenze dei consumatori: la maggior parte dei servizi in questione ha caratteristiche di meritorietà e quindi, se venissero lasciati solo al mercato, cioè alle decisioni di imprese for profit, sarebbero prodotti in quantità inferiori a quelle ritenute socialmente desiderabili. Ulteriori elementi di superiorità dell’impresa sociale rispetto alle organizzazioni non profit sono individuabili nella diversa capacità di reperire risorse, soprattutto finanziarie e nella potenzialmente maggiore efficienza. Non essendo completamente vincolate nella distribuzione di utili (come nel caso delle cooperative) e potendo in alcuni casi remunerare una parte del capitale (quello sottoscritto da soci finanziatori o quello messo a disposizioni dai soci sotto forma di prestiti) le imprese sociali hanno maggiori possibilità rispetto alle non profit tradizionali di finanziare non solo l’attività ordinaria, ma anche progetti di sviluppo. Questa capacità di remunerare, seppur in modo limitato, il capitale ha anche favorito lo sviluppo in tutti i paesi europei di istituzioni finanziarie specializzate nella raccolta di risparmio etico e nell’investimento in iniziative a carattere sociale. Esse sono cosa completamente diversa dalle umbrella organisations anglosassoni: mentre queste raccolgono donazioni, le nuove istituzioni europee finanziano progetti, a tassi di interesse contenuti, ma con l’impegno alla restituzione dei mezzi finanziari prestati. Pur essendo costituite per scopi diversi dalla massimizzazione del profitto, alcune caratteristiche dell’impresa sociale permettono di ritenere che essa possa essere, a differenza della non profit tradizionale, non meno efficiente di una impresa for profit. Dal punto di vista dell’efficienza i vantaggi delle imprese sociali nei confronti delle imprese for profit sono ascrivibili alla capacità di contenere i costi di produzione dei servizi che genera non solo una maggiore possibilità di produrre per la domanda pubblica, ma soprattutto, in prospettiva, di attrarre domanda privata. Le determinanti di questa capacità di contenere i costi possono essere così sintetizzate: a. la partecipazione al controllo anche di categorie di portatori di interessi, come i consumatori e i volontari, diverse da quelle che ricavano benefici monetari dall’appartenenza all’organizzazione, dovrebbe garantire un controllo operativo dei costi, soprattutto quando i servizi sono offerti ai consumatori a titolo oneroso. Inoltre, la partecipazione dei consumatori coinvolti spesso anche come co-producer, riduce i costi di produzione favorendo il loro impegno diretto nella produzione, anche tramite il lavoro volontario, e riducendo l’incentivo ad adottare comportamenti opportunistici; b. le imprese sociali sono in grado di attrarre risorse umane ed economiche a costo nullo: il lavoro volontario, importante soprattutto nelle fasi di avvio dell’iniziativa, in quanto riduce sensibilmente il costo dello start-up, e le cui prestazioni sono spesso ad alto livello di specializzazione; le donazioni, destinate sia a coprire i costi di gestione che a costituire il capitale di esercizio; c. le imprese sociali, essendo costituite da un gruppo di persone che, pur portatrici di interessi diversi, condividono la mission dell’organizzazione, garantiscono un elevato livello di effort, soprattutto in presenza di contratti di lavoro incompleti. Il controllo dell’effort è un aspetto di particolare rilevanza nella produzione di servizi alla persona e alla comunità, che sono caratterizzati da un elevato contenuto di relazionalità. In un settore come questo, dove la qualità del prodotto dipende principalmente dall’impegno dei lavoratori, è più difficile, quindi più costoso, il controllo di questo impegno. Sono proprio le difficoltà a controllare l’impegno dei lavoratori e i possibili comportamenti opportunistici, una delle cause della bassa efficienza delle unità pubbliche di produzione e della limitata diffusione di imprese for profit in questo tipo di attività; d. le imprese sociali presentano un elevato grado di flessibilità nell’uso della forza lavoro. E’ questa una caratteristica tipica delle organizzazioni con finalità sociale ma che, nel caso dell’impresa sociale, risulta rafforzata dalle migliori capacità organizzative. Questa flessibilità si riscontra soprattutto nella struttura degli orari di lavoro, e quindi di erogazione dei servizi, nella maggiore varietà di mansioni che i lavoratori sono in grado ed acconsentono a svolgere e nell’applicazione degli standard. In generale la flessibilità nelle imprese sociali si traduce non solo in minori costi, ma anche in migliore qualità. e. le imprese sociali sono caratterizzate da salari inferiori a quelli delle unità pubbliche di produzione - la definizione dei salari avviene cioè in funzione del budget disponibile e non viceversa - compensati da altri aspetti della prestazione lavorativa. Alcune ricerche sul costo del lavoro in queste organizzazioni hanno dimostrato, infatti, che i livelli salariali sono di norma inferiori a quelli delle unità di offerta pubbliche e for profit, senza che ciò determini una maggiore mobilità dei lavoratori, data l’esistenza di un trade-off tra remunerazione monetaria e altre caratteristiche del lavoro: condivisione della mission dell’organizzazione, maggior flessibilità, migliore ambiente di lavoro. Questi vantaggi si sovrappongono all’interno delle imprese sociali creando spesso effetti cumulativi, che offrono spazi significativi all’innovazione organizzativa e sociale. In sintesi, lo sforzo di coniugare finalità sociale, tutela dell’utente e gestione imprenditoriale consente all’impresa sociale di conseguire un equilibrio difficilmente raggiungibile sia dalle imprese ordinarie che dalle tradizionali organizzazioni non profit. A fronte di questi vantaggi l’impresa sociale presenta svantaggi piuttosto limitati rispetto alle imprese for profit e alle tradizionali organizzazioni non profit. Due in particolare vanno tenuti in considerazione: maggiori costi di gestione, a causa della maggior complessità del processo decisionale, dovuta alla necessità di tener conto di interessi diversi e minor capacità di attrarre donazioni, a causa del carattere più produttivo. Quest’ultimo svantaggio non sembra tuttavia assumere un rilievo particolare: le donazioni infatti non hanno mai rappresentato una fonte di reddito significativa al di fuori dei paesi anglosassoni e anche in questi la loro rilevanza è fortemente diminuita negli ultimi anni. 4. L’impresa sociale nella trasformazione dei sistemi di welfare Nei diversi contesti europei, è possibile ricavare le seguenti considerazioni riguardanti le esperienze di gestione privata di servizi sociali a carattere imprenditoriale, ma con finalità collettiva: a. le imprese sociali esistono in tutti i paesi, anche in quelli con un settore non profit tradizionale e più strutturato e in quelli con un welfare state più consolidato; b. risulta chiaro un maggior sviluppo dell’impresa sociale nei paesi a welfare debole, principalmente nei paesi latini, Grecia compresa; questi paesi sono caratterizzati dal paradosso della crisi di un sistema di welfare non ancora pienamente realizzato e quindi stanno percorrendo più di altri strade innovative; c. la comparsa delle imprese sociali è piuttosto recente, il fenomeno ha iniziato a svilupparsi in momenti differenti; d. le imprese sociali sono ancora fortemente concentrate nei servizi sociali più tradizionali, anche se si stanno strutturando esperienze nella produzione di servizi di più ampio interesse collettivo; e. le imprese sociali sono ancora molto dipendenti dai finanziamenti pubblici principalmente a causa di una forte specializzazione settoriale e del modo in cui sono regolate le politiche di welfare nei vari paesi; f. emerge tuttavia l’esistenza e la dinamicità di esperienze dotate di autonomia o perché raccolgono domanda e risorse private o perché utilizzano finanziamenti pubblici, ma su progetti autonomi; si vanno però diffondendo velocemente esperienze g. si riscontra, in alcuni casi, molta fantasia nell’organizzazione, nella definizione del processo produttivo, nel rapporto con le persone e con la comunità, nelle modalità di individuazione di bisogni: questo può essere considerato un indicatore dell’esistenza di una “imprenditorialità sociale” che promette ulteriori frutti. Le evidenze empiriche contenute nelle considerazioni precedenti e soprattutto il diverso grado di sviluppo, possono essere spiegate attraverso un esame della relazione tra l’emergere di imprese sociali e la trasformazione dei modelli di offerta dei servizi di welfare. Schematicamente possiamo individuare tre modelli storicamente affermatisi in Europa: a. offerta pubblica prevalente: Danimarca, Svezia, Finlandia e Regno Unito; b. finanziamento pubblico, ma rilevante offerta privata attraverso organizzazioni consolidate fiduciarie della pubblica amministrazione: Germania, Olanda e Francia; c. scarsa offerta di servizi e larga prevalenza di trasferimenti: Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Il modello ad offerta pubblica prevalente sta seguendo due linee di trasformazione diverse sia per modalità che per tempi. I paesi scandinavi stanno modificando molto lentamente il loro welfare system. In prima approssimazione una tradizione radicata e una estesa offerta pubblica di servizi, possono essere considerati un freno rilevante allo sviluppo di mercati misti pubblico-privato, sia dal lato dell’offerta che dal lato della domanda. In questi paesi, in Danimarca in particolare, il modello di welfare pubblico regge ancora e la depubblicizzazione di alcuni servizi non è vista come una necessità. La gratuità dei servizi è tuttora percepita come elemento essenziale, quasi etico, dell’intervento e quindi anche iniziative che potrebbero ragionevolmente chiedere un contributo anche non simbolico agli utenti, preferiscono ottenere finanziamenti dal sistema pubblico. Le persone impegnate nell’offerta di servizi sociali al di fuori delle strutture pubbliche tendono a percepirsi come operatori, professionisti dell’intervento sociale, piuttosto che come imprenditori o almeno come parte di una esperienza che impone attenzione all’economicità di gestione. Cioè tendono a trasporre all’esterno un modello di lavoro dipendente di tipo specialistico. Si riscontrano comunque linee di evoluzione interessanti. In Finlandia, ad esempio, il dibattito è molto avanzato (Leila, 1995) e stanno emergendo imprese sociali che utilizzano generalmente la forma cooperativa. Anche in Svezia nuove forme cooperative stanno svolgendo un ruolo crescente nell’offerta di alcuni servizi di welfare, tuttavia il modello svedese sembra orientato verso un modello dove esiste offerta privata, ma fortemente dipendente dal sistema pubblico. In generale comunque, aumenta l’offerta privata, pur senza che l’offerta pubblica diminuisca. Molto diversa è la situazione del Regno Unito che si sta muovendo da tempo verso la privatizzazione e il contracting-out dei servizi. E questa evoluzione è vista principalmente come conferimento di questi servizi al settore privato piuttosto che ad organizzazioni del terzo settore (non a fini di lucro, volontarie, cooperative ecc.). Tuttavia le autorità statali locali non possono essere considerate meri acquirenti di servizi. Essi continuano ad avere un ruolo maggioritario, anche se probabilmente declinante, nell’offerta di servizi. Il settore non profit ha comunque un ruolo crescente in questa trasformazione, tanto più che le caratteristiche delle imprese private lasciano al privato sociale un grande spazio potenziale. Dimensione e redditività del business infatti orientano le imprese private verso la gestione di iniziative come gli ospedali, mentre le iniziative ad alta intensità di lavoro, a redditività inferiore e più incerta, sono molto meno ricercate. Le autorità locali stabiliscono di norma con le imprese private un rapporto del tipo acquirente fornitore. Se non sono soddisfatte del servizio si rivolgono ad altre imprese. Non hanno quindi una forte tendenza a creare partnership progettuali, volte al soddisfacimento di nuovi bisogni o all’innovazione nel soddisfacimento di bisogni tradizionali. Le iniziative di tipo bottom-up trovano comunque un canale nell’esperienza consolidata del community business. Il caso del Regno Unito permette di introdurre la discussione sul problema della creazione di un welfare market, vista dal lato dell’offerta. L’approccio britannico è infatti rispondente ad una visione secondo la quale il privato è comunque più efficiente del pubblico e il mercato è in grado di coordinare al meglio la produzione di qualsiasi bene o servizio. Sulla base di queste ipotesi le organizzazioni private di qualsiasi natura (profit o non profit) diventano sostitutive dell’intervento pubblico. Nei paesi dove l’offerta di servizi privata ha storicamente un ruolo importante, si determina un paradosso interessante: un settore non profit molto strutturato e di grande tradizione svolge un ruolo simmetrico a quello del welfare state nell’ostacolare l’affermarsi di una offerta privata di servizi pubblici con caratteristiche imprenditoriali che si rivolga ad una domanda pubblica e privata. Le organizzazioni non profit tradizionali infatti, tendono a perpetuare una forte dipendenza dagli enti pubblici. Il modello quindi si sta consolidando ma è contrassegnato da scarsa innovatività e, talvolta, da debolezze organizzative. In Germania, ad esempio, prevale un modello estremamente rigido che ostacola la nascita di mercati misti pubblico-privato in tutte le aree di intervento che riguardano i servizi sociali. I servizi sociali alle persone sono infatti normalmente forniti dalle grandi istituzioni benefiche e dalle organizzazioni ad esse affiliate. Queste istituzioni benefiche (sette in totale, di cui quattro quelle veramente importanti) hanno una lunga tradizione di intervento, in alcuni casi legata alle Chiese. A causa dell’applicazione rigorosa di un principio di sussidiarietà, secondo il quale lo stato deve offrire la gestione dei servizi sociali in primo luogo alle istituzioni benefiche, in Germania queste istituzioni hanno di fatto un monopolio nella fornitura dei servizi sociali. Questa modello è inoltre regolato in modo rigoroso da un Codice di Sicurezza Sociale (Sozialgesetzbuch). Un altro rilevante problema che caratterizza la situazione tedesca, deriva dall’obbligo per le organizzazioni che vogliono gestire servizi di assumere la forma di non profit. Lo status di non profit viene verificato ad intervalli regolari dagli uffici fiscali dello stato. Se l’assetto non profit non viene riscontrato, i privilegi fiscali vengono revocati e l’organizzazione può essere costretta a pagare anni di arretrati: questo normalmente significa la bancarotta. Anche in Francia si registrano forti elementi di rigidità nell’offerta di servizi sociali da parte dei privati, dovuti al fatto che le organizzazioni che gestiscono servizi per conto dello stato ritengono di dover essere remunerate perché stanno svolgendo un servizio pubblico e trovano difficile accettare l’idea della costruzione, anche parziale di mercati pubblici e privati attorno alle loro attività. I paesi mediterranei che presentano vistose carenze nell’offerta di servizi sono caratterizzati dal paradosso della crisi di un sistema di welfare non ancora pienamente realizzato. Il peso delle voci relative ai trasferimenti, infatti, sta costringendo comunque questi paesi a ridimensionare le spese per il welfare. Tuttavia, proprio perché con poche forme consolidate di offerta sia pubblica che privata di servizi, Italia, Spagna e Portogallo stanno percorrendo più di altri strade innovative che coniugano aderenza ai bisogni, innovatività e capacità di autoorganizzazione. Anche la Grecia, sia pure in misura minore e più contraddittoria, si sta muovendo in questa direzione. Le organizzazioni private che vendono servizi di interesse collettivo assumono una molteplicità di forme - associazioni, fondazioni, cooperative, società di persone e di capitali ecc. - tuttavia la grande maggioranza delle iniziative ha una esplicita finalità sociale o comunque collettiva e si richiama ad esperienze che affondano le radici nel non profit e nel volontariato. I paesi mediterranei stanno evolvendo, sia pur in modo caotico, verso un modello composito di finanziamento e gestione pubblici e privati. In generale, comunque, in Europa risulta prevalere una visione in cui il ricorso all’offerta privata, soprattutto quando è in sostituzione di offerta pubblica, va finanziato totalmente o almeno parzialmente da fondi pubblici. All’interno di questa visione un ruolo importante stanno comunque assumendo le iniziative a completamento dell’intervento pubblico per tutti quei servizi che non sono prodotti, in tutto o in parte, o finanziati dal sistema pubblico di welfare, ma di cui esistono il bisogno o una domanda latente. La convinzione che esista una disponibilità ad acquistare servizi di welfare, che può essere stimolata ad esempio attraverso la concessione di agevolazioni, soprattutto fiscali, e di sostegni a favore dei gruppi più svantaggiati per garantire uguaglianza di accesso ai servizi, si sta facendo strada in tutti i paesi. In alcuni casi tuttavia questa convinzione è ostacolata, o vista con perplessità, dalle organizzazioni non profit più consolidate. 5. Le politiche per lo sviluppo dell’impresa sociale Le imprese sociali scontano una generale carenza di adeguate forme giuridiche in quasi tutti i paesi europei. Dai rapporti nazionali, infatti, emergono molte differenze tra le imprese sociali, dovute alla diversa idoneità a svolgere attività economica delle varie forme giuridiche. Il risultato di questa situazione è duplice. Si rileva in primo luogo un utilizzo delle forme giuridiche più idonee tra quelle disponibili, che ha determinato una preferenza per le forme tipiche del non profit e un loro adattamento alle esigenze dettate dalla gestione di attività economiche, con due significative eccezioni: le cooperative sociali in Italia; le société à finalité sociale in Belgio. In secondo luogo si registrano pressioni crescenti sul legislatore per ottenere inquadramenti più consoni all’impresa sociale. Appare quindi evidente che lo sviluppo di imprese sociali può essere significativamente sostenuto innanzitutto attraverso una ridefinizione delle forme giuridiche che operi in tre direzioni: u facilitare lo svolgimento di attività produttive; rafforzare i vincoli che garantiscono il mantenimento delle specificità che danno luogo a vantaggi comparati: democraticità, base sociale mista, principio della “porta aperta”. u aumentare la trasparenza nella gestione delle imprese sociali, anche attraverso l’imposizione di forme di contabilità sociale. Il dibattito in sede comunitaria sullo statuto associativo e cooperativo appare, alla luce dei risultati di questa ricerca, ormai datato. Le azioni volte a definire una forma giuridica europea della cooperativa e dell’associazione, si stanno orientando a rendere molto business oriented la cooperativa e di limitare la possibilità delle associazioni di svolgere attività economiche. Al contrario, lo sforzo dovrebbe essere quello di pervenire ad un forma giuridica europea dell’impresa sociale, cui potrebbe accompagnarsi la definizione a livello comunitario delle caratteristiche del bilancio sociale, così come è accaduto per il bilancio delle imprese ordinarie. u Una seconda serie di ostacoli per lo sviluppo delle imprese sociali segnalati dalle ricerche nazionali riguarda l’incomprensione delle trasformazioni in atto da parte della pubblica amministrazione. Tale incomprensione si percepisce principalmente nelle modalità di affidamento dei servizi. L’impresa sociale viene infatti penalizzata da due opposti comportamenti: a. in alcuni casi viene ignorato il problema della qualità dei servizi, assegnando un peso determinante alle componenti di prezzo delle offerte; b. in altri casi l’affidamento all’esterno avviene attraverso organizzazioni che risultano fortemente dipendenti dalla pubblica amministrazione. Occorrono invece modalità più chiare di contracting-out che agevolino l’innovazione senza compromettere la qualità dei servizi. Da questo punto di vista va tenuto conto che, generalmente, gare completamente aperte favoriscono l’innovazione, ma mettono a repentaglio la qualità, mentre gare chiuse senza possibilità di accesso per nuovi competitori, favoriscono la qualità, ma rendono difficile l’innovazione e penalizzano l’efficienza. In questo senso anche procedure di delega consolidata al privato sociale non favoriscono l’emergere e il rafforzarsi di imprese sociali. Da questo punto di vista, si segnala il ruolo distorsivo che stanno svolgendo le normative comunitarie sulla concorrenza e in materia di appalti, che tendono ad appiattire le varie forme di impresa sociale sulle imprese tradizionali. Una revisione di questa normativa che tenga conto, al contempo, della specificità sia dell’impresa sociale che dei servizi offerti appare urgente. Accanto allo sviluppo del contracting-out dovrebbero essere sperimentate modalità di finanziamento che restituiscano all’utente una maggiore autonomia nella scelta dei fornitori di servizi. Il voucher in Europa non ha conosciuto ancora una diffusione adeguata perché cozza contro una radicata concezione di welfare state universalistico. Tuttavia, con vincoli precisi di utilizzo e interventi a protezione delle fasce più deboli della popolazione questa obiezione può essere rimossa. Tra le politiche che, se adottate favorirebbero una diffusione dell’impresa sociale, un ruolo importante è rivestito dalle politiche di defiscalizzazione delle spese per l’acquisto di servizi. In questo modo si può agevolare lo sviluppo della componente più produttiva del terzo settore mediante l’attivazione di domanda pagante. E’ possibile argomentare che le mancate entrate dovute alla defiscalizzazione, sarebbero compensate da un aumento del gettito dovuto alla maggiore occupazione generata dallo sviluppo di un’offerta privata di servizi. Attualmente tra i vari stati europei c’è una grande differenziazione per quanto riguarda la defiscalizzazione della domanda di servizi. A livello comunitario potrebbe essere interessante ripensare l’imposta sul valore aggiunto (VAT) europea, progettando una sorta di VAT sociale più leggera per le organizzazioni private che offrano un determinato tipo di servizi. L’ultima serie di interventi che dovrebbero essere messi in atto dagli stati membri e dall’Unione europea sono quelli riguardanti il sostegno alla nascita, alla trasformazione e al potenziamento di organizzazioni con le caratteristiche di imprese sociali. Gli interventi possibili sono di diversa natura: u u u u u detassazione dell’offerta. E’ questa la via più classica di sostegno, ma non è sufficientemente sviluppata: quasi in nessun paese è detassata la nascita di imprese sociali, mentre più diffusa è la detassazione degli utili e quasi sempre avviene quella delle donazioni; sostegno diretto alla nascita di imprese sociali. Questo tipo di intervento può attuarsi sia con gli strumenti tradizionali dell’enterprise creation, in particolare con il finanziamento allo start-up di imprese sociali per cui si potrebbe anche ipotizzare la creazione di un fondo europeo, sia attraverso forme di sostegno alla riproduzione (gemmazione) di imprese sociali o alla trasformazione in senso imprenditoriale di organizzazioni non profit di tipo tradizionale. A questo proposito va sottolineato che le ricerche condotte nei vari paesi hanno evidenziato che il sistema delle imprese sociali ha dimostrato di essere in grado di autopromuoversi, creando spesso, pur con risorse molte limitate, organizzazioni con finalità promozionali che hanno contribuito in modo rilevante alla diffusione di imprese sociali. In termini di policy ciò significa che eventuali interventi pubblici di promozione devono andare innanzitutto a sostegno delle organizzazioni che già hanno svolto iniziative promozionali piuttosto che a strutture pubbliche e parapubbliche. scambio diretto commesse/occupazione. Nelle esperienze analizzate si riscontra una grande attenzione, anche quando l’obiettivo è più in specifico la produzione di servizi, alla creazione di posti di lavoro e particolarmente a favore di fasce deboli del mercato del lavoro, in particolare per donne e giovani. Potrebbe essere interessante studiare e diffondere forme di affidamento di servizi vincolate anche ad obiettivi occupazionali; sviluppo delle risorse umane. Esiste un diffuso problema di questa natura. Da un lato le imprese sociali domandano, per la loro stessa natura e per il tipo di attività che svolgono una gamma ampia di professionalità e capacità, da quelle manuali alle più sofisticate competenze organizzative e di gestione, passando per tutti i profili professionali direttamente connessi all’erogazione dei servizi. Dall’altro, in assenza di processi di creazione di risorse umane specificamente preparate, si rischia l’esaurimento delle risorse disponibili. Questo problema è particolarmente rilevante per tutte le funzioni legate all’imprenditoria e alla managerialità sociale. Si evidenziano quindi spazi consistenti per l’attività delle organizzazioni consortili e per un ruolo innovativo della formazione. Su quest’ultimo punto il Fondo sociale europeo è chiamato a dare un contributo rilevante. Elemento chiave sarà comunque la capacità di attrarre risorse anche al di fuori del tradizionale bacino del lavoro sociale che fino ad ora ha fornito la stragrande maggioranza dei quadri di cui si giova l’impresa sociale. diffusione delle best practices. Molta parte della esperienza delle iniziative locali per l’occupazione e delle iniziative contro la disoccupazione di lungo periodo è costituita da forme di imprenditoria sociale. E’ possibile segnalare una sorta di convergenza a livello locale tra le iniziative nate per combattere la disoccupazione di lungo periodo e le imprese sociali. In questo senso l’Unione europea dovrebbe utilizzare l’esperienza accumulata nel campo del trasferimento delle best practices concernenti la disoccupazione di lungo periodo (si veda in particolare CPC, 1996) per sostenere la diffusione di esperienze di qualità nel campo dell’impresa sociale. NOTE 1 In questa sede, é opportuno ricordare che é attualmente in corso di elaborazione definitiva lo Statuto di Associazione Europea: cfr. G. PONZANELLI (a cura di), Gli “enti” non profit in Italia, Cedam, 1994, p. 399 ss. Per quanto concerne gli obiettivi e gli scopi perseguibili dall’AE, si noti che ad una Associazione Europea non verrà proibito di svolgere attività economiche, né tantomeno é prevista alcuna limitazione circa la misura di tali attività economiche, o circa la “profittevolità” di dette attività (art.1 (1)). Un’Associazione Europea, comunque, deve avere come proprio scopo principale “l’interesse generale” o “promuovere gli interessi commerciali o professionali dei propri membri nelle aree più diverse”. (art. 1(1)). Nonostante le incertezze legate all’approvazione dello Statuto sull’AE e le numerose critiche ad esso mosse da più parti, la proposta in discorso rappresenta un’opportunità per le NPOs di operare molto più facilmente a livello europeo. Le NPOs, in questi anni, sovente sono state ai lati dell’attenzione dei corpi politici dell’UE, i quali non hanno intrapreso significative azioni per la promozione delle organizzazioni di terzo settore. A tutt’oggi, pertanto, la proposta relativa all’Associazione Europea é l’unico pezzo concreto di legislazione del settore specifico delle organizzazioni non profit che sia emerso dalle istituzioni della Comunità. Mentre qualsiasi società for-profit costituita in uno stato membro può iniziare a svolgere la propria attività in un altro stato membro senza essere per questo costretta a sostenere ancora una volta tutta la procedura relativa all’incorporation in un nuovo regime giuridico, alle NPOs non é concessa una simile possibilità. Fondamentalmente, ciò é quanto, invece, il regolamento dell’Associazione Europea vorrebbe rendere possibile per qualunque NPO che risulti conforme allo statuto. Il diritto vigente prevede che la maggior parte delle NPOs che si costituiscono in altri paesi non solo debbano cominciare daccapo il processo di registrazione/costituzione, ma che esse debbano altresì fare tutto ciò secondo normative che risultano molto meno armonizzate di quanto sia il caso delle imprese lucrative. Lo Statuto in oggetto potrebbe dunque rendere più semplice per molte NPOs lo svolgimento di operazioni transnazionali. L’approvazione dello Statuto relativo all’AE, in sintesi, contribuirebbe indubbiamente a rendere le esperienze comunitarie e le istituzioni in esse operanti più omogenee fra loro e più inclini ad essere applicate su tutto il territorio della Unione Europea. 2 C. BORZAGA, L’evoluzione del welfare State e il ruolo della cooperazione sociale in Europa. Sintesi della ricerca, 1995, p. 15. 3 C. BORZAGA, Verso un modello di impresa sociale europea, in IMPRESA SOCIALE, 23/1995, p. 6. Bibliografia E. Appelbaum, R. Schettkat (1994), “The End of Full Employment? On Economic Development in Industrialized Countries”, Intereconomics, maggio-giugno. C.R. Bain (1994), “European Unemployment: A Survey”, Journal of economic Literature, vol. XXXII, giugno (pp. 573-619). G.P. Barbetta (1996), Senza scopo di lucro, Il Mulino, Bologna. W. Bartlett, J. Le Grand (eds) (1993), Quasi Market and Social Policy, MacMillan, London. C. Borzaga (1996), “Riforme di sistemi di welfare, modifiche nella composizione della spesa pubblica e occupazione”, Paper presentato alla 18° Conferenza “International Working Party on Labour Market Segmentation”, Università di Tampere, Finlandia, 9-14 luglio, 1996. C. Borzaga, L’evoluzione del welfare State e il ruolo della cooperazione sociale in Europa. Sintesi della ricerca, 1995, p. 15. CECOP (1995), The Social Enterprise: A Chance for Europe, 1995. Commissione Europea (1993), Crescita, competitività e occupazione. Le sfide e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo. 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Alice Copette La politica europea a favore dell’economia sociale Vorrei prima di tutto ringraziare il Centro di Documentazione di Trento di avermi invitata e vorrei precisare che il mio discorso sarà forse un po’ più ampio di quello del dott. Santuari perché non mi limiterò alle imprese sociali, ma all’economia sociale nel suo insieme. Credo sia interessante la situazione particolare della vostra regione come di altre regioni italiane o europee dove da un ambiente chiuso, per ragioni che meriterebbero forse un’analisi, si è sviluppata in un modo forte e particolare l’economia sociale attraverso le cooperative, le mutue, le associazioni. In Italia c’è il Trentino, l’Emilia Romagna, in Spagna i Paesi baschi, forse meriterebbe anche a livello europeo pensarci, per vedere se questo regionalismo - qualche volta - ha qualche effetto supplementare positivo sull’economia sociale, ma rischia anche, se s’indebolisce, di essere un punto debole per l’economia sociale in modo globale. Vorrei cercare di essere la più chiara possibile e aprire un dibattito con voi, perché noi comunitari, in genere, parliamo una lingua che non è sempre capita bene, perché abbiamo qualche volta una nostra terminologia un po’ arcaica o esoterica e perciò non forse trasparente del tutto, anche se vogliamo essere trasparenti. Strutturerei il mio discorso in cinque punti. Una breve presentazione storica dell’economia sociale della Commissione e la sua evoluzione, mi soffermerei sulla definizione dell’“economia sociale”, poi parlerò delle politiche di oggi e di domani e infine mi permetterò di parlare un po’ del vostro ruolo come attori pratici e concreti dell’economia sociale. La necessità di sviluppare una politica a favore delle Cooperative, Mutue, Associazioni e Fondazioni (CMAF), è stata già sollevata a metà degli anni ottanta da parlamentari europei. Il Parlamento europeo ha preso diverse iniziative per chiedere un riconoscimento della realtà dell’economia sociale, c’è già stata nell’84 una prima risoluzione seguita da altre. Nell’89, c’è stata - dopo diverse pressioni e azioni del Parlamento europeo a favore dell’economia sociale una comunicazione della Commissione sulle imprese dell’economia sociale e il loro ruolo nel mercato interno. Questa analisi ha portato alla necessità di creare una struttura presso la Commissione. E’ così che dall’89 abbiamo una “Unità economia sociale” nella Direzione Generale XXIII, che si occupa di politica d’impresa, di artigianato, di commercio, di turismo, di economia sociale. Lo scopo principale della Direzione Generale è la promozione di una politica di impresa a favore delle imprese di qualsiasi tipo. Nella politica della Commissione è ovvio che siamo una cosa particolare che ha bisogno, con il vostro aiuto, di essere definita meglio e di dimostrare che le CMAF sono una parte importante dell’economia e della società di domani. Ci sono state, dopo la creazione dell’Unità, diverse azioni tra le quali certe ancora in corso, come ad esempio, nel 92, l’approvazione da parte della Commissione di tre proposte di direttive e regolamenti di uno statuto europeo della cooperativa, della mutua e dell’associazione. Questi statuti sono stati emendati dal Parlamento europeo, da allora sei proposte sono sul tavolo del Consiglio, però non vanno avanti. Queste proposte hanno il vantaggio di permettere alle cooperative, alle mutue e alle associazioni di funzionare a livello europeo, di collaborare e di non dover sempre essere legate alla situazione del Paese dove hanno la loro sede, in particolare da un punto di vista legale. Questo permetterebbe collaborazioni nell’Unione europea senza le difficoltà giuridiche e legali attuali. Purtroppo il Consiglio ha deciso di legare questi nostri statuti a quello della società europea e, come sapete, la proposta esiste da più di 20 anni e non va avanti per via del problema della consultazione e informazione dei lavoratori. Problema che mette a confronto i tedeschi che hanno un modo, con la loro cogestione, di vedere la collaborazione dei lavoratori e altri Paesi europei che hanno un altro modo di lavorare con i sindacati. La cosa da fare è che, un Paese membro o più Paesi membri, un giorno proponessero di dire “separiamo gli statuti delle cooperative, mutue e associazioni da questo statuto della società europea, perché sono cose diverse”, o uno dei tre statuti, però noi come Commissione non possiamo fare molto, siamo nelle mani dei politici, anche nelle mani dei vostri politici. Fra le altre manifestazioni che sono state organizzate dal ’90 con l’aiuto dell’Unità economia sociale, ci sono le “conferenze europee dell’economia sociale”. La prima conferenza ha avuto luogo a Parigi nel ’90. Queste sono conferenze che si fanno ogni due anni e sono un’occasione per i diversi attori di incontrarsi e di dibattere della politica e di fare anche capire alla Commissione e alle istituzioni come le cose vanno avanti nel settore. Ora siamo arrivati alla sesta conferenza che ha avuto luogo, nel giugno scorso a Birmingham; devo dire che le conclusioni di Birmingham sono abbastanza buone, il documento di base può essere considerato come una specie di pre-programma di lavoro per l’economia sociale. Un’altra iniziativa che abbiamo cercato di portare avanti è un programma quadro a favore dell’economia sociale a livello europeo; programma quadro che avrebbe dovuto (perché era per il periodo ’94-’96) cercare di integrare l’economia sociale in tutte le iniziative e politiche comunitarie, far riconoscere l’economia sociale e le sue specificità in tutte le politiche interessate. Purtroppo questa proposta della Commissione al Consiglio, di nuovo non è stata approvata dal Consiglio, devo dire malgrado gli sforzi sviluppati dalla presidenza italiana, fino a l giugno 1996, ci sono Paesi membri che non vedono un interesse per l’economia sociale. La presentazione che ha fatto il signor Santuari è secondo me un po’ rosea nei confronti della realtà europea. Purtroppo la realtà non è così facile, è così diversificata che è difficile difendere una politica. E’ per quello che noi stavamo e stiamo lavorando a livello piuttosto trasversale per cercare di integrare e inserire la realtà dell’economia sociale, fin dalla concezione, in tutte le politiche comunitarie. Non essendo stato approvato dal Consiglio questo programma, nel 1997 la Commissione ha ritirato la sua proposta, così come in seguito ha anche dovuto annullare l’invito a presentare proposte; il che ha provocato un po’ di confusione in diversi Paesi europei, perché quell’invito a presentare proposte era legato al progetto di programma che oramai non aveva più base giuridica. Dalla costituzione dell’Unità abbiamo sostenuto circa 350 progetti rivolti principalmente all’organizzazione, alla messa in rete e alla definizione di strumenti a favore dell’economia sociale. Fino al ’97 è esistito un Comitato consultivo informale dell’economia sociale che è stato ufficializzato nel marzo 1998 da una Decisione della Commissione. Come vi ha detto il signor Santuari, la Commissione ha approvato nel giugno scorso una comunicazione sulla “Promozione del ruolo delle associazioni e fondazioni in Europa”; è un documento che ha impiegato sei anni a nascere, inizialmente doveva essere un libro bianco, ma ha finito per essere una comunicazione, però ha il merito di fare un’analisi abbastanza approfondita delle realtà dei 12 Paesi, della situazione delle associazioni e fondazioni da un punto di vista legislativo, fiscale, pratico e riporta anche conclusioni e proposte a tre livelli: a livello europeo, a livello nazionale e a livello settoriale. In base alle conclusioni di questa comunicazione abbiamo sviluppato un piano d’azione. Mi vorrei soffermare su cosa chiamiamo “economia sociale”, perché la parola viene utilizzata bene o male e spesso criticata; infatti l’Unità si chiama: “Unità Economia sociale”, parliamo anche di CMAF, cioè Cooperative, mutue, associazioni e fondazioni. Come dicevo prima, nei Paesi latini, il concetto è capito abbastanza facilmente, nei Paesi nordici molto meno. I tedeschi per esempio dicono: “No, l’economico non è sociale e il sociale non è economico”, dunque giriamo attorno ai concetti. Per farli capire, credo che la cosa più importante è spiegare quali sono i nostri scopi, quali sono, a nostro avviso, i principi di base che reggono l’economia sociale. I nostri principi di base sono: la regola di un uomo un voto, la gestione democratica partecipativa, la solidarietà e certamente il no-profit. Un no-profit che si può definire in modo largo. No-profit non vuol dire che non si fanno attività commerciali o attività retribuite, il no-profit vuol dire che il profitto, se c’è, viene ridistribuito. Per questo io dico, l’economia sociale è costituita delle CMAF, però abbiamo anche tante nuove strutture che si stanno creando perché vivono al ritmo dei cittadini. L’economia sociale è un po’ il respiro della società, del mercato : collettivi, comitati di quartiere (come abbiamo avuto nel Belgio le marce bianche), borse di scambio, anche questo è economia sociale. Quindi in futuro bisogna integrare le nuove forme di economia sociale e non limitarsi alle nuove immagini o alle vecchie definizioni. Infatti, l’Italia con l’impresa a vocazione sociale o la cooperativa sociale, ha già creato un nuovo profilo e nuovi profili si stanno sviluppando in altri Paesi. Si parla anche di terzo sistema, terzo settore, di economia mista, di economia no-profit. L’importante è di capirci su quello che vogliamo e su quello che mettiamo dentro. Vorrei però precisare che quando parliamo di economia sociale, parliamo di tutte le forme di economia sociale senza fare una divisione fra ricchi e poveri, fra grandi e piccoli, e non vogliamo fare solo dell’economia sociale assistenziale e di servizi. Ci sono anche forme di economia sociale che si occupano di consumo, di agricoltura, di cultura, di diritti dell’uomo, lì bisogna essere molto chiari. C’è una tendenza - anche a livello europeo - di dividere e di dire: “L’economia sociale fa assistenza e servizio e le grandi strutture le mettiamo con le imprese tradizionali.” Io direi di no! Le piccole e le grandi cooperative non sono imprese tradizionali, sono imprese sì, però hanno un qualcosa in più ed è quello che ho detto prima, hanno questi principi in più. Bisogna battersi per questo in Europa. Certo è molto più facile dire che l’economia sociale è il sociale e il volontariato. Volontariato, d’accordo! A patto che sia un volontariato scelto e non imposto, perché bisogna anche essere chiari sulla definizione di cosa vuol dire lavoro volontario, se no rischiamo di cadere nello sfruttamento, nel lavoro nero, ecc. Bisogna anche essere molto prudenti quando definiamo questo. Ed è così che si spiega, forse, tutta questa difficoltà dell’economia sociale, perché non abbiamo statistiche molto precise, perché l’economia sociale è così diversificata, così legata ai cittadini, alla cultura, allo sviluppo di ogni paese; le statistiche europee ufficiali sono già vecchie e criticabili. L’Alleanza Cooperativa Internazionale ha fatto un’analisi sulle cooperative paese per paese abbastanza precisa, perché forse la forma cooperativa è la cosa più chiara anche dal punto di vista legislativo. A livello europeo, le statistiche si basano su dati nazionali, dunque già un po’ arretrati ed è poi l’immagine che ogni Paese membro si fa dell’economia sociale. Una cosa deve essere molto chiara sulla politica che stiamo sviluppando: l’Europa fa una politica che rispetta, in tutti i campi, la sussidiarietà. E sempre più, che lo si accetti o no, i Paesi membri cercheranno di difendere la loro posizione, di dire “l’Europa sì, però noi siamo a casa nostra, voi fate questo noi siamo qua; quindi la sussidiarietà la rispettiamo e non abbiamo la minima intenzione di armonizzare niente, cercheremo di mettere uno accanto all’altro, andremo verso riconoscimenti mutui, però mai verso un’armonizzazione, in qualsiasi campo”. La cosa importante per noi a livello comunitario è lo sviluppo di una politica di economia sociale che ci permetta di avere una base legale. Dopo la decisione della Corte di Giustizia contro il programma per la terza età e la povertà, che ha portato nel maggio scorso a dichiarare che “Tutte le linee di bilancio senza base legale (cioè senza un punto di appoggio nel trattato o senza una decisione del Consiglio) non avevano il diritto di esistere”, c’è stata una reazione molto violenta da parte delle organizzazioni non governative soprattutto perché questa decisione bloccava tutto l’aiuto umanitario, bloccava tutti i programmi contro la povertà ecc.. Si è quindi trovata una soluzione, per le situazioni seguenti: programmi in preparazione (proposte già sul tavolo del Consiglio), azioni autonome, (ad esempio azioni d’informazione), linee che sostengono azioni tipo progetto pilota (non più di due anni) o che hanno una vocazione preparatoria. Però noi non siamo stati considerati in una di queste categorie e quindi non avendo base legale, noi non abbiamo più fondi per quest’anno e non avremo fondi nel 1999. Il che vuol dire che non possiamo neanche distribuire un ECU simbolico. Non è grave, si può fare politica, si può lavorare lo stesso anche senza soldi e sviluppare una politica, però, può essere sintomatico di una volontà politica, di un interesse o disinteresse politico nei confronti dell’economia sociale. Malgrado tutto, abbiamo diversi progetti. Per esempio, la comunicazione della quale parlavo prima sulla promozione delle associazioni e fondazioni prevede un programma d’azione di 13 conferenze, da organizzare in 13 Paesi membri. Sei conferenze hanno avuto luogo, una ha avuto luogo a Roma nel maggio scorso, però le sette rimanenti non si potranno organizzare per via della mancanza di fondi. Malgrado ciò, andiamo avanti con le riunioni di esperti che cercano di analizzare una per una le conclusioni, di fare proposte, e faremo, a fine anno inizio dell’anno prossimo, un rapporto di follow-up con proposte e raccomandazioni ai Paesi membri e a livello comunitario a favore delle associazioni e fondazioni, sia in termini di necessità di uno statuto, di un quadro fiscale, di una migliore visibilità, di strumenti di informazioni, strumenti di gestione, strumenti di formazione. Sull’informazione la comunicazione richiedeva la creazione di un osservatorio dell’economia sociale. Visto che la Commissione non vuole più creare osservatori, cioè strutture a media scadenza, abbiamo trovato una formula che potrebbe sostituire l’osservatorio, istituendo nei 15 Paesi membri una piattaforma o agenzia di economia sociale che la Commissione potrebbe mettere in rete. Queste agenzie di economia sociale o piattaforme, potrebbero essere gestite, sia dal settore che dai poteri pubblici degli Stati membri. Ogni Paese la potrebbe sviluppare come vuole, solo il settore o insieme il settore e i poteri pubblici, non sarebbe centralizzata certo a Roma, Parigi, ma dovrebbe essere decentralizzata, regionalizzata o anche sviluppata a livello locale. Avrebbe come scopo un ruolo di informazione, dall’alto in basso e dal basso in alto, servirebbe a diffondere l’informazione ma anche a far risalire l’informazione. Avrebbe anche un ruolo di documentazione, centro di documentazione sulle buone pratiche, sull’evoluzione legislativa ecc., ma anche la funzione di centro di appoggio per sviluppare progetti, per creare partenariati, perché spesso le strutture di economia sociale si ritrovano un po’ disperse, un po’ abbandonate, perché si vedono troppo piccole davanti a progetti europei. Se fossero unite, se fossero in partenariato, (però bisogna sapere come fare un partenariato) avrebbero i mezzi di difendersi e presentare e sviluppare certi progetti. Un domani queste strutture potrebbero anche essere una specie di garante per presentare progetti, garante nei confronti delle banche, intermediari con il settore pubblico. Devo dire che certi Paesi hanno già fatto passi avanti, ad esempio in Francia dove c’è una volontà pubblica e c’è già una struttura che raggruppa le 3 famiglie, la Spagna che ora sta cercando di copiare il modello francese e anche in Italia si sta muovendo qualcosa - so che il forum del Terzo settore vuol tendere la mano verso le cooperative per lanciare, all’inizio dell’anno prossimo, una specie di piattaforma comune di tutti, associazioni, mutue e cooperative - ci sono poi iniziative anche in Svezia dove c’è una volontà tra il pubblico e le cooperative di fare cose insieme. Visto che non abbiamo base legale, abbiamo in preparazione un programma 1999-2004, che sarà un programma veramente orizzontale e dovrebbe integrare l’economia sociale a livello legislativo, informativo, sviluppo di strumenti, di sistemi, di reti. Speriamo che questo programma venga approvato all’inizio dell’anno prossimo dalla Commissione, poi lo manderemo al Consiglio e lì di nuovo avremo bisogno di un qualche vostro appoggio per far pressione sui politici perché venga approvato presto. Abbiamo contribuito anche quest’anno (e speriamo di farlo anche di più in avvenire), alla preparazione delle linee direttive per i piani d’azione per l’occupazione. Purtroppo, anche se a Lussemburgo nel novembre dell’anno scorso, l’economia sociale, per la prima volta, era stata considerata come una fonte di occupazione e di creazione di nuove attività a livello locale, nelle linee direttive appare solo in uno dei quattro pilastri, il pilastro imprenditorialità. Quello che però bisogna fare, è convincere i Paesi membri che hanno una realtà di economia sociale, a definire meglio il ruolo dell’economia sociale (come creatrice di impiego) e anche di inventare nuove possibilità di creare posti lavoro (devo dire l’Italia è forse l’unico Paese che ha avuto un 3° capitolo dove presenta bene l’economia sociale. Anche gli altri Paesi che hanno una realtà di economia sociale abbastanza forte non sono stati molto eloquenti su questo aspetto.) Abbiamo organizzato lunedì e martedì - in collaborazione con l’istituto Luzzati e il CIRIEC internazionale - una conferenza sull’imprenditorialità delle cooperative nell’Europa del 2000 e da questo vorremo arrivare a preparare un libro bianco su questo tema. Libro bianco che dovrebbe permettere di definire la politica a favore delle cooperative di tutti i settori possibili (sociale, agricolo, di consumatori, di cultura) per i prossimi dieci anni. Questo è un lavoro che faremo durante l’anno prossimo che dovrà coinvolgere tutte le politiche comunitarie e tutte le direzioni generali, e il vostro aiuto dovrà certo essere richiamato. Devo ancora - a proposito di cooperative - ricordare la risoluzione del Parlamento Europeo dell’on. Colombo Svevo, che è stata molto interessante e di grande appoggio anche per la Conferenza di Bologna, sulla cooperazione e il lavoro delle donne. Ha fatto un’analisi molto giusta del ruolo delle cooperative nella creazione di lavoro per le donne, ma è andata ben oltre, e ha veramente dimostrato il peso della cooperazione per la creazione di impiego, inoltre ha sviluppato anche il ruolo e la realtà dell’economia sociale in modo molto chiaro; questa risoluzione è stata approvata dal Parlamento europeo a settembre all’unanimità. Ora la Commissione deve rispondere sul seguito da dare a questa risoluzione. Durante quest’anno abbiamo fatto diverse azioni sulle mutue, e sul ruolo delle mutue di domani. Certo la mutua non è una figura sempre chiara in tutti i Paesi, ad esempio in Italia rientra nelle cooperative; in Francia sono automaticamente cooperative, l’immagine della mutua poi esiste in modo più forte in Germania e in Belgio e vorremmo anche là arrivare ad un libro bianco sulle mutue, per dimostrare come le mutue si possono trasformare davanti alle evoluzioni della società del welfare. Cosa molto importante, il 13 marzo scorso la Commissione ha approvato la creazione del Comitato consultivo delle CMAF (cooperative, mutue, associazioni e fondazioni) che è un comitato che raggruppa 24 membri, (8 cooperative, 8 mutue e 8 associazioni e fondazioni), i quali non rappresentano se stessi, né il loro Paese, né la loro struttura, ma rappresentano o tutte le cooperative, o tutte le associazioni o tutte le mutue. Per noi è l’interlocutore privilegiato. E’ stata una domanda del settore, e il fatto che la Commissione abbia riconosciuto e adottato la creazione di questo Comitato è un primo riconoscimento ufficiale del ruolo dell’economia sociale, perché uno dei compiti di questo Comitato è di aiutarci a presentare e sviluppare una politica a favore dell’economia sociale. Cerchiamo anche di intervenire in tutte le iniziative che vengono fatte a favore delle imprese. La Direzione Generale dove lavoro si occupa in particolare delle piccole e medie imprese, però cerchiamo di integrare la realtà dell’economia sociale, perché ci sono anche lì piccole e medie imprese, perché bisogna far capire alla gente che chi gestisce un’associazione gestisce un’impresa qual che sia l’attività che svolge, perché bisogna avere capacità manageriali, fiscali, finanziarie, bisogna sapere assumere personale o trasformarsi un domani da associazione in cooperativa, in impresa a finalità sociali. Stiamo preparando una comunicazione sulla formazione alla gestione di piccole e medie imprese, ma anche di economia sociale che si chiamerà “Bene”. Un altro tipo di progetto che potrebbe essere presentato è come trasferire buone pratiche. Infatti il signor Santuari parlava delle cooperative sociali in Italia che sono conosciute, anche questo tipo di buone pratiche possono essere valutate, valorizzate e trasportate e “mutatis mutandis” forse adattate in una fase pilota in un primo tempo, dopo inserite in sistemi più ampi, in altri Paesi. Esiste al Parlamento europeo un intergruppo che si chiama “Terzo settore” - ora sotto la presidenza dell’on. Ghilardotti - dove i parlamentari interessati possono ascoltare e incontrare anche rappresentanti del settore. La prossima riunione avrà luogo il 16 dicembre, purtroppo si fa sempre a Strasburgo, però è un’opportunità per sensibilizzare i parlamentari interessati sulle diverse tematiche e sui problemi dell’economia sociale. Devo dire che il Parlamento europeo, nella sua globalità fino ad ora, è sempre stato aperto e favorevole all’economia sociale. Abbiamo sempre avuto un sostegno enorme nel Parlamento europeo che, tramite proposte, risoluzioni ci spinge e questo è molto positivo. Il Comitato economico sociale è stato rieletto a settembre e nel terzo gruppo c’è un nucleo “economia sociale” abbastanza cospicuo e credo che con queste persone che rappresentano l’economia sociale, più o meno di tutti i Paesi e di tutte le tendenze, si possa anche lavorare bene. Quando dicevo prima che aspettiamo il vostro aiuto, intendevo che il vostro aiuto può essere molto utile tramite i vostri rappresentanti a livello dei Parlamenti nazionali o europeo, per far capire realtà concrete come quelle delle cooperative sociali. Io dico spesso alle strutture di economia sociale “siete troppo timidi”, non vi sapete vendere abbastanza. Per esempio le cooperative, anche se sono grandi, non predispongono materiale informativo per presentarsi, basterebbe un video, un qualcosa per dire “Ecco la nostra realtà!, Ecco quello che abbiamo fatto”; rappresentiamo in Europa, più o meno 5 milioni di posti lavoro. Ci sarebbe qualcosa da mostrare e da dimostrare perché i politici funzionano anche così, bisogna influenzare, sensibilizzare i propri rappresentanti sia a livello locale, regionale, nazionale che a livello europeo, noi abbiamo bisogno di questo, e cerchiamo di sviluppare una politica non fatta dal nostro ufficio, ma fatta anche con voi, cercando di far emergere la realtà del territorio, il ché non è sempre molto facile. COLLANA “QUADERNI DEL CDE” 1. La tutela delle minoranze etnico-linguistiche in relazione alla rappresentanza politica: un’analisi comparata 2. Le professioni turistiche nell’ottica comunitaria 3. Euro: una sfida per la pubblica amministrazione 4. L’accesso ai documenti amministrativi nella prospettiva comunitaria Le pubblicazioni sono disponibili su internet al seguente indirizzo: http://www.provincia.tn.it/cde, oppure si possono richiedere a: Provincia Autonoma di Trento, Centro di Documentazione Europea, via Romagnosi 9, 38100 Trento, tel. 0461/495088, fax 0461/495095, e-mail: [email protected] Stampato in proprio: Centro Duplicazioni della Provincia Autonoma di Trento