Senza Soste n° 97 (ottobre)
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Senza Soste n° 97 (ottobre)
Periodico livornese indipendente - anno IX n. 97 - in uscita dal 16 ottobre 2014 OFFERTA LIBERA Poste italiane S.p.A. Spedizione in Abb. Post. 70% Regime libero aut. cns/cbpa/centro1 Validità dal 05/04/2007 www.senzasoste.it Tony Blair di Rignano o ducetto di Palazzo Chigi? NIQUE LA POLICE C ’è una venatura comica nella vicenda politica di Matteo Renzi che aiuta molto a non prenderlo sul serio. Forse questa venatura c’è per compensare l’assenza, completa, di originalità del personaggio. Che risulta sempre un minore, un’interpretazione, un remake, un remissaggio di qualcosa d’altro. Se n’è accorto anche Beast, l’artista che a Milano ha esposto in strada un quadro con innumerevoli Renzi che stringono la mano a Mario Draghi e accolgono Angela Merkel. Prendiamo così due, tra i personaggi possibili interpretati da Renzi, guardiamoli bene per capire che, non essendoci originalità, le stesse politiche che interpretano sono ondivaghe. Primo personaggio: il Tony Blair di Rignano. In effetti, anche qui è dura vedere un certo spessore nell’imitatore, cioè in Renzi, se non come peggiorativo dell’originale. È vero infatti che Tony Blair, all’inizio della carriera come segretario del Labour, si sganciò subito dai sindacati. Attaccando poi, abbastanza duramente, una legislazione britannica del lavoro già provata dagli anni Thatcher. Ma è anche vero, e questa è sicuramente la parte della storia che interessa più a Renzi (ancor più di eliminare i sindacati) che frutto di queste politiche sono il recente miliardo di investimenti nelle start-up tecnologiche della sola Londra da parte del venture-capitalism. C’è un però, che rende impossibile l’imitazione di queste politiche da parte di Renzi. Il fatto che la Gran Bretagna ha metà Pil in servizi finanziari, caratteristica fortunamente non riproponibile in Italia. Oltre a quella di avere sovranità monetaria. Quindi imitare Blair, da parte di Renzi è strutturalmente impossibile. O meglio, lo si imita solo nella parte dello smantellamento dei diritti dei lavoratori. Il resto sono chiacchiere per giornalisti e per intrattenere il pubblico. A Renzi non resta quindi, per rimanere in piedi politicamente, che la strada del ducetto di Palazzo Chigi. Anche questo è un modello non originale che, tutte le volte che lo si è voluto praticare, ha portato ad un disarcionamento dell’aspirante caudillo. Infatti, come per Craxi prima e Berlusconi poi, la strada dell’autoritarismo è stata resa praticabile fino a quando si sono tenuti due punti fissi: a) attenzione agli equilibri tra poteri forti; b) valorizzazione degli interessi personali piuttosco che concessione di cariche istituzionali di tipo nuovo. Renzi vuol evidentemente rompere questo schema perché, nella crisi, si salvano solo alcune cordate e non complessivi equilibri di potere. Cordate che per lui si chiamano comunicazione e parte del mondo immobiliare e finanziario. Tanto per essere importante, un po’ poco per fare da ducetto. Il mancato Tony Blair di Rignano sentirà mancarsi il terreno sotto i piedi ancora per un po’. Poi si vedrà, i tempi non sono di quelli che favoriscono le certezze. Per tutti. RESISTERE AL CEMENTO La vicenda degli Orti Urbani riporta al centro del dibattito la cementificazione e il consumo di territorio come danno per la città. Un’urbanistica targata Pd, non pianificata ma contrattata coi privati, col risultato di aver esposto al cemento ogni pezzo della città I ntervista con Simona Corradini, architetto e per 24 ore assessore alla mobilità della giunta Nogarin prima che la base 5 Stelle costringesse il sindaco ad un dietrofront per mancanza di purezza (era stata candidata nella Lista Cannito). Simona adesso segue da vicino la vicenda degli Orti Urbani di via Goito ed in questa intervista ci spiega le vicende urbanistiche di quello spazio e della città in generale 1. La vicenda degli Orti Urbani di via Goito e lo scontro con Clc hanno riportato a galla il tema della cementificazione e del consumo di territorio. Perché, in una città che ha perso 20.000 abitanti negli ultimi 20 anni e che ha migliaia di case sfitte, si continua a costruire? Negli ultimi venti anni è mancata a Livorno una cultura della pianificazione, secondo cui il territorio va governato e la città esistente va valorizzata. Il Piano Strutturale che rappresenta il quadro di riferimento per tutte le trasformazioni urbanistiche è stato stravolto, il Nuovo Centro doveva essere una nuova centralità per i quartieri periferici con al centro una grande area verde, è diventato l’ennesima colata di cemento, con immobili sparsi dappertutto, tanto per fare un esempio. Il Regolamento Urbanistico, che è la parte operativa del Piano Strutturale, che detta le regole per ogni singola area, è stato oggetto di innumerevoli varianti, tra le quali quelle dell’Abitare Sociale Coteto e Fiorentina. Insomma siamo in una situazione direi quasi impazzita, un puzzle che è difficile da ricomporre, poiché ogni pezzo della città sembra andare per conto proprio e dappertutto sono state realizzate nuove volumetrie residenziali. Anche la parte della città esistente è stata riempita con nuove abitazioni, sia per cambio di destinazione d’uso che con la realizzazione di nuovi condomini specie nelle aree produttive sparse in città, in via Mastacchi l’ex distilleria, in Borgo dei Cappuccini, in via Ricasoli con l’ex Astoria, in piazza XX Settembre con l’ex Peroni, in Venezia con l’ex Paradisino. Una gestione del genere ha visto il pubblico e il privato verso un obiettivo comune, realizzare più volumetrie e più appartamenti possibili e ha consentito il radicamento di una cultura incentrata sulla speculazione edilizia. Il calo della popolazione cui hai accennato, a mio avviso non è un fattore che bloccherà le speculazioni e il cemento, anzi. Molte aree destinate a servizi ex art. 44 del Regolamento Urbanistico sono state soppresse ma è stato sfruttato il loro indice edificatorio per riversarlo nella zona di Coteto. Adesso sono congelate, per cui diventa importante l’attuale fase di revisione del Piano Urbanistico per rimettere a posto almeno il pregresso, poiché in base alla nuova proposta di legge Marson l’obiettivo è tutelare e valorizzare il patrimonio territoriale, cioè ciò che già esiste, non abbiamo bisogno di fantasmagoriche proiezioni di sviluppo, quel periodo in urbanistica è passato e ne stiamo subendo le conseguenze. 2. Nello specifico, puoi provare a ricostruire la vicenda di quel terreno di via Goito e spiegare perché vogliono costruire proprio in quello che potrebbe essere uno spazio pubblico importante per il quartiere? L’area di via Goito è considerata dal Piano Strutturale e dal Regolamento Urbanistico un’area strategica per la riqualificazione urbana (art. 39). Fa parte di tutte quelle aree a servizi previsti ma di proprietà di privati, che il Comune quindi non può attuare direttamente. Il privato ha l’obbligo di cedere l’area al 100% o al minimo dell’80% in cambio di una sorta di premio, vi può costruire una volumetria minima, pari allo 0,1mq per ogni mq di superficie. Ad esempio l’area di via Goito, che ha una superficie di 66.130 mq e può generare una superficie edificabile di 6613 mq. Nel 2012 è stato approvato uno “studio unitario”, presentato da Coop Italia, messo a punto tra il 2009 e il 2011, un documento progettuale che rappresenta il primo step per poi chiedere il permesso edilizio al Comune, in cui però non sono precisate le tempistiche, cioè entro quanto avrebbe dovuto essere firmata la Convenzione, né è allegato lo schema di Convenzione, almeno da quanto risulta nella delibera di approvazione. Quest’ultima diceva che il privato avrebbe realizzato la trasformazione previa stipula di convenzione, secondo lo schema da approvare con determina dirigenziale, ovvero senza ripassare nuovamente dal Consiglio. Nel 2013 l’area di via Goito è stata modificata nell’ambito della Variante Abitare Sociale Coteto e la superficie edificabile è stata fissata in 7420mq. È chiaro che siamo perfettamente coerenti con la logica generale che vede ogni singola area come potenziale generatore di volumetrie residenziali, in un’approssimativa contrattazione pubblico-privata, mentre è mancato totalmente il ruolo dell’amministrazione che avreb- be dovuto favorire la riqualificazione urbana del quartiere, mentre invece ci si preoccupava soltanto della parte edilizia. 3. I diritti che dice di accampare Clc sono acquisiti e definitivi oppure l’Amministrazione comunale può sempre fare qualcosa per impedire questa ennesima cementificazione? Iniziamo con l’affermare che l’Amministrazione deve farsi carico per quella zona di raggiungere l’obiettivo della riqualificazione urbana dell’intero ambito che avrà effetti positivi sia sul quartiere sia sulla città intera, si tratta di avere come obiettivo principale la realizzazione di un buon piano dell’intera area, evitando l’ennesima colata di cemento fatta di strade e parcheggi a raso, stile Ipercoop e Nuovo Centro per intendersi, favorendo la vocazione dell’area che rappresenta un pezzo di campagna dentro la città. Inoltre non abbiamo dati precisi sul consumo di suolo avvenuto nell’intero quartiere e nell’ambito urbano in cui ricade via Goito, poiché sarebbe opportuno verificare quanta superficie è stata edificata rispetto a quella consentita dal Regolamento Urbanistico e dal Piano Strutturale, per comprendere se veramente il nuovo volume residenziale è compatibile con le caratteristiche del quartiere, già saturo di costruzioni ed è sostenibile per l’intera area. Infine è bene aver presente che la Regione Toscana ha predisposto una legge, ancora in discussione, che consentirà di salvare aree come quella di via Goito, prive di urbanizzazioni, dalla speculazione edilizia e da nuove occupazioni di suolo. Redazione 2 internazionale anno IX, n. 97 FINANZA - Un quadro d’insieme sui possibili scenari economici mondiali dovuti alle “bolle” speculative Quante sono le crisi che ci minacciano? TERRY MCDERMOTT M olto spesso, nel lessico politico comune, si usa il termine “bolla” per indicare l’esplosione del mercato finanziario-azionario in grado di sinistrare non solo, o non tanto, le borse, ma anche l’economia. L’ultima, quella del settembre 2008, è stata talmente forte da sinistrare tutto il sistema bancario europeo (di qui la crisi degli anni successivi), una parte importante del sistema finanziario americano (vedi Lehmann) e quella vasta parte di mondo connessa a quella crisi (dai fondi sovrani arabi a quelli russi etc.). Le bolle successive, come quella dei mercati emergenti dei mesi scorsi, o la crisi greca e cipriota sono solo epifenomeni, come la crisi dei prezzi degli alimentari che ha alimentato le proteste arabe del 2011, della Big Bubble del 2008. Dopo quell’esplosione si pensa spesso che la bolla possa tornare dagli Usa, pronta magari a colpire come qualche anno fa. Beh, se si vuole la situazione è persino peggiore. Ovvero le bolle potenziali, devastanti, in grado di colpire il pianeta come sei anni fa, si sono moltiplicate. Come la moltiplicazione di valuta americana immessa dalla Federal Reserve americana dal 2009 ad oggi e quella fatta dalle consorelle giapponese e britannica nelle rispettive valute. Dalle crisi speculative del ‘600 a Lehman Brothers è sempre accaduto così. Tanto più in un mercato, ad esempio, del debito sovrano dove vanno alla grande, grazie a denaro regalato dalle banche centrali di quasi tutto il mondo, anche i titoli di paesi come il Ruanda. Ma prima o poi, il bluff finanziario verrà scoperto anche questa volta. Abbiamo quindi stimato i botti più clamorosi, ma niente affatto impossibili, che possono creare ben più di una nuova Lehmann. Qualcosa di epocale. In questi casi si parla di situazioni a rischio, non di bolle sicure. La bolla, infatti, a differenza di sei anni fa è un fenomeno ben chiaro a tutti. Anche a chi ha fatto, prima di Lehman, professione di scetticismo. Per cui non è che nessuno, nel frattempo, farà nulla per impedire questi botti. Solo che i casi che indichiamo sono di più difficile soluzione. Infatti i nomi citati fanno tutti tremare i polsi. Botto cinese Cominciamo con l’esotico. Se il botto giapponese, avvenuto nei primi anni ’90, in fondo è una delusione (tutto è rimasto confinato in quel paese), il botto cinese potrebbe regalare un fragore che si espande ben oltre i confini della Grande Muraglia. Motivo? Il sistema bancario ombra cinese che spesso sfugge persino al controllo del Partito. E ha già ha generato fallimenti. Poi c’è la bolla immobiliare che regolarmente esplode e genera città fantasma con milioni di vani disabitati. E non è da trascurare il rallentamento dell’eco- nomia cinese. E se scoppia una bolla grossa in Cina c’è già pronto il cancello di contagio per il mondo globale: Hong Kong. Le dimensioni del problema sono tali che neanche Mao ha rappresentato una minaccia per il capitalismo come il possibile botto finanziario cinese. Botto italiano Torniamo subito a casa per goderci un primato: siamo il terzo mercato obbligazionario al mondo. Il nostro debito pubblico è un affare per tutto il pianeta. Infatti non a caso l’affare, cioè il mercato, negli ultimi anni si è allargato nonostante la politica di austerità. Tutti i grafici danno il debito pubblico italiano verso l’alto. Non per le pensioni o la sanità o la scuola. Ma perché ci vengono prestati sempre più soldi indebitandoci sempre di più per ingrossare l’affare. Solo che non possiamo continuare all’infinito. Ma consoliamoci : in caso di botto, come scrivono gli inglesi, possiamo, forza del paragone, far apparire Lehmann come un picnic. Botto francese Mais oui, il botto che non ti aspetteresti. Quello più nascosto dalla propaganda. Anche perché, a regola, i costi del salvataggio francese dovremmo pagarli proprio noi italiani. Un po’ di esempi. Di dove è la banca a maggior rischio botto globale? Francese. E quale è il paese maggiormente debitore verso la Francia? L’Italia. E quale è il paese che più si è indebitato per salvare le proprie banche dopo Lehman? La Francia. Avete capito da soli: il botto del 2008 ha sinistrato le banche francesi. Il governo si è indebitato per salvarle, o meglio per salvaguardare i loro profitti, e l’Italia è il maggior creditore di quel paese. Inoltre il debito francese è raddoppiato in soli 5 anni (arrivando a livelli italiani). Se andiamo in grossa crisi Le bolle potenziali, devastanti, in grado di colpire il pianeta come sei anni fa, si sono moltiplicate noi, per dirne una, fanno prima il botto loro. Sarebbe qualcosa genere champagne, da non dimenticare. Se non siete ancora stupiti, aspettate la prossima puntata. Dove parleremo del botto spagnolo, del botto tedesco e del superbotto americano (i soliti esagerati). In fondo non è un mondo noioso. RESISTENZA A ISIS - “Carta sociale del Rojava”: l’organizzazione di un sistema socialista, libertario e federalista LEONARDO FRASSANO N ei terribili giorni dell’assedio dell’Isis alla città di Kobanê, il mondo è rimasto a bocca aperta di fronte alla straordinaria resistenza dei miliziani curdi agli attacchi delle bande jihadiste, meglio armate e numericamente superiori. Eppure, nel caos mediatico, si è continuato, più o meno intenzionalmente, a non raccontare il cuore pulsante di questa vicenda: l’eccezionale rivoluzione politica, sociale e culturale sperimentata nel Rojava. Mentre su Twitter si parlava già di “Spagna del ‘36 dei nostri tempi”, tra indifferenza e vuoti quadretti a “tinte rosa” sulle guerrigliere, il vuoto dell’informazione - purtroppo non solo quella mainstream - ha costretto i curdi a rompere l’isolamento con un’eclatante sollevazione, costata già decine di vittime. Per smentire un antico proverbio secondo cui “gli unici amici dei curdi sono le montagne”, ci sono alcuni passaggi-chiave da chiarire, a partire dall’arresto di Abdullah “Apo” Oçalan, fondatore del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), dal 1998 unico detenuto dell’isolacarcere turca di Imrāli. Durante la prigionia, una profonda autocritica ha condotto “Apo” al superamen- L’esperimento politico curdo to dell’ideologia marxista-leninista di stampo nazionalista. Queste le sue parole: “È diventato chiaro che la nostra teoria, programma e prassi degli anni ’70 non hanno prodotto altro che futile separatismo e violenza e, ancor peggio, che il nazionalismo cui avremmo dovuto opporci, ci infestava tutti”. La lettura di Nietzsche, Braudel, Wallerstein, ma soprattutto del pensatore libertario statunitense Murray Bookchin, ha spinto Oçalan ad abbracciare una visione socialista libertaria, ecologista e femminista, per certi versi simile al neozapatismo. Questa evoluzione, “verticale” e autorevole, ha prodotto nel Pkk e negli altri partiti che oggi formano il Kck (Confederazione delle Comunità del Kurdistan) un intenso dibattito non scevro di attriti, che si è concluso nel 2005 con l’adozione di un nuovo programma per la nazione curda (estesa tra Turchia, Siria, Iran e Iraq), e per tutto il Medio Oriente, definito “Confederalismo Democratico”. Esso propone, secondo principi di pluralismo etnico e religioso, democrazia partecipativa, parità di genere assoluta e rispetto dell’ecosistema, l’abbandono della forma Stato in favore dell’autogoverno di cantoni confederati. Le parole di Bookchin aiutano a capirne le idee di base: “Chiedere la “decentralizzazione” [...] senza libertà di partecipazione ai processi decisionali a tutti i livelli e senza proprietà, produzione e ripartizione comune dei mezzi materiali a seconda delle necessità individuali, sarebbe puro oscurantismo”. Allo stesso tempo, il Pkk ha avviato un processo di pace con la Turchia, ritirando unilateralmente il proprio braccio armato (Hpg) oltre il confine e sostenendo oggi il parlamentare Partito Democratico dei Popoli (Hdp), punto di riferimento per la sinistra turca. La primavera siriana, sfociata in guerra civile nel 2012, ha imposto ai curdi siriani del Pyd (Partito di Unità Democratica, legato al Pkk) di proteggere la popolazione del Rojava (Kurdistan occidentale), una vasta area che si estende lungo tutto il nord della Siria. Per due anni le Ypg (Unità di Difesa del Popolo) e Ypj (Unità Popolari di Difesa Femminili) hanno difeso dall’Is le popolazioni autoctone: curdi, ma anche armeni, assiri, arabi, turcomanni e ceceni, che hanno potuto convivere in pace mentre il resto del paese sprofondava nel caos. Il vuoto di potere del regime di Assad ha consentito di sperimentare per la prima volta i principi del Confederalismo Democratico, con la creazione di tre cantoni autonomi confederati: Afrin, a ovest, Kobanê al centro e Cizire a Est. Il patto sociale di base è stata la straordinaria e avanzatissima “Carta sociale del Rojava”, la cui applicazione, incluso il ruolo imprescindibile delle donne nelle istituzioni, è stata garantita dal Tev-Dem, movimento trasversale ai partiti locali che promuove assemblee per la risoluzione di problemi comunitari. Una realtà ben diversa dalla Regione Autonoma del Kurdistan Iracheno (Krg), un quasi-stato alleato degli Usa dai tempi della guerra del Golfo e difeso dall’esercito dei peshmerga, fedeli al conservatore Barzani e di stanza solo in quell’area. Non furono infatti loro a salvare dal massacro gli Yazidi, bensì i guerriglieri politicamente scomodi del Pkk, chiamati erroneamente peshmerga come le eroine e gli eroi di Kobanê, protagonisti di una vera e propria rivoluzione “incompresa”, soprattutto per un’area del mondo martoriata da regimi dittatoriali, guerre, ingerenze straniere e conflitti etnico-religiosi, e non a caso percepita come nemico n.1 dal Califfato e dai suoi potenti amici. Nei giorni dell’assedio dell’Isis nessuno parla del sistema politico curdo. Per molti è la “Spagna del ’36 dei nostri tempi” in uscita dal 16 ottobre 2014 3 interni JOBS ACT - La norma cardine di tutto il diritto del lavoro sotto attacco da parte del governo Renzi Perché difendere l’articolo 18 FRANCO MARINO A volte succede che chi ci governa ci racconta storie prive di fondamento, ma noi neanche ce ne accorgiamo. Nel caso di Renzi siamo addirittura in presenza di un imbonitore di talmente alto livello, che spesso le sue storielle sono raccontate così bene che l’ascoltatore rimane ipnotizzato e non verifica quanto sta sentendo. In questo caso parliamo del dibattito sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, una norma di civiltà (come l’abbiamo più volte definita nelle nostre analisi degli ultimi anni) che pare oggi in serio pericolo. Gli investitori stranieri La cosa più insensata che si sente in giro è il fatto che gli investitori stranieri non vengono in Italia per colpa dell’articolo 18 (avete infatti mai letto di una grande azienda straniera che ha annunciato espressamente di voler venire in Italia solo in caso di abolizione della norma sui licenziamenti?). La porta ai capitali di rapina (o mordi e fuggi), invece, era già stata aperta nel 2012 dalla cosiddetta “Riforma Fornero” quando è stato tolto l’obbligo di motivare l’utilizzo di contratti a tempo determinato (la cosiddetta causalità del contratto). Dopo il decreto 34/2014 (cd. Jobs Act di Renzi) e la totale liberalizzazione e applicazione del principio di acausalità al contratto a tempo determinato, gli imprenditori possono fare come vogliono, avere 10 assunti a tempo indeterminato e 100 a tempo determinato senza dover spiegare perché (cioè senza dover specificare le esigenze produttive o organizzative). Insomma, il mercato del lavoro italiano è già straflessibile, con una miriade di forme contrattuali precarie ed atipiche oltre alla appena descritta normativa letale sui contratti a termine, e non si capisce quindi come possa essere incredibilmente definito “troppo rigido”. Semmai ci sarebbe da capovolgere i termini del discorso: il capitalismo globale investe laddove ci sono salari tipo quelli polacchi o serbi, quindi per investire in Italia chiede salari da fame per avere garanzia di profitti, e l’abolizione dell’articolo 18 è un buon viatico per la realizzazione di questa condizione. Ecco, abbiamo trovato il motivo per cui opporci e resistere. Un po’ di storia L’articolo 18, infatti, non ha niente a che fare con questioni produttive o salariali, perché serve solo a tutelare il lavoratore da abusi, licenziamenti discriminatori oppure da licenziamenti discriminatori mascherati da falsi problemi di natura economica. Fu pensato e rivendicato, infatti, dopo l’ondata di licenziamenti “politici” e sindacali fatti dalla Fiat con a capo Vittorio Valletta (il Marchionne degli anni ’60). Lo Statuto dei Lavoratori, in precedenza votato al Senato, venne approvato il 14 maggio 1970 dalla Camera con 217 voti a favore (la maggioranza di centro sinistra – Dc, Psi e Psdi unificati nel Psu, Pri – con l’aggiunta del Pli, al tempo all’opposizione) e con l’astensione Pci, Psiup e Msi oltre che dieci voti contrari. Pci e Psiup volevano l’estensione anche alle aziende sotto i 16 dipendenti. Il Ministro del Lavoro dell’epoca, il democristiano Donat Cattin, strigliò i malumori del padronato e della destra, mentre i socialisti, all’epoca al governo con la Dc nell’era del cosiddetto “centrosinistra”, esultarono (l’estensore, Giovanni Brodolini era uno di loro) e dichiararono: “Finalmente la Costituzione entra in fabbrica”. Erano anni di scioperi (veri e lunghi) e proteste e la politica istituzionale era stata costretta a codificare le rivendicazioni di un movimento operaio sempre più vasto e conflittuale. L’importanza dell’articolo 18 Ma perché è così importante l’articolo 18? Semplice, perché senza l’articolo 18 saranno solo il ricatto e la paura a regolare i rapporti tra capitale e lavoro, tra imprenditore e lavoratore. Ma c’è di più. L’articolo 18 è l’essenza stessa del diritto del lavoro. Chi mai chiamerà in causa la propria azienda per stipendi arretrati da avere o per mancanza di sicurezza se la legge permette al datore di rivalersi su di lui con un licenziamento che al massimo sarà sanato con un pagamento di indennità e non con il reintegro, in un momento in cui la disoccupazione è alle stelle? L’articolo 18 non è né causa né stimolo per occupazione o economia, è però l’unica norma che riesce (o meglio, riusciva, prima che la riforma Fornero iniziasse a decapitarla) a tenere in equilibrio e regolare i rapporti tra capitale e lavoro. Se venisse abolito assisteremmo ad una inimmaginabile escalation negativa su salari e sicurezza. E quelli che non ne possono già ora usufruire? L’esistenza dell’articolo 18 è comunque un elemento di forza per il mondo del lavoro, che poi si esprimerà nei contratti nazionali di cui poi usufruiranno come base salariale e normativa anche coloro che non ne beneficiano. Se chi oggi è più tutelato, grazie anche all’articolo 18, perde forza nei confronti del capitale, a cascata c’è un arretramento di tutte le forme e situazioni contrattuali, cioè di tutto il mondo del lavoro. I falsi numeri La favoletta dice più o meno così: Senza l’articolo 18 saranno solo il ricatto e la paura a regolare i rapporti tra capitale e lavoro e ne risentiranno salari e sicurezza “Quello dell’articolo 18 è un falso problema, perché riguarda solo 3mila persone all’anno in un paese di 60 milioni di abitanti”. La teoria di Renzi, tra l’altro spiegata spostando numeri come se fossero noccioline, parte però da un punto clamorosamente fuorviante, ossia quello delle cause di lavoro riguardanti l’articolo 18 e non, come invece dovrebbe essere, quello dell’intera platea dei soggetti ai quali tale articolo viene applicato. Se infatti l’articolo 18 ha come conseguenza solo un numero limitato di cause di lavoro è perché è una legge di tutela. Vuol dire quindi che funziona benissimo nel suo scopo, perché agisce come deterrente a licenziare per le imprese. L’articolo 18 svolge quindi il suo compito di tutela per circa 6 milioni e mezzo di lavoratori e lavoratrici. Giustizia sociale e diritto L’essenza dell’articolo 18 va anche oltre il mondo del lavoro. È una norma a tutela della giustizia sociale ma anche dell’intero impianto del diritto. Ce lo spiega l’avvocato Marco Guercio in un articolo uscito sul suo blog: “Provate per un momento a pensare a due terreni confinanti di proprietà di due persone, i soliti Tizio e Caio, che hanno costruito una casa ognuno sulla sua proprietà. Pensate a questi due terreni come ad un unico terreno perché tra le due proprietà non è mai stato eretto alcun muro nonostante sia chiaro ad entrambi quale sia il confine per come è indicato al catasto. Ora provate a pensare ad uno dei due proprietari, Tizio, che un bel giorno, approfittando, ad esempio, dell’assenza del vicino, decide di erigere un muro e, deliberatamente, lo costruisce 50 metri all’interno della proprietà di Caio sottraendogli quindi svariati ettari di terreno. Ora pensate al malcapitato Caio che tornando a casa vede questa costruzione che invade letteralmente casa sua e che, infuriato, decide di rivolgersi ad un avvocato e, quindi, ad un tribunale per ottenere la rimozione coattiva del muro. A questo punto pensate al povero Caio che si sente dire dall’Avvocato e dal Giudice che purtroppo, a seguito di una recente riforma, il muro non si può più abbattere e che, al limite, lui avrà diritto ad un risarcimento del danno, peraltro in via forfetaria e quindi neanche commisurato all’effettiva perdita e all’effettivo danno ma compreso tra 10.000 euro e 20.000 euro. Il muro, però, se lo tiene e la proprietà del terreno sottratto, in pratica, non è più sua. Questo che può sembrare solo un esempio è esattamente lo schema che spiega la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Nel nostro ordinamento, infatti, esistono due forme di risarcimento del danno che, ovviamente, possono essere azionate a fronte di una Investimenti? Con il principio di acausalità del contratto precedentemente introdotto da Renzi, gli imprenditori possono già fare come vogliono condotta illegittima posta in essere da qualcuno che lede un nostro diritto: il risarcimento in forma specifica (rimetti tutto a posto come prima) ed il risarcimento per equivalente (mi paghi quello che hai rotto). La prima soluzione consente al creditore, cioè a colui che ha subito il danno ingiusto derivante da un atto illecito o da un inadempimento contrattuale, di ottenere, ove possibile, il ripristino della situazione precedente al verificarsi della condotta illegittima. Nel caso del muro, quindi, il risarcimento in forma specifica consiste nell’abbattimento dello stesso a spese del prepotente Tizio. La seconda ipotesi è l’unica esperibile nel caso in cui non sia più oggettivamente possibile (si pensi al danneggiamento o al deterioramento di beni infungibili) ottenere il ripristino della situazione precedente per vari motivi oppure quando il creditore danneggiato possa scegliere questo tipo di risarcimento perché lo ritiene il più vantaggioso. Ebbene la reintegra nel posto di lavoro del lavoratore licenziato in maniera illegittima dal datore di lavoro non è nient’altro che una forma di risarcimento in forma specifica ed è sempre possibile perché il Giudice può sempre ordinare al datore di lavoro di restituire al danneggiato ciò che gli è stato tolto in ragione di un atto illecito, ovvero il suo posto di lavoro. È prevista dall’art. 18 st. lav. ma in un certo senso non ce ne sarebbe stato bisogno perché, si ripete, è un principio generale del diritto civile, del codice civile di cui le norme in tema di lavoro sono parte integrante essendo collocare nel libro V, appunto, del Codice Civile. 4 Livorno anno IX, n. 97 RIFIUTI - Le proposte dei comitati all’Assessore all’Ambiente e all’amministratore della municipalizzata FRANCO MARINO L e politiche sui rifiuti sono diventate una bussola importante per giudicare l’operato di un’Amministrazione. Perché rappresentano un’opportunità di investimento pubblico con annessi posti di lavoro e soprattutto perché, se applicate con sapienza, possono rappresentare un vero elemento di cambiamento di approccio economico ed ambientale. L’economia circolare Fino ad oggi si è pensato a produrre in modo casuale ed a consumare in modo spropositato e acritico, producendo milioni di tonnellate di rifiuti da bruciare o gettare in discarica con tutti i problemi ambientali e di salute annessi. Una cultura della crescita insensata che ci ha portato al punto di superare il limite di consumo rispetto a quanto la terra può dare. Il futuro invece passa dall’economia circolare, cioè un’economia pensata per potersi rigenerare da sola. L’economia circolare è dunque un sistema in cui tutte le attività, a partire dall’estrazione e dalla produzione, sono organizzate in modo che i rifiuti di qualcuno diventino risorse per qualcun’altro. Nell’economia lineare, invece, terminato il consumo termina anche il ciclo del prodotto che diventa rifiuto, un sistema figlio della deleteria cultura dell’usa e getta. Partendo da questa premessa storico-economica, Vertenza Livorno e il Comitato No Inceneritore hanno presentato all’assessore all’ambiente Giovanni Gordiani e all’amministratore unico di Aamps Marco Di Gennaro un documento di analisi sul ciclo dei rifiuti e il ruolo di Aamps ed alcune domande sul futuro di questa azienda partecipata al 100% dal Comune di Livorno. Il documento dei comitati “Deve essere chiaro che i comitati Che fine farà Aamps? che lottano contro gli inceneritori non sono comitati del NO a tutto, perché per smaltire i rifiuti servono impianti. I comitati vogliono che i soldi pubblici vengano spesi per altri tipi di impianti e strutture. Invece degli inceneritori i comitati vogliono gli impianti di compostaggio e le piattaforme di raccolta e selezione per il riciclo dei materiali raccolti nel porta a porta, secondo i passaggi della strategia Rifiuti Zero. A Livorno il ciclo dei rifiuti è innanzitutto un guadagno per i privati. Aamps è un’azienda nata e rimasta legata a discariche e inceneritori e a modelli superati, tanto che deve aggrapparsi a privati per stoccare i rifiuti differenziati raccolti o portare il materiale da riciclo in altri territori. Il mondo è andato avanti ma a Livorno l’ex azienda municipalizzata non ha investito in nessun impianto e in nessuna strategia alternativa. Costruire un nuovo inceneritore o raddoppiare l’esistente è palesemente in contraddizione con l’estensione del porta a porta in tutta la città. La Regione Toscana ed i vecchi amministratori invece dicono che questa contraddizione non esiste. È dimostrato invece che laddove sorgono nuovi inceneritori (vedi Brescia), non c’è nessun incentivo alla raccolta differenziata, anzi la raccolta toglie rifiuti all’inceneritore che invece ha bisogno di essere sempre “nutrito” per poter essere remunerativo. Un’obiezione che spesso ci fanno è: ma con la strategia “Rifiuti Zero” non si può far sparire i rifiuti perché in ogni caso una parte non riciclabile e uno scarto dello scarto ci sarà sempre e andrà bruciato o conferito in discarica. Noi rispondiamo che l’incenerimento comporta la produzione di scarti e scorie tossiche che vanno inviati in discarica, anzi vanno inviati in discariche spe- ciali poiché gli scarti e le scorie degli inceneritori sono tossiche e quindi estremamente pericolose. Su 100 chili di spazzatura incenerita, 20/30 riescono dal forno nella forma di scorie, comprese quelle dei filtri, tossiche e nocive. Questo aspetto, il partito dei filo inceneritori si dimentica sempre di citarlo. Sicuramente, come dice anche Rossano Ercolini padre della strategia Rifiuti Zero, la fase di transizione verso cifre sempre più alte di raccolta differenziata e di riciclo è meglio affrontarla con le discariche esistenti che con nuovi inceneritori. Un inceneritore lega un territorio per almeno 20 anni a strategie che vanno in senso opposto a rifiuti zero, mentre una discarica no. Basterebbe utilizzare le discariche già presenti e conferirci rifiuti inertizzati e non il tal quale come avviene adesso e che fra l’altro sarebbe anche vietato dalle normative europee”. Le domande Il nodo del futuro dello smaltimento rifiuti sta nella partecipazione o meno a Reti Ambiente Spa, oppure alla mutazione del percorso stesso. Come farà Aamps a uscire da questo percorso? Ci sono penali o altro ge- nere di ostacoli come dichiarato dal presidente di Geofor, Marconcini? Esiste un piano operativo? Nel caso di uscita dal percorso, Aamps ha la solidità finanziaria per fare quegli investimenti (composter, piattaforma di selezione e stoccaggio, centro di uso e riciclo e altri impianti per la “trasformazione” dei rifiuti) che possano affiancare la raccolta porta a porta per creare un’economia circolare e finanziariamente sostenibile? Esiste un piano finanziario o studi di fattibilità a riguardo? Come pensate di riconvertire Aamps in un’azienda pubblica in grado occuparsi di pulizia, smaltimento e riciclo anche alla luce delle numerose esternalizzazioni fatte? Quali servizi pensate di reinternalizzare? Quali ricadute occupazionali ci sarebbero? Quali Aamps è sempre stata legata alla discarica prima e all’inceneritore poi e non ha mai investito in impianti o sistemi alternativi atti ci sono da fare per scongiurare definitivamente la terza linea dell’inceneritore? Esiste un piano per coinvolgere la cittadinanza nella raccolta porta a porta, anche attraverso un sistema di incentivazione e/o riduzioni tariffarie? Esiste un piano al fine di chiudere nel giro di 3/5 anni l’inceneritore del Picchianti riconvertendo il personale ad altre mansioni? Esiste un piano per bonificare la vecchia discarica di Vallin dell’Aquila e il territorio circostante? Domande in attesa di risposta. LAVORO E LOTTE - Parole d’ordine: solidarietà nelle vertenze e sconfiggere le divisioni per combattere uniti È nato il Coordinamento Lavoratori Livornesi GIANNI LOACERVO I l giorno 25 settembre, con una grande assemblea cittadina al Teatro delle Commedie, si è costituito ufficialmente il Coordinamento Lavoratori Livornesi. Dopo anni di isolamento e individualismo rinasce la voglia di unità tra i lavoratori livornesi. Il progetto si sviluppa grazie ad una riflessione iniziata a giugno di quest’anno che ha visto protagonisti lavoratori, Rsu e Rsa di alcune aziende cittadine impegnati in diverse vertenze sui propri posti di lavoro. Lo spunto è stato lo sciopero degli autisti della Ctt Nord contro la privatizzazione del servizio. In quell’occasione alcuni lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato, scesero in piazza a fianco dei dipendenti ex Atl per sostenerli nella loro battaglia. La voglia di replicare il successo di quell’esperienza ha dato il via libera ad una serie di riunioni periodiche con la partecipazione di lavoratori della Porto 2000 , Ggt, Cls, People Care, ditte esterne Eni, Goldoni, Magna, Trelleborg e molte altre. L’obiettivo è stato chiaro fin da subito, dare sostegno e visibilità alle vertenze a prescindere dall’appartenenza sindacale e partitica degli aderenti, Sostegno e visibilità alle vertenze a prescindere dall’appartenenza sindacale e partitica degli aderenti in poche parole riscoprire il mutuo soccorso tra lavoratori che subiscono tutti i giorni le medesime contraddizioni. Non un comitato quindi, ma un coordinamento tra varie realtà che decidono di mettersi insieme per sostenersi a vicenda. Altrettanto chiara è la volontà di non strutturare un progetto sindacale. Nessuna ingerenza nelle vertenze ma solo sostegno esterno su richiesta degli stessi lavoratori o Rsu che hanno l’esigenza di portare avanti campagne di lotta sul proprio posto di lavoro. È naturale, tuttavia, la critica ai sindacati e alle loro dirigenze che negli ultimi anni hanno sapientemente tenuto separate le varie crisi occupazionali sul territorio. Non si è voluto creare una visione di insieme che avrebbe potuto innescare reazioni collettive basate sulla solidarietà. Il “Mors tua vita mea” ha indebolito la classe lavoratrice permettendo sempre maggiori arretramenti sul fronte dei diritti e delle tutele mentre il mito della concertazione ad ogni costo creava effetti nefasti su tutto il territorio nazionale e locale. In effetti con la scusa della crisi molte aziende hanno deciso di portare avanti ristrutturazioni selvagge di fronte alle quali i sindacati e le istituzioni locali hanno spesso risposto con una strategia basata sul concetto del “salvare il salvabile”. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Anche gli stessi media legati al potere hanno creato le condizioni perché ciò avvenisse. Il lavoratore è diventato un fannullone, un assenteista o nel migliore dei casi una persona che non vuole capire le difficoltà economiche del momento. Nella realtà le crisi vengono costantemente scaricate solo sui lavoratori e sulle lavoratrici mentre le dirigenze hanno di fatto mantenuto gli stessi livelli e gli stessi privilegi di sempre. Una visione di classe molto chiara che ha creato forse qualche malumore in tutti quei soggetti che ancora credono in una visione interclassista della società. L’invito è quindi quello di partecipare alle assemblee periodiche del coordinamento, di informarsi sulle iniziative di solidarietà ma soprattutto di iniziare a credere che, per cambiare le nostre condizioni, l’unità tra i lavoratori è la premessa principale. Foto di Giacomo Bazzi in uscita dal 16 ottobre 2014 5 Livorno AMBIENTE E SALUTE - Una ricerca epidemiologica sul nostro territorio non è più rimandabile Tumori: la politica degli struzzi D ove eravamo rimasti? Ah sì, ecco. Nel nostro ultimo articolo sulla questione dei tumori avevamo comparato i dati grezzi di mortalità della provincia di Livorno e di quella di Taranto, evidenziando come nella nostra provincia la situazione apparisse molto più preoccupante che in quella pugliese. Siccome però qui da noi l’età media è più alta rispetto a quella di Taranto (46,1 contro 41,9) rimaneva il dubbio che la maggiore mortalità potesse derivare dal fattore anagrafico. Scopo dell’articolo era quello di suscitare interesse e stimolare un ulteriore approfondimento in modo da capire quanto effettivamente il problema tumori Livorno fosse più grave che altrove. Ma come si poteva immaginare, nessuno si è preso la briga di verificare e allora lo facciamo noi. Come si suol dire: chi fa da sé fa per tre. Così abbiamo chiesto all’Istat i dati di mortalità per tutte le cause scorporate per fasce di età di cinque anni. In questo modo si elimina il fattore confondente dell’età ed è possibile avere un’idea più precisa sulle dimensioni del problema. I dati sono relativi al 2011. In questo articolo abbiamo preso in considerazione le fasce d’età da 0 a 39 anni, e abbiamo comparato i dati della provincia di Livorno con quelli nazionali e quelli delle province di Pisa, Brescia e Taranto. La prima per vicinanza, JACK RR C ome in una seconda puntata riprendiamo a fare considerazioni sulle partecipate del Comune, sul loro stato, sulla loro funzione e valutiamo il contesto che è ben diverso da quello degli anni ‘80 e ‘90 dove la possibilità di coprire le perdite d’esercizio era più semplice e quasi bancabile come garanzia patrimoniale. Oggi non più, anzi la società con socio pubblico, oltre ad essere un istituto di diritto privato con una responsabilità patrimoniale ed un obbligo costituzionale di pareggio di bilancio, è sottoposta a norme restrittive del Patto di Stabilità e Crescita. Il legislatore obbliga il Comune ad accantonare in un fondo dedicato ad hoc la copertura della perdita della partecipata. Si profila un dramma per innumerevoli comuni d’Italia a partire da Roma con già 800 milioni di debiti. A Livorno il dissesto finanziario del Comune rischia di essere indotto dallo stato finanziario delle sue aziende in partecipazione nei settori dei beni e servizi pubblici ma soprattutto dalla Spil, che ha una situazione patrimoniale e reddituale davvero impossibile da raddrizzare a breve. Il dissesto finanziario di un comune in uno stato di crisi dello Stato è una situazione da cui se ne esce malissimo poiché nessun trasferimento è atteso le altre due per i gravi e noti problemi di inquinamento ambientale di alcune zone dei capoluoghi. Ecco che cosa è emerso. Nell’anno di riferimento i decessi per tumore sono stati a Livorno e provincia 17 (10 maschi e 7 femmine). Il tasso di mortalità complessivo su 100mila abitanti (di età 0-39) è di 12,69 (14,68 per i maschi e 10,64 per le femmine). A livello nazionale abbiamo invece un tasso del 9,76 (9,51 per i maschi e 10,01 per le femmine). Ne risulta un eccesso di mortalità a Livorno di circa il 30% rispetto al livello nazionale. Ma se per il sesso femminile questo ec- cesso è abbastanza contenuto, per il sesso maschile è impressionante: +54,4%. Per quanto riguarda Pisa, neanche i tassi della vicina provincia sono molto rassicuranti. Il tasso per entrambi i sessi infatti è 10,25, inferiore a quello di Livorno ma superiore a quello nazionale. Il tasso per il sesso maschile è meno della metà del nostro (5,57), ma spicca il dato delle femmine: 15,15, un 50% in più rispetto al dato nazionale. Passiamo ora a Brescia, la città della Caffaro, la fabbrica che produceva Pcb e che ha provocato un disastro ambientale e sanitario così grave che l’epidemiologo Paolo Ricci ha chiesto le dimissioni dei vertici dell’Asl. Bene, i tassi di Brescia sono molto più bassi sia di quelli nazionali che quelli delle province di Livorno e Pisa. Abbiamo infatti un tasso complessivo di 5,36 (3,7 per il sesso maschile e 7,11 per quello femminile). E Taranto? Com’è noto la provincia pugliese detiene il non invidiabile primato della più inquinata d’Italia, con quasi l’80% delle diossine prodotte in Europa. Il caso Ilva è ormai noto a tutti ed è superfluo soffermarsi sulla drammatica situazione del rione Tamburi, quello adiacente all’acciaieria. A Taranto (è bene ricordare ancora una volta che si tratta di dati provinciali e non riferiti ai capoluoghi) il tasso complessivo è di 6,91 (6,45 per i maschi e 7,38 per le femmine), più basso della media nazionale. Conclusioni: in termini di tassi SPIL - Il fallimento di una politica di sviluppo locale inconsistente Un disastro per Livorno per risolvere la posizione debitoria, che è di solito un dramma per l’economia locale. Tutte quelle ditte in attesa di pagamento vedono definitivamente svanire ogni possibilità di riscossione entrando poi nell’ambito di una procedura che porta l’ente ad una specie di amministrazione controllata dove comunque sarà il patrimonio comunale a subire una progressiva liquidazione. Il caso Spil è davvero particolare poiché il valore dei terreni e fabbricati iscritti nel bilancio più recente, quello del 2013, è di oltre 29 milioni ed è minore dell’esposizione debitoria che arriva ad una cifra di 37 milioni. Da questo dato il pensiero va verso il tentativo di comprensione di come chi l’ha gestita pensava di portare avanti i buoni propositi statutari. Questo alla luce di una redditività inconsistente, infatti i 92.000 € di utile netto (e siamo buoni a prendere l’ultimo risultato poiché i precedenti si attestavano su perdite di mezzo milione) contro i 700.000 di sole spese di personale e 1.800.000 di interessi passivi sono la fotografia di un sistema completamente a carico della dotazione di ricchezza del nostro Comune i quali beni appartengono a tutti. Così a Spil si è dato un patrimonio pubblico per attivare dei piccoli o grandi volani che dessero impulsi ad economie locali e invece progressivamente sono stati messi su una serie di insuccessi clamorosi mentre le spese di struttura e personale erodevano anno dopo anno quel patrimonio che oggi riteniamo preziosissimo. Nonostante questa assurda missione aziendale per l’ottenimento di benefici pubblici già nel bilancio dell’anno 2000 quindi, quando ancora di crisi non se ne parlava, nessuno mai ha fermato questa forma di dilapidazione del patrimonio comunale. Una situazione davvero assurda che ancora nessuno ha avuto il coraggio di correggere e se va avanti l’agonia è perché Mps Investments Spa Nsb (Cap. sottoscritto € 441.792,00 Quota 15,45 %) e Cassa di Risparmio di Lucca Pisa Livorno Spa (Cap. sottoscritto € 427.099,90 Quota 14,94 %) soci in Spil non chiedono un rientro dei debiti che ammontano alla voce di bilancio Livorno rischia il dissesto, indotto dallo stato finanziario delle sue aziende, soprattutto dalla Spil “12 mesi verso banche” per un importo davvero impossibile da erogare per una società in questo stato, la cifra è di 32,658 milioni. Il Tirreno descrive questa situazione con la frase: < Conti un po’ zoppicanti >. complessivi di mortalità per tumore sotto i 40 anni, Livorno è in testa rispetto sia alle altre province prese in considerazione che rispetto al dato nazionale. Per il sesso femminile viene superata solo da Pisa (a proposito, ma il “modello toscano”?) mentre per quello maschile è nettamente prima. A questo punto - pur trattandosi di una ricerca “casalinga” - non ci sono più dubbi in merito ad una particolare gravità della situazione tumori nella nostra provincia. I sindaci devono assolutamente chiedere Nel 2011 a Livorno tra i maschi sotto i 40 anni un eccesso di mortalità del 54% rispetto al dato nazionale all’Asl un’indagine epidemiologica ufficiale per capire a quali fattori di rischio è dovuto questo eccesso di mortalità. Noi speriamo che a forza di insistere su questo argomento alla fine si smuova qualcuno e che si possa arrivare non solo a una mappatura del problema, ma anche alla riduzione di tutti i fattori di rischio. A cura del Gruppo di studio sulla salute di Vertenza Livorno È importante rimarcare come la vicenda Spil abbia goduto di tutto un cordone di protezione consolidatosi proprio a livello di cura dell’immagine di cui chiaramente lo storico quotidiano cittadino non ha avuto rivali. Nessuno li ha mai fermati. Li fermerà a breve il Patto di Stabilità e Crescita imposto dall’Unione Europea perché nessuno nella nostra città ha avuto il coraggio di guardare la realtà delle cose con responsabilità. Dall’esterno è difficile dire cosa ci sia dietro, se non immaginare dei goffi uomini con argomenti inconsistenti a cui di certo non sta a cuore il destino della città, perché immaginare un dissesto finanziario è davvero inquietante per le ditte fornitrici dell’ente e per ogni cittadino che usufruisce di servizi erogati nei settori del sociale in generale. È una brutta storia quella di Spil attorno alla quale il silenzio si rinnova. Non ha risposto al sindaco l’ultimo amministratore delegato dopo l’interrogazione di Cannito, non è seguito nessun dibattito consiliare subito dopo la risposta evasiva del sindaco stesso che probabilmente una volta alzato qualche coperchio ha maledetto il cielo per averlo fatto. Nessuno continua a fermarli. Il nuovo amministratore ha esperienza nei settori bancari ma non ne conosciamo l’orientamento politico. 6 JIMMY CASE C ’è stato un periodo nel quale, alla generazione nata negli anni ’60 e ’70, si insegnavano due cose: non ci sarebbe stata più una guerra in Europa, non ci sarebbe stato più un nuovo crollo come quello del ’29. Entrambe le previsioni, che facevano parte del bagaglio pedagogico che una generazione passa ad un’altra, si sono rivelate profondamente sbagliate. Non solo per la guerra jugoslava o la crisi ucraina. Ma anche perché di crolli di borsa, a cominciare da quello del 1987, se ne sono visti parecchi. Fino, come è accaduto per Lehman, a minacciare le fondamenta stessa del capitalismo. La crisi di borsa del ’29 rimane comunque nell’ambito dei grandi traumi collettivi. Perché colpisce una popolazione, americana e non, più vasta delle crisi precedenti. E distrugge volumi di ricchezza maggiori. Solo che non è la prima grande crisi di borsa. E nemmeno la prima a carattere internazionale. Già dalla long crisis del 1873-1896, iniziata con un crollo dei valori di borsa proprio in Usa, si capisce il carattere globale di queste crisi. Ad esempio quella del 1907-1908 non è solo all’origine della creazione della Federal Reserve americana, ma anche tra le cause della distruzione di ricchezza mondiale che portò verso la Grande Guerra. La storia del capitalismo si caratterizza così come quello che è: una lunga fila di crolli e di distruzioni di ricchezze. Ad ogni crollo poi segue una riaccumulazione, poi un nuovo crollo e via. L’errore, durante gli anni ’80, di molte so- FRANCO MARINO A lzi la mano chi non ha mai sentito parlare dell’incontro di pugilato tra Alì e Foreman svoltosi a Kinshasa, capitale dello Zaire, il 30 ottobre 1974. C’è sempre tempo per recuperare, visto che la storia di quell’incontro è stata oggetto di documentari e film in tutte le salse. Il migliore è forse il documentario di Leon Gast “Quando eravamo re”, un gradino sotto c’è invece il film “Alì” di Micheal Mann. Ma perché è così famoso? Per molti motivi. Il primo è che è un incontro ricco di significati politici, ed anche di contraddizioni. Nell’epoca dell’esplosione della protesta nera negli Stati Uniti e nella rivendicazione e riscoperta delle proprie radici afroamericane, questo incontro doveva rappresentare un ponte simbolico tra il continente di provenienza degli schiavi e il paese dove gli schiavi sono stati deportati prima e segregati poi. Ma l’ingrediente principale a dare una cornice a questo evento era soprattutto Muhammad Alì, che in quegli anni era diventato un simbolo delle lotte antirazziste e dell’opposizione alla guerra in Vietnam. A questo c’era da aggiungere che Alì era stato sospeso dalla pratica del pugilato dal 1967, e doveva scontare tre anni e mezzo di squalifica a causa del suo rifiuto per non dimenticare anno IX, n. 97 OTTOBRE 1929 - 85 anni fa, l’inizio della più grande crisi economica della storia Business as usual Il crollo di Wall Street cietà occidentali è stato quello di credere che la storia dei fallimenti di borsa fosse vicenda del passato. Aprendo così, con superficialità, alle nuove istituzioni della finanza globale. Quelle che avrebbero generato bolle potenzialmente più devastanti che nel passato. In questo caso, possiamo dire che il crollo del ’29 non ha insegnato niente a tanta parte di società occidentale (e non, visto che il capitalismo cinese si riproduce per bolle). Ma cosa accadde precisamente a Wall Street alla fine degli anni ’20? Diciamo che “semplicemente” per la prima volta nella storia un brusco calo dei consumi di massa fece crollare il valore della massa di moneta investita su quei consumi e sulle industrie che a questi erano correlate. Tutti gli anni ’20 americani erano stati infatti il vero inizio dell’epoca di quelli che chiamiamo consumi di massa; questa fase di crescita economica si interruppe bruscamente alla fine di quel decennio causando una grave crisi che ebbe inizio il 24 ottobre 1929, durante la quale si verificò il crollo della borsa di Wall Street, a New York. E siccome i capitali generati in Usa erano stati reinvestiti altrove, in Germania ad esempio, la crisi da americana diventò mondiale. Inoltre, per tutti gli anni 20, l’acquisto e la vendita di titoli azionari, che erano diventati una sorta d’investimento di massa, poiché sembrava che la borsa potesse far guadagnare tanto in poco tempo, avevano generato una sorta di capitalismo dal basso, poi sviluppatosi di nuovo in Usa dagli anni ’80, che alimentò a dismisura la liquidità a disposizione delle grandi banche. Il crollo della borsa incise in modo particolare sull’economia, apportando conseguenze molto gravi, quali: la chiusura di intere filiere di fabbriche, licenziamenti e un ineditamente grave tasso di disoccupazione. Certamente fu favorita da un forte nucleo di ribassisti, annidati dentro Wall Street. Ma, business as usual, il capitalismo è questo. La crisi si diffuse anche in Europa provocando una progressiva diminuzione dei commerci. Particolarmente gravi furono gli effetti della crisi in Germania e in Austria. Specie in Germania dove la politica di austerità e rigore, seguita dal governo tedesco per affrontare la recessione e la crisi bancaria, spalancò le porte al consenso verso il nazismo (il Ndsap quadruplicò i consensi, da partito minoritario che era, in pochissimi anni). La crisi di Wall Street costituì così un grave fattore d’instabilità planetaria sia economica e politica, ponendo le basi per lo scoppio della II Guerra Mondiale. Certo non fu una crisi solo americana, i capitali che gonfiavano la bolla Usa non erano solo statunitensi, ma da quel paese si diffuse in buona parte del mondo. L’ottobre La storia del capitalismo si caratterizza così come quello che è: una lunga fila di crolli e di distruzioni di ricchezze del ’29 dovrebbe insegnare tanto ai nostri contemporanei. Anche se sembra, a torto, tutto così lontano. Eppure, leggendo caratteri e comportamenti di quella crisi, un reale senso di “sentirsi a casa” purtroppo ci pervade. BOXE - “Rumble in the jungle”, l’incontro di pugilato più famoso e più contraddittorio Alì-Foreman, 40 anni fa a Kinshasa di arruolarsi nell’esercito. Il campione in carica era George Foreman, un pugile con caratteristiche tecniche e caratteriali opposte a quelle di Alì e che aveva battuto Joe Frazier che a sua volta aveva battuto Alì nel cosiddetto “Scontro del secolo” nel 1971. Il campione era, dunque, il favorito. A organizzare il tutto fu l’ambiguo e istrionico manager Don King, che alla sua prima esperienza giocò subito d’azzardo: fece firmare due contratti separati a Alì e Fore- Alì voleva ritrovare le radici degli afroamericani ma finì a combattere per Mobutu, burattino sanguinario di Usa e Belgio man promettendo una borsa di 5 milioni di dollari che però non aveva, sperando di trovarli poi con un grosso sponsor. Lo sponsor lo trovò in Mobutu Sese Seko, sanguina- rio dittatore dello Zaire sostenuto dalla Cia e dagli ex coloni, cioè la corona belga. In questo grande spettacolo mondiale Mobutu voleva legittimare la propria forza agli occhi del mondo dopo che era salito al potere nel 1960 grazie ad un colpo di stato, sostenuto da Belgio e Usa, contro il governo democraticamente eletto di Patrice Lumumba. Lumumba aveva lottato ardentemente per un vera indipendenza del Congo (prima si chiamava Congo belga, poi Repubblica Democratica del Congo con Lumumba e poi Zaire per volere di Mobutu e dal 1997 Repubblica Democratica del Congo) mentre il Belgio voleva accordare un’indipendenza fittizia mantenendo quadri militari nell’esercito e l’influenza sulla provincia mineraria del Katanga. Il colonnello Mobutu era stato lo strumento per perpetrare gli interessi dei belgi nell’area e la volontà degli Usa di far fuori un simbolo pericoloso per il continente africano in quanto era tacciato di simpatie marxiste e che una volta attaccato dall’esercito belga e dai suoi ascari chiese aiuto prima all’Onu e poi all’Urss. Di questi risvolti politici in pochi ne parlarono e oggi tra film e documentari ne rimane poca memoria. Certo, non è che nel ricordo di quell’incontro manchino riferimenti al personaggio Mobutu come un dittatore feroce e soggetto a culto di personalità, ma la storia della sua ascesa viene sempre omessa. È questa la più grande contraddizione politica del campione e del sim- bolo Alì, considerato grande paladino dei diritti dei neri, dell’orgoglio afroamericano e della lotta contro la guerra in Vietnam, che però è andato a combattere per il simbolo dei dittatori burattini degli Usa e delle vecchie potenze coloniali, cioè per uno dei tanti militari al potere che non hanno fatto certo l’interesse e la fortuna dei popoli africani. Viene il dubbio quindi che il “Rumble in the jungle”, più che uno storico evento per motivi sportivi e politici, lo sia stato in quanto uno dei primi eventi che seguivano le regole della globalizzazione e della società dello spettacolo. A margine dell’evento infatti era stato organizzato un concerto di caratura mondiale con BB King, James Brown e le stelle della musica africana Manu Dibango e Miriam Makeba. Poi l’infortunio di Foreman in allenamento fece rinviare l’incontro e far sì che i due eventi fossero fatti in date diverse. L’incontro di pugilato fu disputato alle 4 di mattina per permettere la visione al pubblico americano. Vinse Alì da sfavorito. Un film che non poteva avere finale diverso. in uscita dal 16 ottobre 2014 7 stile libero INIZIATIVA - Il prossimo 8 novembre, al TeatrOfficina Refugio, Senza Soste organizza un incontro sul ruolo dei mass media e i linguaggi del potere. Renzi e Il Tirreno sotto la lente, ma non solo Q uando Obama parla del nuovo corso della sua amministrazione le parole più utilizzate per descrivere le nuove strategie in politica estera sono “smart” e “soft”. Aggettivi che vogliono far identificare l’esercizio del potere come meno aggressivo e più ragionato rispetto a quello dei “falchi” repubblicani dell’era Bush. In realtà lo smart power obamiano è figlio di una diversa strategia di perseguimento degli interessi statunitensi. Per dirla in poche parole, lo smart power si sviluppa su 3 principali direttrici: potenziamento delle relazioni diplomatiche, delega della risoluzione delle instabilità alle potenze regionali (Qatar e Arabia Saudita per quanto riguarda il medioriente) e forte condizionamento dell’opinione pubblica. A noi interessa proprio questo terzo aspetto, quello del condizionamento dell’opinione pubblica, dell’uso dei linguaggi e della rete con conseguente mappatura dei big data. Ma l’analisi dei linguaggi del potere e il cosiddetto “Effetto Orwell” sono interessanti da analizzare anche nell’Europa dei banchieri e dell’austerità. A fronte di un sistema liberista e monetarista che peggiora quotidianamente le condizioni di vita delle popo- Media e linguaggi del potere lazioni europee, lo schieramento mediatico a fianco delle elites politiche e finanziarie si è scatenato con una forza di fuoco senza precedenti. La piccola colonia Italia non si è certo sottratta a questo corso e dopo un golpe tecnicista poco convincente, dal punto di vista comunicativo, nell’applicazione delle politiche di tagli e austerità, i poteri forti hanno scelto il miglior attore presente sul mercato: Matteo Renzi. Ma dietro il grande im- bonitore c’è tutto l’apparato mediatico mainstream italiano con a capo il Gruppo L’Espresso. Anche i territori non sono risparmiati da questo esercito combattente come vediamo bene a Livorno, dove Il Tirreno dopo la sconfitta del Pd ha affilato ancora più le armi attuando una strategia aggressiva nei confronti del Movimento 5 Stelle. L’8 novembre dalle ore 17.30 al TeatrOfficina Refugio, Senza Soste organizza un dibattito sui media e i linguaggi del potere. Dopo un’introduzione ci saranno due relazioni di cui proponiamo una piccola presentazione di seguito. Dopo il dibattito ci sarà una cena a buffet. Primo intervento - L’effetto Orwell di Matteo Renzi Questo evento è un’occasione per fare il punto sul modello di comunicazione politica dell’attuale Presidente del Consiglio. Su quanto riprenda modelli degli ultimi vent’anni e su cosa in effetti rappresenti una reale differenziazione. Di sicuro il modello Renzi produce un effetto Orwell che, per l’assenza di un reale contromodello praticato, era assente persino nelle fasi euforiche del modello Berlusconi. Per effetto Orwell si intende a) un uso incontrastato dell’agenda politica dando per naturali le sue modifiche che avvengono invece su un solo soggetto; b) il protagonismo insistito di un solo personaggio su masse silenziose; c) la continua modifica degli indicatori statistici, nelle strategie di comunicazione, creando un effetto realtà differente a seconda delle diverse esigenze di propaganda; d) la rilettura del passato per lo stravolgimento politico dello scenario presente; e) l’effetto “reti unificate” che crea una realtà apparentemente senza alternative. Verranno presentati esempi, fatte analisi e valutazioni. Secondo intervento - Il Tirreno e la manipolazione della realtà Nell’epoca di internet e dei so- LE “TIRRENATE” - Il quotidiano di viale Alfieri scatenato contro la Giunta 5 Stelle T orna la nostra rubrica dedicata alle “perle” del Tirreno. Il più ricco del reame Inchiestona del Tirreno sui redditi dei consiglieri comunali: sfortunatamente il più ricco è il capogruppo del Pd Ruggeri, che deve il suo gruzzoletto di 98.386 euro alla lucrosa carica di consigliere regionale, dalla quale non si è ancora dimesso nonostante l’abbia giurato e spergiurato più volte. Al secondo posto la consigliera residua della destra, Amato, con 67.550 euro. Stavolta sembra davvero impossibile chiamare in causa gli odiati 5 Stelle. Ma la classe non è acqua, ed ecco il titolo giusto: “Agen il grillino con lo stipendio più alto”. Al lettore tipo, quello che sfoglia il giornale la mattina al bar, ancora assonnato, sembrerà così che Agen sia il consigliere comunale più ricco in assoluto. Che dire… Chapeau. Pericolo mortale Il sindaco di Livorno ipotizza l’uscita del Comune da Retiambiente, e Il Tirreno piange: “una posizione che rischia di far saltare un impianto organizzativo regionale su cui si sta lavorando (con difficoltà) da anni e di isolare Livorno in una partita che gestire in maniera autarchica sembra più difficile di una scalata del K2 a mani nude”. Piove, Comune ladro L’impianto su cui “si sta lavorando con difficoltà” sarebbe questo: Livorno entra in un consorzio con gli altri comuni e i mitici soci privati, portando in dote l’inceneritore che viene potenziato per bruciare la spazzatura di mezza Toscana. I debiti dell’Aamps vengono scaricati sulle bollette già gravate dall’obolo per l’offshore. Meglio il K2. Tutt’al più si cade in un crepaccio ma non si muore per la diossina. E vai col violino A proposito dell’offshore: chi crede che i giornalisti del Tirreno siano dei musoni incapaci di entusiasmarsi legga queste righe tratte dal solito paginone-inserzione pubbli- citaria dedicata al rigassificatore. Poesia allo stato puro. “È maestoso quello scafo nero che emerge dall’acqua, sovrastato da tubi, condotte e dai caratteristici serbatoi circolari (quattro) tutto di colore rosso, giallo e arancione. Una volta a bordo, la prima cosa che ci colpisce è la grande attenzione rivolta alla sicurezza. E con l’inquinamento, come la mettiamo? «Vengono eseguiti esami ai “cesti” di cozze qui sotto e i valori sono uguali a quelle coltivate a Gorgona». Prima di sbarcare, c’è il tempo di pranzare al tavolo col comandante e di fare i complimenti allo chef: tutti i piatti davvero molto buoni”. E soprattutto il conto lo paga la Olt! Si scopron le tombe, si levano i morti Da quel tragico 8 giugno in cui i lanzichenecchi sono arrivati in Comune, alcuni che sindacalisti in babbucce e papalina che non aprivano bocca dai tempi del cucco si sono risvegliati dal letargo. Ecco la Cgil all’attacco del Comune sulla sanità: “finora constatiamo un silenzio assordante sui temi sanitari, al di là delle uscite sulla stampa”. Il silenzio assordante è quello delle betoniere e delle ruspe fermi… I nostri si lanciano in un’appassionata difesa del modello per intensità di cure: “Rifiutarlo significa voler tornare agli anni del dottor Tersilli, il primario con il codazzo”. Se è per questo, di primari con il codazzo ce ne sono un sacco anche ora. Votano Pd e qualche volta li Bernabò lascia Livorno per evitare un travaso di bile dopo la sconfitta del Pd eleggono in Consiglio comunale. “Forse andava bene quando gli anziani stavano quattro mesi in ospedale?” polemizza la Cgil. No, certo, va bene ora che gli anziani dopo tre giorni li mandano a casa cial network quanto conta l’informazione generalista? E quanto incide sull’opinione pubblica la rete dei quotidiani locali gestiti dai grandi gruppi editoriali come La Repubblica-L’Espresso? I dati danno un calo del 40% di fatturato per questo gruppo, a cui com’è noto appartiene Il Tirreno, il quotidiano livornese più diffuso. Sembrerebbe quindi che la carta stampata sia ormai arrivata allo stadio terminale. Eppure si ha l’impressione che il giornale di Viale Alfieri sia ancora in grado di condizionare sensibilmente gli equilibri politici e gli orientamenti culturali a Livorno. Una questione interessante soprattutto alla luce della fine del monopolio Pd nell’amministrazione della città e dei profondi mutamenti in corso nel tessuto sociale. Proponiamo tre “casi di studio” da discutere insieme: il primo è il modo in cui viene trattata la questione dell’immigrazione, il secondo il famoso episodio dello striscione anti-sionista esposto durante Effetto Venezia e il terzo è il rapporto tra il Tirreno e la nuova amministrazione comunale. Redazione o al cimitero dei Lupi. Crisi d’identità Ecco come Il Tirreno commenta le prossime elezioni provinciali: “Intanto, in attesa del probabile appoggio grillino, Parodi si trova ad affrontare una bella bega d’identità. E con lui anche l’ex segretario di Rifondazione Alessandro Trotta, tra i promotori della lista, i buongiornini Raspanti e Bruciati (entrambi candidati) e i sei candidati vicini a Rifondazione presenti in lista. Tutti dovranno in qualche modo giustificare la presenza in lista di Lorenzo Gasperini, vicino a Fratelli d’Italia e alla pasionaria nera Marcella Amadio. Invece il Pd, che si presenta quasi dappertutto inciuciato con Forza Italia, non ha nessuna bega d’identità. È proprio per la sua identità che fa gli inciuci. I ritardi della Giunta Una cerimonia rievocativa - scrive indignato Il Tirreno - rischia di saltare per il ritardo dei rappresentanti della Giunta. “Poi in extremis l’arrivo della vice sindaco Stella Sorgente, con tanto di siparietto con un impiegato del Comune che si precipita sul posto in scooter per consegnarle la fascia tricolore dopo circa mezz’ora d’imbarazzo istituzionale”. Quando c’era Cosimi non era mai successo. Lo chiamavano “Ale lo svizzero” per la puntualità. PAGINA OTTO ANNO IX - n. 97 - in uscita dal 16 ottobre 2014 TITO SOMMARTINO B asterebbe il nome, Beitar, per capire la natura sociale e politica della principale squadra calcistica di Gerusalemme. Il Beitar Jerusalem Football Club nasce infatti nel 1936 come diretta emanazione sportiva del movimento sionista Beitar, fondato nel 1927 a Riga, in Lettonia, da una delle ali più radicali e conservatrici del sionismo. Fondatore del movimento Beitar, modellato sugli ideali di coraggio, dignità, onore, difesa dello stile di vita ebraico e annientamento della popolazione araba, un personaggio poliedrico di nome Ze’ev Jabotinsky: un po’ artista, un po’ letterato, un po’ soldato, l’ultranazionalista Jabotinsky nutriva un debole per Mussolini che nel 1934 a Civitavecchia gettò le basi di quella che da lì a poco sarebbe diventata la marina israeliana. Il club Quarta squadra di Israele insieme all’Hapoel Petah Tiqwa per titoli conquistati, il Beitar è visto in patria come la squadra simbolo dei “nudi e puri”, in contrapposizione a squadre come l’Hapoel Tel Aviv, i cui ultrà si professano comunisti e a favore della pace tra israeliani e palestinesi, e soprattutto gli arabo-israeliani del Bnei Sakhnin. Il club gerosolimitano, sia a livello di dirigenza che di tifoseria, è spiccatamente anti-arabo oltre i limiti del razzismo. Unica squadra israeliana a non aver mai tesserato, nella propria storia, un calciatore arabo, nel 2005 la dirigenza provò a cambiare rotta acquistando il calciatore nigeriano Ndala Ibrahim, musulmano. Ibrahim fu costretto a lasciare il club dopo pochissimo tempo dal suo arrivo, a causa della forte avversione nei suoi confronti manifestata dai tifosi del Beitar. Non è andata meglio un anno fa, quando sono stati acquistati i calciatori ceceni Il peggiore club al mondo CALCIO ISRAELIANO - Il Beitar Gerusalemme rappresenta la destra più estrema di Israele e raccoglie il peggio della feccia sionista. Tra i propri ultras, violenti e razzisti, anche gli assassini di Mohammed Abu Khdeir, il ragazzino palestinese torturato e arso vivo lo scorso luglio. Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev, ambedue musulmani: gli uffici della dirigenza del Beitar sono stati dati alle fiamme in un raid notturno. E meno male che il presidente, Arcadi Gaydamak, era trafficante d’armi d’origine russa e presidente del partito di estrema destra Social Justice. Sharon, Olmert, il Kach Se il Beitar è figlio del movimento di Jabotinsky, oggi molti dei suoi tifosi hanno scelto di an- Da Sharon ad Olmert passando per la Regev, il Beitar è la squadra della destra israeliana più conservatrice e xenofoba dare oltre e scavalcare da destra i fondatori del loro club. Molti, infatti, si identificano col partito nazionalista-religioso di stampo neosionista Kach, illegalizzato nel 1994 da Yitzhak Rabin che cadrà più tardi vittima proprio dell’estremismo sionista israeliano. Il Kach si fonda su 5 dogmi: La Grande Israele (Israele deve diventare interamente ebrea perché ciò risponde a un ordine divino e colonizzare con insediamenti ebraici massicci tutta la Cisgiordania e perfino la Striscia di Gaza), la deportazione degli arabi fuori da Israele, il rifiuto della democrazia (vista come una creazione occidentale contraria alla legge religiosa giudaica), lo stato religioso (il sistema giudiziario israeliano dovrebbe fondarsi sulla Torah e non sullo stato laico) e la legittimazione della violenza per garantire l’unità della Terra d’Israele. Nel libro Gerusalemme senza Dio (ed. Feltrinelli, pp. 208, 2013, 16 euro), Paola Caridi spiega come la propensione verso destra del Beitar e dei suoi tifosi è sempre stata costante. Molti giocatori sono perfino stati membri del gruppo armato clandestino. Insomma, la passione sportiva si è da sempre fusa con l’ideologia politica. Per capirlo basta guardare gli album fotografici che ritraggono i vip che negli ultimi decenni si sono accomodati in tribuna. Dall’ex falco Ariel Sharon all’ex premier e sindaco di Gerusalemme Ehud Olmert. Al Teddy Stadium, Olmert - ora condannato per corruzione - sedeva nel suo palco personale. Fino allo scorso anno faceva il possibile per non perdere neanche una partita. Quando il volume dei cori razzisti della tifoseria è diventato troppo alto per non essere imbarazzante, ha ritenuto più opportuno lasciare l’abbonamento ad altri. La Familia È su queste basi che si fonda La Familia, il principale gruppo ultras del Beitar, celebre, oltre che per il fanatico sostegno alla causa sionista, per essere una delle più facinorose, xenofobe, razziste e violente tifoserie al mondo, da sempre incitante all’odio contro arabi e musulmani. La Familia, un nome sefardita in netta contrapposizione linguistica rispetto all’élite tradizionalmente askenazita dello stato di Israele, lega la propria fama non solo agli atteggiamenti di ostilità contro calciatori arabi, neri e tifoserie avversarie politicamente opposte, ma anche a quelli estranei all’am- bito calcistico. Dicevamo della rappresaglia incendiaria contro l’acquisto dei due giocatori ceceni. Poche sere prima La Familia aveva esposto lo striscione “Beitar puro per sempre”. Non una sera qualsiasi, ma quella della sfida contro “gli arabi” del Bnei Sakhnin nel Giorno della Memoria. Jan Talesnikov, il viceallenatore della squadra di Gerusalemme, aveva commentato: “Danno fuoco agli edifici, prima o poi bruceranno la gente”. Parole atrocemente profetiche: è infatti in seguito ad una manifestazione organizzata da La Familia che viene barbaramente ucciso il ragazzino palestinese Mohammed Abu Khdeir, uno degli omicidi di “Puri per sempre” è lo slogan degli ultrà che non vogliono musulmani e neri nella propria squadra gruppo più efferati che si ricordino. La manifestazione, svoltasi al grido di slogan quali “Morte agli arabi”, “Arabi finocchi”, ha visto prima una serie di aggressioni a uomini, donne e bambini arabi in un centro commerciale ed è poi finito con il sequestro di un ignaro sedicenne palestinese che è stato linciato, costretto a bere benzina e infine bruciato vivo tra gli alberi della foresta attorno alla città. I sei assassini sono tutti tifosi del Beitar e tre di loro sono membri de La Familia.