Senza Soste n° 97 (ottobre)

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Senza Soste n° 97 (ottobre)
Periodico livornese indipendente - anno IX n. 97 - in uscita dal 16 ottobre 2014
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Tony Blair di
Rignano o ducetto
di Palazzo Chigi?
NIQUE LA POLICE
C
’è una venatura comica nella vicenda politica di Matteo Renzi che
aiuta molto a non prenderlo sul serio.
Forse questa venatura c’è per compensare l’assenza, completa, di originalità
del personaggio. Che risulta sempre un
minore, un’interpretazione, un remake,
un remissaggio di qualcosa d’altro. Se
n’è accorto anche Beast, l’artista che a
Milano ha esposto in strada un quadro
con innumerevoli Renzi che stringono
la mano a Mario Draghi e accolgono
Angela Merkel. Prendiamo così due,
tra i personaggi possibili interpretati da
Renzi, guardiamoli bene per capire che,
non essendoci originalità, le stesse politiche che interpretano sono ondivaghe.
Primo personaggio: il Tony Blair di Rignano. In effetti, anche qui è dura vedere
un certo spessore nell’imitatore, cioè in
Renzi, se non come peggiorativo dell’originale. È vero infatti che Tony Blair,
all’inizio della carriera come segretario
del Labour, si sganciò subito dai sindacati. Attaccando poi, abbastanza duramente, una legislazione britannica del
lavoro già provata dagli anni Thatcher.
Ma è anche vero, e questa è sicuramente la parte della storia che interessa più
a Renzi (ancor più di eliminare i sindacati) che frutto di queste politiche sono
il recente miliardo di investimenti nelle
start-up tecnologiche della sola Londra
da parte del venture-capitalism. C’è un
però, che rende impossibile l’imitazione
di queste politiche da parte di Renzi. Il
fatto che la Gran Bretagna ha metà Pil
in servizi finanziari, caratteristica fortunamente non riproponibile in Italia.
Oltre a quella di avere sovranità monetaria. Quindi imitare Blair, da parte di
Renzi è strutturalmente impossibile. O
meglio, lo si imita solo nella parte dello
smantellamento dei diritti dei lavoratori.
Il resto sono chiacchiere per giornalisti
e per intrattenere il pubblico. A Renzi
non resta quindi, per rimanere in piedi
politicamente, che la strada del ducetto
di Palazzo Chigi. Anche questo è un
modello non originale che, tutte le volte
che lo si è voluto praticare, ha portato
ad un disarcionamento dell’aspirante
caudillo. Infatti, come per Craxi prima
e Berlusconi poi, la strada dell’autoritarismo è stata resa praticabile fino a
quando si sono tenuti due punti fissi:
a) attenzione agli equilibri tra poteri
forti; b) valorizzazione degli interessi
personali piuttosco che concessione di
cariche istituzionali di tipo nuovo. Renzi vuol evidentemente rompere questo
schema perché, nella crisi, si salvano
solo alcune cordate e non complessivi
equilibri di potere. Cordate che per lui
si chiamano comunicazione e parte del
mondo immobiliare e finanziario. Tanto per essere importante, un po’ poco
per fare da ducetto. Il mancato Tony
Blair di Rignano sentirà mancarsi il terreno sotto i piedi ancora per un po’. Poi
si vedrà, i tempi non sono di quelli che
favoriscono le certezze. Per tutti.
RESISTERE
AL CEMENTO
La vicenda degli Orti Urbani riporta al centro del dibattito la cementificazione e il
consumo di territorio come danno per la città. Un’urbanistica targata Pd, non pianificata
ma contrattata coi privati, col risultato di aver esposto al cemento ogni pezzo della città
I
ntervista con Simona Corradini, architetto e per 24 ore assessore alla mobilità
della giunta Nogarin prima che la base 5
Stelle costringesse il sindaco ad un dietrofront per mancanza di purezza (era stata
candidata nella Lista Cannito). Simona
adesso segue da vicino la vicenda degli
Orti Urbani di via Goito ed in questa intervista ci spiega le vicende urbanistiche
di quello spazio e della città in generale
1. La vicenda degli Orti Urbani di via
Goito e lo scontro con Clc hanno riportato a galla il tema della cementificazione e del consumo di territorio. Perché,
in una città che ha perso 20.000 abitanti
negli ultimi 20 anni e che ha migliaia
di case sfitte, si continua a costruire?
Negli ultimi venti anni è mancata a Livorno una cultura della pianificazione,
secondo cui il territorio va governato e
la città esistente va valorizzata. Il Piano
Strutturale che rappresenta il quadro di
riferimento per tutte le trasformazioni
urbanistiche è stato stravolto, il Nuovo Centro doveva essere una nuova
centralità per i quartieri periferici con
al centro una grande area verde, è diventato l’ennesima colata di cemento,
con immobili sparsi dappertutto, tanto
per fare un esempio. Il Regolamento
Urbanistico, che è la parte operativa del
Piano Strutturale, che detta le regole
per ogni singola area, è stato oggetto di
innumerevoli varianti, tra le quali quelle
dell’Abitare Sociale Coteto e Fiorentina.
Insomma siamo in una situazione direi
quasi impazzita, un puzzle che è difficile
da ricomporre, poiché ogni pezzo della
città sembra andare per conto proprio e
dappertutto sono state realizzate nuove
volumetrie residenziali. Anche la parte
della città esistente è stata riempita con
nuove abitazioni, sia per cambio di destinazione d’uso che con la realizzazione
di nuovi condomini specie nelle aree produttive sparse in città, in via Mastacchi
l’ex distilleria, in Borgo dei Cappuccini,
in via Ricasoli con l’ex Astoria, in piazza
XX Settembre con l’ex Peroni, in Venezia con l’ex Paradisino. Una gestione
del genere ha visto il pubblico e il privato verso un obiettivo comune, realizzare
più volumetrie e più appartamenti possibili e ha consentito il radicamento di
una cultura incentrata sulla speculazione
edilizia. Il calo della popolazione cui hai
accennato, a mio avviso non è un fattore
che bloccherà le speculazioni e il cemento, anzi. Molte aree destinate a servizi
ex art. 44 del Regolamento Urbanistico
sono state soppresse ma è stato sfruttato
il loro indice edificatorio per riversarlo
nella zona di Coteto. Adesso sono congelate, per cui diventa importante l’attuale fase di revisione del Piano Urbanistico
per rimettere a posto almeno il pregresso,
poiché in base alla nuova proposta di
legge Marson l’obiettivo è tutelare e valorizzare il patrimonio territoriale, cioè
ciò che già esiste, non abbiamo bisogno
di fantasmagoriche proiezioni di sviluppo, quel periodo in urbanistica è passato
e ne stiamo subendo le conseguenze.
2. Nello specifico, puoi provare a ricostruire la vicenda di quel terreno
di via Goito e spiegare perché vogliono costruire proprio in quello che
potrebbe essere uno spazio pubblico importante per il quartiere?
L’area di via Goito è considerata dal
Piano Strutturale e dal Regolamento
Urbanistico un’area strategica per la riqualificazione urbana (art. 39). Fa parte
di tutte quelle aree a servizi previsti ma di
proprietà di privati, che il Comune quindi non può attuare direttamente. Il privato ha l’obbligo di cedere l’area al 100%
o al minimo dell’80% in cambio di una
sorta di premio, vi può costruire una
volumetria minima, pari allo 0,1mq per
ogni mq di superficie. Ad esempio l’area
di via Goito, che ha una superficie di
66.130 mq e può generare una superficie
edificabile di 6613 mq. Nel 2012 è stato
approvato uno “studio unitario”, presentato da Coop Italia, messo a punto tra il
2009 e il 2011, un documento progettuale che rappresenta il primo step per poi
chiedere il permesso edilizio al Comune,
in cui però non sono precisate le tempistiche, cioè entro quanto avrebbe dovuto
essere firmata la Convenzione, né è allegato lo schema di Convenzione, almeno
da quanto risulta nella delibera di approvazione. Quest’ultima diceva che il privato avrebbe realizzato la trasformazione
previa stipula di convenzione, secondo
lo schema da approvare con determina
dirigenziale, ovvero senza ripassare nuovamente dal Consiglio. Nel 2013 l’area
di via Goito è stata modificata nell’ambito della Variante Abitare Sociale Coteto
e la superficie edificabile è stata fissata in
7420mq. È chiaro che siamo perfettamente coerenti con la logica generale che
vede ogni singola area come potenziale
generatore di volumetrie residenziali, in
un’approssimativa contrattazione pubblico-privata, mentre è mancato totalmente
il ruolo dell’amministrazione che avreb-
be dovuto favorire la riqualificazione
urbana del quartiere, mentre invece ci si
preoccupava soltanto della parte edilizia.
3. I diritti che dice di accampare Clc
sono acquisiti e definitivi oppure
l’Amministrazione comunale può
sempre fare qualcosa per impedire questa ennesima cementificazione?
Iniziamo con l’affermare che l’Amministrazione deve farsi carico per quella
zona di raggiungere l’obiettivo della
riqualificazione urbana dell’intero ambito che avrà effetti positivi sia sul quartiere sia sulla città intera, si tratta di avere
come obiettivo principale la realizzazione di un buon piano dell’intera area,
evitando l’ennesima colata di cemento
fatta di strade e parcheggi a raso, stile
Ipercoop e Nuovo Centro per intendersi,
favorendo la vocazione dell’area che rappresenta un pezzo di campagna dentro
la città. Inoltre non abbiamo dati precisi
sul consumo di suolo avvenuto nell’intero quartiere e nell’ambito urbano in
cui ricade via Goito, poiché sarebbe
opportuno verificare quanta superficie è
stata edificata rispetto a quella consentita dal Regolamento Urbanistico e dal
Piano Strutturale, per comprendere se
veramente il nuovo volume residenziale
è compatibile con le caratteristiche del
quartiere, già saturo di costruzioni ed
è sostenibile per l’intera area. Infine è
bene aver presente che la Regione Toscana ha predisposto una legge, ancora
in discussione, che consentirà di salvare
aree come quella di via Goito, prive di
urbanizzazioni, dalla speculazione edilizia e da nuove occupazioni di suolo.
Redazione
2
internazionale
anno IX, n. 97
FINANZA - Un quadro d’insieme sui possibili scenari economici mondiali dovuti alle “bolle” speculative
Quante sono le crisi che ci minacciano?
TERRY MCDERMOTT
M
olto spesso, nel lessico politico comune, si usa il termine “bolla” per indicare l’esplosione del mercato finanziario-azionario in grado di sinistrare non solo,
o non tanto, le borse, ma anche
l’economia. L’ultima, quella del
settembre 2008, è stata talmente
forte da sinistrare tutto il sistema
bancario europeo (di qui la crisi
degli anni successivi), una parte
importante del sistema finanziario
americano (vedi Lehmann) e quella vasta parte di mondo connessa
a quella crisi (dai fondi sovrani
arabi a quelli russi etc.). Le bolle
successive, come quella dei mercati emergenti dei mesi scorsi, o la
crisi greca e cipriota sono solo epifenomeni, come la crisi dei prezzi
degli alimentari che ha alimentato le proteste arabe del 2011,
della Big Bubble del 2008. Dopo
quell’esplosione si pensa spesso
che la bolla possa tornare dagli
Usa, pronta magari a colpire come
qualche anno fa. Beh, se si vuole
la situazione è persino peggiore.
Ovvero le bolle potenziali, devastanti, in grado di colpire il pianeta
come sei anni fa, si sono moltiplicate. Come la moltiplicazione di
valuta americana immessa dalla
Federal Reserve americana dal
2009 ad oggi e quella fatta dalle
consorelle giapponese e britannica
nelle rispettive valute. Dalle crisi speculative del ‘600 a Lehman
Brothers è sempre accaduto così.
Tanto più in un mercato, ad esempio, del debito sovrano dove vanno
alla grande, grazie a denaro regalato
dalle banche centrali di quasi tutto il
mondo, anche i titoli di paesi come
il Ruanda. Ma prima o poi, il bluff
finanziario verrà scoperto anche
questa volta. Abbiamo quindi stimato i botti più clamorosi, ma niente
affatto impossibili, che possono creare ben più di una nuova Lehmann.
Qualcosa di epocale. In questi casi si
parla di situazioni a rischio, non di
bolle sicure. La bolla, infatti, a differenza di sei anni fa è un fenomeno
ben chiaro a tutti. Anche a chi ha
fatto, prima di Lehman, professione
di scetticismo. Per cui non è che nessuno, nel frattempo, farà nulla per
impedire questi botti. Solo che i casi
che indichiamo sono di più difficile
soluzione. Infatti i nomi citati fanno
tutti tremare i polsi.
Botto cinese
Cominciamo con l’esotico. Se il botto giapponese, avvenuto nei primi
anni ’90, in fondo è una delusione
(tutto è rimasto confinato in quel paese), il botto cinese potrebbe regalare
un fragore che si espande ben oltre
i confini della Grande Muraglia.
Motivo? Il sistema bancario ombra
cinese che spesso sfugge persino al
controllo del Partito. E ha già ha
generato fallimenti. Poi c’è la bolla immobiliare che regolarmente
esplode e genera città fantasma con
milioni di vani disabitati. E non è da
trascurare il rallentamento dell’eco-
nomia cinese. E se
scoppia una bolla
grossa in Cina c’è
già pronto il cancello di contagio
per il mondo globale: Hong Kong.
Le dimensioni del
problema sono tali
che neanche Mao
ha rappresentato
una minaccia per il
capitalismo come
il possibile botto
finanziario cinese.
Botto italiano
Torniamo subito
a casa per goderci
un primato: siamo
il terzo mercato
obbligazionario al mondo. Il nostro
debito pubblico è un affare per tutto
il pianeta. Infatti non a caso l’affare, cioè il mercato, negli ultimi anni
si è allargato nonostante la politica
di austerità. Tutti i grafici danno il
debito pubblico italiano verso l’alto.
Non per le pensioni o la sanità o la
scuola. Ma perché ci vengono prestati sempre più soldi indebitandoci
sempre di più per ingrossare l’affare.
Solo che non possiamo continuare
all’infinito. Ma consoliamoci : in
caso di botto, come scrivono gli inglesi, possiamo, forza del paragone,
far apparire Lehmann come un picnic.
Botto francese
Mais oui, il botto che non ti aspetteresti. Quello più nascosto dalla
propaganda. Anche perché, a regola, i costi del salvataggio francese dovremmo pagarli proprio noi
italiani. Un po’ di esempi. Di dove
è la banca a maggior rischio botto
globale? Francese. E quale è il paese maggiormente debitore verso la
Francia? L’Italia. E quale è il paese
che più si è indebitato per salvare le
proprie banche dopo Lehman? La
Francia. Avete capito da soli: il botto del 2008 ha sinistrato le banche
francesi. Il governo si è indebitato
per salvarle, o meglio per salvaguardare i loro profitti, e l’Italia è il maggior creditore di quel paese. Inoltre
il debito francese è raddoppiato in
soli 5 anni (arrivando a livelli italiani). Se andiamo in grossa crisi
Le bolle potenziali,
devastanti, in grado
di colpire il pianeta
come sei anni fa, si
sono moltiplicate
noi, per dirne una, fanno prima il
botto loro. Sarebbe qualcosa genere
champagne, da non dimenticare. Se
non siete ancora stupiti, aspettate la
prossima puntata. Dove parleremo
del botto spagnolo, del botto tedesco e del superbotto americano (i
soliti esagerati). In fondo non è un
mondo noioso.
RESISTENZA A ISIS - “Carta sociale del Rojava”: l’organizzazione di un sistema socialista, libertario e federalista
LEONARDO FRASSANO
N
ei terribili giorni dell’assedio
dell’Isis alla città di Kobanê, il
mondo è rimasto a bocca aperta di
fronte alla straordinaria resistenza
dei miliziani curdi agli attacchi delle bande jihadiste, meglio armate e
numericamente superiori. Eppure,
nel caos mediatico, si è continuato,
più o meno intenzionalmente, a
non raccontare il cuore pulsante di
questa vicenda: l’eccezionale rivoluzione politica, sociale e culturale
sperimentata nel Rojava. Mentre su
Twitter si parlava già di “Spagna del
‘36 dei nostri tempi”, tra indifferenza e vuoti quadretti a “tinte rosa”
sulle guerrigliere, il vuoto dell’informazione - purtroppo non solo
quella mainstream - ha costretto i
curdi a rompere l’isolamento con
un’eclatante sollevazione, costata
già decine di vittime. Per smentire un antico proverbio secondo cui “gli unici amici dei curdi
sono le montagne”, ci sono alcuni
passaggi-chiave da chiarire, a partire dall’arresto di Abdullah “Apo”
Oçalan, fondatore del Pkk (Partito
dei Lavoratori del Kurdistan), dal
1998 unico detenuto dell’isolacarcere turca di Imrāli. Durante la
prigionia, una profonda autocritica
ha condotto “Apo” al superamen-
L’esperimento politico curdo
to dell’ideologia marxista-leninista
di stampo nazionalista. Queste le
sue parole: “È diventato chiaro che
la nostra teoria, programma e prassi
degli anni ’70 non hanno prodotto altro che futile separatismo e violenza
e, ancor peggio, che il nazionalismo
cui avremmo dovuto opporci, ci infestava tutti”. La lettura di Nietzsche,
Braudel, Wallerstein, ma soprattutto
del pensatore libertario statunitense
Murray Bookchin, ha spinto Oçalan
ad abbracciare una visione socialista
libertaria, ecologista e femminista,
per certi versi simile al neozapatismo.
Questa evoluzione, “verticale” e autorevole, ha prodotto nel Pkk e negli
altri partiti che oggi formano il Kck
(Confederazione delle Comunità del
Kurdistan) un intenso
dibattito non scevro di
attriti, che si è concluso
nel 2005 con l’adozione
di un nuovo programma per la nazione curda (estesa tra Turchia,
Siria, Iran e Iraq), e per
tutto il Medio Oriente,
definito “Confederalismo Democratico”.
Esso propone, secondo principi di
pluralismo etnico e religioso, democrazia partecipativa, parità di genere
assoluta e rispetto dell’ecosistema,
l’abbandono della forma Stato in favore dell’autogoverno di cantoni confederati. Le parole di Bookchin aiutano a capirne le idee di base: “Chiedere la “decentralizzazione” [...] senza
libertà di partecipazione ai processi
decisionali a tutti i livelli e senza proprietà, produzione e ripartizione comune dei mezzi materiali a seconda
delle necessità individuali, sarebbe
puro oscurantismo”. Allo stesso tempo, il Pkk ha avviato un processo di
pace con la Turchia, ritirando unilateralmente il proprio braccio armato
(Hpg) oltre il confine e sostenendo
oggi il parlamentare Partito Democratico dei Popoli (Hdp), punto di
riferimento per la sinistra turca. La primavera siriana, sfociata in
guerra civile nel 2012, ha imposto ai
curdi siriani del Pyd (Partito di Unità
Democratica, legato al Pkk) di proteggere la popolazione del Rojava
(Kurdistan occidentale), una vasta
area che si estende lungo tutto il nord
della Siria. Per due anni le Ypg (Unità
di Difesa del Popolo) e Ypj (Unità
Popolari di Difesa
Femminili) hanno difeso dall’Is le
popolazioni autoctone: curdi, ma anche armeni, assiri,
arabi, turcomanni
e ceceni, che hanno potuto convivere in pace mentre il
resto del paese sprofondava nel caos.
Il vuoto di potere del regime di Assad
ha consentito di sperimentare per la
prima volta i principi del Confederalismo Democratico, con la creazione
di tre cantoni autonomi confederati:
Afrin, a ovest, Kobanê al centro e
Cizire a Est. Il patto sociale di base
è stata la straordinaria e avanzatissima “Carta sociale del Rojava”, la
cui applicazione, incluso il ruolo imprescindibile delle donne nelle istituzioni, è stata garantita dal Tev-Dem,
movimento trasversale ai partiti locali che promuove assemblee per la
risoluzione di problemi comunitari.
Una realtà ben diversa dalla Regione Autonoma del Kurdistan Iracheno (Krg), un quasi-stato alleato degli
Usa dai tempi della guerra del Golfo e difeso dall’esercito dei peshmerga, fedeli al conservatore Barzani
e di stanza solo in quell’area. Non
furono infatti loro
a salvare dal massacro gli Yazidi,
bensì i guerriglieri politicamente
scomodi del Pkk,
chiamati erroneamente peshmerga
come le eroine
e gli eroi di Kobanê, protagonisti di una vera e
propria rivoluzione “incompresa”,
soprattutto per un’area del mondo
martoriata da regimi dittatoriali,
guerre, ingerenze straniere e conflitti
etnico-religiosi, e non a caso percepita come nemico n.1 dal Califfato
e dai suoi potenti amici.
Nei giorni dell’assedio
dell’Isis nessuno parla
del sistema politico
curdo. Per molti
è la “Spagna del ’36
dei nostri tempi”
in uscita dal 16 ottobre 2014
3
interni
JOBS ACT - La norma cardine di tutto il diritto del lavoro sotto attacco da parte del governo Renzi
Perché difendere l’articolo 18
FRANCO MARINO
A
volte succede che chi ci governa ci racconta storie prive
di fondamento, ma noi neanche ce
ne accorgiamo. Nel caso di Renzi
siamo addirittura in presenza di un
imbonitore di talmente alto livello,
che spesso le sue storielle sono raccontate così bene che l’ascoltatore
rimane ipnotizzato e non verifica quanto sta sentendo. In questo
caso parliamo del dibattito sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, una norma di civiltà (come
l’abbiamo più volte definita nelle
nostre analisi degli ultimi anni) che
pare oggi in serio pericolo.
Gli investitori stranieri
La cosa più insensata che si sente
in giro è il fatto che gli investitori
stranieri non vengono in Italia per
colpa dell’articolo 18 (avete infatti mai letto di una grande azienda
straniera che ha annunciato espressamente di voler venire in Italia
solo in caso di abolizione della
norma sui licenziamenti?). La porta ai capitali di rapina (o mordi e
fuggi), invece, era già stata aperta
nel 2012 dalla cosiddetta “Riforma Fornero” quando è stato tolto
l’obbligo di motivare l’utilizzo di
contratti a tempo determinato (la
cosiddetta causalità del contratto).
Dopo il decreto 34/2014 (cd. Jobs
Act di Renzi) e la totale liberalizzazione e applicazione del principio
di acausalità al contratto a tempo
determinato, gli imprenditori possono fare come vogliono, avere
10 assunti a tempo indeterminato
e 100 a tempo determinato senza
dover spiegare perché (cioè senza
dover specificare le esigenze produttive o organizzative). Insomma, il mercato del lavoro italiano
è già straflessibile, con una miriade
di forme contrattuali precarie ed
atipiche oltre alla appena descritta normativa letale sui contratti a
termine, e non si capisce quindi
come possa essere incredibilmente
definito “troppo rigido”. Semmai
ci sarebbe da capovolgere i termini
del discorso: il capitalismo globale
investe laddove ci sono salari tipo
quelli polacchi o serbi, quindi per
investire in Italia chiede salari da
fame per avere garanzia di profitti,
e l’abolizione dell’articolo 18 è un
buon viatico per la realizzazione di
questa condizione. Ecco, abbiamo
trovato il motivo per cui opporci e
resistere.
Un po’ di storia
L’articolo 18, infatti, non ha niente
a che fare con questioni produttive o salariali, perché serve solo a
tutelare il lavoratore da abusi, licenziamenti discriminatori oppure da licenziamenti discriminatori
mascherati da falsi problemi di
natura economica. Fu pensato e rivendicato, infatti, dopo l’ondata di
licenziamenti “politici” e sindacali
fatti dalla Fiat con a capo Vittorio
Valletta (il Marchionne degli anni
’60). Lo Statuto dei Lavoratori, in
precedenza votato al Senato, venne
approvato il 14 maggio 1970 dalla
Camera con 217 voti a favore (la
maggioranza di centro sinistra –
Dc, Psi e Psdi unificati nel Psu, Pri
– con l’aggiunta del Pli, al tempo
all’opposizione) e con l’astensione Pci, Psiup e Msi oltre che dieci
voti contrari. Pci e Psiup volevano
l’estensione anche alle aziende sotto i 16 dipendenti. Il Ministro del
Lavoro
dell’epoca, il democristiano Donat
Cattin, strigliò
i malumori del
padronato e della destra, mentre
i socialisti, all’epoca al governo
con la Dc nell’era del cosiddetto
“centrosinistra”,
esultarono (l’estensore,
Giovanni Brodolini era uno di loro) e
dichiararono: “Finalmente la Costituzione entra in fabbrica”. Erano anni di scioperi (veri e lunghi)
e proteste e la politica istituzionale
era stata costretta a codificare le
rivendicazioni di un movimento
operaio sempre più vasto e conflittuale.
L’importanza dell’articolo 18
Ma perché è così importante l’articolo 18? Semplice, perché senza
l’articolo 18 saranno solo il ricatto e la paura a regolare i rapporti
tra capitale e lavoro, tra imprenditore e lavoratore. Ma c’è di più.
L’articolo 18 è l’essenza stessa del
diritto del lavoro. Chi mai chiamerà in causa la propria azienda per
stipendi arretrati da avere o per
mancanza di sicurezza se la legge
permette al datore di rivalersi su
di lui con un licenziamento che al
massimo sarà sanato con un pagamento di indennità e non con il
reintegro, in un momento in cui la
disoccupazione è alle stelle? L’articolo 18 non è né causa né stimolo
per occupazione
o economia, è
però l’unica norma che riesce (o
meglio, riusciva,
prima che la riforma Fornero
iniziasse a decapitarla) a tenere
in equilibrio e
regolare i rapporti tra capitale e lavoro. Se
venisse abolito
assisteremmo ad una inimmaginabile escalation negativa su salari e sicurezza. E quelli che non ne
possono già ora usufruire? L’esistenza dell’articolo 18 è comunque
un elemento di forza per il mondo
del lavoro, che poi si esprimerà nei
contratti nazionali di cui poi usufruiranno come base salariale e
normativa anche coloro che non
ne beneficiano. Se chi oggi è più
tutelato, grazie anche all’articolo
18, perde forza nei confronti del
capitale, a cascata c’è un arretramento di tutte le forme e situazioni
contrattuali, cioè di tutto il mondo
del lavoro.
I falsi numeri
La favoletta dice più o meno così:
Senza l’articolo 18
saranno solo il ricatto
e la paura a regolare
i rapporti tra capitale
e lavoro e ne
risentiranno salari
e sicurezza
“Quello dell’articolo 18 è un
falso problema,
perché riguarda
solo 3mila persone all’anno
in un paese di
60 milioni di
abitanti”.
La
teoria di Renzi,
tra l’altro spiegata spostando
numeri come se
fossero noccioline, parte però
da un punto clamorosamente
fuorviante, ossia quello delle
cause di lavoro
riguardanti l’articolo 18 e non,
come invece dovrebbe essere,
quello dell’intera platea dei
soggetti ai quali
tale articolo viene applicato. Se
infatti l’articolo 18 ha come
conseguenza
solo un numero limitato di
cause di lavoro
è perché è una
legge di tutela.
Vuol dire quindi che funziona
benissimo nel suo scopo, perché
agisce come deterrente a licenziare
per le imprese. L’articolo 18 svolge
quindi il suo compito di tutela per
circa 6 milioni e mezzo di lavoratori e lavoratrici.
Giustizia sociale e diritto
L’essenza dell’articolo 18 va anche
oltre il mondo del lavoro. È una
norma a tutela della giustizia sociale ma anche dell’intero impianto del diritto. Ce lo spiega l’avvocato Marco Guercio in un articolo
uscito sul suo blog: “Provate per
un momento a pensare a due terreni confinanti di proprietà di due
persone, i soliti Tizio e Caio, che
hanno costruito una casa ognuno
sulla sua proprietà. Pensate a questi due terreni come ad un unico
terreno perché tra le due proprietà
non è mai stato eretto alcun muro
nonostante sia chiaro ad entrambi quale sia il confine per come è
indicato al catasto. Ora provate a
pensare ad uno dei due proprietari,
Tizio, che un bel giorno, approfittando, ad esempio, dell’assenza del
vicino, decide di erigere un muro
e, deliberatamente, lo costruisce 50
metri all’interno della proprietà di
Caio sottraendogli quindi svariati ettari di terreno. Ora pensate al
malcapitato Caio che tornando a
casa vede questa costruzione che
invade letteralmente casa sua e
che, infuriato, decide di rivolgersi
ad un avvocato e, quindi, ad un
tribunale per ottenere la rimozione
coattiva del muro. A questo punto
pensate al povero Caio che si sente
dire dall’Avvocato e dal Giudice
che purtroppo, a seguito di una
recente riforma, il muro non si
può più abbattere e che, al limite,
lui avrà diritto ad un risarcimento
del danno, peraltro in via forfetaria e quindi neanche commisurato
all’effettiva perdita e all’effettivo
danno ma compreso tra 10.000
euro e 20.000 euro. Il muro, però,
se lo tiene e la proprietà del terreno sottratto, in pratica, non è più
sua. Questo che può sembrare solo
un esempio è esattamente lo schema che spiega la riforma dell’art.
18 dello Statuto dei lavoratori. Nel
nostro ordinamento, infatti, esistono due forme di risarcimento del
danno che, ovviamente, possono
essere azionate a fronte di una
Investimenti? Con il
principio di acausalità
del contratto
precedentemente
introdotto da Renzi,
gli imprenditori
possono già fare
come vogliono
condotta illegittima posta in essere
da qualcuno che lede un nostro diritto: il risarcimento in forma specifica (rimetti tutto a posto come
prima) ed il risarcimento per equivalente (mi paghi quello che hai
rotto). La prima soluzione consente al creditore, cioè a colui che ha
subito il danno ingiusto derivante
da un atto illecito o da un inadempimento contrattuale, di ottenere,
ove possibile, il ripristino della situazione precedente al verificarsi
della condotta illegittima. Nel caso
del muro, quindi, il risarcimento in
forma specifica consiste nell’abbattimento dello stesso a spese del prepotente Tizio. La seconda ipotesi
è l’unica esperibile nel caso in cui
non sia più oggettivamente possibile (si pensi al danneggiamento o al
deterioramento di beni infungibili)
ottenere il ripristino della situazione precedente per vari motivi oppure quando il creditore danneggiato possa scegliere questo tipo di
risarcimento perché lo ritiene il più
vantaggioso. Ebbene la reintegra
nel posto di lavoro del lavoratore licenziato in maniera illegittima dal
datore di lavoro non è nient’altro
che una forma di risarcimento in
forma specifica ed è sempre possibile perché il Giudice può sempre
ordinare al datore di lavoro di restituire al danneggiato ciò che gli
è stato tolto in ragione di un atto
illecito, ovvero il suo posto di lavoro. È prevista dall’art. 18 st. lav. ma
in un certo senso non ce ne sarebbe
stato bisogno perché, si ripete, è un
principio generale del diritto civile,
del codice civile di cui le norme in
tema di lavoro sono parte integrante essendo collocare nel libro V, appunto, del Codice Civile.
4
Livorno
anno IX, n. 97
RIFIUTI - Le proposte dei comitati all’Assessore all’Ambiente e all’amministratore della municipalizzata
FRANCO MARINO
L
e politiche sui rifiuti sono diventate una bussola importante
per giudicare l’operato di un’Amministrazione. Perché rappresentano un’opportunità di investimento
pubblico con annessi posti di lavoro
e soprattutto perché, se applicate con
sapienza, possono rappresentare un
vero elemento di cambiamento di approccio economico ed ambientale. L’economia circolare Fino ad oggi si è pensato a produrre
in modo casuale ed a consumare in
modo spropositato e acritico, producendo milioni di tonnellate di rifiuti
da bruciare o gettare in discarica con
tutti i problemi ambientali e di salute
annessi. Una cultura della crescita
insensata che ci ha portato al punto di superare il limite di consumo
rispetto a quanto la terra può dare.
Il futuro invece passa dall’economia
circolare, cioè un’economia pensata
per potersi rigenerare da sola. L’economia circolare è dunque un sistema in cui tutte le attività, a partire
dall’estrazione e dalla produzione,
sono organizzate in modo che i rifiuti di qualcuno diventino risorse
per qualcun’altro. Nell’economia lineare, invece, terminato il consumo
termina anche il ciclo del prodotto
che diventa rifiuto, un sistema figlio della deleteria cultura dell’usa e
getta. Partendo da questa premessa
storico-economica, Vertenza Livorno e il Comitato No Inceneritore hanno presentato all’assessore
all’ambiente Giovanni Gordiani e
all’amministratore unico di Aamps
Marco Di Gennaro un documento
di analisi sul ciclo dei rifiuti e il ruolo
di Aamps ed alcune domande sul futuro di questa azienda partecipata al
100% dal Comune di Livorno. Il documento dei comitati “Deve essere chiaro che i comitati
Che fine farà Aamps?
che lottano contro gli inceneritori
non sono comitati del NO a tutto,
perché per smaltire i rifiuti servono
impianti. I comitati vogliono che i
soldi pubblici vengano spesi per altri
tipi di impianti e strutture. Invece degli inceneritori i comitati vogliono gli
impianti di compostaggio e le piattaforme di raccolta e selezione per il
riciclo dei materiali raccolti nel porta
a porta, secondo i passaggi della strategia Rifiuti Zero. A Livorno il ciclo
dei rifiuti è innanzitutto un guadagno per i privati. Aamps è un’azienda nata e rimasta legata a discariche
e inceneritori e a modelli superati,
tanto che deve aggrapparsi a privati
per stoccare i rifiuti differenziati raccolti o portare il materiale da riciclo
in altri territori. Il mondo è andato
avanti ma a Livorno l’ex azienda
municipalizzata non ha investito in
nessun impianto e in nessuna strategia alternativa. Costruire un nuovo
inceneritore o raddoppiare l’esistente
è palesemente in contraddizione con
l’estensione del porta a porta in tutta la città. La Regione Toscana ed i
vecchi amministratori invece dicono
che questa contraddizione non esiste. È dimostrato invece che laddove sorgono nuovi inceneritori (vedi
Brescia), non c’è nessun incentivo
alla raccolta differenziata, anzi la
raccolta toglie rifiuti all’inceneritore
che invece ha bisogno di essere sempre “nutrito” per poter essere remunerativo. Un’obiezione che spesso ci
fanno è: ma con la strategia “Rifiuti
Zero” non si può far sparire i rifiuti
perché in ogni caso una parte non
riciclabile e uno scarto dello scarto
ci sarà sempre e andrà bruciato o
conferito in discarica. Noi rispondiamo che l’incenerimento comporta
la produzione di scarti e scorie tossiche che vanno inviati in discarica,
anzi vanno inviati in discariche spe-
ciali poiché
gli scarti e le
scorie degli
inceneritori
sono tossiche e quindi
estremamente pericolose.
Su 100 chili
di
spazzatura incenerita, 20/30
riescono dal
forno nella
forma di scorie, comprese
quelle dei filtri, tossiche e
nocive. Questo aspetto, il
partito dei filo inceneritori si dimentica sempre di citarlo. Sicuramente,
come dice anche Rossano Ercolini
padre della strategia Rifiuti Zero, la
fase di transizione verso cifre sempre più alte di raccolta differenziata
e di riciclo è meglio affrontarla con
le discariche esistenti che con nuovi
inceneritori. Un inceneritore lega un
territorio per almeno 20 anni a strategie che vanno in senso opposto a
rifiuti zero, mentre una discarica no.
Basterebbe utilizzare le discariche
già presenti e conferirci rifiuti inertizzati e non il tal quale come avviene
adesso e che fra l’altro sarebbe anche
vietato dalle normative europee”. Le domande Il nodo del futuro dello smaltimento rifiuti sta nella partecipazione o
meno a Reti Ambiente Spa, oppure
alla mutazione del percorso stesso.
Come farà Aamps a uscire da questo
percorso? Ci sono penali o altro ge-
nere di ostacoli come dichiarato dal
presidente di Geofor, Marconcini?
Esiste un piano operativo? Nel caso
di uscita dal percorso, Aamps ha la
solidità finanziaria per fare quegli
investimenti (composter, piattaforma di selezione e stoccaggio, centro
di uso e riciclo e altri impianti per la
“trasformazione” dei rifiuti) che possano affiancare la raccolta porta a
porta per creare un’economia circolare e finanziariamente sostenibile?
Esiste un piano finanziario o studi di
fattibilità a riguardo? Come pensate
di riconvertire Aamps in un’azienda pubblica in grado occuparsi di
pulizia, smaltimento e riciclo anche
alla luce delle numerose esternalizzazioni fatte? Quali servizi pensate
di reinternalizzare? Quali ricadute
occupazionali ci sarebbero? Quali
Aamps è sempre
stata legata alla
discarica prima e
all’inceneritore poi e
non ha mai investito
in impianti o sistemi
alternativi
atti ci sono da fare per scongiurare
definitivamente la terza linea dell’inceneritore? Esiste un piano per coinvolgere la cittadinanza nella raccolta
porta a porta, anche attraverso un sistema di incentivazione e/o riduzioni tariffarie? Esiste un piano al fine di
chiudere nel giro di 3/5 anni l’inceneritore del Picchianti riconvertendo
il personale ad altre mansioni? Esiste
un piano per bonificare la vecchia discarica di Vallin dell’Aquila e il territorio circostante? Domande in attesa
di risposta.
LAVORO E LOTTE - Parole d’ordine: solidarietà nelle vertenze e sconfiggere le divisioni per combattere uniti
È nato il Coordinamento Lavoratori Livornesi
GIANNI LOACERVO
I
l giorno 25 settembre, con
una grande assemblea cittadina al Teatro delle Commedie, si è costituito ufficialmente
il Coordinamento Lavoratori
Livornesi. Dopo anni di isolamento e individualismo rinasce la voglia di unità tra i lavoratori livornesi. Il progetto si sviluppa grazie ad
una riflessione iniziata a giugno
di quest’anno che ha visto protagonisti lavoratori, Rsu e Rsa di
alcune aziende cittadine impegnati in diverse vertenze sui propri posti di lavoro. Lo spunto è
stato lo sciopero degli autisti della Ctt Nord contro la privatizzazione del servizio. In quell’occasione alcuni lavoratori, iscritti e
non iscritti al sindacato, scesero
in piazza a fianco dei dipendenti ex Atl per sostenerli nella loro
battaglia. La voglia di replicare
il successo di quell’esperienza
ha dato il via libera ad una serie di
riunioni periodiche con la partecipazione di lavoratori della Porto
2000 , Ggt, Cls, People Care, ditte esterne Eni, Goldoni, Magna,
Trelleborg e molte altre. L’obiettivo è stato chiaro fin da subito, dare
sostegno e visibilità alle vertenze
a prescindere dall’appartenenza
sindacale e partitica degli aderenti,
Sostegno e visibilità
alle vertenze a
prescindere dall’appartenenza sindacale
e partitica degli
aderenti
in poche parole riscoprire il mutuo
soccorso tra lavoratori che subiscono tutti i giorni le medesime
contraddizioni. Non un comitato
quindi, ma un coordinamento tra
varie realtà che
decidono
di
mettersi insieme per sostenersi a vicenda. Altrettanto
chiara è la volontà di non
strutturare un
progetto sindacale. Nessuna ingerenza
nelle vertenze ma solo sostegno
esterno su richiesta degli stessi lavoratori o Rsu che hanno l’esigenza di portare avanti campagne di
lotta sul proprio posto di lavoro. È naturale, tuttavia, la critica ai
sindacati e alle loro dirigenze che
negli ultimi anni hanno sapientemente tenuto separate le varie
crisi occupazionali sul territorio.
Non si è voluto creare una visione di insieme che avrebbe potuto
innescare reazioni collettive basate sulla solidarietà. Il “Mors tua
vita mea” ha indebolito la classe
lavoratrice permettendo sempre
maggiori arretramenti sul fronte
dei diritti e delle tutele mentre il
mito della concertazione ad ogni
costo creava effetti nefasti su tutto
il territorio nazionale e locale. In
effetti con la scusa della crisi molte aziende hanno deciso di portare avanti ristrutturazioni selvagge
di fronte alle quali i sindacati e le
istituzioni locali hanno spesso risposto con una strategia basata sul
concetto del “salvare il salvabile”.
Gli effetti sono sotto gli occhi di
tutti. Anche gli stessi media legati
al potere hanno creato le condizioni perché ciò avvenisse. Il lavoratore è diventato un fannullone,
un assenteista o nel migliore dei
casi una persona che non vuole
capire le difficoltà economiche
del momento. Nella realtà le crisi
vengono costantemente scaricate
solo sui lavoratori e sulle lavoratrici mentre le dirigenze hanno di
fatto mantenuto gli stessi livelli e
gli stessi privilegi di sempre. Una
visione di classe molto chiara
che ha creato forse qualche malumore in tutti quei soggetti che
ancora credono in una visione
interclassista della società. L’invito è quindi quello di partecipare alle assemblee periodiche
del coordinamento, di informarsi
sulle iniziative di solidarietà ma
soprattutto di iniziare a credere
che, per cambiare le nostre condizioni, l’unità tra i lavoratori è la
premessa principale. Foto di Giacomo Bazzi
in uscita dal 16 ottobre 2014
5
Livorno
AMBIENTE E SALUTE - Una ricerca epidemiologica sul nostro territorio non è più rimandabile
Tumori: la politica degli struzzi
D
ove eravamo rimasti? Ah sì,
ecco. Nel nostro ultimo articolo sulla questione dei tumori
avevamo comparato i dati grezzi di mortalità della provincia di
Livorno e di quella di Taranto,
evidenziando come nella nostra
provincia la situazione apparisse molto più preoccupante che in
quella pugliese. Siccome però qui
da noi l’età media è più alta rispetto a quella di Taranto (46,1 contro
41,9) rimaneva il dubbio che la
maggiore mortalità potesse derivare dal fattore anagrafico. Scopo
dell’articolo era quello di suscitare interesse e stimolare un ulteriore approfondimento in modo
da capire quanto effettivamente il
problema tumori Livorno fosse
più grave che altrove. Ma come si
poteva immaginare, nessuno si è
preso la briga di verificare e allora lo facciamo noi. Come si suol
dire: chi fa da sé fa per tre. Così abbiamo chiesto all’Istat i
dati di mortalità per tutte le cause
scorporate per fasce di età di cinque anni. In questo modo si elimina il fattore confondente dell’età
ed è possibile avere un’idea più
precisa sulle dimensioni del problema. I dati sono relativi al 2011.
In questo articolo abbiamo preso
in considerazione le fasce d’età da
0 a 39 anni, e abbiamo comparato i dati della provincia di Livorno con quelli nazionali e quelli
delle province di Pisa, Brescia e
Taranto. La prima per vicinanza,
JACK RR
C
ome in una seconda puntata
riprendiamo a fare considerazioni sulle partecipate del Comune,
sul loro stato, sulla loro funzione
e valutiamo il contesto che è ben
diverso da quello degli anni ‘80 e
‘90 dove la possibilità di coprire le
perdite d’esercizio era più semplice
e quasi bancabile come garanzia
patrimoniale. Oggi non più, anzi la
società con socio pubblico, oltre ad
essere un istituto di diritto privato
con una responsabilità patrimoniale ed un obbligo costituzionale
di pareggio di bilancio, è sottoposta a norme restrittive del Patto di
Stabilità e Crescita. Il legislatore obbliga il Comune ad
accantonare in un fondo dedicato
ad hoc la copertura della perdita della partecipata. Si profila un dramma per innumerevoli comuni d’Italia a partire da Roma con già 800
milioni di debiti. A Livorno il dissesto finanziario del Comune rischia
di essere indotto dallo stato finanziario delle sue aziende in partecipazione nei settori dei beni e servizi
pubblici ma soprattutto dalla Spil,
che ha una situazione patrimoniale
e reddituale davvero impossibile da
raddrizzare a breve. Il dissesto finanziario di un comune in uno stato di crisi dello Stato è una situazione da cui se ne esce malissimo poiché nessun trasferimento è atteso
le altre due per i gravi e noti problemi di inquinamento ambientale di alcune zone dei capoluoghi. Ecco che cosa è emerso. Nell’anno di riferimento i decessi
per tumore sono stati a Livorno e
provincia 17 (10 maschi e 7 femmine). Il tasso di mortalità complessivo su 100mila abitanti (di età 0-39) è
di 12,69 (14,68 per i maschi e 10,64
per le femmine). A livello nazionale abbiamo invece un tasso del 9,76
(9,51 per i maschi e 10,01 per le
femmine). Ne risulta un eccesso di
mortalità a Livorno di circa il 30%
rispetto al livello nazionale. Ma se
per il sesso femminile questo ec-
cesso è abbastanza contenuto, per
il sesso maschile è impressionante:
+54,4%. Per quanto riguarda Pisa,
neanche i tassi della vicina provincia sono molto rassicuranti. Il tasso
per entrambi i sessi infatti è 10,25,
inferiore a quello di Livorno ma superiore a quello nazionale. Il tasso
per il sesso maschile è meno della
metà del nostro (5,57), ma spicca il
dato delle femmine: 15,15, un 50%
in più rispetto al dato nazionale. Passiamo ora a Brescia, la città della Caffaro, la fabbrica che produceva Pcb e che ha provocato un disastro ambientale e sanitario così grave che l’epidemiologo Paolo Ricci
ha chiesto
le dimissioni dei vertici dell’Asl.
Bene, i tassi
di Brescia
sono molto
più bassi sia
di quelli nazionali che
quelli delle
province
di
Livorno e Pisa.
Abbiamo
infatti
un
tasso complessivo di
5,36
(3,7
per il sesso
maschile
e 7,11 per
quello femminile). E Taranto? Com’è noto la
provincia pugliese detiene il non
invidiabile primato della più inquinata d’Italia, con quasi l’80%
delle diossine prodotte in Europa.
Il caso Ilva è ormai noto a tutti
ed è superfluo soffermarsi sulla
drammatica situazione del rione
Tamburi, quello adiacente all’acciaieria. A Taranto (è bene ricordare ancora una volta che si tratta
di dati provinciali e non riferiti ai
capoluoghi) il tasso complessivo è di 6,91 (6,45 per i maschi e
7,38 per le femmine), più basso della media nazionale. Conclusioni: in termini di tassi
SPIL - Il fallimento di una politica di sviluppo locale inconsistente
Un disastro per Livorno
per risolvere la posizione debitoria,
che è di solito un dramma per l’economia locale. Tutte quelle ditte in
attesa di pagamento vedono definitivamente svanire ogni possibilità di
riscossione entrando poi nell’ambito di una procedura che porta l’ente
ad una specie di amministrazione
controllata dove comunque sarà il
patrimonio comunale a subire una
progressiva liquidazione.
Il caso Spil è davvero particolare
poiché il valore dei terreni e fabbricati iscritti nel bilancio più recente,
quello del 2013, è di oltre 29 milioni
ed è minore dell’esposizione debitoria che arriva ad una cifra di 37
milioni. Da questo dato il pensiero
va verso il tentativo
di comprensione di
come chi l’ha gestita
pensava di portare
avanti i buoni propositi statutari. Questo
alla luce di una redditività inconsistente,
infatti i 92.000 € di
utile netto (e siamo
buoni a prendere l’ultimo risultato poiché
i precedenti si attestavano su perdite di
mezzo milione) contro i 700.000 di
sole spese di personale e 1.800.000
di interessi passivi sono la fotografia
di un sistema completamente a carico della dotazione di ricchezza del
nostro Comune i quali beni appartengono a tutti. Così a Spil si è dato
un patrimonio pubblico per attivare
dei piccoli o grandi volani che dessero impulsi ad economie locali e invece progressivamente sono stati messi
su una serie di insuccessi clamorosi
mentre le spese di struttura e personale erodevano anno dopo anno
quel patrimonio che oggi riteniamo
preziosissimo. Nonostante questa
assurda missione aziendale per l’ottenimento di benefici pubblici già
nel bilancio dell’anno 2000 quindi,
quando ancora di crisi non se ne parlava, nessuno mai ha fermato questa
forma di dilapidazione del patrimonio comunale. Una situazione davvero assurda che ancora nessuno ha
avuto il coraggio di correggere e se
va avanti l’agonia è perché Mps Investments Spa Nsb (Cap. sottoscritto
€ 441.792,00 Quota 15,45 %) e Cassa
di Risparmio di Lucca Pisa Livorno
Spa (Cap. sottoscritto € 427.099,90
Quota 14,94 %) soci in Spil non
chiedono un rientro dei debiti che
ammontano alla voce di bilancio
Livorno rischia il
dissesto, indotto
dallo stato finanziario
delle sue aziende,
soprattutto dalla Spil
“12 mesi verso banche” per un importo davvero impossibile da erogare per una società in questo stato, la
cifra è di 32,658 milioni. Il Tirreno
descrive questa situazione con la frase: < Conti un po’ zoppicanti >. complessivi di mortalità per tumore sotto i 40 anni, Livorno è in
testa rispetto sia alle altre province
prese in considerazione che rispetto al dato nazionale. Per il sesso
femminile viene superata solo da
Pisa (a proposito, ma il “modello
toscano”?) mentre per quello maschile è nettamente prima. A questo punto - pur trattandosi di una
ricerca “casalinga” - non ci sono
più dubbi in merito ad una particolare gravità della situazione tumori nella nostra provincia. I sindaci
devono assolutamente chiedere
Nel 2011 a Livorno
tra i maschi sotto i 40
anni un eccesso
di mortalità
del 54% rispetto al
dato nazionale
all’Asl un’indagine epidemiologica
ufficiale per capire a quali fattori di
rischio è dovuto questo eccesso di
mortalità. Noi speriamo che a forza di insistere su questo argomento
alla fine si smuova qualcuno e che
si possa arrivare non solo a una
mappatura del problema, ma anche alla riduzione di tutti i fattori
di rischio. A cura del Gruppo di studio sulla
salute di Vertenza Livorno
È importante rimarcare come la
vicenda Spil abbia goduto di tutto
un cordone di protezione consolidatosi proprio a livello di cura
dell’immagine di cui chiaramente
lo storico quotidiano cittadino non
ha avuto rivali. Nessuno li ha mai
fermati. Li fermerà a breve il Patto di Stabilità e Crescita imposto
dall’Unione Europea perché nessuno nella nostra città ha avuto il
coraggio di guardare la realtà delle
cose con responsabilità. Dall’esterno è difficile dire cosa ci sia dietro,
se non immaginare dei goffi uomini
con argomenti inconsistenti a cui di
certo non sta a cuore il destino della città, perché immaginare un dissesto finanziario è davvero inquietante per le ditte fornitrici dell’ente
e per ogni cittadino che usufruisce
di servizi erogati nei settori del
sociale in generale. È una brutta storia quella di Spil
attorno alla quale il silenzio si rinnova. Non ha risposto al sindaco
l’ultimo amministratore delegato
dopo l’interrogazione di Cannito,
non è seguito nessun dibattito consiliare subito dopo la risposta evasiva del sindaco stesso che probabilmente una volta alzato qualche
coperchio ha maledetto il cielo per
averlo fatto. Nessuno continua a
fermarli. Il nuovo amministratore
ha esperienza nei settori bancari
ma non ne conosciamo l’orientamento politico.
6
JIMMY CASE
C
’è stato un periodo nel quale, alla generazione nata negli anni ’60 e ’70, si insegnavano
due cose: non ci sarebbe stata più
una guerra in Europa, non ci sarebbe stato più un nuovo crollo
come quello del ’29. Entrambe le
previsioni, che facevano parte del
bagaglio pedagogico che una generazione passa ad un’altra, si sono
rivelate profondamente sbagliate.
Non solo per la guerra jugoslava o
la crisi ucraina. Ma anche perché
di crolli di borsa, a cominciare da
quello del 1987, se ne sono visti
parecchi. Fino, come è accaduto
per Lehman, a minacciare le fondamenta stessa del capitalismo.
La crisi di borsa del ’29 rimane
comunque nell’ambito dei grandi
traumi collettivi. Perché colpisce
una popolazione, americana e
non, più vasta delle crisi precedenti. E distrugge volumi di ricchezza
maggiori. Solo che non è la prima
grande crisi di borsa. E nemmeno
la prima a carattere internazionale.
Già dalla long crisis del 1873-1896,
iniziata con un crollo dei valori di
borsa proprio in Usa, si capisce il
carattere globale di queste crisi.
Ad esempio quella del 1907-1908
non è solo all’origine della creazione della Federal Reserve americana, ma anche tra le cause della
distruzione di ricchezza mondiale
che portò verso la Grande Guerra.
La storia del capitalismo si caratterizza così come quello che è: una
lunga fila di crolli e di distruzioni
di ricchezze. Ad ogni crollo poi
segue una riaccumulazione, poi
un nuovo crollo e via. L’errore,
durante gli anni ’80, di molte so-
FRANCO MARINO
A
lzi la mano chi non ha mai
sentito parlare dell’incontro di pugilato tra Alì e Foreman
svoltosi a Kinshasa, capitale dello Zaire, il 30 ottobre 1974. C’è
sempre tempo per recuperare, visto che la storia di quell’incontro
è stata oggetto di documentari e
film in tutte le salse. Il migliore
è forse il documentario di Leon
Gast “Quando eravamo re”, un
gradino sotto c’è invece il film
“Alì” di Micheal Mann. Ma perché è così famoso? Per
molti motivi. Il primo è che è un
incontro ricco di significati politici, ed anche di contraddizioni.
Nell’epoca dell’esplosione della
protesta nera negli Stati Uniti e
nella rivendicazione e riscoperta
delle proprie radici afroamericane, questo incontro doveva rappresentare un ponte simbolico
tra il continente di provenienza
degli schiavi e il paese dove gli
schiavi sono stati deportati prima
e segregati poi. Ma l’ingrediente principale a dare una cornice
a questo evento era soprattutto
Muhammad Alì, che in quegli
anni era diventato un simbolo
delle lotte antirazziste e dell’opposizione alla guerra in Vietnam.
A questo c’era da aggiungere che
Alì era stato sospeso dalla pratica del pugilato dal 1967, e doveva scontare tre anni e mezzo di
squalifica a causa del suo rifiuto
per non dimenticare
anno IX, n. 97
OTTOBRE 1929 - 85 anni fa, l’inizio della più grande crisi economica della storia
Business as usual
Il crollo di Wall Street
cietà occidentali è stato quello di
credere che la storia dei fallimenti
di borsa fosse vicenda del passato.
Aprendo così, con superficialità,
alle nuove istituzioni della finanza globale. Quelle che avrebbero
generato bolle potenzialmente
più devastanti che nel passato. In
questo caso, possiamo dire che
il crollo del ’29 non ha insegnato
niente a tanta parte di società occidentale (e non, visto che il capitalismo cinese si riproduce per bolle).
Ma cosa accadde precisamente a
Wall Street alla fine degli anni ’20?
Diciamo che “semplicemente”
per la prima volta nella storia un
brusco calo dei consumi di massa
fece crollare il valore della massa
di moneta investita su quei consumi e sulle industrie che a questi
erano correlate. Tutti gli anni ’20
americani erano stati infatti il vero
inizio dell’epoca di quelli che chiamiamo consumi di massa; questa
fase di crescita economica si interruppe bruscamente alla fine di
quel decennio causando una grave
crisi che ebbe inizio il 24 ottobre
1929, durante la quale si verificò il
crollo della borsa di Wall Street, a
New York. E siccome i capitali generati in Usa erano stati reinvestiti
altrove, in Germania ad esempio,
la crisi da
americana
diventò mondiale. Inoltre, per tutti
gli anni 20,
l’acquisto e
la vendita di
titoli azionari, che erano
diventati una
sorta d’investimento di
massa, poiché sembrava
che la borsa
potesse far
guadagnare tanto in poco tempo,
avevano generato una sorta di capitalismo dal basso, poi sviluppatosi
di nuovo in Usa dagli anni ’80, che
alimentò a dismisura la liquidità
a disposizione delle grandi banche. Il crollo della borsa incise in
modo particolare sull’economia,
apportando conseguenze molto
gravi, quali: la chiusura di intere
filiere di fabbriche, licenziamenti
e un ineditamente grave tasso di
disoccupazione. Certamente fu favorita da un forte nucleo di ribassisti, annidati dentro Wall Street.
Ma, business as usual, il capitalismo
è questo. La crisi si diffuse anche
in Europa provocando una progressiva diminuzione dei commerci. Particolarmente gravi furono
gli effetti della crisi in Germania
e in Austria. Specie in Germania
dove la politica di austerità e rigore, seguita dal governo tedesco per
affrontare la recessione e la crisi
bancaria, spalancò le porte al consenso verso il nazismo (il Ndsap
quadruplicò i consensi, da partito
minoritario che era, in pochissimi anni). La crisi di Wall Street
costituì così un grave fattore d’instabilità planetaria sia economica
e politica, ponendo le basi per lo
scoppio della II Guerra Mondiale.
Certo non fu una crisi solo americana, i capitali che gonfiavano la
bolla Usa non erano solo statunitensi, ma da quel paese si diffuse in
buona parte del mondo. L’ottobre
La storia del
capitalismo si
caratterizza così
come quello che è:
una lunga fila di crolli
e di distruzioni di
ricchezze
del ’29 dovrebbe insegnare tanto
ai nostri contemporanei. Anche se
sembra, a torto, tutto così lontano.
Eppure, leggendo caratteri e comportamenti di quella crisi, un reale
senso di “sentirsi a casa” purtroppo ci pervade.
BOXE - “Rumble in the jungle”, l’incontro di pugilato più famoso e più contraddittorio
Alì-Foreman, 40 anni fa a Kinshasa
di arruolarsi nell’esercito. Il campione in carica era George Foreman, un pugile con caratteristiche
tecniche e caratteriali opposte a
quelle di Alì e che aveva battuto
Joe Frazier che a sua volta aveva
battuto Alì nel cosiddetto “Scontro del secolo” nel 1971. Il campione era, dunque, il favorito. A organizzare il tutto fu l’ambiguo
e istrionico manager Don King,
che alla sua prima esperienza giocò subito d’azzardo: fece firmare
due contratti separati a Alì e Fore-
Alì voleva ritrovare
le radici degli
afroamericani ma
finì a combattere per
Mobutu, burattino
sanguinario
di Usa e Belgio
man promettendo una borsa di 5
milioni di dollari che però non aveva, sperando di trovarli poi con un
grosso sponsor. Lo sponsor lo trovò in Mobutu Sese Seko, sanguina-
rio dittatore dello Zaire
sostenuto dalla
Cia
e
dagli ex
coloni,
cioè la
corona
belga. In
questo
grande
spettacolo mondiale Mobutu voleva legittimare la propria forza
agli occhi del mondo dopo che
era salito al potere nel 1960 grazie ad un colpo di stato, sostenuto
da Belgio e Usa, contro il governo
democraticamente eletto di Patrice Lumumba. Lumumba aveva
lottato ardentemente per un vera
indipendenza del Congo (prima si
chiamava Congo belga, poi Repubblica Democratica del Congo con
Lumumba e poi Zaire per volere
di Mobutu e dal 1997 Repubblica
Democratica del Congo) mentre
il Belgio voleva accordare un’indipendenza fittizia mantenendo
quadri militari nell’esercito e l’influenza sulla provincia mineraria
del Katanga. Il colonnello Mobutu
era stato lo strumento per perpetrare gli interessi dei belgi nell’area e la volontà degli Usa di far
fuori un simbolo pericoloso per il
continente africano in quanto era
tacciato di simpatie marxiste e che
una volta attaccato dall’esercito
belga e dai suoi ascari chiese aiuto
prima all’Onu e poi all’Urss. Di questi risvolti politici in pochi
ne parlarono e oggi tra film e documentari ne rimane poca memoria. Certo, non è che nel ricordo
di quell’incontro manchino riferimenti al personaggio Mobutu come
un dittatore feroce e soggetto a culto di personalità, ma la storia della
sua ascesa viene sempre omessa. È
questa la più grande contraddizione politica del campione e del sim-
bolo Alì, considerato grande paladino dei diritti dei neri, dell’orgoglio afroamericano e della lotta
contro la guerra in Vietnam, che
però è andato a combattere per
il simbolo dei dittatori burattini
degli Usa e delle vecchie potenze
coloniali, cioè per uno dei tanti
militari al potere che non hanno
fatto certo l’interesse e la fortuna
dei popoli africani. Viene il dubbio quindi che il
“Rumble in the jungle”, più che
uno storico evento per motivi
sportivi e politici, lo sia stato in
quanto uno dei primi eventi che
seguivano le regole della globalizzazione e della società dello
spettacolo. A margine dell’evento
infatti era stato organizzato un
concerto di caratura mondiale
con BB King, James Brown e le
stelle della musica africana Manu
Dibango e Miriam Makeba. Poi
l’infortunio di Foreman in allenamento fece rinviare l’incontro e
far sì che i due eventi fossero fatti
in date diverse. L’incontro di pugilato fu disputato alle 4 di mattina per permettere la visione al
pubblico americano. Vinse Alì da
sfavorito. Un film che non poteva
avere finale diverso.
in uscita dal 16 ottobre 2014
7
stile libero
INIZIATIVA - Il prossimo 8 novembre, al TeatrOfficina Refugio, Senza Soste organizza un incontro
sul ruolo dei mass media e i linguaggi del potere. Renzi e Il Tirreno sotto la lente, ma non solo
Q
uando Obama parla del
nuovo corso della sua amministrazione le parole più utilizzate per descrivere le nuove
strategie in politica estera sono
“smart” e “soft”. Aggettivi che
vogliono far identificare l’esercizio del potere come meno
aggressivo e più ragionato rispetto a quello dei “falchi”
repubblicani dell’era Bush. In
realtà lo smart power obamiano è figlio di una diversa strategia di perseguimento degli
interessi statunitensi. Per dirla
in poche parole, lo smart power si sviluppa su 3 principali
direttrici: potenziamento delle
relazioni diplomatiche, delega
della risoluzione delle instabilità alle potenze regionali
(Qatar e Arabia Saudita per
quanto riguarda il medioriente) e forte condizionamento
dell’opinione pubblica. A noi
interessa proprio questo terzo
aspetto, quello del condizionamento dell’opinione pubblica,
dell’uso dei linguaggi e della
rete con conseguente mappatura dei big data. Ma l’analisi
dei linguaggi del potere e il cosiddetto “Effetto Orwell” sono
interessanti da analizzare anche nell’Europa dei banchieri
e dell’austerità. A fronte di un
sistema liberista e monetarista
che peggiora quotidianamente
le condizioni di vita delle popo-
Media e linguaggi del potere
lazioni europee, lo schieramento mediatico a fianco delle elites
politiche e finanziarie si è scatenato con una forza di fuoco senza precedenti. La piccola colonia Italia non si è certo sottratta
a questo corso e dopo un golpe
tecnicista poco convincente, dal
punto di vista comunicativo,
nell’applicazione delle politiche
di tagli e austerità, i poteri forti hanno scelto il miglior attore
presente sul mercato: Matteo
Renzi. Ma dietro il grande im-
bonitore c’è tutto
l’apparato
mediatico mainstream italiano con
a capo il Gruppo
L’Espresso. Anche i territori non
sono risparmiati
da questo esercito
combattente
come
vediamo
bene a Livorno,
dove Il Tirreno
dopo la sconfitta
del Pd ha affilato
ancora più le armi
attuando
una
strategia aggressiva nei confronti
del Movimento 5
Stelle. L’8 novembre dalle ore 17.30 al TeatrOfficina Refugio, Senza Soste organizza un dibattito sui media
e i linguaggi del potere. Dopo
un’introduzione ci saranno
due relazioni di cui proponiamo una piccola presentazione
di seguito. Dopo il dibattito
ci sarà una cena a buffet. Primo intervento - L’effetto
Orwell di Matteo Renzi Questo evento è un’occasione
per fare il punto sul modello di
comunicazione politica dell’attuale Presidente del Consiglio.
Su quanto riprenda modelli degli ultimi vent’anni e su cosa in
effetti rappresenti una reale differenziazione. Di sicuro il modello Renzi produce un effetto
Orwell che, per l’assenza di un
reale contromodello praticato,
era assente persino nelle fasi euforiche del modello Berlusconi.
Per effetto Orwell si intende a)
un uso incontrastato dell’agenda politica dando per naturali
le sue modifiche che avvengono invece su un solo soggetto;
b) il protagonismo insistito di
un solo personaggio su masse
silenziose; c) la continua modifica degli indicatori statistici,
nelle strategie di comunicazione, creando un effetto realtà differente a seconda delle diverse
esigenze di propaganda; d) la
rilettura del passato per lo stravolgimento politico dello scenario presente; e) l’effetto “reti
unificate” che crea una realtà
apparentemente senza alternative. Verranno presentati esempi, fatte analisi e valutazioni. Secondo intervento - Il Tirreno e
la manipolazione della realtà Nell’epoca di internet e dei so-
LE “TIRRENATE” - Il quotidiano di viale Alfieri scatenato contro la Giunta 5 Stelle
T
orna la nostra rubrica dedicata alle “perle” del Tirreno.
Il più ricco del reame
Inchiestona del Tirreno sui redditi
dei consiglieri comunali: sfortunatamente il più ricco è il capogruppo del Pd Ruggeri, che deve il suo
gruzzoletto di 98.386 euro alla
lucrosa carica di consigliere regionale, dalla quale non si è ancora
dimesso nonostante l’abbia giurato e spergiurato più volte. Al secondo posto la consigliera residua
della destra, Amato, con 67.550
euro. Stavolta sembra davvero
impossibile chiamare in causa gli
odiati 5 Stelle. Ma la classe non
è acqua, ed ecco il titolo giusto:
“Agen il grillino con lo stipendio
più alto”. Al lettore tipo, quello
che sfoglia il giornale la mattina
al bar, ancora assonnato, sembrerà così che Agen sia il consigliere
comunale più ricco in assoluto.
Che dire… Chapeau. Pericolo mortale Il sindaco di Livorno ipotizza l’uscita del Comune da Retiambiente, e Il Tirreno piange: “una posizione che rischia di far saltare un
impianto organizzativo regionale
su cui si sta lavorando (con difficoltà) da anni e di isolare Livorno in
una partita che gestire in maniera
autarchica sembra più difficile di
una scalata del K2 a mani nude”.
Piove, Comune ladro
L’impianto su cui “si sta lavorando
con difficoltà” sarebbe questo: Livorno entra in un consorzio con gli
altri comuni e i mitici soci privati,
portando in dote l’inceneritore che
viene potenziato per bruciare la
spazzatura di mezza Toscana. I debiti dell’Aamps vengono scaricati
sulle bollette già gravate dall’obolo
per l’offshore. Meglio il K2. Tutt’al
più si cade in un crepaccio ma
non si muore per la diossina. E vai col violino A proposito dell’offshore: chi crede
che i giornalisti del Tirreno siano
dei musoni incapaci di entusiasmarsi legga queste righe tratte dal
solito paginone-inserzione pubbli-
citaria dedicata al
rigassificatore. Poesia allo stato puro.
“È maestoso quello scafo nero che
emerge dall’acqua,
sovrastato da tubi,
condotte e dai caratteristici serbatoi
circolari (quattro)
tutto di colore rosso,
giallo e arancione.
Una volta a bordo,
la prima cosa che
ci colpisce è la grande attenzione
rivolta alla sicurezza. E con l’inquinamento, come la mettiamo? «Vengono eseguiti esami ai “cesti” di
cozze qui sotto e i valori sono uguali a quelle coltivate a Gorgona». Prima di sbarcare, c’è il tempo di pranzare al tavolo col comandante e di
fare i complimenti allo chef: tutti i
piatti davvero molto buoni”. E soprattutto il conto lo paga la Olt! Si
scopron
le
tombe,
si levano i morti Da quel tragico 8 giugno in cui
i lanzichenecchi sono arrivati in
Comune, alcuni che sindacalisti in
babbucce e papalina che non aprivano bocca dai tempi del cucco si
sono risvegliati dal letargo. Ecco la
Cgil all’attacco del Comune sulla
sanità: “finora constatiamo un silenzio assordante sui temi sanitari,
al di là delle uscite sulla stampa”.
Il silenzio assordante è quello delle betoniere e delle ruspe fermi… I
nostri si lanciano in un’appassionata difesa del modello per intensità
di cure: “Rifiutarlo significa voler
tornare agli anni del dottor Tersilli, il primario con il codazzo”. Se
è per questo, di primari con il codazzo ce ne sono un sacco anche
ora. Votano Pd e qualche volta li
Bernabò lascia
Livorno per evitare
un travaso di bile
dopo la
sconfitta del Pd
eleggono in Consiglio comunale.
“Forse andava bene quando gli
anziani stavano quattro mesi in
ospedale?” polemizza la Cgil. No,
certo, va bene ora che gli anziani
dopo tre giorni li mandano a casa
cial network quanto conta l’informazione generalista? E quanto incide sull’opinione pubblica
la rete dei quotidiani locali gestiti dai grandi gruppi editoriali
come La Repubblica-L’Espresso? I dati danno un calo del 40%
di fatturato per questo gruppo,
a cui com’è noto appartiene Il
Tirreno, il quotidiano livornese
più diffuso. Sembrerebbe quindi
che la carta stampata sia ormai
arrivata allo stadio terminale.
Eppure si ha l’impressione che
il giornale di Viale Alfieri sia
ancora in grado di condizionare
sensibilmente gli equilibri politici e gli orientamenti culturali a
Livorno. Una questione interessante soprattutto alla luce della
fine del monopolio Pd nell’amministrazione della città e dei
profondi mutamenti in corso
nel tessuto sociale. Proponiamo
tre “casi di studio” da discutere
insieme: il primo è il modo in
cui viene trattata la questione
dell’immigrazione, il secondo il
famoso episodio dello striscione anti-sionista esposto durante Effetto Venezia e il terzo è il
rapporto tra il Tirreno e la nuova amministrazione comunale.
Redazione
o al cimitero dei Lupi. Crisi d’identità Ecco come Il Tirreno commenta le
prossime elezioni provinciali: “Intanto, in attesa del probabile appoggio grillino, Parodi si trova ad
affrontare una bella bega d’identità. E con lui anche l’ex segretario di Rifondazione Alessandro
Trotta, tra i promotori della lista,
i buongiornini Raspanti e Bruciati (entrambi candidati) e i sei
candidati vicini a Rifondazione
presenti in lista. Tutti dovranno in
qualche modo giustificare la presenza in lista di Lorenzo Gasperini, vicino a Fratelli d’Italia e alla
pasionaria nera Marcella Amadio. Invece il Pd, che si presenta
quasi dappertutto inciuciato con
Forza Italia, non ha nessuna bega
d’identità. È proprio per la sua
identità che fa gli inciuci. I ritardi della Giunta Una cerimonia rievocativa - scrive indignato Il Tirreno - rischia
di saltare per il ritardo dei rappresentanti della Giunta. “Poi in
extremis l’arrivo della vice sindaco Stella Sorgente, con tanto di
siparietto con un impiegato del
Comune che si precipita sul posto
in scooter per consegnarle la fascia tricolore dopo circa mezz’ora d’imbarazzo istituzionale”.
Quando c’era Cosimi non era mai
successo. Lo chiamavano “Ale lo
svizzero” per la puntualità.
PAGINA OTTO
ANNO IX - n. 97 - in uscita dal 16 ottobre 2014
TITO SOMMARTINO
B
asterebbe il nome, Beitar,
per capire la natura sociale
e politica della principale squadra calcistica di Gerusalemme.
Il Beitar Jerusalem Football Club
nasce infatti nel 1936 come diretta emanazione sportiva del movimento sionista Beitar, fondato
nel 1927 a Riga, in Lettonia, da
una delle ali più radicali e conservatrici del sionismo. Fondatore del movimento Beitar, modellato sugli ideali di coraggio, dignità, onore, difesa dello stile di
vita ebraico e annientamento della popolazione araba, un personaggio poliedrico di nome Ze’ev
Jabotinsky: un po’ artista, un po’
letterato, un po’ soldato, l’ultranazionalista Jabotinsky nutriva
un debole per Mussolini che nel
1934 a Civitavecchia gettò le basi
di quella che da lì a poco sarebbe
diventata la marina israeliana. Il club Quarta squadra di Israele insieme all’Hapoel Petah Tiqwa per
titoli conquistati, il Beitar è visto
in patria come la squadra simbolo dei “nudi e puri”, in contrapposizione a squadre come l’Hapoel Tel Aviv, i cui ultrà si professano comunisti e a favore della
pace tra israeliani e palestinesi, e
soprattutto gli arabo-israeliani
del Bnei Sakhnin. Il club gerosolimitano, sia a livello di dirigenza
che di tifoseria, è spiccatamente
anti-arabo oltre i limiti del razzismo. Unica squadra israeliana
a non aver mai tesserato, nella
propria storia, un calciatore arabo, nel 2005 la dirigenza provò
a cambiare rotta acquistando il
calciatore nigeriano Ndala Ibrahim, musulmano. Ibrahim fu
costretto a lasciare il club dopo
pochissimo tempo dal suo arrivo,
a causa della forte avversione nei
suoi confronti manifestata dai
tifosi del Beitar. Non è andata
meglio un anno fa, quando sono
stati acquistati i calciatori ceceni
Il peggiore
club al mondo
CALCIO ISRAELIANO - Il Beitar Gerusalemme rappresenta
la destra più estrema di Israele e raccoglie il peggio della
feccia sionista. Tra i propri ultras, violenti e razzisti, anche
gli assassini di Mohammed Abu Khdeir, il ragazzino
palestinese torturato e arso vivo lo scorso luglio.
Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev, ambedue musulmani: gli
uffici della dirigenza del Beitar
sono stati dati alle fiamme in un
raid notturno. E meno male che
il presidente, Arcadi Gaydamak,
era trafficante d’armi d’origine
russa e presidente del partito di
estrema destra Social Justice. Sharon, Olmert, il Kach Se il Beitar è figlio del movimento di Jabotinsky, oggi molti dei
suoi tifosi hanno scelto di an-
Da Sharon ad Olmert
passando per la
Regev, il Beitar è
la squadra della
destra israeliana
più conservatrice e
xenofoba
dare oltre e scavalcare da destra
i fondatori del loro club. Molti,
infatti, si identificano col partito
nazionalista-religioso di stampo
neosionista Kach, illegalizzato
nel 1994 da Yitzhak Rabin che
cadrà più tardi vittima proprio
dell’estremismo sionista israeliano. Il Kach si fonda su 5 dogmi: La Grande Israele (Israele
deve diventare interamente ebrea
perché ciò risponde a un ordine
divino e colonizzare con insediamenti ebraici massicci tutta la Cisgiordania e perfino la Striscia di
Gaza), la deportazione degli arabi fuori da Israele, il rifiuto della
democrazia (vista come una creazione occidentale contraria alla
legge religiosa giudaica), lo stato
religioso (il sistema giudiziario
israeliano dovrebbe fondarsi sulla Torah e non sullo stato laico)
e la legittimazione della violenza
per garantire l’unità della Terra
d’Israele. Nel libro Gerusalemme senza Dio (ed. Feltrinelli, pp.
208, 2013, 16 euro), Paola Caridi
spiega come la propensione verso
destra del Beitar e dei suoi tifosi è
sempre stata costante. Molti giocatori sono perfino stati membri
del gruppo armato clandestino.
Insomma, la passione sportiva si
è da sempre fusa con l’ideologia
politica. Per capirlo basta guardare gli album fotografici che
ritraggono i vip che negli ultimi
decenni si sono accomodati in tribuna. Dall’ex falco Ariel Sharon
all’ex premier e sindaco di Gerusalemme Ehud Olmert. Al Teddy
Stadium, Olmert - ora condannato per corruzione - sedeva nel suo
palco personale. Fino allo scorso
anno faceva il possibile per non
perdere neanche una partita.
Quando il volume dei cori razzisti della tifoseria è diventato troppo alto per non essere imbarazzante, ha ritenuto più opportuno
lasciare l’abbonamento ad altri. La Familia È su queste basi che si fonda La
Familia, il principale gruppo ultras del Beitar, celebre, oltre che
per il fanatico sostegno alla causa sionista, per essere una delle
più facinorose, xenofobe, razziste
e violente tifoserie al mondo, da
sempre incitante all’odio contro
arabi e musulmani. La Familia,
un nome sefardita in netta contrapposizione linguistica rispetto
all’élite tradizionalmente askenazita dello stato di Israele, lega la
propria fama non solo agli atteggiamenti di ostilità contro calciatori arabi, neri e tifoserie avversarie politicamente opposte, ma
anche a quelli estranei all’am-
bito calcistico. Dicevamo della
rappresaglia incendiaria contro
l’acquisto dei due giocatori ceceni. Poche sere prima La Familia
aveva esposto lo striscione “Beitar puro per sempre”. Non una
sera qualsiasi, ma quella della
sfida contro “gli arabi” del Bnei
Sakhnin nel Giorno della Memoria. Jan Talesnikov, il viceallenatore della squadra di Gerusalemme, aveva commentato: “Danno
fuoco agli edifici, prima o poi
bruceranno la gente”. Parole
atrocemente profetiche: è infatti
in seguito ad una manifestazione organizzata da La Familia che
viene barbaramente ucciso il ragazzino palestinese Mohammed
Abu Khdeir, uno degli omicidi di
“Puri per sempre” è
lo slogan degli ultrà
che non vogliono
musulmani e neri
nella propria squadra
gruppo più efferati che si ricordino. La manifestazione, svoltasi al
grido di slogan quali “Morte agli
arabi”, “Arabi finocchi”, ha visto
prima una serie di aggressioni a
uomini, donne e bambini arabi
in un centro commerciale ed è
poi finito con il sequestro di un
ignaro sedicenne palestinese che
è stato linciato, costretto a bere
benzina e infine bruciato vivo
tra gli alberi della foresta attorno
alla città. I sei assassini sono tutti
tifosi del Beitar e tre di loro sono
membri de La Familia.