I SISTEMI BANCARI DEI PAESI CANDIDATI ALL`ALLARGAMENTO

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I SISTEMI BANCARI DEI PAESI CANDIDATI ALL`ALLARGAMENTO
ASSOCIAZIONE BANCARIA ITALIANA
SENATO DELLA REPUBBLICA
Commissione Programmazione economica, Bilancio
Indagine conoscitiva sulla competitività
del Sistema Paese sotto il profilo
della programmazione economica
Audizione del Dr. Maurizio Sella
Presidente Associazione Bancaria Italiana
Roma, 18 giugno 2003
INDICE
0. Premessa
1. La competitività dell’economia italiana
2. La competitività del settore bancario
3. La competitività del sistema-paese e quella dell’industria bancaria: una stretta
interrelazione
4. Note conclusive
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0. Premessa
Sia consentito anzitutto plaudire all’idea di svolgere una indagine sulla competitività
dell’economia italiana e ringraziare, dunque, per l’opportunità offerta al sistema bancario di
esprimere la propria opinione in una materia tanto importante. L’iniziativa mi sembra
pregevole perché ritengo che sarebbe un grave errore se le difficoltà della congiuntura
offuscassero la nostra capacità di riflettere sulle grandi questioni strutturali che sono di fronte
al nostro Paese; è anzi probabile che militi a favore di un mutamento congiunturale di segno
positivo proprio la capacità di compiere scelte importanti sui grandi temi di fondo.
Tratterò la questione oggetto del nostro dibattito sotto due distinti profili: il primo
profilo, a cui dedicherò un po' di considerazioni generali, ricordando essenzialmente qualche
dato di fondo, è quello della competitività del sistema economico italiano globalmente
considerato; il secondo profilo, su cui intendo soffermarmi un po’ di più riproponendo anche
alcune linee di analisi già offerte nel corso di una precedente audizione, è, naturalmente,
quello della competitività del settore specifico in cui noi operiamo, cioè quello bancario.
1. La competitività del sistema-paese
Gli indicatori sintetici di competitività
Quando si parla della competitività di una economia nel suo insieme, cioè della competitività
del sistema paese, si fa in genere riferimento a quel complesso di fattori che sono in grado di
influenzare, positivamente o negativamente, la performance di lungo periodo di quella
economia.
Come è ampiamente noto l’analisi del benchmarking competitivo prende in considerazione
una gamma vastissima di indicatori. Basti qui ricordarne semplicemente alcuni, guardando
prima a quelli sintetici e poi a quelli specifici.
La maggior parte degli indici che descrivono sinteticamente le capacità competitive dei vari
paesi collocano l’Italia agli ultimi posti della graduatoria: basti ricordre, ad esempio, l’indice
del World Economic Forum in base al quale l’Italia figura al 39° posto sugli 80 assegnati,
dopo la Grecia ed il Portogallo, ma anche dopo la Spagna. Non particolarmente diverso è il
ranking dell’IMD (una importante scuola di business specializzata nell’analisi di questi
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problemi), secondo cui siamo al 32° posto sui 49 assegnati. Se si guarda poi l’indice elaborato
da Merrill Lynch figuriamo al 18° posto, l’ultimo della graduatoria. Nelle prime due
classifiche citate, ripetute su base continuativa, abbiamo registrato negli ultimi anni un
arretramento.
Crescita economica e reddito pro-capite
Un elemento che gioca di certo un ruolo importante nella elaborazione dell’indicatore
sintetico è naturalmente la crescita del prodotto interno lordo complessivo e pro-capite. Su
tale fronte l’Italia, pur se in compagnia con altri rilevanti partners europei, ha segnato negli
ultimi anni un notevole arretramento: per quanto riguarda il tasso di crescita medio degli
ultimi 5 anni, il nostro paese ha registrato uno scarto misurabile in mezzo punto percentuale
nei confronti della media europea ed in 1,2 punti percentuale nei confronti degli Stati Uniti.
Dagli inizi degli anni novanta ad oggi il tasso medio annuo del pil è stato in Italia leggermente
al di sotto del 2%, circa mezzo punto sotto quello medio dell’Unione europea ed oltre 1,4
punti in meno rispetto agli USA. Dagli inizi degli anni novanta il reddito pro-capite è
cresciuto di circa il 15% in termini reali contro circa il 20% nell’intera Unione europea e poco
meno del 25% negli Stati Uniti.
Produttività, esportazioni, quote di mercato nel commercio internazionale
Il basso tasso di crescita della nostra economia trova la sua fondamentale spiegazione nella
ridotta produttività. Nella seconda metà degli anni novanta la produttività oraria del lavoro nel
settore manifatturiero è cresciuta meno di 1 punto percentuale all’anno, contro il 4,6% della
Francia e il 2,4% della Germania, paese che pure versa in condizioni assai difficili. In Usa,
nell’industria, la produttività oraria del lavoro è cresciuta tra il 1990 ed il 2000 del 4,5%.
Il deterioramento delle capacità competitive ed il modello di specializzazione del nostro
commercio hanno provocato una decisa contrazione delle quote di mercato nell’ambito del
commercio mondiale, il tutto anche a motivo di una significativa azione di spiazzamento
esercitata, nei settori più tradizionali, da nuovi paesi caratterizzati da costi del lavoro
significativamente più bassi. La quota di esportazioni italiane nel mercato mondiale è oggi
intorno al 3,5% se misurata a prezzi costanti. Si tratta di un livello di circa 2 punti più basso
rispetto al 1995 e che ci riporta, sostanzialemente, agli anni sessanta.
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Divari territoriali
Un secondo importante fattore è quello relativo ai divari territoriali e cioè al come la crescita
si distribuisce a livello territoriale. In Italia, un cruciale fattore di freno allo sviluppo
economico complessivo è indubbiamente rappresentato dalle strozzature di capacità
produttive indotte dal dualismo territoriale. Nonostante i rilevanti progressi conseguiti negli
ultimi anni dal Mezzogiorno, quando in media il tasso di crescita annuo si è collocato al di
sopra di quello medio nazionale (un tale scarto è peraltro aumentato nel 2002 quando secondo
stime della Svimez nel Mezzogiorno il pil è cresciuto dello 0,8% contro lo 0,2 del Centro
Nord e lo 0,4% dell’Italia), l’area meridionale del paese continua a rappresentare un serbatoio
di risorse inutilizzate. Si crea così una tipica situazione di mismatching tra domanda di lavoro
(che si trova essenzialmente al Nord) e l’offerta di esso, che è presente in misura
sovrabbondante essenzialmente nelle regioni meridionali.
Nel lungo periodo la crescita economica di un paese è strettamente condizionata dallo
sviluppo demografico e dal progresso tecnologico.
Sviluppi demografici
I trend demografici sono piuttosto negativi. Se si considerano le proiezioni effettuate in
ambito Eurostat si può constatare che fatto 100 il numero degli abitanti al 1996 l’Italia si
collocherà tra poco più di 20 anni (nel 2025) a 96 a fronte di valori pari, per esempio, a 110
per la Francia ed in generale sopra 100.
Una tale situazione riflette essenzialmente il basso livello di natalità, pari nel nostro paese a
circa i due/terzi di quello medio europeo ( poco meno di 13 nati ogni mille abilanti) ma anche
una tendenziale ridotta propensione ad accogliere flussi di immigrazione (la quota di
lavoratori immigrati rispetto alla popolazione totale è inferiore in Italia: secondo dati Ocse
riferibili al 2000 siamo in Italia intorno al 3% contro circa il 9% tedesco, il 5/6% della
Francia, il 10% degli Usa).
Struttura industriale
Significativi riflessi sulla performance macroeconomica del nostro paese e quindi, in
definitiva, sui suoi livelli di competitività, ha ovviamente la struttura industriale del paese.
Come è ampiamente noto, caratteristica precipua del nostro paese è la presenza della piccola e
media impresa. Questo tratto distintivo se è utile fonte di flessibilità e se consente di sfruttare
appieno le elevate capacità creative dell’imprenditorialità italiana ha, al contempo, anche
risvolti negativi. Il nanismo delle nostre imprese finisce per condizionare assai
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significativamente i livelli degli investimenti, la capacità di innovare, le spese per la ricerca e
lo sviluppo. Esso ostacola la presenza della nostra economia nei settori tecnologicamente più
avanzati dai quali dipendono sempre più le prospettive di medio/lungo periodo.
Progresso tecnologico, capitale umano, ricerca
Il problema del progresso tecnologico è diventato particolarmente impellente negli ultimi
anni, a fronte del rilevantissimo salto indotto dall’introduzione delle tecnologie digitali. Come
è noto, l’esigenza di costruire un economia basata sulla conoscenza, anche delle nuove
tecnologie, è stata al centro del Trattato di Lisbona che ha fissato un calendario finalizzato a
costruire, entro il 2010 “l’economia basata sulla conoscenza più dinamica e competitiva del
mondo”. Nelle classifiche elaborate dalla Commissione per monitorare i progressi compiuti in
questo campo l’Italia è tra i paesi a forte ritardo. Rimane modesto il grado di
specializzazione produttiva nei settori ad alta tecnologia, con una quota di valore aggiunto
prodotto conseguentemente bassa, inferiore alla media europea. E’ bassa la capacità di
innovazione delle imprese italiane e la propensione a brevettare innovazioni: se si guardano i
dati relativi ai brevetti registrati all’Ufficio per i Brevetti Europei si può constatare che per
ogni milione di abitanti l’Italia ha registrato nel 2001 75 brevetti contro i 161 dell’Unione
europea (310 della Germania, 145 della Francia)
E’ forte per il nostro paese anche la necessità di elevare la dotazione di capitale umano, cioè
l’insieme delle conoscenze a disposizione dei lavoratori italiani. Secondo i dati dell’OCSE la
forza del lavoro presenta in Italia un livello medio di istruzione estremamente basso. La quota
di lavoratori diplomati e laureati pari nella media dei paesi Ocse rispettivamente al 41 e al 26
per cento del totale risulta in Italia del 33 e del 12%.
A fronte di minori conoscenze provenienti, globalmente, dalla fase di formazione, in Italia è
anche relativamente limitata la possibilità di acquisire sapere una volta entrati nel mondo del
lavoro. Infatti, secondo studi condotti in sede Eurostat, se si considerano le imprese private
con almeno 10 addetti si vede che la quota di lavoratori coinvolti in attività di formazione è
pari al 26% a fronte del 40% medio dell’Unione europea.
Il profilo macro: il risanamento compiuto
Se i dati relativi al ritardo microeconomico del sistema ci consegnano una fotografia che
induce alla riflessione, i progressi compiuti nel risanamento macroeconomico sono
certamente incoraggianti. Si sbaglierebbe a non valorizzare il buono che è stato fatto negli
ultimi lustri. Ma altrettanto grave sarebbe non capire che la capacità di competere di un
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sistema economico va sempre più valutata sotto il profilo relativo, dello scarto dei progressi
conseguiti dai vari attori del palcoscenico.
Agli inizi degli anni novanta, il nostro paese presentava squilibri macroeconomici rilevanti: il
deficit del settore pubblico; il conseguente elevato e crescente livello del debito, il deficit di
stabilità dei prezzi, cioè un deficit di cultura della stabilità dei prezzi riassunto nella idea che
l’unico modo per difendere il valore reale del salario fosse quello di una sostanziale
indicizzazione, sebbene ex-post, ai prezzi stessi.
Con il processo di convergenza preliminare all’ammissione alla terza fase dell’Unione
economica e monetaria europeo l’Italia ha sostanzialmente superato questi tre grandi vincoli:
il deficit pubblicio in rapporto al pil è sceso da valori superiori all’11% intorno al 2%.
Il rapporto tra debito pubblico e pil, grazie alla capacità di generare persistenti ed elevati
avanzi primari di bilancio è stato prima stabilizzato e poi significativamente ridotto (dal 124
al 107% tra il 1995 ed il 2002).
L’inflazione, grazie soprattutto alla moderazione salariale attuata con la politica dei redditi e
fortemente voluta da tutte le parti sociali e che deve continuare, è stata sostanzialmente
allineata a quella media europea.
Il riequilibrio dei conti pubblici ha portato anche ad una forte contrazione degli investimenti
in infrastrutture. Agli inizi degli anni novanta il rapporto tra spese per investimenti pubblici e
prodotto interno lordo era pari al 3,3%; è sceso sotto il 2,5% a metà degli anni novanta e si sta
oggi solo lentamente riprendendo.
Il mancato dividendo dell’aggiustamento macroeconomico
Quello che bisogna chiedersi è come mai il dividendo macroeconomico di questo
aggiustamento non sia stato ancora incassato. Non è stato incassato, si osservi bene, né nel
periodo immediatamente successivo all’ammissione dell’Italia nella moneta unica (19982000), né più di recente. In particolare bisogna domandarsi se non cominci ad esservi, in
particolare nei comportamenti di spesa delle famiglie, anche europee e non solo italiane, un
atteggiamento di prudenza che sconta anche l’idea che il modello sociale non sia sostenibile
nel lungo periodo. Appare da questo punto di vista sempre più evidente che, in Europa, il
sistema previdenziale pubblico finisce per drenare un ammontare abnorme di risorse tanto da
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creare poi ritardi rilevantissimi su gli altri fronti e sugli altri settori della competizione.
Questo problema si presenta in termini e dimensioni molto serie per il nostro paese.
I termini del problema sono ben noti. L’indice di dipendenza degli anziani, come misurato dal
rapporto tra la popolazione con età maggiore o uguale a 65 anni e la popolazione con età
compresa tra 14 e 65 anni, pari nel 2000 al 26,5 per cento in Italia a fronte del 23,2 per cento
dell’area euro e del 19 per cento degli Stati Uniti), crescerà nei prossimi decenni a ritmi molto
più sostenuti che nel resto dei paesi industriali. In Italia (e in Spagna) nel 2050 supererà il
60%. Ciò manterrà forti le pressioni sugli equilibri economici degli enti previdenziali.
Secondo le previsioni ufficiali formulate dalla Ragioneria generale dello Stato nei prossimi
decenni il rapporto tra spesa pensionistica e pil, che è oggi intorno al 14,% al livello più
elevato tra i paesi europei, potrà crescere di un ulteriori 1,7 punti entro il 2030 e solo dopo
manifestare una lenta tendenza decrescente. Si tratta della famosa “gobba”.
Qualche volta, a sostegno della tesi di non intervento in campo pensionistico viene offerto
anche l’argomento macroeconomico: si sostiene che la riduzione delle future prestazioni
pensionistiche incide sulle scelte tra consumo e risparmio presenti e stimolando una riduzione
della spesa privata rischia di abbassare il tasso di sviluppo dell’economia. Effetti di questo
tipo si sarebbero verificati, in Italia, nella prima parte degli anni novanta quando, il passaggio
ad uno schema normativo fortemente penalizzante per i segmenti più giovani della
popolazione avrebbe ridotto il consumo delle classi di età giovani producendo un forte
decremento dei consumi aggregati.
Forse varrebbe la pena chiedersi se non sia probabile che accada l’inverso. Può essere infatti
vero che i consumatori associno alla loro ricchezza pensionistica un coefficiente di probabilità
di poterne effettivamente disporre che è funzione diretta della percezione che essi hanno della
sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale e dunque della capacità del sistema
medesimo di tener fede alle promesse fatte. Un sistema pensionistico pienamente affidabile,
solido, in grado di mantenere gli impegni assunti con i contribuenti (impegni magari meno
generosi rispetto al passato) può rafforzare la tenuta di lungo periodo del sistema e dunque,
infondendo maggiore fiducia e migliorando le aspettative, stimolare i consumi presenti
piuttosto che deprimerli.
E’ piuttosto probabile che proprio l’approccio eccessivamente gradualistico abbia
condizionato le aspettative non facendo percepire il processo di riforma come definitivo,
risolutivo; da questo punto di vista il costo macroeconomico sarebbe individuabile proprio nel
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fatto che il modo di operare non è stato in grado di produrre quegli effetti benefici che
possono quanto meno mitigare, in alcune circostanze, gli effetti restrittivi di una riduzione
della spesa pensionistica.
E’ in ogni caso al lavoro, su questo fronte, un gruppo di studio presso la Commissione
europea. Nel Consiglio Ecofin del 13 maggio scorso, è stata ribadita in particolare l’esigenza
di interventi in tema di previdenza e di spesa collegata all’invecchiamento della popolazione.
Su questo aspetto, che ha costituito specifico tema all’ordine del giorno, il Consiglio ha
invitato l’Economic Policy Committee a continuare i propri lavori per presentare a novembre
2003 un’analisi accurata che si focalizzi sugli andamenti dei prossimi 10-15 anni e presenti
proposte concrete. Sarà necessario esaminarle con cura.
In ogni caso, un sistema che voglia competere si deve porre in maniera seria il problema del
futuro della propria popolazione e delle spinte che la crescita delle spese pubbliche per
l’invecchiamento della popolazione eserciterà sul deficit e sul debito con conseguente
drenaggio di risorse agli investimenti produttivi. Appare di tutta evidenza un circolo vizioso
che è del seguente tipo: l’elevatissimo e distorsivo peso della previdenza pubblica sottrae
risorse agli ammortizzatori sociali, alle spese per la famiglia, disincentiva la stessa natalità
(accanto a molti altri fattori, naturalmente), crea incertezza sulle prospettive e tende a ridurre
consumi e domanda.
Come è noto, nello scorso autunno vi è stata una intensa discussione sul grado di stringenza
del Patto di stabilità e di crescita in un contesto economico come quello europeo che
manifestava, già allora, una situazione di sostanziale stagnazione delle attività. La
Commissione europea ha quindi proposto una sorta di reinterpretazione del Patto
raccomandando al Consiglio europeo di fissare il principio – cosa che è stata fatta - secondo il
quale i paesi che non hanno ancora raggiunto una posizione di bilancio in pareggio o in
avanzo ( sono 8 su 12) si impegnino a a ridurre di almeno mezzo punto di pil all’anno non il
disavanzo effettivo ma quello corretto per tener conto del ciclo economico. Il nostro Paese,
nell’aggiornare il proprio Programma di stabilità, aveva fissato, lo scorso novembre, un
obiettivo coerente con questo impegno. Esso dovrà essere ribadito con il Documento di
Programmazione economica e finanziaria per il 2004-07.
La reinterpretazione del Patto di stabilità e di crescita rappresenta un passo importante e
positivo ma sarebbe assai pericoloso se il Patto stesso perdesse la sua credibilità: il rispetto
dei nuovi obiettivi posti rappresenta pertanto questione centrale. L’idea, pure da più parti
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avanzata, di poter eliminare dal calcolo del deficit le spese per investimenti, pur condivisibile
in linea di principio potrebbe portare a notevoli complicazioni in ordine al fatto che spese
importanti e con rilevanti riflessi sulla crescita di lungo periodo sono attualmente iscritte nei
bilanci pubblici come spese correnti (si pensi a quelle per l’istruzione). Assai convincenti
appaiono invece le linee direttrici del cosiddetto Action plan che dovrebbe costituire anche
una centrale iniziativa della Presidenza italiana dell’UE, teso a disegnare un piano di sviluppo
a livello europeo di fondamentali infrastrutture senza incidere sui deficit pubblici.
2. La competitività del settore bancario
I progressi conseguiti negli ultimi anni
Negli ultimi anni il settore bancario italiano ha fortemente accresciuto la sua capacità
competitiva. Agli inizi della seconda metà degli anni novanta vi era un diffuso consenso nel
ritenere che le banche italiane presentassero ancora tre principali punti di debolezza, che ne
minavano la capacità di competere e la capacità di accompagnare adeguatamente lo sviluppo
produttivo del paese: 1) dimensioni inadeguate; 2) insoddisfacente struttura proprietaria, con
una ancora significativa presenza dell’azionista pubblico; 3) modesti livelli di redditività.
Grazie ad un azione incisiva e ad ampio raggio, il sistema bancario italiano è riuscito a
percorrere negli ultimi anni un lungo tratto di strada e a ridurre fortemente i divari preesistenti
su tutti questi fronti.
Il sistema è andato incontro innanzitutto ad un forte aumento del grado di concentrazione. Ai
primi cinque gruppi fa capo il 55% del totale attivo a fronte del 36% nel 1995. Il dato
dell’Italia per il 2002 è poco sotto il 50% per il mercato francese, circa il 58% per quello
spagnolo e superiore a quello tedesco (38%). L’aumento del grado di concentrazione è stato
realizzato attraverso un rilevante numero di operazioni: dal 1990 al 2001 sono state effettuate
387 operazioni di fusione e acquisizione per circa il 14% dei fondi intermediati, 166
operazioni di acquisizione della maggioranza del capitale per circa il 33% dei fondi
intermediati. Le operazioni di importo più significativo sono state realizzate nella seconda
parte degli anni novanta.
E’ cambiata profondamente la struttura proprietaria. Negli ultimi anni il numero delle banche
quotate in borsa è raddoppiato; il 60% del totale del capitale bancario è oggi quotato. L’80%
dei fondi intermediati complessivi fa capo, su base consolidata, alle 40 banche quotate sul
mercato principale. Intenso è stato al contempo il processo di riallocazione della proprietà
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delle banche: a fine 2002, con il perfezionamento delle operazioni già avviate, la quota dei
fondi intermediati da banche e gruppi facenti capo allo Stato, agli enti territoriali e alle
fondazioni è scesa al 10%.
Vi è stato infine un forte recupero di redditività. Il Roe è passato dal 2% medio del triennio
1995-19971 all’11,5% del 2000, anche se è tornato a diminuire nell’ultimo biennio
fondamentalmente a riflesso della crisi dei mercati finanziari. Nel 1997 la redditività più bassa
veniva registrata dalle banche maggiori. Successivamente queste banche hanno presentato un
livello di redditività superiore alla media del sistema. Nel quinquennio 1994-1998 i principali
gruppi bancari italiani presentavano una redditività media intorno al 3%. Nello stesso periodo
quelli europei raggiungevano il 10%; i migliori, quelli spagnoli, il 13%. Il biennio 1999-2000
segna un momento di svolta: mentre il dato medio in Europa si posiziona intorno al 14%,
l’Italia guadagna oltre nove punti, superando il 12%.
Il ragguardevole recupero di redditività registrato negli ultimi anni è conseguente ad
un’azione incisiva che si è articolata tanto sul fronte dei costi quanto su quello dei ricavi.
Quanto ai primi è stata significativamente corretta la dinamica del costo del lavoro unitario
(anche se esso permane più elevato rispetto alla media europea) e si è ridotto marcatamente il
numero degli addetti.
Il costo del lavoro sui fondi intermediati è passato dall’1,26% nel 1999 all’1,10% nel 2002.
Nel periodo 1997/2002 il numero di addetti è diminuito di oltre 1%. E’ stato favorito l’esodo
di circa 22 mila dipendenti attraverso l’erogazione di incentivi per oltre 1,6 miliardi di euro.
Ulteriori 500 milioni sono attribuibili ad interventi gestiti dal fondo di solidarietà. I nuovi
piani industriali di rilevanti gruppi bancari italiani resi noti segnalano ulteriori riduzioni
occupazionali valutabili in 15.000-20.000 unità nei prossimi anni.
Se si guarda ai gruppi bancari che hanno operatività internazionale, l’incidenza del costo del
lavoro complessivo sul margine di intermediazione permane penalizzante per gli operatori
nazionali (39% per i gruppi bancari nazionali e 31% per i principali competitors europei, dati
2001).
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Esso aveva raggiunto il suo livello minimo nel 1997 con lo 0,5%
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Quanto ai ricavi, si è favorito un deciso mutamento di peso tra le fonti reddituali. Nel 1997 il
margine da servizi generava il 30% circa del totale del margine di intermediazione, nel 2002
tale percentuale sfiorava il 43%. La diversificazione delle fonti di ricavo è stata realizzata, in
particolare, nelle aree dell’intermediazione tradizionale e in quelle del sistema dei pagamenti,
come nell’asset management e nel corporate banking. Intenso è risultato lo sviluppo di
prodotti e servizi personalizzati altamente correlati
alle aspettative della clientela
(bancassurance e corporate finance). Questo processo ha contribuito ad elevare il grado di
redditività del sistema senza peraltro incidere significativamente sul grado di volatilità dei
profitti, come dimostra la performance reddituale dello scorso biennio ove depurata dai fattori
eccezionali che l’hanno condizionata (crisi Argentina, etc..).
Al recupero di redditività e al miglioramento strutturale del sistema bancario si è
accompagnata una notevole crescita della qualità del credito. Il grado di rischiosità degli attivi
bancari è oggi su livelli storicamente bassi: il rapporto sofferenze nette/impieghi totali si è
collocato a marzo 2003 a 1,93% (6,31% nel 1996). Una indicazione del miglioramento della
qualità del credito è ravvisabile anche nella dinamica del rapporto sofferenze nette/patrimonio
di Vigilanza, posizionatosi a marzo 2003 al 10,60% dal 37,9% di fine 1996.
La trasformazione del sistema bancario ha trovato segni tangibili anche nei processi di
riorganizzazione gestionale ed operativa e nella crescita della presenza fisica sul territorio.
Gli oltre 15.000 sportelli del 1989, anno che precedeva la liberalizzazione, sono diventati
quasi 30.000 a fine 2002, passando da 2,7 sportelli ogni 10.000 abitanti a 5,3. Lo stesso
rapporto, per gli sportelli automatici, è superiore a 6. Entrambi questi valori sono in linea con
quanto registrato in media in Europa. Queste evidenze si rafforzano con riferimento al
numero di POS ogni 10.000 abitanti: in Italia nel 2002 è pari a 140, contro l’ultimo dato
disponibile per l’Europa che sia attesta sul 100. Tuttavia, è da segnalare che l’utilizzo degli
sportelli automatici e dei POS è ancora relativamente contenuto in Italia rispetto alla media
dei paesi europei (per gli sportelli automatici si registrano in Italia 16.500 operazioni per
sportello contro 43.600 in Europa, per quanto riguarda i POS, in Italia 1.000 operazioni per
POS contro le 3.200 operazioni in Europa).
Notevoli progressi sono stati conseguiti in termini di produttività. Dai dati di bilancio
delle banche del paniere delle Semestrali ABI (101 banche) si rileva come il rapporto numero
medio dipendenti/numero sportelli abbia manifestato negli ultimi anni una tendenza alla
diminuzione. Questo indicatore, infatti, per le 101 banche esaminate si è ridotto a dicembre
2002 a 12,4 unità dalle 12,8 di dicembre 2001 e dalle 16 di dicembre 1996.
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Il rapporto totale attivo/numero medio dipendenti per il totale del settore bancario italiano ha
manifestato a dicembre 2002 un ulteriore miglioramento rispetto a dicembre 2001. Questo
indicatore è risultato a dicembre 2002 pari a 5,83 milioni di euro dai 5,47 milioni di euro
dicembre 2001 e dai 3,96 milioni di euro di dicembre 1996. L’incremento risulta più
contenuto se il totale attivo viene calcolato in termini reali (da 4,72 milioni di euro di
dicembre 2001 a 4,91 milioni di dicembre 2002 (3,80 nel 1996)).
I più rilevanti ratios di produttività economica (a prezzi 1995) mostrano, infine, una
lieve flessione nell’ultimo anno: il rapporto risultato lordo di gestione/numero medio
dipendenti è risultato, infatti, nel 2002 pari a 66.700 euro, in diminuzione rispetto ai 78.600
euro del 2001. Tuttavia in forte crescita se si considera 1996, quando il valore di questo
rapporto era pari a 45.300 euro.
Strumenti di finanziamento e rapporto banche-imprese
La crescita delle capacità competitive del sistema bancario è stata significativamente trasferita
al sistema delle imprese italiane, sia di grandi che di piccole e medie dimensioni.
Impieghi/pil
Nel corso degli ultimi anni il rapporto tra impieghi bancari e Pil ha registrato un continuo
trend crescente. Attualmente è quasi l’80%, con un incremento di circa 20 punti percentuali
rispetto al livello del 1995. Dal gennaio 1999, data dell’avvio dell’euro, le banche italiane
hanno incrementato gli impieghi alle imprese di oltre 140 miliardi di euro. Nell’ultimo
decennio l’ammontare dei finanziamenti bancari è quasi raddoppiato, mentre nello stesso
periodo il PIL ha presentato un incremento complessivo di circa il 60% e gli investimenti
sono cresciuti meno del 20%. Il rapporto impieghi/totale attivo risulta in Italia pari ad oltre il
50%, superiore a tutti gli altri principali paesi europei.
Nell’ultimo quadriennio la dinamica dei prestiti delle IFM italiane si è posizionata sempre al
di sopra di quella media degli altri Paesi dell’area dell’euro, segnando un differenziale medio
del periodo di circa 2 punti percentuale; differenziale positivo che con la Germania – sempre
nella media del quadriennio considerato - raggiunge i 6,5 punti percentuali.
Il supporto finanziario alle imprese è adeguato: la quota dei finanziamenti bancari loro
destinati si è ragguagliata ai due terzi del totale degli impieghi, valore notevolmente superiore
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al 47,4%, che rappresenta la media dell’area euro. In particolare, nel 2002 i finanziamenti
destinati alle imprese non finanziarie hanno manifestato un tasso di crescita di circa il 5%.
Tassi di interesse
Negli ultimi anni tassi di interesse bancari hanno registrato forti riduzioni in linea con gli
impulsi di politica monetaria e con il miglioramento della qualità del credito. Oggi il tasso
medio sui prestiti si è colloca intorno al 5,1% (media di maggio), il valore più basso mai
registrato nel nostro Paese (era superiore al 18% all’inizio del 1993). In termini reali si è
passati da circa il 14% a circa il 2%. Nel fissare i tassi le banche continuano a trasferire i
miglioramenti di efficienza sulla clientela avendo però, correttamente, riguardo alla
evoluzione della rischiosità.
Supporto delle PMI
In Italia, più che in Europa, assai rilevante è il supporto finanziario offerto dalle banche alle
piccole e medie imprese (PMI). Nel nostro paese la quota sul totale degli impieghi fino a
500.000 euro (considerando anche i crediti non censiti dalla Centrale dei Rischi fino a 75.000
euro) risulta alla fine del 2002 pari a circa il 25%, percentuale che raggiunge quasi il 50%
qualora si considerino i finanziamenti fino a 5.000.000 euro (ammontare di impieghi che
verosimilmente è diretto alle piccole e medie realtà imprenditoriali). Anche dal confronto
internazionale emerge la particolare attenzione che le banche italiane dedicano al comparto
delle imprese di più piccole dimensioni: i finanziamenti bancari alle piccole imprese in
rapporto al totale delle passività delle imprese – pari a quasi il 25% in Italia – appare in linea
con quello spagnolo (24,6%) e notevolmente superiore a quello delle banche francesi
(12,2%). Anche per la classe dimensionale delle imprese medie e per quella delle imprese
grandi, tale rapporto risulta nettamente superiore con riguardo all’Italia.
Una conferma indiretta di tale fenomeno si può trarre dall’analisi del rapporto fra i fondi
propri e totale delle passività delle imprese, che in Italia appare notevolmente inferiore a
quello medio di Spagna e Francia. Solo per fare un esempio, tale rapporto per le piccole
imprese in Italia risulta pari al 25,3%, valore fortemente inferiore al 40% di Spagna e Francia.
Leasing e factoring
In crescita, anche se decelerata rispetto al 2001, è risultata la dinamica dell’attività di
factoring e di leasing effettuate da banche e società finanziarie, il cui ammontare complessivo
è stato alla fine del 2002 di quasi 100.000 milioni di euro, con un ritmo di crescita del 2,5%
per le operazioni di factoring e del 12,5% per quelle di leasing.
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In particolare, le operazioni di leasing messe in essere dalle banche hanno manifestato
un ritmo di sviluppo di circa il 15,5%, un valore superiore con quanto segnato dalle società
finanziarie (11,7%). Una dinamica divergente fra le società finanziarie e le banche si
riscontra, invece, per le operazioni di factoring: 3,7% contro –8,9%.
Entrambi i comparti di attività in esame sia prevalente la quota di mercato detenuta
dalle società finanziarie rispetto a quella detenuta direttamente dalle banche (78,9% rispetto al
21,1% per il leasing, 91,2% contro l’8,8% per il factoring). Tuttavia se si considera che una
quota rilevante delle società finanziarie è di emanazione bancaria l’incidenza dei
finanziamenti intermediati direttamente e indirettamente dal sistema bancario risulta superiore
al 50%.
Venture capital e private equity
Il mercato italiano del venture capital e del private equity, dopo la battuta di arresto
registrata nel 2001, ha manifestato, come si è detto, evidenti segni di ripresa nel corso del
2002. Tale accelerazione, se pur in linea con quanto accaduto negli altri paesi europei, è
decisamente superiore della media del continente: in Italia l’ammontare investito nel settore è
stato superiore a quello investito nell’anno precedente del 20%, mentre a livello europeo tale
ammontare è cresciuto dell’11%.
In particolare nel 2002 gli investimenti nel mercato del venture capital e del private equity
ammontano a 2,6 miliardi di euro, pari allo 0,5% dei finanziamenti bancari a medio/lungo
termine (0,4% nel 2001) e circa al 45% delle partecipazioni detenute dalle banche nelle
società non finanziarie (60% laddove si considerino le partecipazioni delle banche in imprese
non finanziarie non quotate). A contribuire a questa crescita, determinante è stato
l’incremento sul segmento rappresentato dalle operazioni di buy out, i cui investimenti sono
cresciuti da 46 milioni di euro nel 2001 a 1.550 milioni nel 2002; considerevole è stata anche
la crescita degli investimenti coinvolti in operazioni di expansion financing: in questo
segmento del venture capital l’ammontare investito, è aumentato, nell’intervallo 2001-2002,
da 122 a 806 milioni di euro.
Il nostro settore è impegnato fortemente nel consolidare i progressi sin qui conseguiti. La
redditività delle banche italiane resta al di sotto di quella dei principali concorrenti stranieri.
Nell’attuale contesto la velocità dell’innovazione tecnologica impone un’enorme capacità di
adattamento e di risposta alle pressioni competitive e richiede delle strategie di sviluppo che
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siano ben calibrate in termini di strumenti-obiettivi a seconda dell’arco temporale che si
intende affrontare. E’ pertanto prevedibile che i players di maggior successo saranno quelli
capaci di adeguare nel continuo prodotti, servizi, processi produttivi; in una parola saranno
quelli che potranno operare con un adeguato livello di flessibilità.
3. La competitività del Paese e quella del settore bancario: una stretta interrelazione
Se è vero che il grado di competitività di un sistema è fatto dal grado di efficienza e di
concorrenzialità dei suoi svariati mercati (dei beni, dei servizi, dei capitali, del credito) noi
possiamo dire che avendo realizzato un salto qualitativo così rilevante abbiamo fornito un
impulso positivo alla competitività della nostra economia e del nostro paese. E’ tuttavia fuori
discussione come la competitività dei singoli settori economici tragga alimento anche dalla
competitività complessiva dell’economia. Come settore, sentiamo, ci sia consentito ricordarlo
in questa sede, di essere frenati da una serie di vincoli che non sono nostri ma sono di
contesto e che si riaffermano sempre più come forti svantaggi competitivi. Riteniamo che sia
interesse di tutto il paese rimuovere queste anomalie che non consentono una competizione
livellata. I fronti su cui è necessario agire sono molteplici; consentitemi di ricordarne qui
almeno quattro: quello della giustizia, quello della previdenza, quello del fisco, quello infine
delle grandi infrastrutture.
Sul fronte della giustizia il nostro Paese necessita di interventi che possono avere importanti
riflessi sulla competitività e ciò sia in tema di diritto civile che, in particolare, di diritto
fallimentare.
Negli anni scorsi l’ABI, ha cercato di quantificare, attraverso una ricerca realizzata negli anni
scorsi d’intesa con l’Università Bocconi, gli effetti dell’inefficienza della giustizia civile.
L’inefficienza delle procedure genera effetti negativi sull’intero sistema economico
vincolando la trasmissione delle risorse finanziarie via rapporti di credito. E’ emerso, infatti,
così che i tempi medi di recupero presentano significative differenze tra le diverse tipologie di
procedura; i tempi medi più bassi si riscontrano per le procedure esecutive individuali
mobiliari (tra 18 e 30 mesi) e per le procedure stragiudiziali (tra 21 e 27 mesi). Per le
procedure esecutive individuali di tipo immobiliare, i tempi medi di recupero si alzano
significativamente, oscillando tra i 5 anni per il Nord e i 7 anni per il Sud.
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I tempi medi di recupero risultano ancora più elevati per le procedure fallimentari: 6,5 anni
per il Nord e quasi 9 anni per il Sud; per le restanti procedure concorsuali essi risultano
ancora maggiori (tra 5,5 e 8,5 anni).
Per superare questa situazione, si impongono, pertanto, alcune riforme strutturali, da
concludere nel più breve tempo possibile, tutte volte a ridisegnare il sistema di soluzione delle
controversie.
Improcrastinabile è anche la riforma del diritto fallimentare: l’attuale disciplina concorsuale è
funzionale più a liquidare l’impresa in difficoltà che a consentire il suo salvataggio.
Si impone, pertanto, una modifica strutturale che in primo luogo, inverta questa impostazione
e preveda una procedura di “pre-crisi”, cui possano accedere imprese in difficoltà non
irreversibile e nella quale acquisisca importanza rilevante l’accordo dei creditori circa la
percorribilità del piano di risanamento presentato dall’impresa stessa.
L’intervento del giudice dovrebbe limitarsi ad accertare la legittimità del piano, mentre la
verifica della sua attuabilità sostanziale va rimessa all’apprezzamento dei creditori. Si tratta
anche in questo caso di delineare procedure che privilegiano il momento dell’accordo
privatistico, piuttosto che quello dell’intervento autoritativo del giudice.
Un simile intervento deve altresì prevedere che, in caso di mancato successo del piano, i
creditori che l’hanno sostenuto e le banche che hanno erogato “nuova finanza” per
consentirne il buon esito, non si vedano penalizzate in termini sia civili (azionabilità
dell’azione revocatoria) sia penali (accuse di concorso in bancarotta).
Altrettanto importanti sono i seguenti aspetti:
a)
la revisione della disciplina della revocatoria fallimentare: escludere che possano
essere revocabili gli atti che rientrano nell’ordinario svolgimento dell’attività
d’impresa e ridurre dei tempi per l’attivazione dell’azione medesima;
b)
il miglioramento dell’efficienza complessiva delle procedure: attraverso modifiche che
consentano di velocizzare il momento dell’accertamento del passivo e del riparto
dell’attivo, aumentare i poteri del curatore e collegando l’intervento del giudice (ed il
ricorso al medesimo da parte dei creditori) solo al verificarsi di situazioni
particolarmente significative.
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Nell’ambito di una nuova architettura del diritto fallimentare le banche devono essere messe
in condizione di sfruttare al meglio la loro professionalità ed il loro ruolo. Ciò potrà riflettersi
in una maggiore possibilità, da parte delle banche, di affiancarsi all’impresa in difficoltà,
anche nell’interesse dell’intero ceto creditorio; nella maggiore possibilità di successo della
cosiddetta “nuova finanza” nonché nel più efficiente funzionamento dei meccanismi di
mercato attraverso la corporate governance e una maggiore simmetria informativa
Occorre, infine, definire una nuova disciplina fiscale delle situazioni di crisi d’impresa che
eviti di penalizzare i creditori disponibili ad aderire a piani di risanamento.
L’attuale disciplina fiscale non contiene elementi atti a favorire il risanamento della
impresa in crisi: non solo non prevede disposizioni che incentivino l’intervento attivo dei
creditori nel risanamento di un’impresa in difficoltà, ma inoltre, contribuendo a rendere
particolarmente onerosa per il creditore la gestione del rapporto con l’impresa in crisi, è
suscettibile di aggravare la situazione di difficoltà dell’impresa finanziata.
Il differente e meno favorevole regime fiscale rappresenta pertanto per i creditori un
incentivo di fatto ad anticipare l’inizio della procedura concorsuale, al solo fine di poter
dedurre le perdite e le svalutazioni su crediti. L’attuale disciplina fiscale, in sostanza, non è
neutrale ma distorsiva nelle scelte che i creditori debbono fare di fronte alle situazioni di crisi
dell’impresa, non risultando fiscalmente equivalenti il risanamento dell’impresa o la sua
liquidazione.
Proseguendo nel raffronto con l’operatività degli altri principali paesi europei, il penalizzante
anacronismo della legge fallimentare italiana impedisce alle banche di utilizzare le tecniche e
gli strumenti che si richiedono laddove il credito inizia a presentare segni di criticità. Il fatto
che la procedura concorsuale della amministrazione controllata costituisca la sola fattispecie
ispirata alla cultura del risanamento di impresa ne è la riprova. Per questa ragione, le banche
italiane, quali creditori rilevanti verso imprese in stato di difficoltà, si trovano nella
impossibilità di intervenire tempestivamente nei casi in cui sarebbe possibile perseguire un
recupero dell’intero complesso aziendale. In altri paesi europei un più adatto quadro
normativo consente, da una parte, la permanenza sul mercato ed il ripristino di condizioni di
sano funzionamento ad imprese in crisi ma economicamente meritevoli di restare sul mercato
stesso; dall’altra parte, permette alle banche creditrici il ripristino della qualità del credito.
Un secondo fronte di penalizzazione competitiva connessa alla regolamentazione vigente in
materia di crisi dell’impresa deriva dal diverso regime delle revocatoria fallimentare nei
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principali paesi UE. Nel panorama europeo, l’Italia si caratterizza per una maggiore durata del
cosiddetto “periodo sospetto” ma anche per la maggiore ampiezza delle categorie di
operazioni bancarie assoggettabili a revocatoria; conseguentemente l’ammontare delle
rimesse revocabili costituisce un multiplo rispetto a quelle degli altri paesi europei.
Tali penalizzazioni sono peraltro amplificate dalla maggiore durata dei procedimenti
giudiziari relativi all’azione revocatoria (di norma pari in Italia a circa 6 anni). Da una
apposita rilevazione condotta dall’ABI, emerge che i costi di gestione amministrativa delle
posizioni soggette a revocatoria sono ingenti.
Si tenga conto che tali forme di inefficienze si traducono in un costo diretto anche in termini
di più elevati tassi di interesse per le imprese: valutiamo che uno schema di pricing che tenga
pienamente conto della filosofia di Basilea 2 potrebbe portare ad una riduzione dei tassi assai
considerevole ove le anamalie di cui si è detto fossero eliminate (anche di 100 punti base).
Il secondo fronte è indubbiamente quello della previdenza.
Si è accennato più sopra alla necessità di por mano, in via definitiva, alle riforme delle
pensioni già realizzate in Italia nel corso degli anni novanta (ne sono state realizzate ben tre:
quella Amato, quella Dini e quella Prodi) al fine di completarle tenendo conto dei problemi
posti dalla eccessiva lunghezza della fase di transizione dal regime attuale a quello
contributivo ed in particolare ad alcuni aspetti di fragilità che caratterizzano il sistema italiano
(a partire dal peculiare istituto della pensione di anzianità). Come detto, non vanno
nienteaffatto trascurati gli stessi benefici macroeconomici che interventi di definitiva
sistemazione della questione pensioni potrebbero avere in termini di crescita, come è stato
accennato. Ma legato strettamente a questo profilo macro v’è, in tema di sistema
previdenziale, l’aspetto microeconomico e di funzionamento di due importanti mercati: quello
del lavoro e quello finanziario.
Quanto al primo aspetto è importante rimarcare i rilevanti danni prodotti sui meccanismi
di funzionamento del mercato del lavoro da un sistema pensionistico come quello attuale che
ha finora disincentivato e continua a disincentivare, per i lavoratori a cui continua ad
applicarsi il sistema retributivo, la mobilità perfino tra imprese dello stesso settore. Viceversa
abbiamo bisogno sempre più di un mercato del lavoro in cui non sia ostacolata la mobilità dei
lavoratori che se vogliono devono poter passare agevolment dal settore industriale a quello
dei servizi, dal settore privato a quello pubblico, dal comparto del lavoro dipendente a quello
del lavoro autonomo.
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Quanto invece al secondo punto, è cosa ampiamente nota che nella maggior parte dei paesi
industrializzati i fondi pensione rappresentano una delle principali forme di investimento del
risparmio finanziario gestito, oltre che, ovviamente, un pilastro fondamentale della previdenza
integrativa. Di contro, in Italia, essi continuano a rappresentare il “grande assente”, il tassello
mancante del nostro mercato finanziario. Del tutto insoddisfacente è il livello di sviluppo
della previdenza complementare, soprattutto nel confronto europeo. L’incidenza dei prodotti
assicurativi vita e dei fondi pensione sul totale delle attività finanziarie delle famiglie è infatti
intorno al 7/7,5% in Italia rispetto all’11-12% della Spagna, al 19% della Francia e al 25%
della Germania. Se poi si va a disaggregare quel 7-7,5% dell’Italia, si osserva che purtroppo
esso è costituito solo per l’1% da fondi pensione.
L’ampia diffusione dell’investimento in queste attività finanziarie è assolutamente necessaria
per il Paese ed assume preminente rilevanza soprattutto per le giovani generazioni, per le
quali il grado di copertura della previdenza obbligatoria si è significativamente ridotto a
seguito delle riforme degli anni novanta. Il mancato sviluppo dei fondi pensione danneggia i
nostri mercati finanziari perché li priva di un importante strumento di allocazione del
risparmio a lungo termine e li rende dunque meno stabili.
Nel corso dell’ultimo semestre ha subito un nuovo impulso il disegno di legge delega di
riforma complessiva della previdenza complementare, mediante anche l’utilizzo del TFR,
approvato dal Consiglio dei Ministri nel dicembre 2001 ed attualmente all’esame del Senato.
Tale disegno di legge delega mira a:
•
•
•
•
favorire e ampliare il trattamento di fine rapporto maturando alla previdenza
complementare;
perfezionare l’unitarietà e l’omogeneità del sistema di vigilanza sull’intero settore,
comprese le forme pensionistiche individuali;
semplificare le procedure amministrative;
ridefinire la disciplina fiscale della previdenza complementare.
Ribadiamo qui, come abbiamo fatto in molte e diverse sedi istituzionali e politiche,
l’importanza di definire un assetto della previdenza complementare caratterizzato dalla parità
competitiva tra fondi pensione negoziali e aperti, allo scopo di favorire la diffusione della
previdenza complementare nei confronti di una vasta platea di beneficiari, nonché di
sviluppare i mercati finanziari secondo regole di competitività ed efficienza.
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L’ABI è convinta che il mancato decollo della previdenza complementare, segnatamente di
secondo pilastro, è dovuto soprattutto alla circostanza che in Italia si è privilegiato un modello
di forma pensionistica, “fondo pensione negoziale di categoria”, che mal si attaglia a tutta la
realtà produttiva e territoriale italiana, in quanto si radica solo in realtà fortemente
sindacalizzate. Ciò ha comportato la mancanza di effettiva concorrenza tra fondi pensione
negoziali e fondi pensione aperti, cosicché né aziende né lavoratori percepiscono oggi i fondi
pensione offerti dagli intermediari finanziari come validi prodotti di 2° pilastro.
Ad avviso dell’ABI per sviluppare il secondo pilastro della previdenza complementare
occorre:
-
rimuovere gli ostacoli normativi e fiscali che, sia in fase di adesione che di trasferimento,
impediscono un’effettiva concorrenza tra fondi pensione negoziali e aperti;
-
elevare, per contro, lo standing dei fondi pensione aperti, in modo da renderli percepibili
come alternativa credibile rispetto agli stessi fondi pensione negoziali, innalzandoli
conseguentemente al rango di forma pensionistica di 2° pilastro, mediante in primo luogo
il potenziamento dei meccanismi di “governance”.
Allo scopo sono state elaborate specifiche proposte per:
-
rimuovere gli attuali vincoli alla realizzazione di adesioni collettive a fondi aperti,
derivanti da una discutibile interpretazione della COVIP (maggio 1999) sulla normativa di
riferimento (art. 9, comma 2, seconda parte del D.Lgs. n. 124/1993);
-
riconoscere la c.d. “portabilità dei contributi”, limitatamente alle forme di c.d. secondo
pilastro, in caso di trasferimento volontario di un lavoratore dipendente da un fondo
pensione negoziale ad uno aperto;
-
potenziare le esigenze di “governance” dei fondi pensione aperti, promuovendo
l’indipendenza del responsabile dei fondi aperti, nonché l’attività degli organismi di
sorveglianza eventualmente istituiti nell’ambito delle adesione collettive ai fondi aperti,
anche ai fini della tutela dei lavoratori aderenti in caso di insolvenza dei relativi datori di
lavoro.
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Il terzo fronte sul quale è necessario segnare progressi rilevanti per accrescere la competitività
del sistema è quello fiscale. In economia, le distorsioni che un elevato livello di tassazione
provoca sulle scelte dei lavoratori e delle imprese sono note. E’ noto che imposte troppo
elevate scoraggiano il lavoro e il capitale, che essendo fattore che gode di un pieno livello di
mobilità, tende spostarsi su mercati ed aree geografiche più redditizie. E’ fondamentale, per
l’intero sistema produttivo, allentare il peso del fisco e portare a compimento il disegno di
riforma presentato con la legge delega. Il tema della fiscalità costituisce uno degli aspetti più
rilevanti per la creazione di un comune piano di gioco sul quale tutte le imprese europee
possano competere senza distorsioni esogene. Un’area in cui la penalizzazione fiscale delle
banche italiane resta rilevante è quella della imposizione sul reddito. Da questo punto di vista
riteniamo cruciale che venga portato a compimento il disegno di riforma del sistema fiscale
statale con il programmato calo della tassazione sul reddito. Naturalmente ci sta a cuore il
livello complessivo delle imposte pagate quindi sia quelle erariali sia quelle locali. A
quest’ultimo riguardo, pur consapevoli che sul fronte Irap vi sono in programma innovazioni
significative non possiamo non ricordare la forte asimmetria delle aliquote attuali, che
penalizza significativamente il nostro settore, in via generale, ed ancora di più in specifiche
regioni del Paese.
Il quarto ed ultimo fronte è quello delle grandi infrastrutture. Di questa esigenza è apparso
consapevole l’attuale Governo allorchè ha posto tra i suoi obiettivi programmatici il rilancio
delle grandi opere pubbliche. Si tenga conto, a tal riguardo, che nel nostro Paese, fatta
eccezione per una sola grande opera avviata negli anni ‘80 (TAV), non si realizzano grandi
infrastrutture dagli anni ‘60. La capacità delle imprese di competere sul mercato, domestico
ed estero è saldamente legata alla qualità dei servizi offerti da un’adeguata rete
infrastrutturale. Il divario nella dotazione infrastrutturale complessiva attualmente esistente è
eccessivo: secondo dati del Ministero dell’Economia, fatto 100 il livello europeo l’Italia sta a
95, la Germania a 116, la Francia a 102, il Regno Unito a 118. Per farlo senza pesare sui conti
pubblici bisogna: a) rendere più efficace la normativa sul Project Financing; b) coinvolgere i
privati nel finanziamento delle grandi opere.
Abbiamo apprezzato positivamente, lo scorso anno, l’iniziativa di costituire Infrastrutture
SpA. Continuiamo a ritenere che tale istituto possa svolgere un ruolo importante nel rispetto
di quel principio di sussidiarietà che la stessa legge ha voluto affermare e più in generale
nella convinzione che fonti di finanziamento di natura pubblica, per progetti la cui viabilità
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finanziaria viene comunque valutata dal mercato, possono essere utili quando e laddove il
mercato privato, da solo non può funzionare.
3. Note conclusive
Il livello di competitività del nostro Paese deve crescere significativamente nei prossimi anni.
Questo processo dipende in maniera forte dal completamento di una serie di riforme che
riguardano i mercati dei fattori produttivi ed, in generale, le infrastrutture fisiche e
regolamentari. Come sistema bancario siamo riusciti negli ultimi anni a conseguire traguardi
importanti grazie ad una profonda opera di messa in discussione di assetti organizzativi,
modelli comportamentali, linee di business. E grazie alla capacità di governare in maniera
intelligente i costi. Agendo in questo modo abbiamo ben fatto, innanzitutto per i nostri
azionisti ma anche per l’intero paese, che ha oggi un sistema di intermediazione creditizia e
finanziaria più adeguato. Siamo consapevoli che il processo sia lungi dal potersi considerare
concluso. Non crediamo che non vi sia null’altro da fare. Oggi, in un contesto economico
generale non privo di difficoltà, il mercato bancario europeo ed internazionale pone nuove ed
impegnative sfide sul terreno della flessibilità, dell’efficienza, della tecnologia. Sono sfide che
noi cogliamo ma crediamo che la nostra competitività dipenda anche, e sempre di più, da
quella di contesto, di sistema. Ed anche da quella di altri settori produttivi.
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