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Pubblico Impiego
Dipendenti comunali: mazzetta fa rima con licenziamento
Paola Briguori, Guida al pubblico Impiego, Il Sole 24 Ore, aprile 2009, n. 4, p. 43
ƒ
Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 marzo 2009, n. 5581
LA MASSIMA
Dipendente comunale - Condanna penale per reato di peculato - Sanzione del
licenziamento senza preavviso - Legittimità - Previsione contrattuale - Art. 25, co. 7, del
Ccnl 22 gennaio 2004 per il personale del comparto Regioni autonomie locali,
quadriennio normativo 20022005, biennio economico 20022003
È legittima l’irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso nei confronti
del dipendente comunale condannato per il reato di concussione, in quanto tale misura è prevista
espressamente dall’art. 25, co. 7, lett. c), n. 3, del Ccnl del personale del comparto Regioniautonomie locali per il quadriennio normativo 2002-2005 e il biennio economico 2002-2003,
sottoscritto in data 22 gennaio 2004. In vero, le parti sociali, nella loro autonomia, hanno ritenuto
che in tema di impiego pubblico la condanna penale comporti di per sé il venir meno della fiducia
posta alla base del rapporto di lavoro e tanto è sufficiente per confermare la legittimità del recesso.
Inoltre, il principio di autonomia tra processo penale e processo civile non rileva, in quanto la
motivazione del recesso fa leva non solo sul fatto storico che sia stata irrogata al lavoratore stesso
una condanna penale, ma anche sulla nuova valutazione del fatto oggetto di accertamento penale,
pure in sede disciplinare.
IL COMMENTO
Il fatto all’esame dei giudici di Piazza Cavour
Un dipendente comunale impugnava la sanzione del licenziamento disciplinare senza preavviso,
irrogatagli dal datore di lavoro a seguito della condanna per il reato di concussione. In particolare,
risulta che costui aveva prestato servizio alle dipendenze dell’ente locale quale istruttore di
vigilanza ed era stato licenziato in tronco il 27 luglio 1999. Egli era stato imputato di concussione
per un episodio accaduto il 12 febbraio 1982, quando avrebbe indotto un imprenditore a versargli
50mila lire ed a promettere ulteriori 450mila lire per evitare una contravvenzione. Il processo
penale si era svolto con rito abbreviato e si era concluso con sentenza di condanna confermata in
appello e in cassazione.
Secondo il lavoratore, il licenziamento era illegittimo, perché esso non poteva basarsi sul
recepimento delle risultanze del processo penale, stante il principio della separazione dei due
giudizi. A suo avviso, occorreva procedere ad una autonoma ricostruzione dei fatti.
I due giudici di merito hanno concordato nel respingere la domanda, rilevando, tra l’altro, che la
valutazione di gravità del fatto addebitato è preclusa, non già perché tale valutazione è stata
compiuta dal giudice penale, ma in quanto le parti stipulanti il Ccnl hanno tipizzato le fattispecie
che possono condurre al licenziamento. Hanno, inoltre, osservato che, nel contesto di tale
previsione, la condanna penale costituisce un fatto in sé idoneo all’irrogazione della sanzione
espulsiva.
La decisione della Suprema corte
Come è noto, la materia disciplinare del pubblico impiego privatizzato trova la sua disciplina di
principio negli artt. 55 e seguenti del decreto legislativo n. 165/2001 e quella di dettaglio - in
particolare, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni - nella fonte negoziale.
In chiave garantista, l’art. 55 prevede, in particolare, l’applicazione dell’art. 2106 del codice civile e
dell’art. 7, co. 1, 5 e 8, della legge 20 maggio 1970, n. 300. Dispone, inoltre che, salvo quanto
previsto dagli artt. 21 e 53, co. 1, del citato Dlgs n. 165/2001 e ferma restando la definizione dei
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doveri del dipendente ad opera dei codici di comportamento di cui all’art. 54, la tipologia delle
infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi.
La materia disciplinare è ispirata al principio di tipicità delle condotte sanzionabili; il relativo potere,
esercitato dal datore di lavoro (recte, dalla PA), è configurabile come espressione di atto di
gestione del rapporto di natura privatistica, non già come espressione di potestà amministrativa. È
per questo che il legislatore ha assegnato all’autonomia negoziale il potere di determinare la
tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni.
È in questa prospettiva che deve essere letta la sentenza n. 5581 del 6 marzo 2009, pronunciata
dalla sezione Lavoro della Corte suprema di cassazione, la quale, confermando le decisioni di
merito, ha definito legittimo il licenziamento in tronco del dipendente comunale condannato in sede
penale per concussione.
Con riferimento ai settori più rilevanti del pubblico impiego privatizzato, il completamento della
disciplina sul tema si deve all’adozione del Ccnl relativo al personale del comparto Ministeri per il
quadriennio normativo 2002-2005 ed il biennio economico 2002-2003, sottoscritto in data 12
giugno 2003, e del Ccnl per il personale del comparto Regioni-autonomie locali per il quadriennio
normativo 2002-2005 e il biennio economico 2002-2003, sottoscritto in data 22 gennaio 2004. In
entrambi i contratti nazionali sono previste le norme che compongono il codice disciplinare, in cui
sono indicate le condotte illecite con le relative sanzioni. Per quanto qui occupa, l’art. 25 (rubricato
“Codice disciplinare”), del citato Ccnl per il personale del comparto Regioni-autonomie locali, al co.
7, ha previsto quali siano le fattispecie che comportino l’irrogazione della sanzione del
licenziamento del lavoratore, che, come è noto, si distingue nel licenziamento con preavviso e nel
più grave licenziamento senza preavviso o in tronco.
La norma collettiva richiamata dispone che la sanzione disciplinare del licenziamento senza
preavviso si applica nei casi più gravi, indicati in: a) terza recidiva nel biennio, negli ambienti di
lavoro, di vie di fatto contro dipendenti o terzi, anche per motivi non attinenti al servizio; b)
accertamento che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi e, comunque,
con mezzi fraudolenti, ovvero che la sottoscrizione del contratto individuale di lavoro sia avvenuta
a seguito di presentazione di documenti falsi; c) condanna passata in giudicato: “1. per i delitti già
indicati nell’art.
1, comma 1, lettere a), b) limitatamente all’art. 316 del codice penale, c), ed e) della legge 18
gennaio 1992 n. 16; per il personale degli enti locali il riferimento è ai delitti previsti dagli artt. 58,
comma 1, lett. a), b) limitatamente all’art. 316 del codice penale, lett.
c), d) ed e), e 59, comma 1, lett. a), limitatamente ai delitti già indicati nell’art. 58, comma 1, lett.
a) e all’art. 316 del codice penale, lett.
b) e c) del D.Lgs. n. 267 del 2000; 2. per gravi delitti commessi in servizio; 3. per i delitti previsti
dall’art. 3, comma 1 della legge 27 marzo 2001 n. 97”; d) condanna passata in giudicato quando
dalla stessa consegua l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; e) condanna passata in giudicato
per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al
rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica
gravità; f) violazioni intenzionali degli obblighi non ricompresi specificatamente nelle lettere
precedenti, anche nei confronti di terzi, di gravità tale, in relazione ai criteri di cui al co. 1, da non
consentire la prosecuzione.
Nella fattispecie il lavoratore aveva subito una condanna penale in esito a rito abbreviato per il
reato di concussione. Secondo la Corte di cassazione, le parti sociali, nella loro autonomia, hanno
ritenuto che in tema di impiego pubblico la condanna penale comporti di per sé il venir meno della
fiducia posta alla base del rapporto di lavoro e tanto è sufficiente per confermare la legittimità del
recesso.
Questa è - secondo i giudici - l’esatta intenzione delle parti, fondata sul prioritario e fondamentale
criterio dell’interpretazione del contratto, secondo il senso delle parole usate (Cassazione, sentenza
19 giugno 1999, n. 6176). Da ciò consegue la legittimità della misura a fronte di una condanna
penale per peculato.
Il Supremo collegio ha precisato che il principio di autonomia tra processo penale e processo civile
nella fattispecie non ha alcuna rilevanza, in quanto la motivazione del recesso fa leva non solo sul
fatto storico che sia stata irrogata al lavoratore stesso una condanna penale, ma anche sulla nuova
valutazione del fatto, oggetto di accertamento penale, anche in sede disciplinare.
Ed in vero, dal tenore della sentenza in esame, si evince che la vicenda deve essere esaminata
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sotto il diverso piano dell’accertamento della legittimità dell’operato della PA, dato dallo
svolgimento di un distinto procedimento disciplinare rispetto a quello penale che ne costituisce il
presupposto.
Si rammenta, al riguardo, che qualsiasi sanzione può essere comminata, anche dopo un giudicato
penale di condanna, solo all’esito di un rituale procedimento disciplinare volto ad acclarare la
sussistenza dei presupposti per la relativa responsabilità, che non coincidono necessariamente,
sotto il profilo og- gettivo e soggettivo, con quelli della responsabilità penale. Pertanto, sono vietati
i c.d. automatismi espulsivi, intesi come automatiche cessazioni dal servizio correlate a condanne
penali (V. Tenore, Manuale del pubblico impiego privatizzato, 2007).
Peraltro, lo spirito garantista, che permea l’intera materia, subisce evidenti deroghe nei casi in cui
le automatiche cessazioni siano conseguenti all’applicazione di pene accessorie ostative alla
prosecuzione del rapporto di lavoro, come nell’ipotesi di interdizione perpetua dai pubblici uffici.
Secondo la Corte costituzionale, in tali casi non si versa nella fattispecie del licenziamento
automatico disciplinare, ma solo in evidenti riflessi sul rapporto di lavoro di pene accessorie, aventi
finalità di difesa sociale e prevenzione speciale (Corte cost. 9 luglio 1999, n. 286).
Osservazioni conclusive
Esaminando la vicenda da tale prospettiva, tenuto conto della correttezza della sanzione irrogata
nella specie per il lavoratore condannato per il reato di concussione, in quanto ciò - come detto corrisponde alla previsione contrattuale, l’unico vaglio di legittimità deve - e può - riguardare
l’accertamento dello svolgimento di un autonomo e “giusto” procedimento disciplinare.
Sotto questo aspetto, i giudici di Piazza Cavour hanno rilevato che la determinazione dirigenziale al
riguardo risultava basata su una autonoma ricostruzione e valutazione dei fatti e che, inoltre, il
provvedimento di licenziamento per giusta causa doveva ritenersi legittimo con motivazione
esauriente, immune da vizi logici o contraddizioni, talché essa doveva sottrarsi ad ogni censura in
sede di legittimità.
Non può essere sottaciuto che proprio la fattispecie del licenziamento in tronco di cui al caso in
esame, ricadente nel n. 3 della lett. c) del co. 7 dell’art. 25 (“delitti previsti dall’art. 3, comma 1
della legge 27 marzo 2001 n. 97”), come per i casi di previsione analoga, è stata oggetto di velate
- e forse solo apparenti - censure in dottrina, poiché è stato detto che tali ipotesi configurerebbero
evenienze in cui la scelta espulsiva del datore di lavoro è coartata dalla previsione contrattuale, che
impone il licenziamento senza reali margini valutativi interni in sede disciplinare. Ciò ha fatto dire,
peraltro, che nella fattispecie si configurerebbe solo una “apparente” violazione del principio
generale del divieto di automatismi disciplinari conseguenziali a condanna penale, in quanto non
sembrerebbe prospettabile altra soluzione disciplinare a fronte di fatti di tale gravità (V. Tenore,
op. cit.). n
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