S. ZAMBERLAN, Globalizzazione, commercio

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S. ZAMBERLAN, Globalizzazione, commercio
LA GLOBALIZZAZIONE,
IL COMMERCIO EQUO E SOLIDALE
E LA FINANZA ETICA
di
STEFANO ZAMBERLAN
La globalizzazione e il divario tra il Nord e il Sud del mondo
Il processo di Globalizzazione dal punto di vista economico ha portato
alla liberalizzazione degli scambi di prodotti e di capitali. Si pensava che
questo avrebbe portato ad un aumento delle attività commerciali ed un
integrazione dei vari sistemi industriali tale da determinare una maggior
ricchezza per tutti. Purtroppo, il porre in concorrenza soggetti dal peso e
dalla maturità economica e politica così diversa, ha finito per penalizzare
i Paesi del Terzo e Quarto mondo, andando ad aggravare il già pesante
divario esistente.
Il sistema economico della maggior parte dei Paesi in via di sviluppo
(Pvs) si basa sull’agricoltura e dalle contrattazioni del WTO (World Trade
Organization) sono usciti penalizzati. Così come sono pesantemente colpiti dalle politiche protezionistiche e dalle sovvenzioni alle esportazioni dei
Paesi ricchi. I sistemi industriali, invece, che si sono sviluppati nei Pvs, si
basano su tecnologie obsolete o su produzioni inquinanti non più remunerative nei Paesi più sviluppati per via delle restrittive norme ambientali.
Anche la delocalizzazione produttiva e la presenza delle multinazionali
causa pesanti ripercussioni a causa dello sfruttamento sia della manodopera, minorile in particolare, sia delle risorse ambientali, permesso dalla
mancanza di vincoli normativi adeguati.
A gravare sulla situazione di questi Paesi vi è poi il debito che hanno
contratto con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e i Paesi ricchi e
con gruppi bancari privati, nel tentativo di svilupparsi. Purtroppo il sistema di interessi e scadenze fanno sì che i Pvs non riescano ad estinguere il debito, il quale si trascina negli anni pur essendo già stato restituito
diverse volte l’ammontare di capitale che era stato inizialmente concesso.
Tali debiti finiscono quindi per assorbire, spesso con i soli interessi, risorse che dovrebbero essere utilizzati per i servizi e le infrastrutture pub-
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bliche. Inoltre, sono scarsi gli aiuti finanziari dei Paesi industrializzati,
anche se dai dati degli ultimi anni pare che la situazione stia migliorando,
bisogna però tenere presente che agli impegni assunti non sempre corrisponde un’effettiva erogazione di aiuti.
Oltre all’influsso di questi fattori esterni vi è poi nei Pvs una grave arretratezza istituzionale e politica. Spesso il sistema istituzionale è instabile, basato su regimi dittatoriali o su regimi sostenuti da elite di ricchi,
mentre la quasi totalità della popolazione è costituita da milioni di lavoratori ridotti alla fame da salari che a stento raggiungono la sussistenza.
Scarsi sono le risorse destinate dai governi ai servizi socialmente utili
quali sanità, istruzione e infrastrutture, mentre parte sostanziosa del bilancio è il più delle volte destinata al mantenimento dell’esercito e a
campagne militari.
La situazione dei Paesi del Terzo e Quarto mondo è perciò drammatica: povertà, guerre, carestie, denutrizione ed epidemie. Negli ultimi decenni alcuni miglioramenti sono avvenuti, l’incidenza della mortalità per
fame per esempio è diminuita, in molti Paesi, soprattutto del Sud-Est asiatico, le condizioni igenico-sanitarie sono migliorate, la povertà assoluta – intesa come la disponibilità da parte di un individuo di meno di un
dollaro al giorno per vivere – è diminuita. Ma sono miglioramenti marginali, la fame esiste ancora e assieme alla malaria, la lebbra, l’Aids e altre
malattie miete milioni di vite ogni anno, soprattutto bambini. Il numero
dei poveri poi è tornato ad aumentare per via della crescita demografica e
la povertà relativa – ossia il divario fra gli individui più ricchi e quelli
più indigenti – va crescendo. Insomma, rimane ancora molto, o forse tutto, da fare.
Sarebbe auspicabile uno sviluppo socioeconomico che dia un minimo
di benessere a queste popolazione martoriate, contestualmente ad una
diminuzione dei consumi da parte dei Paesi ricchi. Si deve studiare
l’introduzione di innovazioni tecnologiche che permettano usi più razionali e minori sprechi di materia ed energia, per poter aumentare il livello
dei consumi delle attuali popolazioni povere, senza incorrere in un esaurimento delle risorse e in un collasso ecologico del nostro pianeta. Un
processo questo che a molti può sembrare utopico. Infatti, le soluzioni in
teoria ci sono o potrebbero essere trovate se vi fossero adeguate risorse
impiegate in ricerca e sviluppo applicate alla progettazione, alla produzione e al recupero dei beni prodotti. Ciò che manca però è la volontà di
trovarle e di metterle in pratica e di modificare le attuali tecnologie e le
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fonti di energia impiegate. Questo, infatti, determinerebbe un cambiamento nell’attuale assetto del potere economico e politico.
Il tema della riduzione rimane un tabù in economia, basta pensare
all’isolamento in cui venne a trovarsi ad un certo punto il grande economista Nicholas Georgescu-Roegen, che già negli anni ’70, tra gli otto
punti del suo “programma bioeconomico minimale”, esortava i governi
dei Paesi industrializzati ad aiutare i Paesi in via di sviluppo a raggiungere un livello dignitoso di vita, anche attraverso la cessazione della produzione di armamenti, fornendo così risorse in aiuto dei più bisognosi e
salvando preziose vite umane. Inoltre, Georgescu-Roegen affermava il
ruolo decisivo della domanda, attraverso una responsabilizzazione del
consumatore che doveva liberarsi da molti vizi e da mode assurde, evitando lo spreco di energia e materia.
Una risposta dalla società civile
La domanda potrebbe perciò divenire un elemento sia di riequilibrio
nell’uso delle risorse, sia di supporto allo sviluppo del Sud del mondo.
Gli studi compiuti evidenziano che lo sviluppo di questi Paesi non sia
possibile se non si vengono a creare una serie di elementi sinergici e
complementari che hanno un ruolo chiave: stabilità delle istituzioni pubbliche e delle politiche economiche, regolamentazione del diritto di proprietà privata, adeguato tasso di risparmio e investimento in capitali fisici, investimento in capitale umano con il raggiungimento di un livello di
scolarizzazione adeguato e di una buona coesione sociale, la diffusione e
l’accesso alle tecnologie informatiche e alla rete elettronica.
Finora però con le politiche di aiuto attuate a livello governativo non
sono riuscite a creare queste premesse per lo sviluppo. Anche la “mano
invisibile” del mercato ha fallito nel tentativo di migliorare le loro condizioni di arretratezza, perché, come dimostra l’evidenza, non è in grado né
di dare un giusto valore ai beni pubblici e all’ambiente, né di condurre ad
una efficiente gestione delle risorse. A meno che non si consideri razionale il nostro consumismo e l’enorme spreco di energia e materia che accompagna il processo di produzione, dal reperimento delle materie prime
allo “smaltimento” dei rifiuti. O se si consideri equo che il 20% della popolazione consumi l’80% delle risorse. Altresì si deve prendere atto della
mancanza di un illuminato pianificatore che ricercando il bene collettivo
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pone tasse e sussidi a correzione del meccanismo di libero mercato. Purtroppo, poco si può fare anche se si identificano i meccanismi per cui il
pianificatore è sottoposto a pressioni di interessi privati, che non coincidono con gli interessi collettivi e dell’istituzione stessa. Inoltre, il potere
degli Stati nazionali sulla regolarizzazione del mercato è andato diminuendo con l’assunzione di un orizzonte globale e le trattative internazionali volte alla concertazione sono lunghe e difficili.
La possibilità di aiutare concretamente queste popolazioni potrebbe
passare allora attraverso la società civile, e questo grazie ad una azione
dal basso che porta i cittadini a non demandare completamente al pianificatore il compito di risolvere i problemi, ma con una autoresponsabilizzazione si impegnano ad agire in prima persona, mediante il
ruolo quotidiano di consumatori. Attraverso il suo comportamento il cittadino-consumatore può fare pressione su imprese e istituzioni affinché
compiano scelte coerenti con obiettivi di responsabilità sociale, con la
speranza di ottenere regole che assicurino maggior equità sociale ed economica ed una maggior sostenibilità ambientale. Questa pressione si può
attuare attraverso il consumo critico, il consumo equo solidale e la finanza etica.
La consapevolezza e la responsabilizzazione dei consumatori
Se la globalizzazione ha portato ad acuire il divario fra Nord e Sud del
mondo, ha però avuto il merito di poter “rendere prossimi i lontani”.
Grazie agli attuali mezzi di comunicazione le informazioni viaggiano in
tempo reale, permettendo di venire a conoscenza di ciò che accade nel
mondo e delle condizioni di vita in Paesi lontani, anche se non si hanno
interessi specifici in quelle zone. Tale maggior informazione ha permesso
di sensibilizzare ampi strati della società occidentale, facendo leva su una
coscienza collettiva che da tempo ha visto crescere il suo interesse verso
la difesa dei diritti fondamentali dell’uomo e l’aiuto delle condizioni delle popolazioni svantaggiate. Ciò ha portato i consumatori a richiedere
una maggior eticità agli operatori economici. Questa sensibilità ha dato
origine a due fenomeni: il commercio equo solidale e la finanza etica.
Negli anni ’70 nei Paesi occidentali nasce il consumo critico, come
reazione ad un consumismo ritenuto irresponsabile ed edonistico, basato
sul marketing e sulla pubblicità, volti ad alimentare i fenomeni delle
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“mode” sempre più effimere, sviluppando bisogni indotti e allontanando
il consumatore dalla consapevolezza del proprio ruolo di attore del mercato. Su questo sentimento è andata poi ad innestarsi la volontà di equità
negli scambi commerciali internazionali e di solidarietà tra Paesi ricchi e
i Paesi poveri, portando al commercio equo e solidale. La cosiddetta finanza etica o socialmente responsabile, nasce invece a partire dagli anni
’80 con la larga eco che hanno ottenuto in quegli anni i movimenti ambientalisti e pacifisti. A questa si affiancheranno il microcredito e le banche dei poveri, realtà nate nei paesi del Sud del mondo per aiutare le popolazioni locali.
Con queste forme di consumo e di investimento, si assume una visione più ampia degli elementi che vanno a massimizzare la funzione di utilità di un individuo. Oltre alla ricerca del maggiorprofitto economico, o
del minor costo, si affiancano altre istanze di natura morale ed etica, che
contribuiscono ad accrescere il benessere dell’individuo che le compie.
Il commercio equo e solidale
Alcuni consumatori ricercando una maggiore “maturità” di comportamento hanno dato il via ad un movimento di consumo critico, che vuole
essere un approccio nuovo responsabile e responsabilizzante nei confronti sia delle imprese, sia degli altri consumatori. Il consumatore da soggetto debole e influenzabile cerca di divenire un soggetto conscio delle responsabilità sociali proprie e degli altri soggetti economici, rivendicando
il suo status di portatore di interessi verso l’impresa e verso il mercato da
una parte e di “cittadino” di una nuova società transnazionale dall’altra.
Il consumo critico ha posto le basi per la nascita del commercio equo
e solidale (fair trade), con il quale alcuni consumatori hanno cominciato
a ricercare beni provenienti dal Sud del mondo ottenuti mediante il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente, magari attraverso canali alternativi di distribuzione rispetto alle grandi catene. Questa quota minoritaria
di consumatori socialmente responsabili sono riusciti a sortire un effetto
leva tale per cui le imprese di tipo profit maximized, ovvero orientate solo al profitto, sono state costrette ad aumentare, anche se al margine, la
loro responsabilità sociale al fine di catturare anche questi clienti, generando così maggior visibilità e quindi maggior sensibilità per questa tipologia di prodotti. Ovviamente, date le economie dei Pvs, i prodotti trattati
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sono quasi esclusivamente di tipo alimentare, il che favorisce la stabilità
della richiesta, essendo dei beni con domanda scarsamente elastica. È da
notare però che recentemente si stanno facendo strada anche prodotti di
natura artigianale, legati alla lavorazione tessile e del legno.
Le caratteristiche che contraddistinguono il commercio equo e solidale sono molteplici:
- il giusto prezzo corrisposto ai produttori, contrariamente a quanto accade nel commercio tradizionale, dove la maggior parte dei profitti va
agli esportatori e ai grandi proprietari terrieri, mentre il compenso dei
contadini permette loro di sopravvivere fra stenti e privazioni.
- L’instaurarsi di un rapporto duraturo tra i piccoli produttori del Sud e
gli importatori del Nord. Questo fornisce la sicurezza del mercato di
sbocco e quindi facilita l’attuarsi di politiche di investimento atte a
migliorare le strutture produttive.
- Il prefinanziamento dell’attività, con il quale gli importatori anticipano
parte del compenso previsto che viene utilizzato per coprire le spese
necessarie per avviare il nuovo ciclo di semina e raccolto dei prodotti
agricoli, o l’acquisto delle materie prime per il piccolo artigianato.
- Un ambiente di lavoro rispettoso della dignità umana, sano e sicuro,
ove vi sia possibilità di miglioramento della condizione economica e
sociale per tutti, anche per i più svantaggiati economicamente, socialmente o fisicamente, uomini o donne che siano.
- L’assistenza tecnica e finanziaria ai produttori se possibile, al fine di
migliorare nel tempo la produzione e le condizioni di lavoro.
- L’uso di sistemi produttivi sostenibili dal punto di vista ambientale.
- L’utilizzo di una parte dei ricavi per la realizzazione di infrastrutture
locali stabili, come scuole ed ospedali.
- L’accettazione della responsabilità pubblica (public accountability),
ovvero l’assunzione da parte dei produttori dell’impegno ad operare
secondo la legislazione o le regole vigenti nel loro Paese.
Acquistare prodotti equo-solidali vuol dire perciò favorire processi
produttivi rispettosi del lavoratore e dell’ambiente, corrispondere una
giusta remunerazione diretta ai produttori e permettere la costruzione di
infrastrutture nei luoghi di produzione. Inoltre, assicurando loro uno
sbocco diretto sui mercati dei Paesi industrializzati, gli si da la possibilità
di svincolarsi dai ricchi esportatori locali e dal controllo delle imprese
straniere.
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Importante nel fair trade è il prefinanziamento della fornitura attraverso il pagamento in anticipo sulla consegna dei prodotti, che permette
di sopperire all’indifferenza delle banche tradizionali per questi soggetti
e di sfuggire all’usura. Con questo nuovo modo di condurre gli scambi
commerciali improntati all’equità si riesce quindi a garantire delle condizioni di lavoro più umane ed una vita più dignitosa.
Gli effetti positivi del commercio equo e solidale
Il commercio equo e solidale, dunque, ha diversi effetti positivi sia per i
produttori, sia per i consumatori. Per i produttori dei Pvs, come abbiamo
visto, una maggior remunerazione e il prefinanziamento alla produzione
costituiscono elementi essenziali che consentono effetti duraturi sul benessere rispetto agli aiuti governativi e alla charity. Questo perché non solo
sono più mirati e giungono in modo diretto, ma portano all’inclusione dei
poveri nell’economia e nei flussi finanziari, ponendo le basi per la realizzazione di attività che possano sostenersi e crescere nel tempo. Non è una
forma di assistenza caritatevole, ma bensì un commercio sano, senza speculazione. Importante è poi la costruzione di infrastrutture di base che migliora la qualità di vita dell’intera comunità in cui i produttori vivono.
Anche per i consumatori però vi sono effetti positivi, anche se solitamente questi prodotti hanno un prezzo maggiore, tale differenziale si giustifica in parte in modo concreto con una maggior qualità organolettica del
prodotto, e in parte con un intangible. Questo elemento immateriale è legato all’equità e alla giustizia che incorpora il bene e che soddisfa il desiderio
di responsabilità sociale, al pari di altri prodotti che hanno degli intangible
legati all’attività di marketing o al fattore moda e che rispondono ad “esigenze” di immagine. Tanto maggiore sarà l’eticità e il desiderio di equità,
tanto più i consumatori saranno disposti a sopportare il maggior costo dei
prodotti equo solidali, tanto più i produttori standard dovranno abbassare il
costo dei loro prodotti per aumentarne l’appetibilità.
Altro effetto sulla grande distribuzione potrebbe essere l’imitazione
etica, ovvero il dedicare alcune sezioni o scaffali ai prodotti equosolidali, che raggiungendo il mercato attraverso questo canale beneficerebbero di una diminuzione di prezzo rispetto alla piccola distribuzione,
con ulteriore vantaggio per il consumatore etico.
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I soggetti e gli elementi del fair trade
Per avviare un fair trade servono molteplici elementi: regole internazionali equilibrate ed efficienti (fair rules), contratti che vincolino i produttori locali al rispetto dei diritti socio-economici dei lavoratori, soprattutto bambini, donne e lavoratori a domicilio (fair contracts) e comportamenti responsabili di tutti gli attori del mercato dai distributori ai consumatori (fair practices). Per attuare questo commercio equo solidale
servono altresì diversi soggetti. Occorrono le catene di distribuzione etica, tra le più importanti troviamo: IFAT (Iternational Federation of Alternative trade); FLO (Fair Trade Labelling Organisation); EFTA (European Fair Trade Association), e in Italia Botteghe nel mondo. Servono
poi i marchi etici, il primo marchio etico europeo è stato Max Havelaar,
nato in Olanda nel 1988. E ovviamente servono dei certificatori che verifichino la qualità etica e sociale della filiera, tra questi ricordiamo la
Tranfair e la SAI (Social Accountability International) che ha elaborato
la certificazione SA8000.
Recentemente, come già detto, anche la grande distribuzione ha iniziato
ad introdurre nei supermercati sezioni di prodotti del commercio fair trade.
Perché questo sia svolto secondo i principi di equità e solidarietà è necessario accertare il livello di standard sociali imposti ai produttori e ai distributori, nonché la competenza e la serietà dei certificatori. Inoltre, si deve
garantire il sanzionamento e l’effettiva esclusione dal marchio etico di quei
distributori o produttori che violino gli standard. Infine, vi deve essere trasparenza nei contratti con i consumatori attraverso l’indicazione chiara e
precisa delle caratteristiche e delle qualità dei prodotti.
La Direttiva CE 99/44 sulle garanzie post-vendita, ha introdotto nel nostro ordinamento con l’art.1519 il concetto di difetto di conformità del bene acquistato. Ciò consente al consumatore di ottenere la riparazione o sostituzione del bene acquistato e in caso di impossibilità la riduzione del
prezzo o la risoluzione del contratto, nel caso in cui il prodotto non sia corrispondente alle qualità dichiarate, sia attraverso l’etichettatura o i foglietti
illustrativi, sia attraverso la pubblicità o dichiarazioni pubbliche di altro
genere. Questa direttiva rappresenta una componente importante di tutela,
offrendo al consumatore un efficace strumento di contro-potere economico
con il quale potrebbe agire, con possibili danni economici e di immagine,
verso quella impresa che non abbia adottato una politica di trasparenza e di
responsabilità verso i suoi clienti, dichiarando falsamente un suo prodotto
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biologico, ecologico o etico, senza in realtà averne le caratteristiche dimostrate o certificate. Infatti, ogni prodotto equo solidale dovrebbe riportare
sulla confezione le componenti del prezzo, ovvero le quote pagate al produttore, il costo di finanziamento, di trasporto e di imballaggio ed il margine per i venditori finali.
D’altra parte tra le informazioni contenute sull’etichetta nulla si dice
sulle condizioni di produzione. Se ai fini della certificazione etica è quasi
scontato poter tenere fede agli impegni richiesti per le lavorazioni effettuate nel Paesi industrializzati, dove vige un’avanzata tutela legislativa del lavoratore e dell’ambiente, assai più difficile è assicurare un’effettiva conformità ai medesimi principi per le imprese fornitrici, per lo più dislocate
nei Paesi poveri, dove la normativa è carente. Purtroppo manca ancora una
prassi di accreditamento delle società di certificazione, le quali agiscono
comunque senza la collaborazione e il controllo delle rappresentanze sindacali dei lavoratori. Inoltre, ammesso che una marca di prodotti sia effettivamente etica, il consumatore difficilmente riesce a sapere a quale gruppo societario appartiene, e quindi non può sapere qual è in generale
l’eticità del comportamento della multinazionale da cui è controllata o delle imprese collegate dello stesso gruppo che vanno a beneficiare degli utili
delle attività etiche. Il dibattito sulla responsabilità sociale d’impresa è sui
codici etici rimane aperto e si auspica che porti ad una futura regolamentazione e verifica da parte delle autorità pubbliche.
La finanza etica
Un terzo comportamento che può aiutare i Pvs è la finanza etica. Anche in questo caso è fondamentale il ruolo della domanda, ovvero dei risparmiatori che si rivolgono ai servizi degli operatori finanziari. Quando
i risparmiatori depositano i propri fondi presso gli istituti bancari si limitano a chiedere, o forse sarebbe meglio dire accettare, un certo tasso di
interessi e un determinato livello di spesa, mentre lasciano una delega
fondamentalmente in bianco sull’uso che verrà fatto che dei soldi depositati.
La richiesta da parte degli investitori di un uso dei propri risparmi da
parte delle banche coerente con le loro convinzioni etiche, morali e sociali
si pone già a partire dagli anni ’20 negli Stati Uniti, dove, al fine di rispettare i credi religiosi, i clienti potevano far divieto alle banche di investire i
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propri soldi in armi, tabacco, alcool, gioco d’azzardo e pornografia. Solo
con il movimento ambientalista e pacifista, che si fa sentire a partire dagli
anni ’80, il divieto si estenderà all’energia nucleare, ai pesticidi, alle imprese responsabili di inquinamento e degrado ambientale, che fanno uso di
cavie animali o che sfruttano lavoro minorile e alle attività economiche in
paesi razzisti o con regimi dittatoriali. Questi divieti rappresentano dei criteri di esclusione, un ulteriore passo in avanti verso una finanza etica o socialmente responsabile, si ha introducendo contemporaneamente ai primi
anche dei criteri di inclusione.
Con i criteri di inclusione si vanno ad identificare quelle attività che si
ritengono meritevoli di tutela e sulle quali si vuole investire il proprio
denaro. Le attività che si può scegliere di finanziare si possono suddividere in diversi settori: sviluppo del settore non profit, economia sociale,
assistenza sanitaria, assistenza agli anziani, educazione e formazione,
cultura, salute e sicurezza, attenzione alla qualità del prodotto, compatibilità sociale e tutela della dignità del lavoratore negli investimenti delle
imprese, compatibilità ambientale degli investimenti e dei prodotti
dell’impresa, protezione dell’ambiente e riciclaggio dei rifiuti, cooperazione e sviluppo internazionale, sviluppo del Terzo mondo. Si possono
perciò sostenere sia soggetti vicini, ovvero dei Paesi industriali magari
legati al terzo settore, il settore non profit, sia soggetti lontani, come piccoli coltivatori e artigiani nel Sud del mondo.
La finanza etica non si pone come un approccio metodologico specifico, ma varia a seconda dello scopo e del contesto in cui opera. Come abbiamo visto si possono avere fondamentalmente due tipologie di obiettivi, spesso convergenti tra loro: il garantire ai risparmiatori una destinazione socialmente responsabile dei soldi versati e il finanziamento dei
soggetti considerati non bancabili ma degni di aiuto per via della rilevanza sociale delle attività che svolgono o intendono svolgere. Di conseguenza si possono avere banche etiche sorte nei Paesi ricchi che perseguono entrambi gli obiettivi e banche etiche che nascono nel Terzo Mondo al solo fine di sostenere i lavoratori locali.
Gli intermediari finanziari e i fondi etici
Come per il commercio equo e solidale, anche nella finanza etica che
si sviluppa nei Paesi ricchi e industrializzati, alla ricerca del profitto eco-
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nomico si affiancano altre istanze di natura morali ed etiche. Nasce la
consapevolezza che il proprio denaro così come può contribuire al perpetrarsi di gravi situazioni di ingiustizia sociale o di degrado ambientale,
può anche contribuire a sostenere iniziative economiche che garantiscono
il benessere delle classi sociali più bisognose.
Gli intermediari finanziari che hanno voluto cogliere queste richieste
hanno posto in essere tre diverse tipologie di comportamento. Il primo
consiste nel destinare una parte dei proventi ottenuti dagli investimenti sui
mercati finanziari in opere di beneficenza. Il secondo comportamento è
quello di svolgere un ruolo propositivo all’interno dei consigli di amministrazione delle aziende di cui possiedono le azioni, al fine di influenzare le
scelte del management verso una maggiore responsabilità sociale. Il terzo è
l’esclusione dai propri fondi di investimento delle aziende che violano alcuni criteri etici individuati dai clienti o delle attività economiche che ricadono in un Paese che ha un regime che viola palesemente i diritti fondamentali dell’uomo, creando così i primi fondi etici. A tali fondi si rivolgono i risparmiatori e gli investitori che vogliono compiere una scelta socialmente responsabile.
Inizialmente, questa tipologia di investimento era considerata meno
remunerativa per via della selettività delle attività finanziabili, nonché
per i tassi di crescita modesti legati a molte delle attività socialmente utili. Tuttavia, secondo studi effettuati sulle performance dei fondi etici statunitensi e inglesi, è emerso che con l’aumentare del loro volume la diversificazione dei titoli si è fatta tale da consentire livelli di redditività
paragonabili ai fondi tradizionali, con una buona stabilità in caso di fluttuazioni del mercato.
Il microcredito nei Paesi poveri: peculiarità ed esperienze
Il microcredito, come già accennato, nasce nel Sud del mondo per
fornire i capitali, o forse sarebbe più opportuno parlare di risorse monetarie, data l’entità esigua e l’erogazione in contanti, necessarie ai piccoli
produttori, uomini o donne che siano, per sostenere o avviare piccole attività agricole o artigianali. Tali soggetti sono considerati non bancabili
dagli istituti tradizionali per via dell’importo modesto, anche a livello
aggregato, degli investimenti richiesti, per il basso tasso di rendimento,
la lenta crescita delle attività in questione e per l’aumento dell’apparato
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burocratico e amministrativo che sarebbe necessario per la gestione, il
controllo e il recupero dei crediti concessi ad una miriade di piccoli
clienti. L’impossibilità di accedere ai canali creditizi tradizionali è un ostacolo spesso insormontabile alla nascita di nuove attività economiche e
ha determinato la chiusura delle piccole attività già esistenti a favore delle elite ricche. Un’altra gravissima conseguenza è il dilagare dell’usura,
che a causa degli esorbitanti tassi di interessi richiesti, porta spesso alla
cessione dell’attività o, peggio, alla vendita da parte degli insolventi dei
propri figli, che ripagheranno oltremisura, con anni di durissimo lavoro, i
debiti contratti dai genitori.
Considerando solo l’attività di microcredito nei Paesi poveri si possono delineare alcune pratiche ricorrenti. Innanzitutto, sono gli istituti di
credito e i loro strumenti finanziari che devono adattarsi alle esigenze e
alle peculiarità dei soggetti a cui si rivolgono. Vi deve essere quindi un
forte decentramento delle strutture, sarà la banca che andrà a cercare il
cliente proponendogli i suoi finanziamenti, che saranno di modesta entità, di breve durata e con quote di rimborso esigue e frequenti.
Data la povertà dei clienti non sono sufficienti le garanzie reali che
possono offrire per coprire il rischio di insolvenza, perciò si andrà a valutare anche un insieme di garanzie immateriali che riguardano le specifiche capacità del soggetto come la comprensione dei meccanismi di prestito, il riconoscere l’utilità del ruolo della banca, la fiducia in sé stesso,
le sue capacità lavorative, ma anche la solidarietà della comunità che lo
circonda. I finanziamenti vengono poi concessi a gruppi omogenei di 5 o
6 persone per attività e luogo, così da aumentare l’aiuto reciproco ma anche il controllo e la pressione sociale.
Viene imposta poi l’istituzione di fondi di garanzia collettivi ottenuti
con quote obbligatorie sui crediti e sugli interessi che devono versare,
una sorta di piccola banca che loro stessi gestiscono per far fronte ad inadempienze, infortuni, morti improvvise o altri imprevisti.
Un aspetto importante legato al microcredito è, infatti, l’educazione al
buon uso del denaro che viene trasmessa dai funzionari della banche etiche, contestualmente ad informazioni su igiene e sanità. In modo non invasivo si cerca così di fornire degli strumenti culturali che aiuteranno a
migliorare sia l’attività economica, sia le condizioni di vita delle fasce
più povere della popolazione.
Tra gli elementi di successo del microcredito vi è il contatto tra il personale della banca e i clienti. Infatti, sono i funzionari della banca che si
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recano nei villaggi offrendo i loro servizi, cercando di instaurare un rapporto alla pari e facendo leva su fattori psicologici. Inizialmente portando
loro rispetto, e poi, una volta concesso il prestito, incoraggiando i clienti
a credere in loro stessi e nelle loro capacità.
Questi atteggiamenti hanno una forte influenza positiva sul buon
svolgimento delle attività sostenute dalle banche etiche. Le rate sono esigue e spesso con scadenza settimanale, in modo da non gravare troppo
sull’attività economica e da rende possibile un maggior controllo delle
insolvenze. Inoltre, il vedersi in grado di rimborsare le quote aumenta la
determinazione dei clienti.
Esperienze importanti di banche etiche nate esclusivamente per concedere microcredito sono oramai diverse, fra queste è importante ricordare la prima e attualmente maggiore realtà di questo tipo, la Grameen
Bank, fondata in Bangladesh da Muhammad Yumus, un professore universitario che fu, durante il suo soggiorno di studi in America, allievo del
già citato Georgescu-Roegen. La Grameen Bank ha raggiunto ottimi risultati, dimostrando di essere un’attività capace di sostenersi da sola e ha
raggiunto quote di recupero superiori al 98%, ben maggiore delle performance degli istituti di credito tradizionali, dimostrando che i poveri
possono diventare soggetti bancabili.
Ad oggi questa struttura ha servito ben 30 milioni di clienti, la maggior parte donne. Attualmente ci sono banche di microcredito in più di 40
Paesi in via di sviluppo, i prestiti sono in media di 100 dollari l’uno.
Molte di queste banche etiche forniscono, come già ricordato, anche assistenza tecnica e consigli non solo sul risparmio e su piani di pensionamento, ma anche in merito a nutrizione, igiene ed istruzione.
Secondo Salehuddin Ahmed, amministratore delegato della Palli
Karma Sahayak Foundation, altra istituzione di microcredito del Bangladesh, i beneficiari del microcredito nel mondo erano 67 milioni fino al
2002 e sono in rapido aumento. Questa fondazione ha organizzato proprio in Bangladesh, il 19 febbraio 2004, l’Asia-Pacific Microcredit
Summit, che ha visto la partecipazione di circa 1.300 operatori tra economisti, governatori della banca centrale e rappresentanti di agenzie di
aiuto da 44 Paesi. Scopo della conferenza è stato promuovere nuove soluzioni per lo sviluppo del sistema del microcredito nei Paesi poveri entro il 2005, dichiarato dalle Nazioni Unite “anno internazionale del microcredito”.
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Una nuova economia del benessere
Si apre dunque una nuova frontiera dell’economia del benessere costituita da tutti quegli strumenti che permettono una maggior partecipazione
ai cittadini dotati di maggior responsabilità sociale. Dato il peso assunto
dalladimensione economica nella società umana ciò che può influenzare
il divenire della realtà, agendo sulle scelte delle istituzioni e delle imprese per renderle più responsabili socialmente, sono oltre al voto, il consumo ed il risparmio. Mentre il voto è un “avvenimento”, un diritto-dovere
esercitatile in linea teorica ogni 4 o 5 anni, il consumo ed il risparmio sono gesti quotidiani.
Quella categoria di consumatori che non vogliono contribuire ai meccanismi che alimentano i problemi della nostra epoca, ma bensì vogliono
contribuire alla loro soluzione, possono rivolgersi per soddisfare i propri
bisogni al consumo equo e solidale e alla finanza etica. Così facendo compieranno un gesto diretto di ridistribuzione delle risorse tra le diverse popolazione del mondo, esercitando contemporaneamente una pressione verso gli operatori economici per la nascita di una reale responsabilità sociale
d’impresa. Il consumatore etico potrà diventare nel tempo un importante
attore politico della società transnazionale che sta nascendo con la globalizzazione. Questa azione della domanda potrebbe permettere di riportare il
potere del cambiamento alla base della società civile e l’economia al servizio dell’uomo e del raggiungimento del suo benessere, tanto nel Nord
quanto nel Sud del mondo. Questo atteggiamento è il primo passo verso
non solo la consapevolezza della necessità di una più equa distribuzione
delle risorse, ma anche verso un concreto impegno per realizzarla, ferma
restando l’urgenza di prendere coscienza della finitezza delle risorse del
nostro pianeta e dei suoi delicati equilibri ecologici.
Stefano Zamberlan
Università degli Studi di Verona
Dipartimento di Economie, Società e Istituzioni
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Estratto «Studi economici e sociali», anno XL, n. 3-4, 2005, pp. 49-63
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