Amerigo
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Amerigo
Amerigo “..e fu lavoro e sangue, e fu fatica uguale mattina e sera.” “Amerigo” non è soltanto il titolo di una nota canzone dell’illustre professore e cantautore Francesco Guccini, non è un insieme di parole e suoni messi assieme da una voce e una chitarra… Amerigo è molto di più, è storia vissuta da milioni di italiani che nel secolo scorso sono emigrati verso le miniere di tutto il mondo in cerca di lavoro e fortuna. L’ascolto di questa canzone e la lettura silenziosa del suo testo, ricco di parole emblematiche, forti, schiette, vere, suscitano in me ogni volta emozioni diverse e contrastanti. Per questo motivo ho voluto cogliere l’occasione di scrivere un elaborato sul tema dell’emigrazione analizzando questo componimento e riportando, inoltre, informazioni da me ricercate sulla difficile vita in miniera, la lontananza dai propri cari e dal proprio paese oltre a testimonianze da parte dell’autore. Questo testo non è soltanto frutto della fantasia o immaginazione dell’artista ma si basa sulla vera storia dello zio di Francesco Guccini; quest’uomo si chiamava Enrico Guccini e nei primi anni del ‘900 intraprese il lungo viaggio che in qualche modo gli avrebbe cambiato la vita, nel bene e nel male. Salpò assieme ad una moltitudine di persone che, come lui, credevano nel “sogno americano”: l’idilliaco pensiero di un paese ricco di lavoro, benessere e opportunità. Enrico era diretto nella miniera di antracite della Pennsylvania e come la sua storia andrà a finire ve lo racconterò nelle righe seguenti, o meglio, ve lo canterà Francesco Guccini con “AMERIGO”. “Probabilmente uscì chiudendo dietro a se la porta verde, qualcuno si era alzato a preparargli in fretta un caffè d' orzo. Non so se si girò, non era il tipo d' uomo che si perde in nostalgie da ricchi, e andò per la sua strada senza sforzo.” Ascoltando o leggendo questa prima strofa della canzone è come se stessimo spiando dalla finestrella dell’umile casa dalla “porta verde” e al suo interno vedessimo la madre o il padre di Enrico che preparano il caffè d’orzo, simbolo del cibo povero dei contadini del secolo scorso. “Non so se si girò, non era il tipo d’uomo che si perde in nostalgie da ricchi”, non c’era tempo per le lacrime, i saluti o le raccomandazioni, il ragazzo partì per la sua strada carico di speranze e aspettative come soltanto un giovane di vent’anni può fare. “Quand' io l' ho conosciuto, o inizio a ricordarlo, era già vecchio o così a me sembrava, ma allora non andavo ancora a scuola. Colpiva il cranio raso e un misterioso e strano suo apparecchio, un cinto d' ernia che sembrava una fondina per la pistola.” Quando Francesco conobbe lo zio era ancora piccolo ma particolari caratteristiche fisiche tanto lo colpirono da ricordarle ancora. “Il cranio raso” tipico segno di riconoscimento per chi lavorava in miniera: i minatori per non sentire il fastidio della polvere tra i capelli si rasavano completamente e se non lo facevano ci pensava l’elevatissimo calore a far perdere loro i capelli. “Un cinto d' ernia che sembrava una fondina per la pistola” Enrico dallo sforzo del duro lavoro, per sopravvivere, doveva indossare diverse cinghie che gli tenevano il ventre in quanto aveva un’ernia che a quel tempo non veniva operata. Si può solo immaginare quanto si stato doloroso per lui lavorare anche 10 ore al giorno con un problema di questo genere ma anche questo aspetto era compreso nel pacchetto del lavoro in miniera. “Ma quel mattino aveva il viso dei vent' anni senza rughe e rabbia ed avventura e ancora vaghe idee di socialismo, parole dure al padre e dietro tradizione di fame e fughe E per il suo lavoro, quello che schianta e uccide: "il fatalismo".” Anche se Francesco ricorda lo zio vecchio e malato, nella sua canzone, continua immaginando lo stesso zio a vent’anni, sulla soglia di casa pronto a partire portando con se il sentimento di rabbia per non poter restare al suo paese e condurre una vita per quanto possibile normale e il sentimento dell’avventura che lo spingeva ad attraversare l’oceano e vedere la fantomatica America tanto da litigare con il padre pur di raggiungerla. Sono proprio questi sentimenti coraggiosi e contro corrente che uccidono il fatalismo. “Ma quel mattino aveva quel sentimento nuovo per casa e madre e per scacciarlo aveva in corpo il primo vino di una cantina e già sentiva in faccia l' odore d' olio e mare che fa Le Havre, e già sentiva in bocca l' odore della polvere della mina.” Il mattino della partenza Enrico sentiva dentro di se un sentimento nuovo mai provato prima: la nostalgia. Nostalgia della madre, della sua casa, del suo paese mai lasciati sino a quel momento. Questa emozione penso sia stata il generatore di energia e di forze che fece andare avanti, e che ancora oggi aiuta, tutti i lavoratori lontani dalla famiglia. Per farsi coraggio il ragazzo bevette del vino e già sentiva l’odore e il rumore del mare del porto francese di Le Havre, in Alta Normandia. Esso era uno dei principali punti di partenza per le navi dirette negli Stati Uniti: si salpava da Trieste, da Genova, da Napoli, o da Le Havre, rigorosamente in terza classe per i famosi trenta giorni di nave a vapore. Inoltre Enrico, per quanto la sua mente potesse viaggiare di fantasia sul “paradiso americano”, non poteva fare a meno di immaginare come sarebbe stato il nuovo lavoro in miniera e già si preparava alla polvere finissima che gli avrebbe attraversato i polmoni. “Non so come la vide quando la nave offrì New York vicino, dei grattacieli il bosco, città di feci e strade, urla, castello e Pavana un ricordo lasciato tra i castagni dell' Appennino, l' inglese un suono strano che lo feriva al cuore come un coltello.” Francesco ora si chiede cosa avrà pensato lo zio quando poggiò i piedi in terra straniera, quando vide New York con i suoi boschi di palazzi e il caos nelle strade. Cosa poteva significare tutto ciò per un uomo che arrivava da un piccolo paese degli Appennini Toscani? La difficoltà della lingua, il non poter dialogare era per Enrico di per sé una sofferenza notevole. “E fu lavoro e sangue e fu fatica uguale mattina e sera, per anni da prigione, di birra e di puttane, di giorni duri, di negri ed irlandesi, polacchi ed italiani nella miniera, sudore d' antracite in Pennsylvania, Arkansas, Texas, Missouri.” “E fu lavoro e sangue e fu fatica uguale mattina e sera”. Inutile commentare una strofa di questo calibro, parla da se. Per Enrico furono anni difficili fatti di lavoro duro a contatto con persone di diversa nazionalità, lingua e cultura ma tutti accomunati dallo stesso scopo: lavorare per poter garantire sostentamento a se stessi e alla famiglia lontana. “Tornò come fan molti, due soldi e giovinezza ormai finita, l' America era un angolo, l' America era un' ombra, nebbia sottile, l' America era un' ernia, un gioco di quei tanti che fa la vita, e dire boss per capo e ton per tonnellata, "raif" per fucile.” Enrico Guccini ebbe la fortuna di fare ritorno a casa e lasciare naufragare il ricordo di un’America che gli permise di sfamare la propria famiglia ma che gli costò la vita. “Quand' io l' ho conosciuto o inizio a ricordarlo era già vecchio, sprezzante come i giovani, gli scivolavo accanto senza afferrarlo e non capivo che quell' uomo era il mio volto, era il mio specchio finché non verrà il tempo in faccia a tutto il mondo per rincontrarlo.” Quando Francesco conobbe Enrico era ancora giovane, e per il suo fare sprezzante non si fece mai raccontare la sua vicenda di persona. Si rese conto solo da adulto di quante cose interessanti avrebbe avuto da raccontare quell’uomo dopo la sua travagliata e ammirevole vita. Con questo tema vorrei ricordare tutti i minatori che hanno speso la loro vita per la propria famiglia lavorando lontano da casa e in condizioni disagiate senza perdere la forza d’animo che da sempre li caratterizza. Voglio anche riportare inoltre la poesia scritta da una persona a me cara mancata lo scorso anno. Questa composizione tocca il tema dell’emigrazione in America e il duro lavoro in miniera. America, terra lontana Così distante da chi mi ama. Nel mio paese c’è tanta fame E la miniera vuol dire pane. Scava “Amerigo” scava quel rame Perché i tuoi cari non abbian fame. Ho perso il sorriso dei miei bambini Scava e trivella son già ragazzini. Quante speranze Una preghiera Or che il mio giorno si volge a sera. Sono malato voglio tornare Al mio paese per farmi curare. Oh, che tristezza, oh che dolore Quando un papà mai visto ti muore. Purtroppo è così! Sono morto. Senza avere mai vissuto. Ma quando arriverò dal mio Creatore gli dirò: “Non ho conosciuto la luce, non ho conosciuto i miei cari, non ho mai potuto respirare l’ aria pulita.” “Perché mio caro?”, mi chiederà. “Eri forse cieco? Non hai avuto figli? I tuoi polmoni non funzionavano?” Nulla di ciò, mio Signore! Ero un Minatore!