ARBERY The Elegance.qxd

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ARBERY The Elegance.qxd
Christa Wolf
Il cielo diviso
Traduzione dal tedesco
e postfazione di
Maria Teresa Mandalari
Della stessa autrice presso le nostre edizioni:
Cassandra
Premesse a Cassandra
Sotto i tigli
Guasto
Recita estiva
Dall’est
Che cosa resta
Pini e sabbia del Brandeburgo
Trama d’infanzia
Nel cuore dell’Europa
Congedo dai fantasmi
Medea
L’altra Medea
In carne e ossa
Titolo originale: Der geteilte Himmel
© Copyright by Luchterhand Literaturverlag GmbH
© Copyright 1983, 1996 by Edizioni e/o
Via Camozzi, 1 – 00195 Roma
[email protected]
www.edizionieo.it
Prima edizione Tascabili e/o giugno 1992
Quinta ristampa Tascabili e/o aprile 2004
Grafica/ Emanuele Ragnisco
per Mekkanografici Associati
ISBN 88-7641-136-4
Per G.
La città, poco prima dell’autunno immersa ancora
nella calura dopo la fresca estate piovigginosa di quell’anno, respirava con più veemenza del solito. Il suo respiro si effondeva in fumo denso su da cento ciminiere
di fabbriche nel cielo terso, ma poi gli mancava la forza di proseguire. La gente, da tempo avvezza a quel
cielo velato, lo trovava improvvisamente insolito e difficile da sopportare, sfogando la subitanea irrequietezza anche sulle cose più remote. L’aria la opprimeva,
e l’acqua – quell’acqua maledetta che puzzava di residui chimici da tempo immemorabile – aveva un sapore amaro.
Ma la Terra la reggeva ancora, quella gente, e finché ce n’era l’avrebbe fatto.
Tornammo così dunque al nostro lavoro quotidiano, che avevamo interrotto per alcuni istanti ascoltando la voce dell’annunciatore radiofonico e più
ancora le impercettibili voci di pericoli assai prossimi, tutti letali in quei tempi. Per questa volta, erano
scongiurati. Un’ombra era calata sulla città, ora era
di nuovo calda e viva, generava e sotterrava, donava
ed esigeva vita, ogni giorno.
Riprendiamo dunque i nostri discorsi: sulle nozze,
se debbano aver luogo a Natale o soltanto a primavera, sui nuovi cappotti invernali dei bambini; sulla
malattia della moglie e sul nuovo principale in azien7
da. Chi avrebbe pensato che tutto ciò potesse essere
così importante?
Ci abituiamo di nuovo a dormire tranquilli. Viviamo senza risparmiarci, come ce ne fosse anche troppa di questa strana sostanza ch’è la vita, come se non
dovesse avere mai fine.
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I
In quegli ultimi giorni di agosto dell’anno 1961,
nella cameretta di un ospedale si ridesta la ragazza
Rita Seidel. Non dormiva, era svenuta. Quando apre
gli occhi è sera, e la parete bianca e linda che scorge
subito è rischiarata solo debolmente. È la prima volta che si trova là, ma ricorda subito quel che le è accaduto, oggi e prima ancora. Torna come da lontano:
indistintamente serba una sensazione di grande distanza, e anche di profondità. Ma dalla tenebra infinita si risale con rapidità folle alla luce ben netta. Ah
già, la città. Più precisamente la fabbrica, il capannone di montaggio. Quel punto, sui binari, dove sono
svenuta. Dunque qualcuno è riuscito ancora a trattenere i due vagoni che mi venivano addosso da destra
e da sinistra: puntavano proprio su di me. Questa,
l’ultima cosa.
L’infermiera si accosta al letto: ha notato che la ragazza si è destata e si guarda intorno nella stanza, con
occhi stranamente quieti; le rivolge la parola sottovoce, con benevolenza. «Lei è illesa» dice allegramente.
Allora Rita volge la faccia verso la parete e comincia
a piangere, non smette nemmeno durante la notte, e
quando la mattina il medico viene a vederla, non è in
grado di rispondere.
Ma il medico non ha bisogno di fare domande, sa
tutto, c’è scritto sulla denuncia d’infortunio. Questa
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Rita Seidel, una studentessa, lavora nell’azienda solo
durante le vacanze. A parecchie cose non è avvezza,
per esempio al calore dentro i vagoni quando escono
dall’essiccatoio. In tutti i casi, è vietato lavorare dentro la vettura a temperature elevate, ma nessuno può
contestare l’urgenza del lavoro. La cassa degli attrezzi è pesante, dai trenta ai trentacinque chili, lei l’ha
trascinata ancora fino ai binari dove si stavano eseguendo gli agganci, e poi è svenuta – non c’è da stupirsi, delicata com’è. Ora piange, e anche questo è
naturale.
«Lo choc» dice il medico e prescrive iniezioni sedative. Dopo parecchi giorni però, poiché Rita non
sopporta tuttora che le venga rivolta la parola, il medico si fa incerto. Pensa come gli piacerebbe avere
tra le mani quel tipo che ha ridotto a tal punto questa ragazza graziosa e sensibile. Secondo lui è indubbio che soltanto l’amore può far stare tanto male
una giovane creatura.
La madre di Rita, chiamata dal suo paese e perplessa di fronte al singolare stato della figlia, non è in
grado di fornire chiarimenti. «Lo studio» dice. «L’ho
pensato subito che non avrebbe resistito». Un uomo?
No, ch’ella sappia. Quello di una volta, un dottore in
chimica, è già via da sei mesi. Via? chiede il medico.
Ma sì, se l’è svignata, lei capisce.
La ragazza Rita riceve fiori: asteri, dalie, gladioli –
punti variopinti nella scialba giornata ospedaliera. A
nessuno è consentito farle visita, finché una sera un
uomo con un mazzo di rose non si lascia respingere.
Il medico cede. Ecco forse una visita di pentimento
che può sanare d’un tratto tutta quella pena. Un breve dialogo sotto il suo controllo. Ma in quella visita
non vi è amore, non vi è perdono, son cose di cui ci
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si accorge, non foss’altro che agli sguardi. Si tratta
invece di certi vagoni, una cosa Dio sa se importante
in questo momento, e dopo cinque minuti un garbato congedo. Il medico apprende che quel tale era il
giovane direttore della fabbrica di vagoni, e si dà dell’imbecille. Ma non riesce tuttavia a liberarsi dalla
sensazione che quel giovanotto ne sappia, della paziente Rita Seidel, più della stessa madre, più di lui
stesso, il medico, e di ciascuno degli altri visitatori,
che adesso arrivano numerosi: prima i falegnami
della brigata1 Ermisch, a turno tutti e dodici, poi una
piccola parrucchiera bionda e avvenente, l’amica di
Rita; dopo le vacanze, studenti dell’istituto magistrale, e di quando in quando anche ragazze del paese di
Rita. È davvero impossibile sostenere che la paziente possa sentirsi abbandonata.
Quelli che vengono a trovarla, le vogliono tutti bene. Parlano con lei cautamente, sfiorando con gli
sguardi il suo viso ch’è pallido e stanco, ma non più
sconfortato. Piange più di rado, adesso, per lo più la
sera. Riuscirà a dominare le lagrime, e poiché è ben
lontano dal suo carattere coccolare il proprio dolore,
vincerà anche la disperazione. Non dice ad alcuno
che ha paura a chiudere gli occhi. Tuttora vede i due
vagoni, verdi e neri ed enormi. Quando vengono spinti, proseguono la corsa sui binari, è la loro legge, e son
fatti per questo. Funzionano. E nel punto in cui s’incontreranno, c’è lei. Ci sono io.
Allora, ricomincia a piangere.
Sanatorio, dice il medico. Lei non vuol raccontare
nulla. Che si sfoghi a piangere, che trovi pace, e riesca a mettere una pietra sopra a tutto quanto è acca1
Gruppo organizzato di lavoratori in fabbriche e aziende nei paesi dell’Est.
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duto. Potrebbe andare in treno, è ormai in grado di
farlo, ma l’azienda manda un’auto.
Prima di partire, ringrazia il medico e le infermiere. Tutti l’hanno in simpatia, e se non vuole raccontare nulla, è affar suo. Tanti auguri.
La sua storia è banale, pensa lei, e in qualche modo umiliante. Tuttavia, è ormai passata. Ciò che occorrerebbe superare ancora è questa sensazione
insistente: quelli puntavano proprio su di me.
II
Quando allora, due anni fa, è arrivato nel nostro
paese, mi ha colpito subito. Manfred Herrfurth. Abitava presso una parente, che non aveva segreti per
nessuno. Sicché presto anch’io ho saputo, come tutti
gli altri, che quel giovanotto era uno studente di chimica e che intendeva riposarsi in paese. Prima della
tesi di laurea, sotto cui poi stava scritto: «con lode».
L’ho visto io stessa. Ma questo avvenne più tardi.
Quando Rita, che viveva con madre e zia in una minuscola casetta sul limitare del bosco, spingeva di
buon’ora la bicicletta su fino al viale, il chimico se ne
stava mezzo nudo presso la pompa dietro la casa della cugina, lasciando che l’acqua fredda gli scorresse
sul petto e sul dorso. Rita scrutava il cielo azzurro,
nella chiara luce mattinale, per verificare se fosse
adatto a elargire distensione a un cervello affaticato.
Era soddisfatta del suo paese: piccoli gruppi di case dal tetto rosso, poi bosco e prati e campi e cielo nel
giusto equilibrio, come meglio non si potrebbe immaginare. La sera, dal buio ufficio del capoluogo distrettuale, uno stradone rettilineo conduceva diritto
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in mezzo al calante globo solare, e a destra e a sinistra della strada si stendevano i paesini. Là dove il
sentiero si diramava alla volta del suo villaggio, stava ritto a gambe divaricate il chimico, presso l’unico
salice arruffato dal vento ch’esistesse in lungo e in
largo, offrendo al tiepido vento serale i brevi ciuffi di
capelli. Il medesimo sentimento nostalgico spingeva
lei alla volta del suo paese e lui verso quel viale, che
conduceva all’autostrada e – se si vuole – a tutte le
strade del mondo.
Quando la vedeva arrivare, si toglieva le lenti e cominciava a pulirle accuratamente con un lembo della camicia. Più tardi, lo vedeva dirigersi lentamente
verso il bosco che luccicava azzurro, una figura alta,
un po’ risecchita, con braccia troppo lunghe e una testa solida e magra, di ragazzo. Verrebbe voglia di togliere il vizio della superbia, a costui. Vedere un po’,
una buona volta, com’è fatto veramente. Gliene veniva il prurito, a lei. Una voglia, una grande, grandissima voglia ne aveva, lei.
Ma la sera della domenica, nella sala della locanda,
trovò che appariva più anziano e più duro di quel che
non avesse pensato, e le mancò di nuovo il coraggio.
Per tutta la sera egli stette a guardare come i ragazzi
del paese se la scambiavano facendola ballare. S’iniziò l’ultimissimo ballo, già si spalancavano le finestre
e fresche cateratte d’aria pura tagliavano la cortina di
fumo sopra le teste dei sobri e degli ubriachi. Allora,
finalmente, egli s’avanzò verso di lei e la condusse al
centro della sala. Ballava bene, ma senza abbandono,
guardava in giro le altre ragazze e faceva osservazioni sul loro conto.
Lei sapeva che l’indomani, molto per tempo, sarebbe ritornato in città. Sapeva che era capace di non
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dire nulla, di non fare nulla, ch’era fatto così. Il cuore le si strinse di rabbia e di angoscia. A un tratto disse, fissandolo negli occhi beffardi e annoiati: «È
difficile diventare come lei?».
Lui non fece che socchiudere gli occhi.
Senza parlare le afferrò il braccio e la condusse
fuori. Discesero in silenzio giù per la strada del paese. Rita staccò una dalia, che pendeva da una siepe.
Una stella cadde ma lei non formulò alcun voto. Come si comporterà, pensava.
Ed ecco erano già arrivati al cancello del giardino;
lei percorse lentamente i pochi passi fino alla porta
di casa – oh, come cresceva la sua angoscia a ogni
passo! – già posava la mano sulla maniglia (ch’era gelida e insensibile come un’intera vita solitaria), quando lui disse alle sue spalle, annoiato e beffardo:
«Sarebbe capace d’innamorarsi di uno come me?».
«Sì» rispose Rita.
Non aveva più angoscia, ora, nemmeno un po’.
Scorgeva il volto di lui come una macchia più chiara
nell’oscurità, e allo stesso modo lui doveva scorgere
il suo. La maniglia si fece calda sotto la sua mano, in
quel minuto che ancora si trattennero così. Poi, lui
tossicchiò sommesso e se ne andò. Rita rimase quietamente ritta presso la porta, finché il suo passo non
si udì più.
La notte, giacque senza sonno, e al mattino cominciò ad attendere la sua lettera, stupita di quel mutamento di circostanze ma non incerta sul loro esito. La
lettera giunse una settimana dopo quel ballo. La prima
lettera di tutta la sua vita, dopo tutte le lettere burocratiche dell’ufficio, che non la riguardavano affatto.
“Mia bruna signorina” la chiamava Manfred. Le
descriveva minutamente e con molta autoironia tut14
to ciò che c’era di bruno in lei, e in quali e quante variazioni, tanto che lui – che da tempo non trovava più
nulla di sorprendente in una ragazza – ne era rimasto meravigliato fin dal primo momento.
Rita, diciannove anni e abbastanza spesso in conflitto con se stessa perché non riusciva a innamorarsi come le altre ragazze, non ebbe bisogno d’imparare
a leggere una lettera simile. Fu chiaro, a un tratto, che
tutto, i diciannove anni i desideri le azioni i pensieri
i sogni, erano esistiti unicamente per prepararla, proprio a quel momento, proprio a quella lettera. Improvvisamente ecco far capolino tanta esperienza,
non certo accumulata da lei. Come ogni ragazza, era
sicura che nessun’altra prima di lei, né dopo di lei, potesse aver avuto, o avere, i sentimenti che lei adesso
provava.
Si portò davanti allo specchio. Era rossa fino alle
radici dei capelli bruni, e intanto sorrideva, con una
modestia nuova, con una nuova sapienza.
Sapeva che, in lei, vi erano a sufficienza cose che
piacevano a lui, e gli sarebbero piaciute sempre.
III
Fin dal suo quinto anno di età, Rita sa ormai che
occorre esser sempre pronti a un improvviso mutamento di tutta la nostra vita. Ricorda oscuramente la
sua prima infanzia in un paesaggio collinoso azzurro-verdognolo, l’occhio del padre con la lente d’ingrandimento incastrata, il sottile pennello nella mano
che dipingeva, svelta e precisa, minutissimi disegni
su tazzine da caffè, in cui Rita non ha mai visto bere
nessuno.
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Il suo primo viaggio importante coincise quasi esattamente con la fine della guerra e la condusse in mezzo a gente triste e inferocita, via per sempre dai boschi
boemi. La madre sapeva di una sorella del padre, in
un paesino al centro della Germania. Alla porta di costei bussarono una sera, come naufraghi. Trovarono
ricetto, letto e tavola, una stanza esigua per la madre,
una cameretta tinta di bianco per Rita. E quantunque
la madre, nei primi tempi, dicesse sempre: – Qui non
ci resto, mai e poi mai! – rimasero, inchiodate dalla
miseria comune e dall’insensata speranza che un bel
giorno una notizia del padre, disperso al fronte, avrebbe raggiunto quella casetta sicura.
Mentre la speranza svaniva e lasciava posto al lutto, e poi al doloroso ricordo, passarono gli anni. Rita
imparò in quel paese a leggere e a scrivere, imparò la
conta in uso tra i bambini del luogo e le antiche, tradizionali prove di coraggio giù al ruscello. La zia era
arida e precisa: la vita, incatenata a quella casetta, le
aveva negato grandi felicità e grandi sventure, succhiandole ogni favilla di desiderio ed estinguendo alla
fine persino l’invidia nei confronti degli altri. Ribadiva il proprio diritto di proprietà sulle due stanze e la
cameretta, ma a modo suo amava la bambina.
Dividere il posto al focolare e l’amore della bambina costò alla madre più forza d’animo di quanto
non lasciasse intuire a Rita. Questa era affettuosa e
comunicativa, tutti le volevano bene, tutti credevano
di conoscerla. Ma quali fossero le sue vere gioie e le
sue vere sofferenze, lei non lo mostrava a nessuno. Il
giovane maestro, arrivato dopo qualche tempo nel
paese, vide ch’era spesso sola e appartata. Le diede
dei libri e la condusse con sé nelle escursioni che faceva nei dintorni. Seppe anche quanto le costasse la16
sciare la scuola per recarsi in quell’ufficio; ma lei rimase ostinatamente ferma nella sua decisione. Per
amor suo, la madre aveva lavorato nei campi e poi
nella fabbrica tessile. Poiché ora era malata, la figlia
aveva il dovere di provvedere a lei. «Vedrà che vita
difficile avrà» disse il maestro. Era furibondo nei
suoi confronti.
A quel tempo Rita aveva diciassette anni. È una
buona cosa essere caparbi quando si ha da lottare con
se stessi, ma non si può durare eternamente. Un conto è prendere una decisione spiacevole, fare anche un
sacrificio – un altro è starsene, poi, seduta giorno per
giorno in un ufficio angusto, sola (di quanti impiegati poteva, infatti, aver bisogno quella piccola filiale rurale di una grande assicurazione?); scrivere tutti i
giorni file di numeri in infinite liste e sollecitare sempre con le stesse parole sempre gli stessi debitori. Annoiata, lei guardava arrivare le auto da cui scendevano
al suo ufficio dirigenti, gente che lodava o criticava –
sempre gli stessi. Annoiata, li guardava ripartire.
Un tempo, il giovane maestro, pallido ed entusiasta, l’aveva confermata nel suo diritto alla vita: lei s’attendeva cose eccezionali, gioie e dolori eccezionali,
eventi e cognizioni eccezionali. Tutto il paese era in
subbuglio, in un’atmosfera di risveglio (non se ne sorprendeva, era stato sempre così); ma dov’era colui che
l’avrebbe aiutata a deviare una minuscola parte di
quel gran fiume in direzione della sua piccola, importante esistenza? Chi le avrebbe dato la forza di
raddrizzare il caso, cieco e malvagio? Con terrore già
notava in se stessa indizi di abitudine all’uniforme
trascorrere dei giorni.
Tornò ancora l’autunno. Per la terza volta le toccava vedere come cadevano le foglie dai due enormi ti17
gli davanti alla finestra dell’ufficio. Talvolta, la vita di
quegli alberi le appariva più familiare della propria.
Spesso pensava: non vedrò mai qualcosa di nuovo da
questa finestra. Fra dieci anni, il postale ancora si fermerà sempre qui, alle dodici in punto; allora le mie dita saranno aride come la polvere; mi laverò le mani,
prima ancora di sapere che devo andare a mangiare.
Di giorno Rita lavorava, la sera leggeva romanzi, e
una sensazione di abbandono si faceva strada dentro
di lei.
Ed ecco che incontrò Manfred, e a un tratto intravide cose che non aveva mai visto. Quell’anno, gli alberi perdettero le foglie in un fuoco d’artificio di
colori, e il postale ritardò talora di interi, terribili minuti. Una solida, attendibile catena di pensieri e di
desideri tornò a legarla alla vita. In quel tempo, si mise l’anima in pace: per settimane intere non avrebbe
visto Manfred. Non conobbe più la noia.
Poi, egli scrisse che a Natale sarebbe venuto. Rita
lo attese alla stazione nonostante lui glielo avesse
tassativamente proibito.
«Oh» disse lui. «La signorina bruna col berretto di
pelliccia bruna. Come in un romanzo russo».
Percorsero insieme i pochi passi fino alla fermata
dell’autobus e s’arrestarono davanti a una vetrina. Apparve chiaro come sia possibile nelle lettere darsi del
lei eppure entrare in confidenza, mentre nella realtà
era assai meno facile.
«Vede» disse lui infine (e per un secondo lei fu presa dall’angoscia di averlo potuto deludere, fin da ora,
per sempre), «era questo che volevo evitare: star fermi
nella melma nevosa, fissare annaffiatoi e vasche da
bagno per bambini, e non sapere come proseguire».
«Come sarebbe a dire?» disse Rita. Imparava con
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una rapidità terribile, quando era insieme con lui.
«Lasciamo che il romanzo si svolga».
«Per esempio?» chiese lui ansiosamente.
«Per esempio, l’eroina ora dice all’eroe: vieni, montiamo su quell’autobus azzurro, che sta svoltando
l’angolo. Così ti conduco a casa tua e tu mi accompagni dai miei, che ancora non immaginano nemmeno
la tua esistenza e che devono conoscerti per poterti
invitare a mangiare insieme l’oca di Natale. Basta come azione, per un giorno?».
Incontrò lo sguardo di lui nella lastra della vetrina.
«Basta» disse sorpreso. «Basta e ne avanza. Sei
stata proprio brava».
Risero un po’ e poi montarono sull’autobus azzurro, che s’era fermato davanti alla vetrina, e lei lo condusse dalla cugina, e lui l’accompagnò dai suoi, che
quasi non immaginavano neppure la sua esistenza e
che lo scrutarono in silenzio per parecchi minuti.
Molto virile, pensò la zia, ma troppo vecchio per la
bambina. Un dottore in chimica, pensò la madre. Se
se la prende, lei ha finito di penare e io posso morire
tranquilla. Ed entrambe dissero a una voce:
«Verrà a Natale a mangiare l’oca arrosto?».
A ripensarci oggi, Rita rivede quel Natale nel piccolo paese coperto di neve – infatti la sera della vigilia
aveva nevicato, com’è di dovere – e loro due camminare in silenzio a braccetto, giù per lo stradale deserto, e si chiede allora: quando è stato un’altra volta
così? Quando potrà esserlo ancora? Le due metà del
globo terrestre combaciavano appuntino, e sopra la
sutura loro due passeggiavano come se niente fosse.
Davanti alla sua porta di casa, Manfred tirò fuori
dalla tasca un braccialetto d’argento e glielo diede,
come se non avesse mai fatto un dono a una ragaz19
za. Rita aveva capito da tempo che, una volta per tutte, toccava a lei essere la più disinvolta. Sfilò le mani
dai grossi guanti di lana, che caddero nella neve, e le
posò sulle guance fredde di Manfred. Lui restò immobile e la guardò. «Calde, morbide e brune» disse,
soffiandole via dal viso i capelli. Il sangue gli montò
agli occhi, e distolse lo sguardo.
«Guardami pure in faccia» disse lei piano.
«Così?» chiese lui.
«Così» replicò Rita.
Lo sguardo di lui l’aveva colpita come un urto. Per
tutta la sera, fu costretta a celare il tremito delle mani, poi lui se ne accorse ugualmente e sorrise; e lei gli
rimproverò quel sorriso, sebbene fosse costretta a
guardarlo continuamente. Era un po’ troppo vivace,
Rita, ma la zia e la madre non avevano mai conosciuto, o da tempo dimenticato, il modo con cui una ragazza tenta di celare la propria espressione amorosa.
Si preoccupavano della riuscita dell’arrosto.
Più tardi, furono levati i bicchieri per i reciproci
brindisi. «Ai suoi esami» disse la madre a Manfred.
«Che tutto vada bene. Ai suoi cari genitori» azzardò
la zia. Troppo poco aveva appreso finora sul conto
del giovanotto.
«Grazie» disse lui asciutto. Tutt’oggi a Rita viene da
ridere ripensando al suo viso. Egli aveva allora ventinove anni e non era assolutamente il tipo del genero
affettuoso. Disse: «Stanotte ho sognato che festeggiavamo il Natale a casa. Sognavo che mio padre levava
il bicchiere e beveva alla mia salute. Allora (nel sogno!)
ho scagliato contro la parete uno dopo l’altro tutti i
piatti e i bicchieri che mi son capitati tra le mani».
«Perché devi spaventare le persone?» chiese lei più
tardi, al cancello del giardino.
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