La cappella di famiglia

Transcript

La cappella di famiglia
La cappella di famiglia
Alex Carulli
I
In frett’e furia Agata Caco uscì di casa e si avviò barcollante e precipitosa verso la via dei negozi. Le dolevano le anche per essere
stata in piedi a tagliare i capelli a suo marito; le vene varicose s’erano ingrossate e pulsavano attorno ai polpacci vigliacche; le
ciabatte le comprimevano i piedi e il sudore glieli faceva sentire viscidi e bollenti; i dolori della notte passata in bianco
s’infiltravano pungenti lungo la schiena e altri piccoli e innumerevoli acciacchi si risvegliavano a ogni suo movimento. La luce del
sole invadeva la strada con intensità. Si rifrangeva contro i palazzi e le macchine e penetrava senza pudore tra i fitti alberi che
circondavano la piazza centrale del paese.
Agata continuò a guardarsi attorno, ingobbita, fino alla fine della strada, come se qualcuno la stesse pedinando; poi si fregò le
mani e, giunta all’incrocio, attraversò senza lanciare nemmeno un’occhiata. Credeva che quella di sentirsi al sicuro nei posti
meno sicuri e minacciata, invece, nei luoghi più protetti fosse una strana caratteristica della sua personalità.
Era passata davanti alla macelleria e, allungando il collo all’interno, aveva assicurato Gigi-il-macellaio che sarebbe ritornata più
tardi a prendere il mezzo chilo di fette di manzo, la salsiccia di cavallo, il quarto d’agnello e i due etti di carne macinata che aveva
ordinato. Il macellaio le aveva sorriso, aveva atteso che se ne fosse andata, s’era voltato verso il cugino seduto lì accanto e aveva
sbuffato sgranando gli occhi: «Quando quella comincia a parlare non te la togli più di dosso! Guarda, io preparo la busta, poi
appena la vedo arrivare me ne vado nella cella e ci pensi tu a dargliela, va bene? Inventati qualcosa.»
Uscendo di casa, considerato il fatto che aveva messo sul fuoco il montone prima di tagliare i capelli a suo marito Enzo e che
sarebbe stato pronto solo dopo quattro ore abbondanti di cottura, Agata aveva preventivato di perdere venti minuti dal macellaio
e una trentina dal fioraio, in modo da potersi fermare da sua madre per più di un’ora.
Dalla madre ci passava ogni giorno per prepararle da mangiare, per lavarla quando era necessario, accudendola e facendola
chiacchierare un po’. A dire il vero era lei a chiacchierare e sua madre ad ascoltare passiva, ma Agata sapeva che sua madre aveva
bisogno soprattutto di compagnia e non di esprimere a parole i tormenti o le letizie di quelli che si potevano considerare gli
ultimi giorni della sua vita.
«Mamma!» urlò Agata una volta entrata in casa. «Stai in bagno?»
«Chi è?!» chiese la madre.
«Mamma! Sono io.»
«Entra, entra…» disse la madre, pur avendo la figlia già davanti a lei in salotto.
«Perché dici “entra” se sono qui?!»
«Sei andata al dottore?»
«Sì, mamma, sono andata ieri pomeriggio,» mentì. «Non te l’ho detto, ieri, che dovevo andare dal dottore a pomeriggio?»
«E poi sei andata?»
«Sì, mamma. Sei sorda?! Te l’ho appena detto! Sì, sono andata ieri.»
«Eh be’, che aspetti: racconta.»
«Ehi, racconta…» sbuffò Agata, come se per lei chiacchierare fosse una fatica.
«Vedi che ti devi farti vedere! Non è mica normale quello che ti succede a te!»
Il rombo violento di un trattore scosse i vetri delle finestre e s’intromise nella conversazione madre-figlia. Un lampo s’infranse
sul giardino del retro e il tremendo fragore del tuono fece saltare le due donne sulle sedie. Poi il cielo si spalancò e un temporale
estivo si fece spazio tra la calura di quella mattinata di metà luglio. Vento, tuoni, lampi, pioggia e grandine.
«Mi fanno paura questi temporali…» disse Agata, tremando.
«Non ti preoccupare,» la tranquillizzò la madre, «sono temporali estivi; so’ fuochi di paglia. Fanno tanto casino ma poi non
durano nemmeno mezza giornata. E poi, figlia mia, sei qui, al coperto, cosa vuoi che succede?»
«Eh… non si sa mai come ti viene a prendere la Morte!»
La madre annuì a capo chino. Avrebbe rimproverato sua figlia per la mancanza di tatto, dato che lei era davvero a un passo
dalla morte, e le avrebbe rimproverato anche la disarmante superficialità nelle questioni filosofiche o metafisiche, quando, senza
nulla sapere e nulla capire, Agata si dilettava a dare giudizi sulla vita degli uomini o sulla loro morte come se fosse un’eletta o una
sibilla. Ma la madre conosceva sua figlia, era carne della sua carne, sangue del suo sangue, e sin da bambina l’aveva inquadrata a
dovere, e quindi sapeva che con Agata era difficile parlare dei suoi difetti, soprattutto perché lei credeva in modo assoluto di non
averne.
La vecchia tacque e le due donne si soffermarono per qualche minuto ad ascoltare i suoni disparati che provenivano
dall’esterno.
«Quello scemo del fioraio!» Agata si batté le mani sulle ginocchia. «Va bene che non è italiano, però quando parlo lui mi
dovrebbe capirmi, o non credi? Eh no! Questo invece fa finta di non capire! Gliel’ho detto almeno dieci volte quello che volevo,
ma lui niente, non capiva. Oppure, come la vedo io, faceva finta di non capire.»
«Il fioraio, eh?» chiese la madre.
«Eh, sì, il fioraio. Sei sorda?! Gli ho detto: “Io volere pagare qualcosa per una persona che più tardi, diciamo un’altra volta, io
non so, quando volere lei, diciamo, questa persona, anche oggi, ma quando volere lei, diciamo, deve venire a prendersi il regalo.”
E quello mi fa: “Vuole un pacco regalo, signora Agata?”
«“E allora questo è scemo!” mi dico io. Allora gli ho detto: “No,” gli ho detto, “io voglio solo pagare qualcosa che poi un’altra
persona venire a prendersi e a scegliere come vuole lei! Io non scegliere! Altra persona scegliere! Io pagare, altra persona
scegliere! Capito?” Ma quello niente, ma’, proprio niente, non la voleva sentire proprio. Allora mi sono cominciata ad agitarmi.
Già c’avevo le gambe spezzate che oggi so’ stata a tagliare i capelli a Enzo-mio e poi avevo scuoiato il montone, ché l’ho già
messo a cucinare, e quindi sono stata in piedi a tagliare i capelli e a mettere a fuoco il montone e c’avevo già le gambe spezzate, e
quello mi fa, il fioraio: “Signora Agata, ecco sedia!”
«“E che m’hai preso per una vecchia!” gli ho detto. Mi so’ seduta e ho provato a rispiegargli la storia. Che poi, ma’, è
facilissimo da capire. Io volevo solo pagare un mazzo di fiori, ma non lo volevo scegliere io i colori, le cose, no? Sai, sono i fiori
per Anna-la-sarta, per i vestiti che t’ha fatto l’ultimamente, ti ricordi?»
«Che vestiti?»
«I vestiti! Quello grigio gessato che hai messo al matrimonio della figlia di Giuditta di zio Michele? Te lo ricordi, quello bello?!»
«Il vestito sì, figlia mia, ma però non mi ricordo la sarta…»
«Che cazzo, mamma, non ti ricordi Anna-la-sarta?! T’ha fatto pure il vestito quello che ti piace assai, quello chiaroscuro.»
«Non me lo ricordo…»
«Come no? Quello che fa i riflessi…»
«Ah, ho capito! Il vestito quello che luccica, che diventa scuro e più chiaro se lo guardi… Ho capito, ho capito…»
«Eh! Il vestito chiaroscuro. E io che ho detto?! Comunque, io ho già pagato per quei due vestiti che t’ha fatto — già fatto, tutto
sistemato.»
«E i soldi li hai presi dalla pensione mia? Ché se spendi i soldi di tuo marito quello s’incazza e poi va a finire che litigate di
nuovo. Magari come l’altra volta, davanti alle persone come degli svergognati.»
«No, mamma, non succederà più una cosa del genere, lo sai. O non credi?»
«Sì, ma quella volta m’avete spezzato il cuore. Così, davanti alle persone come degli svergognati! Io non lo so. Se c’era ancora
tuo padre, vedevi!»
«Va be’, ma’, però non ricominciare con quella storia. Sono due anni ormai.»
«Non c’entra. Due anni, tre anni, anche dieci! Non c’entra! La cattiva reputazione resta per sempre legata alle persona. Hai
voglia a fare del bene, ma la cattiva reputazione resta. Quella storia me la ricordo bene io e se la ricordano bene tutti quanti in
paese.»
«E che cazzo me ne frega a me di quello che si ricordano in paese! Io tanto c’ho sessant’anni, di che mi devo preoccupare?
Non è che mi devo trovarmi marito. I figli ce l’ho quasi tutti sposati, e allora! Mamma, tu ti fai troppi problemi!» Agata s’alzò dalla
sedia, andò in cucina, aprì il frigo e tirò fuori una banana. «Mamma!» urlò, «quante volte ti devo dire che le banane le devi tenere
fuori dal frigo?!»
Ritornò in salotto con un piattino nel quale aveva schiacciato la banana, spremuto mezzo limone e cosparso il tutto con un
pizzico di zucchero.
«Tieni,» disse, «mangiati questo. Poi a pomeriggio ti porto un po’ di montone.»
Mentre la madre mangiava la poltiglia di banana, Agata prese la busta della carne che aveva acquistato dal macellaio e la
sistemò in frigo.
«Cosa c’è in quella busta?» chiese la madre.
«Niente. È la carne che ho comprato ora. La tengo qui in frigo così almeno Enzo non vede che ho comprato ancora a
credito.»
«Quello un giorno o l’altro s’incazza! Te lo dico io, figlia mia.»
«Sì, va bene… E quando s’incazza?!»
«Poi va a finire che fate di nuovo la figura da svergognati come quella volta…»
«Ma’! L’hai già detta due volte questa storia oggi! Vedi di smetterla ché quelli sono cazzi miei, hai capito?! Che poi, ma’, sono
andata da Gigi-il-macellaio e quello non c’era, ecco perché ho fatto a credito. C’era solo suo cugino, quello scemo col braccio
offeso, il figlio di Bice-la-tabaccaia, hai capito? E, non lo so, ma mi da fastidio dire i cazzi miei ad altre persone. E allora, siccome
non volevo dire al cugino che dovevo pagare dei vecchi debiti ma che questa carne che ho comprato me la doveva dare a credito,
2
siccome non volevo dirglielo a lui, allora ho detto di segnare anche questa. Ora, non lo so, saranno ‘na centinaia di mila lire che
gli devo dare. Ma però, dico io, t’ho detto che passo tra poco!, che devo andare dal fioraio!, e che poi passo a prendere la busta
che ho ordinato!, diciamo, t’ho detto che passo!, e lui, proprio in quel momento, lui, il macellaio, non c’è! “Gigi è andato al
macello,” m’ha detto il cugino. Ma rimanici al macello! Ma non lo so, se uno si deve comportare così!
«Che poi, ma’, sai come sono i commercianti. Gli avevo chiesto due etti di carne macinata e me n’ha fatti tre; gli avevo detto
un quarto di agnello e me n’ha dato mezzo perché dice che è buono e che è davvero ‘n’occasione. Poi ti dico che arrivo in una
mezz’ora!, pochi minuti!, “Ora passo!” gli ho detto, e quello invece se ne va al macello e lascia quello scemo handicappato di suo
cugino! Io non lo so. Ti piace?»
«Sì, è dolce.»
«Mamma, senti. Noi dobbiamo cominciare a pensare al loculo. Tu hai detto che vuoi stare vicino a papà, ma quello sta nella
cappella della famiglia sua, coi fratelli e tutto. Come si fa? Mo bisogna dire che lo devono sfossare e poi, dov’è che vi mettiamo?
Non è che c’abbiamo ‘na cappella noi. Devo sentire cosa dice zio Angelo; ché pure lui, diciamo così, sta per consegnare le targhe.
Siccome non c’è spazio nella cappella per lui, per zio Angelo, allora si può chiedere di sfossare papà per mettere a lui, a zio, e
così magari riusciamo a mettervi insieme a te e papà.»
«Eh sì, figlia mia, mi sa che devi fare proprio così.»
«Lo so, mamma, però tu non sai che rottura è! Vai di qui, vai di là. Vai a comprare questo senza farlo sapere a Enzo; vai a
prenotare quello senza che Enzo deve sapere il prezzo di quello che devi fare; poi devi stare attenta che qualcuno dei suoi amici
non gli racconta tutto, come quello scemo rimbambito del cugino del macellaio, per esempio; ché quello, secondo me, glielo va a
dirglielo diretto! Poi ora ti metti pure tu, con ‘sta storia che vuoi stare con papà. Dico io, non puoi stare dove c’è spazio?! Devi
per forza stare vicino a lui?!»
«Figlia mia, se è troppo complicato, no, figlia mia, faccio a meno. Ma però, lo sai, no?, come siamo noi della vecchia
generazione. Io ho conosciuto solo a tuo padre come uomo: il primo e l’ultimo della mia vita. L’unico uomo che m’ha conosciuta
nell’intimamente. Allora volevo stare vicino a lui, così, solo perché magari da sotto terra ci possiamo ancora—»
«Eh la madonna! Ma’, non te n’uscire con ‘ste cose romantiche da telenovela!»
«Ma figlia mia… è più comodo anche per voi che ci dovete venire a trovare. Stiamo tutt’e due vicini e non dovete andare in
giro per tutto il camposanto. Se stiamo vicini basta prendere un mazzo di fiori e ce lo dividete.»
Agata annuì, preservando un ghigno seccato sul volto.
«È meglio per voi, figlia mia…» biascicò la madre col timore che la figlia sbottasse.
«M’hai fatto venire in mente i fiori! Devo andare da Anna-la-sarta, ché gli devo dire che c’è un regalo per lei dal fioraio. Allora
facciamo così, mamma: io vado dalla sarta, ora, gli dico quello che gli devo dire, poi passo da casa, vedo come sta cuocendo il
montone, apparecchio la tavola e poi passo di nuovo da qui, così mi prendo la busta di carne. Sempre che Enzo-mio non è
ancora a casa.»
«Va bene, figlia mia, non ti preoccuparti per me.»
Il temporale era finito da qualche minuto. Le strade erano allagate e un denso odore di pioggia si levava poderoso dal suolo.
Un arcobaleno faceva capolino all’orizzonte e nell’osservarlo Agata ricordò quella volta che suo padre le aveva spiegato, da
bambina, di cosa si trattasse. Le aveva detto che era Dio che faceva sapere agli uomini che un ponte per il paradiso c’era sempre
a disposizione e che neanche dopo un temporale o una tempesta gli uomini dovevano dubitare della Sua benevolenza. Questo
ricordo la consolò e si convinse di non meritare l’inferno—come invece credeva nei momenti di sconforto—per aver mentito a
suo marito sul prezzo delle tende che s’era fatta fare da Anna-la-sarta, per esempio, o sul prezzo delle bomboniere per il
matrimonio della loro primogenita, Matilde, e per tutte le altre piccole bugie che sfornava con la destrezza del fornaio più
esperto. Pensò anche che Dio Misericordioso non le avrebbe mai fatto pagare l’atteggiamento duro e irriverente che aveva con
sua madre, anche perché, pensava, i suoi fratelli allora, che fine avrebbero fatto i suoi fratelli, che non passavano nemmeno a
trovarla la madre?! Sapeva che Dio avrebbe riconosciuto le fatiche e le attenzioni che aveva sempre riservato alla madre, e sapeva
anche che il fatto di riscuotere la sua pensione non poteva essere considerato dall’Onnipotente fonte di uno squallido
bilanciamento materialistico.
I polpacci le facevano male all’inverosimile e camminare le pesava al punto che avrebbe preferito non avercele affatto, le
gambe; avrebbe preferito essere costretta in una sedia a rotelle, pensando inoltre che in quel modo i negozianti e le persone in
generale avrebbero provato un po’ più di compassione nei suoi confronti, invece di considerarla una perfida strega calcolatrice,
come aveva sentito dire una volta a delle signore che parlottavano in un supermercato senza accorgersi di avercela alle spalle.
Suo marito Enzo era in casa e fremeva dalla fame. Agata gli assicurò che il montone avrebbe avuto bisogno ancora di
un’oretta scarsa e che, nel frattempo, lei sarebbe andata da sua madre a prepararle qualcosa da mangiare. Enzo aveva fatto di sì
con la testa e aveva continuato a guardare la televisione ad altissimo volume, vista la sua ormai avanzata sordità. Agata pensò che
avrebbe preparato delle fettine di manzo per sua madre, quelle che aveva comprato e lasciato lì.
A lei, anche a causa del caldo, non andava affatto il montone, per il quale suo marito, invece, andava matto. E, del resto, lei lo
aveva cucinato solo per lui e i nipotini che, verso l’ora di pranzo, sarebbero probabilmente passati di lì a salutare e, magari, a
3
pranzare. Decise così che quel giorno avrebbe pranzato con sua madre e che anche lei si sarebbe fatta una fettina di manzo, bella
tenera, saporita, con un goccio d’olio crudo, e magari qualche cetriolo e dei pomodori come contorno. L’idea non era male e il
pensiero dei cetrioli le fece scivolare un po’ d’acquolina fuori dalla bocca, sul mento. Si ripulì rapida, poi si avvicinò al marito e
urlò: «Enzo, senti qua! Siccome che mamma non sta tanto bene, allora vedi che io mangio con lei! Ora aspetto che il montone è
pronto, poi vado da lei! Tu basta che lo prendi dalla pentola e lo metti nel piatto: è già condito e tutto! Se vuoi un po’ di sale lo
puoi mettere, ma penso che deve andare già bene a questa maniera! Poi, se si fanno vedere quei filibustieri daglielo anche a loro!
Hai capito?!»
«E perché non ti porti un po’ di montone anche da tua madre?» chiese Enzo, squarciandosi la gola per urlare.
«Perché a mamma non gli piace il montone!» mentì Agata. «E poi, guarda, forse è meglio se vado via ora! Tanto tra più o meno
mezz’ora è pronto, puoi anche spegnerlo tu, eh?! Che dici, lo spegni tu?! Ché io devo andare da lei, magari ci facciamo una pasta
in bianco o un riso in bianco, ché lei non sta proprio bene.»
«Come dici tu, marescialla!» urlò Enzo.
Lui credeva di infastidire Agata chiamandola marescialla, invece a lei piaceva tantissimo essere chiamata così, poiché quel
nomignolo rafforzava la convinzione, sia in lei sia nel marito, che a casa comandasse lei. E senza ombra di dubbio. Lui era un
pappamolle e questo lo sapeva tutto il paese. Mentre era esagerato considerare Agata cattiva o malvagia soltanto perché svariate
volte era stata costretta a tirare fuori le unghie per difendere il marito, oltre a se stessa.
«Ricordati, Enzo, trentacinque minuti!» urlò Agata e uscì.
Il paese era in fibrillazione. Mancava poco all’ora di pranzo e la gente non aspettava altro che acquietarsi dopo una giornata di
lavoro o di semplici chiacchierate infinite. Le macchine scorrevano a destra e a sinistra e in tutte le direzioni; alcuni sfrecciavano
in bici con le buste del supermercato penzolanti; le mamme passeggiavano disinvolte in attesa che i figli uscissero dal camposcuola; i vigili urbani si organizzavano alla meno peggio per formare un corto ma efficace cordone attorno all’uscita delle palestre
e delle ludoteche; gli anziani del paese che non avevano ancora riscosso la pensione cominciavano a spazientirsi in fila alle poste,
mentre gli impiegati comunali si dirigevano, quatti quatti, verso casa. Sembrava che l’intera comunità funzionasse come un
organismo unitario, come se ognuno avesse un proprio ruolo che rivestiva inconsciamente ma con grande devozione e
appagamento.
Agata fu rapita da questa scena pastorale e le sembrò di essere nuovamente circondata da zotici agricoltori e dalla miseria che
una volta attanagliava la sua famiglia; le sembrò di vedere le galline razzolare all’angolo e i bambini seminudi rotolarsi nella paglia
assieme ai cani; gli uomini spogliarsi dagli abiti di lavoro e, in canottiera, travasare le damigiane di vino in bottiglie da due litri; le
donne attorno ai fornelli come formiche laboriose e le giovani ragazze, tra cui ella stessa, a sistemare la tavola, costrette a
rispondere alle domande stupide e maliziose degli zii e costrette a subire lo scherno dei ragazzi che, al contrario delle loro stesse
sorelle, non erano tenuti a collaborare a un bel niente. Agata rivisse la sua infanzia in quegli istanti e si chiese che fine avessero
fatto i suoi fratelli e le sue sorelle: perché non erano con lei ad accudire la madre e a prendersi cura dei nipotini come invece
aveva visto fare a tutte le sue zie quando lei era piccina?
Era al centro della piazza centrale e d’un tratto le sembrò che il terreno sarebbe potuto sprofondare da un momento all’altro,
che nessuno si sarebbe accorto che Agata Caco era stata inghiottita nei meandri più oscuri e profondi della Terra, e che tutti, in
paese, a partire da suo marito Enzo, passando per sua madre, attraverso i figli e i nipotini, per finire a quel poco di buono del
parroco, e a Gigi-il-macellaio e Michele-l’elettricista, e il fioraio rumeno e tutte le pettegole e i loro mariti e le loro amanti, tutti,
insieme, tutti in paese non avrebbero sentito la sua mancanza. Credeva che se fosse scomparsa in quel preciso istante nemmeno
una vita in quel piccolo paesino di collina, nemmeno una vita sarebbe cambiata e nessuna famiglia sarebbe stata scossa da una
perdita così insignificante.
“Dio mio,” pregò tra sé e sé, “almeno tu, Signore, abbi considerazione di una povera donna!”
«Che ne dici se facciamo anche noi ‘na cappella?» chiese la madre, buttando giù l’ultimo boccone.
«Ma sai quanto ci vuole a fare una cappella?!» rispose Agata, confusa.
«Ma io ce n’ho ancora soldi.»
«Non quanto ci vuole di soldi! Quanto ci vuole di tempo!»
«E va be’, quanto ci vorrà? Due, tre mesi. Tò, massimo quattro!»
«Non lo so.»
«Diciamo che è un mio desiderio, diciamo così.»
«Va bene, mamma, vedo quello che posso fare: devo parlare con Mastro Mauro e devo sentire quanto ci può mettere. Se
questo è quello che vuoi…»
«Eh sì, figlia mia… Si può fare ‘na bella cappellina, e ci fai fare lo spazio anche per te e i tuoi fratelli. Però, Agata, senti qua! La
prima cosa da fare è andare al comune e chiedere cosa devi fare per comprare il suolo. Hai capito, figlia mia, quella è la prima
cosa da fare! Ché se non ti danno prima il suolo e non sai quanto vogliono, non puoi mica cominciare a fare niente. Poi, dopo,
dopo che hai fatto queste cose al comune, dopo puoi andare da Mastro Mario.»
4
«Mastro Mauro, ma’, non Mastro Mario.»
«Ah, non c’è più Mastro Mario?»
«No, mamma. È morto ‘na decina d’anni fa. Ora c’è suo figlio, Mauro, il grande.»
«E quanti figli aveva Mastro Mario?»
«Tre, mamma. Due maschi e una femmina.»
«Ah… E la moglie?»
«Ma che cazzo te ne frega a te della moglie! Dobbiamo pensare ai fatti nostri, qui, e questa si mette a parlare della moglie! È
morta la moglie, è morta pure lei.»
«Nooo… Quella era ‘na brava donna; una persona gentile, composta ed educata. Stasera gli dedico una preghiera a lei e a
suo marito, povero Mastro Mario.»
«Ma che preghiera e preghiera! Mamma, le preghiere le devi fare per i vivi, non per i morti! Quelli sono morti e non ci puoi
fare più niente. Devi pensare a chi sta ancora qui, coi problemi che ci sono al mondo moderno di oggigiorno, non a pregare a
quelli che sono morti. Che cazzo te ne frega a te di quelli che sono morti?!»
«Ma una preghiera in più non mi fa mica male, figlia mia. Anche tu, Agatina, dovresti pregare un pochino di più!»
«Non mi chiamare Agatina, ma’, c’ho sessant’anni!»
«E a me, allora, che mi chiamate Nunziatina! Che devo dire?! E io ce n’ho quasi novanta!»
«Non t’allargare, ma’. Sono ottantaquattro.»
«E allora, non sono quasi novanta?»
II
Il giorno dopo, di buonora, Agata raccolse tutti i documenti necessari e si recò speranzosa in comune. La sera prima, verso le
nove, dopo essere rientrata a casa, aveva discusso della possibilità di fare una cappella di famiglia con suo marito Enzo.
Gli aveva detto che secondo lei avrebbero dovuto fare una cappella per i suoi genitori e per la sua famiglia, in modo che i
loro figli, quando loro non ci sarebbero stati più, avrebbero potuto visitare in un colpo solo sia i genitori sia i nonni — almeno
quelli materni. Enzo non era d’accordo, come da copione, soprattutto per lo spreco di denaro che ci sarebbe stato; inoltre
credeva che i suoi suoceri non dovessero essere seppelliti nella stessa cappella di loro due e dei loro figli.
Ad Agata, tuttavia, era bastato poco per smontare, pezzo per pezzo, le già fragili argomentazioni di Enzo: «Per quanto riguarda
lo spreco di soldi, ti vorrei farti notare che è mia madre quella che paga, non certo tu! Paga tutto lei: fondo, materiali, marche da
bollo, permessi, la manodopera. Tutto quello che c’è da tirare fuori lo tira fuori lei. Tu non devi sganciare nemmeno ‘na lira
bucata e ti ritrovi una cappella di famiglia già pronta anche per i tuoi figli. E scusa se è poco! Poi,» aveva fatto un lungo respiro,
s’era tirata il lenzuolo fino al collo, aveva minacciato con lo sguardo il marito e aveva continuato: «Poi devi sapere che una
cappella di famiglia non comprende solo un nucleo familiare. Nel senso che i nonni—anche i bisnonni e trisnonni, se è per
questo—comunque, i nonni sono parte integrante di una famiglia. Se no, se tu non la vedi così, Enzo-mio, io non so che tipo di
concezione c’hai tu della famiglia. Forse quella fatta da due uomini? Una famiglia di ricchioni? È quella la famiglia che dici tu? Se la
cappella la facciamo, la facciamo per la famiglia intera. Se i tuoi genitori non erano già sepolti al loro paese, io prendevo e ci
mettevo dentro pure loro!»
La questione era stata risolta. E questa volta, alla fine della discussione, Enzo non era riuscito nemmeno a ironizzare
chiamandola marescialla. Ragionare della morte e dei loculi da costruire e dello spazio da fare occupare alla suocera e quello in
basso che sarebbe spettato a lui, con sopra di lui i suoi figli e alla sua sinistra la moglie, in un posto nella nuova ala del cimitero
cittadino eccetera — ragionare e parlare di morti future metteva Enzo in seria difficoltà, poiché lui aveva sempre temuto la morte
più d’ogni altra cosa e non era mai riuscito ad affrontare dibattiti e discussioni su quella questione. Mai. Era sempre rifuggito da
quei discorsi e aveva sempre cercato di curarsi delle culle dei bambini, dei giocattoli da regalare e di altre sciocchezze che
richiamavano a gran voce la vita e non cimiteri, sepolcri, feretri e bare in radica.
Ancora una volta Enzo si convinse che sua moglie Agata, checché se ne dicesse, era assolutamente più forte di lui. Una donna
decisa, impavida, pragmatica.
Dopo aver cercato a destra e a manca l’ufficio giusto, Agata s’era sentita dire che non ci sarebbe stata la possibilità di
assegnare altri posti poiché una lista già copiosa era stata stilata e che, per quanto concerneva la nuova ala del cimitero, non
c’erano più posti disponibili. L’assegnazione avrebbe seguito rigorosamente l’ordine della lista e sarebbe avvenuta nella sala
consiliare la settimana seguente. Agata ringraziò il funzionario comunale, ma il suo volto si rattrappì dalla frustrazione e dal
disappunto.
5
“Ma perché non me ne va buona una?!” si chiese, affondando il passo nella moquette morbida del corridoio del comune.
“Oggi che non sento dolori ai piedi, alle gambe, stanotte che ho dormito in grazia di Dio, perché, dico io, perché questa cosa
deve rovinarmi la giornata? E a quella, ora, chi glielo dice?”
Con grave sconforto, Agata si avviò verso casa.
Sulla strada, mentre ingobbita si guardava intorno, preoccupata che qualcuno l’assalisse o cercasse di derubarla, incrociò una
scolaresca del campo-scuola che, in fila indiana, guidata da una maestra molto giovane e dallo sguardo assente, si dirigeva verso il
borgo antico, dove campeggiava, ripulita, la masseria nella quale più di trecento anni prima avevano dimorato i capostipiti e
fondatori del paese. Pensò a quanta strada avrebbero dovuto ancora compiere quei bambini e a quante difficoltà avrebbero
incontrato nella vita, e a tutti gli insegnamenti ricevuti dal padre e alle miriadi di soluzioni che si affacciavano nelle teste degli
esseri umani solo dopo un’approfondita concentrazione. E pensò anche che molto spesso si credeva di non riuscire a risolvere
dei problemi solo perché non si prestava attenzione alle soluzioni più semplici e meno astruse.
Fu proprio grazie a queste riflessioni che Agata, una volta in casa, come un lampo di genio, capì come avrebbe potuto
sistemare la questione cappella. Di ciò, naturalmente, non avrebbe fatto parola a suo marito. Lui non avrebbe capito o,
comunque, non sarebbe stato d’accordo.
In casa della madre c’era odore di chiuso, silenzio, le finestre erano serrate e per qualche secondo Agata credette che la
madre fosse morta. Distolse quel pensiero ma non la chiamò. Si affacciò in camera da letto e lì non c’era; diede un’occhiata
furtiva in cucina e non vide anima viva. A fatica riuscì a mantenere il passo felpato e si avvicinò alla porta che dava sul giardino del
retro. Attraverso il vetro notò sua madre, stesa sulla sedia a sdraio, gli occhi chiusi, un fascio di luce che le lambiva il mento e
l’intero collo. Le rughe erano vistose e la pelle raggrinzita le ricordò quella del padre da morto. Avvertì che la Morte si stava
impossessando della madre con cautela e subdolamente; tanto subdolamente da far credere che Essa, temendo che qualcuno
scoprisse un modo per far continuare a vivere Nunziatina, si preoccupava di portarsela via con discrezione, usando come
abbaglio il declino ineluttabile del corpo umano.
«Mamma,» sospirò, col timore di farle prendere un colpo e, quindi, di fare un favore alla Morte. «Ehi, mamma. Sono io,
Agatina tua, svegliati.»
La madre non rispondeva.
«Mamma!» alzò il tono di voce e dentro di sé sentì gonfiarsi un bolla nera che spingeva il corpo dall’interno. «Mamma!» urlò di
nuovo, già certa di doversi preparare al peggio.
«Chi è?!» Nunziatina si svegliò di soprassalto.
«Vaffanculo!» urlò Agata, liberata.
«Che ti prende?» chiese la madre. «Pensavi che ero morta? No, figlia mia, io se devo morire voglio morire sul letto mio. Il letto
che ho diviso con tuo padre e solo con lui! Va bene, diciamo che qualche volta c’avete dormito anche voi bambini, ma è lì che
voglio morire, sul letto della mia vita.»
Agata pensò che le telenovelas stavano rovinando sua madre con quei discorsi mielosi e a tratti patetici. Pensò ciò ma non
disse niente. Non le sembrava giusto contraddirla in quel momento: lei era morta per qualche secondo quel pomeriggio, prima
che la figlia la svegliasse, e ora rivederla e riconsiderarla viva donava ad Agata felicità e piacere ritrovati.
«Stavo qui a prendere un poco d’aria,» disse Nunziatina. «E te lo dico di nuovo: se devo morire, voglio morire nel letto mio,
non qui fuori, in giardino, su una sdraio come una svergognata.»
Agata, mai troppo espansiva o affettuosa, si piegò verso la madre e l’abbracciò con vigore, come aveva fatto solo da bambina.
Delle lacrime presero a solcarle il viso.
«Mamma,» tirò su col naso. Si passò il dorso della mano sulle guance per asciugare le lacrime e continuò: «Mamma, senti, c’ho
una notizia cattiva e una buona. Quale vuoi sentire prima?»
«Quella buona.»
«Ma perché prima quella buona?»
«Non lo so, forse perché così quella brutta non mi addolora più di tanto.»
«Sì, ma se senti quella brutta prima, poi, con quella buona ti puoi dimenticarti di quella brutta o, almeno, puoi addolcirla. O
non credi?»
«E va bene, figlia mia, come dici tu. Dimmi quella brutta prima.»
«Va bene. Senti. Allora, stamattina sono andata al comune per chiedere del suolo del cimitero per fare la cappella. Sono
andata e non ti dico! Lì non si capisce niente, non è più come prima, che c’era uno che faceva tutto e tu andavi e parlavi solo con
lui, no! Ora è cambiato tutto. Comunque, dopo un po’ finalmente parlo col segretario comunale, che mi manda da un altro che
mi manda da un altro, e alla fine, questo, l’ultimo, diciamo così, l’ultimo da che di cui sono andata, l’ultimo, no?, mi dice che c’è
una lista di persone già inserite e che non c’è più spazio per l’acquisto. E questa è la brutta notizia.
«Quella buona è che io, dopo nemmeno ‘na mezz’oretta, sono tornata al comune. Diciamo che lì ho pensato: “Che cazzo me
ne frega a me! Ora vado a parlare direttamente col sindaco così vediamo.” E così ho fatto. Sono entrata nell’ufficio suo, del
6
sindaco. C’ha la finestra che s’affaccia sul lato del campanile della chiesa, hai presente?, dove c’è la ferramenta di Angelina. E,
allora, diciamo che sono andata nell’ufficio e gli ho detto, al sindaco, gli ho detto: “Signor sindaco, io sono venuta a chiedere per
la possibilità che diciamo io vorrei acquistare un pezzo di terra dentro al cimitero nuovo, diciamo la parte nuova, un terreno per
fare una cappella di famiglia.” E quello subito mi fa: “Ma lei, signora, non deve venire da me, ci sono dei funzionari che si
occupano di questo.”
«“Ho capito, signor sindaco,” gli ho detto. “Sono già stata da quell’ufficio di cui che lei mi parla. Ma però lì m’hanno detto che
c’è una lista e che ormai questa lista è chiusa. Allora, io, signor sindaco, che c’ho mia madre che sta per consegnare le targhe,”—
c’ho detto così, mamma, capito?, ché lui poi magari si provava compassione, capito? Ho fatto bene? O non credi?»
«Sì, figlia mia, hai fatto bene. Continua…»
«E allora gli ho detto: “Ché mia madre sta morendo,” eccetera; e lui m’ha detto di nuovo che non era di sua competenza.
Allora, ma’, stai a sentire.
«Lui, diciamo che, lui a quel punto, dopo che m’aveva detto così, si vedeva dalla faccia che se ne voleva andare o che doveva
fare i cazzi suoi, allora io mi sono alzata, e lui pure, ma’, pure lui s’è alzato, e lui ha preso la giacca, poi la borsa che c’aveva sulla
scrivania, sul tavolo, e mi fa: “Mi dispiace, signora Caco, ma non si può fare niente.” Be’, ma’, io allora l’ho seguito e gli parlavo
ancora, ma lui andava avanti nel corridoio e io gli andavo dietro, così, con le mani avanti, come se m’aveva rubato qualcosa, e gli
dicevo “Signor sindaco, aspetti! Aspetti!”, ma lui niente, ormai diceva soltanto “Signora, ho molto da fare, mi dispiace!”
«Ehi, ma’, è entrato nell’ascensore e dentro c’era solo lui. Allora mi so’ fermata un secondo, l’ho guardato e lui m’ha guardato
a me, e lì, ma’, lì mi sono decisa. Patapimm! Mi sono infilata nell’ascensore col sindaco!»
«Oh Gesù…» sospirò la madre, portandosi le flebili mani alla bocca.
«E senti! Non è finita ancora! Entro nell’ascensore e la prima cosa che mi dice quello è: “Signora, davvero, è inutile che si
disperi. Ormai è fatta. Mi dispiace.” Allora io gli dico: “Signor sindaco, io avevo pensato di portarle un capocollo, bello fresco, l’ha
fatto mio marito stesso, Enzo-mio l’ha fatto. E io avevo pensato che magari a voi, signor sindaco, vi piaceva il capocollo e quindi
diciamo che l’ho portato, ma non potevo portarlo sopra in ufficio.” E lui mi dice, senti ma’, senti che m’ha detto: “Ma dov’è
questo capocollo?” mi dice. “Ce l’ho a due passi da qui, signor sindaco. Nemmeno dieci minuti e glielo porto.” Allora lui dice:
“Signora Caco, facciamo così. Io ora torno un momento nel mio ufficio e dico alla segretaria che lei, signora, deve portare i
documenti per l’assegnazione del suolo del cimitero. Ce li ha tutti i documenti, lei?” mi domanda. “Certo che ce li ho tutti,” dico
io. “E allora io avviso la mia segretaria che lei è in lista, che lei ha dei grossi problemi e deve essere messa in lista
immediatamente. Poi scendo,” mi dice lui, ma’, e m’appoggia pure la mano sulla spalla, sai, come ‘n’amica, una cosa, sai?, “e
insieme andiamo dove ha detto che c’ha questo capocollo. Va bene?”
«“Va benissimo, signor sindaco,” dico io. “Che Dio la benedica! Lei non sa quanto è importante per me! Ché mia madre sta
male e può morire da un momento all’altro!”»
Nunziatina non si preoccupò nemmeno di fare le corna o di toccare ferro, tanto era abituata a sentire la figlia parlare della sua
morte come se fosse un ingrediente alimentare o qualcosa vicino al pettegolezzo. Si limitò a sorridere dell’audacia e
sfacciataggine di Agata—che aveva preso tutto dal padre—e mettendo la mano su quella della figlia, la ringraziò di cuore,
sorridendo amorevolmente.
III
Due mesi e qualche giorno più tardi, Mastro Mauro si fece sentire, telefonando a casa di Agata subito dopo pranzo. Le disse che i
lavori procedevano bene e che erano ormai giunti a più di metà dell’opera; il mastro muratore assicurò Agata che la cappella
aveva ormai il suo scheletro.
I due risero a crepapelle per quella battuta involontaria e le loro macabre risate si accavallarono flaccide una sull’altra; quella
loro specie di ridarella ritornò a galla verso la fine della telefonata, mentre Mastro Mauro, con falsa modestia, stava cercando di
persuadere Agata che la sua velocità e precisione derivavano soprattutto dal fatto che la sua defunta madre aveva sempre parlato
bene di Nunziatina, e che quindi il suo era un lavoro che tendeva a compiacere soprattutto sua madre, lì, nell’alto dei cieli. Agata
non aveva creduto a una sola parola di quello che aveva detto Mastro Mauro, ma non aveva voluto farglielo notare. La cappella
stava andando avanti e questo era l’importante.
Si erano salutati scoppiando a ridere.
«Enzo!» urlò Agata, riagganciata la cornetta. «Enzo!»
«Che c’è?!» sbraitò lui, dal profondo del divano.
«Più tardi vado a vedere come sta venendo la cappella, al cimitero. Vuoi venire?»
“Neanche per sogno!” pensò Enzo. Poi gridò: «C’ho un mal di testa che non ti dico…»
7
«Sei proprio un rammollito!» disse Agata, che aveva sentito la parola rammollito in una delle telenovelas che guardava sua
madre. «Vuol dire che c’andrò da sola!»
Una volta davanti al cimitero, Agata si ricordò di quando avevano seppellito suo padre e delle facce della gente attorno al
feretro. Erano passati più di vent’anni, ma la brezza di quel pomeriggio d’inverno vagava ancora lì tra i cipressi e di tanto in tanto
sfiorava il volto di Agata e la rinfrescava con una dolcezza malefica. Sembrava che in qualche modo la Morte, o chi per Lei, la
stesse corteggiando, volendola far precipitare in una delle fosse aperte al cielo.
Ricordò il volto distrutto di sua madre e le urla disperate che aveva lanciato al cielo; ricordò suo zio Angelo, fratello minore
del padre, che nel vedere la bara entrare nel loculo era svenuto e l’avevano portato d’urgenza al pronto soccorso, e si augurò che
non le capitasse mai una cosa del genere. Era una donna forte, lei, e non avrebbe mai lasciato a quel pappamolle rammollito di
Enzo il compito di consolare e fare coraggio a qualcuno. Sarebbe stata lei l’unica a sopportare il dolore con riserbo e freddezza!
In lontananza, sulla sinistra del cimitero, si potevano notare le nuove costruzioni, le nuove cappelle della nuova ala; e in
fondo, nell’angolo, Agata notò un manipolo di muratori lavorare spensierati. Poi intravide Mastro Mauro e, purtroppo, come
spesso le succedeva quando riconosceva una persona familiare, si sentì mancare e credette che, in quel momento, si sarebbe
potuta aprire una voragine nella terra che avrebbe risucchiato tutti al suo interno: morti e vivi, muratori e cappelle in cemento,
lei, Agata, e Mastro Mauro, e tutti i sepolcri adulati dai suoi concittadini. Immaginò il peggio e cominciò a sudare freddo,
tremando. E nella sua mente, antagonisti tra loro, presero a rimbombarle il pensiero di una catastrofe imminente e quello di
dover assolutamente andare da un medico per risolvere quella situazione spiacevole: la comparsa improvvisa e inspiegabile della
paura di morire.
«Signora Caco!» urlò Mastro Mauro.
Agata finse di non averlo notato e cercò la lapide di qualcuno in modo da riprendersi.
Si fermò davanti a quella del vecchio autista dello Scuola Bus, un brav’uomo, e lesse l’epigrafe voluta dai familiari e pensò di
non averne ancora pensata una per sua madre.
“Chissà,” pensò, “forse glielo devo chiedere.”
«Signora Caco!»
«Ehilà!» disse Agata, gioviale, fingendo d’essere sorpresa di vederlo. «Mastro Mauro! Come andiamo?»
«Bene, signora Caco. Lei?»
«Be’, non mi lamento. I lavori? Come procedono i lavori?»
«Venga a vedere,» disse il mastro muratore. «Ah, signora Caco, mi dispiace per quella battuta, ma, davvero, io non volevo—»
«Ma, Mastro Mauro, per chi mi ha presa?» lo interruppe Agata. «Non si preoccupi, io capisco sia l’ironia, sia la casualità. Non si
preoccupi.»
«Come dice lei, signora.»
L’uomo cominciò a elencare tutto il lavoro svolto, passaggio per passaggio, e Agata, che aveva in simpatia Mastro Mauro,
iniziò a dubitare della sincerità e dedizione dell’uomo e, per qualche secondo, mise in forse la sua benevolenza e cercò qualche
difetto da far notare ai muratori per screditare il loro capo mastro. Non trovando nulla di particolare da dire, avvertì un leggero
imbarazzo che volle cancellare facendo comunque una domanda a Mastro Mauro.
«Mi dica un po’, Mastro Mauro, ma con che cosa sarà ricoperta la facciata della cappella?»
«In che senso?» chiese Mastro Mauro.
«Nel senso, ci mettete del marmo o del travertino?» le piaceva in modo particolare, quando aveva a che fare con persone in
apparenza meno istruite di lei, darsi delle arie e farsi credere più esperta di quanto non fosse.
«No, signora. Marmo di Carrara, proprio come nel progetto.»
«Bene, bene,» disse Agata, che non sapeva che differenza c’era tra marmo normale, travertino e marmo di Carrara.
«Avrei anche un amico a Tivoli,» disse poi Mastro Mauro. «Se vuole posso anche—»
«Tivoli?» lo interruppe Agata. «Che c’entra Tivoli?»
«E be’, signora, il travertino viene da Tivoli. Anzi, se proprio le interessa, la parola stessa travertino deriva da Tivoli.
Etimologicamente parlando.»
“Etimo-che?” pensò Agata, ma non volle portare avanti quella discussione, così decise di troncarla. «Non si preoccupi, Mastro
Mauro, lasci perdere il suo amico. Ehm… e continuiamo come abbiamo deciso nel progetto e nel contratto. Niente
cambiamenti.»
«Come vuole lei, signora.»
Proseguirono a chiacchierare lungo le mura del cimitero. Mastro Mauro descrisse ogni piccolezza della cappella, ogni
materiale usato e ogni innovazione in arrivo, ora dalla Germania, ora dagli Stati Uniti; poi le assicurò che in meno di un mese la
cappella sarebbe stata pronta e, notando la signora Caco, come la chiamava lui, imbronciata, cercò di arruffianarsela dicendo che
sperava che la cappella sarebbe rimasta inutilizzata per altri cento anni a venire.
8
Agata non lo ascoltava, ma annuiva e teneva il passo dell’uomo. Mentre camminava assieme a lui, Agata sentì le vene varicose
pulsare e si maledisse per essere andata al cimitero da sola e a piedi.
“Lo so, lo so”, si ripeteva in mente, “è tutta colpa di quello scansafatiche di Enzo! Come ho fatto a sopportarlo finora non lo
so! Questo resterà un mistero anche per me. Però, come si fa con questa vita! Mia madre, ed è mia madre. Enzo mio, è sempre
un uomo. I figli sono quelli che sono, e dopo un po’, è normale, se ne devono andare. Mia madre, ed è mia madre! Io non lo so
come si fa…”, e continuò ad andare avanti con quei pensieri fino a che Mastro Mauro non ebbe spalancato il cancello d’ingresso
del cimitero e il suo cigolio non l’ebbe sollevata dalle preoccupazioni, riportandola coi piedi per terra, a lottare ancora una volta
con quelle vigliacche di vene varicose.
Arrivò da sua madre che erano le sette passate. Il cielo si stava oscurando, ma il sole teneva duro a occidente. Durante la
lunga passeggiata, Agata aveva pensato spesso alle parole di disprezzo che avrebbe potuto, se non dovuto, utilizzare con suo
marito. Gli avrebbe rinfacciato il rossore e il gonfiore delle sue vene, il panico che aveva provato all’interno del cimitero, e per
quella sera non gli avrebbe preparato niente da mangiare. “Vediamo come te la cavi senza di me!” s’immaginò di dirgli. “Tanto per
te è lo stesso: o ci sono o non ci sono, è lo stesso!”
«Mamma, allora, l’hai mangiata la frittata di stamattina?»
«Sì.»
«E com’era?»
«Di lusso.»
«Menomale.»
Per qualche minuto Agata restò muta, rapita dal pensiero che stare lì, davanti a una donna morente — certo, sua madre, ma
pur sempre una vecchia di ottantaquattro anni alle soglie della fine — stare lì, pensava, con lei, in quella soffocante penombra,
nella casa in cui era nata, in cui aveva giocato da bambina, in cui aveva scritto nel suo diario per la prima volta ti amo, in
riferimento, per giunta, a quel buono a nulla di Enzo, e poi lì lo aveva portato per fargli chiedere la mano ai genitori, e sempre lì,
in quella stessa casa in cui ora si sentiva un’estranea, sempre lì, aveva visto suo padre morto in una bara e dozzine e dozzine di
persone che entravano e uscivano, chi con le lacrime agli occhi, chi con lo sguardo assente, chi trattenendo le risa per
compostezza; e sempre lì avevano festeggiato il suo matrimonio, e il battesimo delle prime due figlie, e la comunione del terzo, e
sempre in quella casa avevano pranzato le domeniche e tutte, tutte, proprio tutte le feste comandate. Sempre in quella casa, ora,
a un paio di metri da sua madre, una vecchia morente di quasi novant’anni, come diceva lei stessa, Agata si ritrovava oppressa,
divorata dai rimorsi, dalle occasioni perdute e si rimproverava di non essersene andata in Canada, come invece avevano fatto i
suoi fratelli, che s’erano costruiti una nuova vita, nuove amicizie e nuove case nelle quali vedere nascere bambini, vederli felici
con le fidanzatine o nelle quali vedere morire i propri genitori…
«A che stai pensando?» interruppe i suoi pensieri la madre, e anche quell’interruzione le suonò barbarica, ingiusta, malsana.
«Eh, figlia mia, che ti succede? Ti senti poco bene?»
«No, mamma, sto bene.»
«Sei sicura? Non mi sembri che stai molto bene, tu…»
«No, mamma, sto bene. Stavo solo pensando ai cazzi miei!»
«Ehi, non c’è bisogno che ti alteri così!»
«Però anche tu…»
«Cosa?»
«Niente, niente… Sai, oggi sono andata a vedere la cappella.»
«Be’?»
«Sta venendo bene, devi vedere. È grossa, ma’, poi quando è finita ti porto a vederla, così la vedi anche tu com’è bella!»
«Fa figura vicino a quelle degli altri?»
«Eh, ma’… ora devono ancora finirla… devono mettere il marmo e devono pittarla… io ho visto solo come viene la
struttura, diciamo così, lo scheletro,» Agata scoppiò a ridere. Dopo un po’ si riprese e ricominciò a raccontare: «Devi vedere, ma’,
c’ha sei o otto posti letto, diciamo, i posti dove… come si dice? No, non si dice posti letto… Si dice… diciamo che sono sei o
otto i posti dove andrai… andremo a finire… ecco, sì. Otto posti, mi sembra. E ci sono, poi, delle cose piccole sui lati, dove,
diciamo che si possono mettere le ceneri, quando per esempio uno viene sfossato e si bruciano i resti… capito, no? Mi ha detto
Mastro Mauro che poi devono mettere la croce sull’arcata della porta d’ingresso e poi, dopo che tutta la parte in marmo è fatta,
poi, mettono anche il cancello in ferro battuto. Devi vedere, ma’, viene proprio bell’assai!»
«Ma sei andata da sola, figlia mia, a vedere la cappella? Enzo non è venuto?» chiese Nunziatina, sempre preoccupata che tra
sua figlia e Enzo non scoppiasse qualche litigio che, in un secondo momento, sarebbe potuto trasformarsi in scandalo.
«No, mamma. Quello sta bene sul divano! Sono io che mi devo fare in quattro, in cinque, in dieci! Io faccio la spesa, io vado a
pagare i debiti, anche quelli che fa lui, io poi c’ho te, che… diciamo, che… che ti devo stare dietro… E i figli, poi, da chi credi
che vanno a chiedere i favori, le cose? Da lui secondo te? Macché, vengono tutti da me! Addirittura i nipotini vengono a
9
chiedermi le caramelle a me, a chiedermi “Nonna portami alle giostre”, “Nonna andiamo alla pizzeria”, e lui non ne vuole sentire
proprio! E poi, ora, questa cosa della cappella… come se cucinare tutt’i giorni, pulire la casa, lavare, stirare, portare questo dalla
sarta, quell’altro all’elettricista, la macchina al meccanico, le tende in lavanderia, e la cappella che ogni tanto ti chiamano che
devono sapere come avevamo deciso di fare questo e quello, e poi io c’ho pure i cazzi miei!… Devo pure pensare un po’ ai cazzi
miei, o non credi? Ma’, tu che dici?»
«Eh sì…»
Agata non la lasciò finire e riprese: «Che poi, ma’, mi sa che devo andare dal dottore. Ogni tanto non mi sento bene.»
«Te l’ho detto che non stavi bene!»
«Ma che cazzo dici, ma’?! Ora sto bene, ma mi capita di non stare bene: mi viene la paura che mi deve succedere qualcosa e
che nessuno fa niente e che nessuno se ne frega di me e che nessuno se ne accorge…»
«Ehi, addirittura!» esclamò la madre.
«Mamma, allora non l’hai capito! Al cimitero ho avuto paura, tanta paura!»
«Ma, figlia mia, non ti devi prendere paura nel cimitero. Lì ci sono i morti. Tu, figlia mia, devi avere paura dei vivi, non dei
morti. Ricordatelo! I morti non fanno male a nessuno, anzi. Da lì,» e lentamente sollevò la mano destra e con l’indice puntò il
soffitto, alludendo chiaramente al cielo, «i morti ci guardano da lassù e vegliano su di noi. Non ti prendere paura dei morti, ma
dei vivi! Quelli sì che so’ tremendi. Ahiahiahi!!»
«Vado in bagno, ma’» disse Agata, alzandosi. Prima di aprire la porta del bagno si voltò verso la madre, sorrise amabilmente e
le chiese: «Mamma, ti va se resto a mangiare con te, stasera? Da Enzo non voglio tornare.»
«Quello un giorno o l’altro s’incazza!» rispose sua madre.
«No, mamma, ora telefono da qui e gli dico che tu non ti senti tanto bene e che vuoi che devo stare con te.»
«E va bene, figlia mia, fai come dici tu.»
Agata entrò in bagno con la convinzione di essere una persona perbene poiché sentiva di provare qualcosa di speciale nei
confronti di sua madre, e questa specialità, a suo avviso, risiedeva proprio nel fatto che lei non trattava sua madre con
compiacimento o con pietà. No! Lei la trattava come una donna con la quale condividere le proprie ansie, le proprie paure, dalla
quale imparare, ascoltando i suoi consigli. E questa nuova sensazione le sembrò stranamente positiva e si chiese come mai non le
fosse venuta fuori prima, e ripensò alle sue amiche e a come avevano trattato le loro madri sul punto di morte: erano state delle
becere nei confronti dell’amore verso il prossimo! Avevano preso questo invincibile sentimento cristiano e l’avevano calpestato
sotto i piedi, come la Santissima Vergine Maria aveva fatto col serpente del male; e avevano continuato a dire di amare le loro
madri, ma non avevano mai concesso loro un singolo desiderio. Mentre lei, Agata, si stava dannando anima e corpo per costruire
la cappella di famiglia voluta dalla madre! E non era cosa da niente, questa.
Si specchiò a lungo e trovò il suo viso diverso. Certo, non era l’emblema della bellezza, con gli occhi scavati, i ricci capelli
crespi ormai incanutiti, le rughe disseminate qua e là e molti altri difettucci. Ma questo l’aveva sempre saputo: sin da signorina
s’era accorta che gli uomini guardavano e desideravano la sua vecchia amica Lucia più di lei; ma ora Agata, a sessant’anni, aveva
un viso che esprimeva coraggio e sicurezza, amor proprio e saggezza. E il viso della sua amica Lucia? Cosa esprimeva il viso della
sua amica Lucia, una volta una ragazza graziosa, ora una donna travagliata dal suo secondo divorzio e funestata da avvocati e
creditori di ogni tipo? A che le era servita la bellezza, a lei?
“Signor’Iddio”, cominciò a pregare, “lo so che saranno anni e anni che non ti parlo seriamente e non mi confido con te, ma
tu, come dicono tutti, tu conosci il pensiero di tutti gli esseri umani e non credo che, solo perché vivo in un paesino di collina
così piccolo, tu hai potuto dimenticarti di me. Non credo proprio… Io, Signore, ti volevo anche chiedere scusa se mi rivolgo a te
solo quando sembra che ho bisogno del tuo aiuto… però, Signor’Iddio, io volevo chiederti un piccolo favore. Per contro, faccio
un fioretto, per contro cercherò di sprecare meno denaro e sarò più vicina a quello screanzato di mio marito. E scusami la parola
screanzato, Signore, anche se non credo che è una bestemmia. O no? Comunque, Dio mio, per favore fa che mia madre riesca a
campare almeno fino alle fine della cappella che stiamo costruendo. Verso la fine di ottobre, massimo gli inizi di novembre. Ti
prego, Signore, ti chiedo solo questo! È il suo ultimo desiderio e vorrei che la vede finita!”.
Si passò un po’ d’acqua sul volto, si asciugò e dopo un’ultima occhiata allo specchio uscì spegnendo la luce.
La mattina dopo si risvegliò serena e riposata, ma dovette alzarsi dal letto per capire in che posto si trovava. L’odore era
familiare, e anche i quadri sulle pareti, e l’enorme armadio a otto ante, e i due comodini con i centrini fatti a mano e la sveglia su
uno e il porta-fotografie con Santa Nunzia sull’altro… Tuttavia avvertiva una sensazione insolita dentro di sé, come se finalmente
si fosse risvegliata da un lungo coma vegetativo. Sentiva i muscoli del corpo distesi e la schiena non le doleva. Dalla finestra
entrava una fresca luce di fine estate e nel giardino dei passeri cinguettavano saltando da un ramo all’altro. L’immagine che si
apriva davanti ai suoi occhi le ricordò il quadretto che aveva nel corridoio di casa sua, quello che Diana, la sua secondogenita,
aveva dipinto quando era ancora alle medie. Ora era sposata e viveva in una grande città e di quei panorami, di quelle visioni
paradisiache non ne vedeva nemmeno l’ombra.
10
Il pensiero della sua famiglia, delle sue figlie lontane e di suo marito Enzo, che da solo, ne era certa, non sarebbe stato in
grado nemmeno di prepararsi un caffè, le ricordò che per quella mattina aveva in mente di andare a trovare zio Angelo, per
parlare della riesumazione di suo padre — non prima, però, d’aver preparato il pranzo e sistemato la casa.
Si sciacquò e si vestì. Salutò la madre in cucina e le promise che sarebbe passata più tardi, portando con sé il pranzo e,
magari, perché no, una buona notizia.
«Che buona notizia?» chiese sua madre.
Agata non rispose e dopo averla baciata sulla fronte uscì.
IV
“Come faccio a dirglielo?” continuava a chiedersi Agata mentre sistemava le lenzuola del letto matrimoniale. Suo marito non
l’aveva mai aiutata a riassettare i letti, la casa, a fare le polveri. Non che lei volesse rinfacciarglielo, ma lui non s’era mai proposto
per aiutarla: preferiva restare seduto sul divano o fare una passeggiata con gli amici nella piazza centrale. “Come cazzo faccio,
ora?” pensava, e con un battipanni sbatteva i cuscini fuori dalla finestra.
Erano passati dieci giorni da quando aveva saputo da zio Angelo che, sulla tomba di suo fratello era stata incisa una parola
che avrebbe impedito qualsiasi tipo di riesumazione. Perpetuo era quella parola. Quando zio Angelo le aveva spiegato che quella
era una dicitura che si apponeva proprio per lasciare il feretro in quel posto per sempre, Agata pensò di essere una grande
ignorante, poiché aveva sempre creduto che quella parola l’avessero voluta i suoi familiari per dimostrare l’amore, la stima,
l’affetto perpetuo nei confronti del padre. L’aveva interpretata come quelle scritte fatte nei diari dagli adolescenti, quando
scrivono per esempio per sempre e non insinuano affatto che quella pagina o quel diario non debba essere mai distrutto o
scoperto, ma vogliono solo dire che quello che hanno scritto durerà per sempre.
Era la metà di ottobre e Agata, per tutti quei dieci giorni, aveva tenuto nascosto a sua madre la spiacevole notizia: suo marito
non poteva essere mosso da quel loculo, punto e basta! Non c’erano alternative. E lei, Agata, aveva evitato di dirlo alla madre per
non turbarla eccessivamente e per trovare una soluzione anche a questo piccolo, grande problema. Ma la soluzione non era
venuta fuori. “Bisogna che glielo dico, però!”, si ripeteva. “Ormai la cappella è quasi pronta e non posso continuare a tenerglielo
nascosto!”.
Si stese sul divano qualche minuto, fissando gli aloni di muffa che si dipanavano sul soffitto, e passando dall’immagine della
ristrutturazione della casa a quella di sua madre in lacrime, addolorata per non vedere esaudito il suo ultimo desiderio, e
viceversa, Agata si addormentò. Sognò una strana mareggiata che le portava via ogni bene e soprattutto il baule di legno che le
aveva regalato suo padre per il matrimonio, sperando che lei, come i suoi fratelli, decidesse di prendere il largo e di viaggiare
verso posti migliori, verso vite più agiate, lontane da quella che, soprattutto all’epoca del suo matrimonio, era senza dubbio una
condizione disgraziata, misera, fatta di stenti. Sognò che il suo bel baule veniva risucchiato dal mare in tempesta e che da lontano
si vedevano svolazzare tutte le lettere che aveva conservato, e i quaderni e i diari nei quali, come ben ricordava anche nel sogno,
aveva appuntato il suo amore e le sue gioie, la rabbia per la severità di insegnanti e genitori e la speranza di vedere i propri figli
realizzati.
Rendendosi conto, poi, che si trattava solo di un sogno, si svegliò e si sentì sollevata, certa che il baule era ancora lì, chiuso a
chiave nello scantinato.
La strada spumeggiava di luce, un vento freddo e continuo carezzava le cime degli alberi e obbligava i passanti a stringersi le
braccia al petto per non sentirsi portare via. Agata camminava ingobbita, con la testa china, e cercava di essere il più
aerodinamica possibile, flettendo il bacino per quel che poteva e assottigliandosi almeno nell’immaginazione.
Passando davanti alla macelleria, notò che Gigi-il-macellaio era solo: quello stupido di suo cugino non c’era, quindi entrò e
finalmente si trovò a tu per tu con lui. Aveva con sé i soldi per saldare il debito, ma prima gli avrebbe fatto una bella ramanzina:
gliene avrebbe dette quattro su come l’aveva trattata e soprattutto gli avrebbe detto che non avrebbe più messo piede nella sua
sporca macelleria.
«Signor Gigi,» disse, tirando fuori un biglietto da cento euro. «Io non so perché, ma è più o meno da questa estate che lei, mi
sembra, lei mi vuole evitarmi! Non si fa trovare quando vengo, e una volta è al macello, e un’altra volta sua moglie l’ha appena
chiamato e deve andare da lei, e poi ancora un’altra volta era stato chiamato dai Carabinieri, e chissà quante altre scuse! Allora,
senta qua, io i debiti li pago! Non creda di avere davanti una che i debiti non li paga! Ecco!» disse furiosa, porgendo i cento euro,
«questi sono cento euro! Bastano a saldare il debito?!»
«Ma… signora Caco, io…»
«Io niente!» disse Agata. «Bastano?, le ho chiesto.»
«Hai voglia, signora! Da qui può anche fare la spesa oggi: c’ho delle bistecche di vitella, signora, la fine del mondo!»
11
«No, guardi,» disse Agata, «qui non si tratta della fine del mondo, si tratta della fine del nostro rapporto, signor Gigi! Io dai lei
non ci vengo più! Ha capito?!»
«Ma signora…»
«Niente ma! Si prenda quelli che sono i suoi soldi e arrotondi pure per eccesso, ché io non voglio storie! Però, signor Gigi,
una cosa di giorno! Ho fretta, ho da fare! Devo organizzarmi per andare in una macelleria che non si prende gioco di me, che
non mette a servirmi un handicappato che non capisce un cazzo! E poi, signor Gigi,» aggiunse, afferrando con sgarbo il suo resto,
«non penso che se uno ha un credito con qualcuno si deve nascondere! Al massimo è quello che ha i debiti che si nasconde!
Addio signor Gigi e a mai più!!»
“Eh no,” continuò a pensare, una volta in strada, “quando ci vuole ci vuole!”
Arrivò in casa della madre con l’animo un po’ agitato, ma sentiva che la rabbia e l’irritazione provate nella macelleria
sarebbero scemate. Sua madre era a un metro dalla televisione e seguiva una delle sue telenovelas preferite. Si salutarono, ma
sua madre non riuscì a distogliere lo sguardo dalla tv, così Agata si sedette accanto a lei e cercò di scambiare due parole, in modo
da svelarle senza fretta la cattiva notizia del loculo perpetuo di suo padre.
«Non fa freddo fuori, sai? Ma però c’è un vento…»
«Mmm…» rispose la madre.
«Ma’? Ma chi è quello coi capelli lunghi?»
«Se non la segui dall’inizio non puoi capire,» disse Nunziatina, con una punta di superiorità.
Agata pensò che quelle telenovelas cominciavano sempre e comunque già iniziate. Non c’era un inizio e una fine, come nella
vita reale, o come, almeno lei, cristiana cattolica non praticante, credeva che fosse. Agata conosceva dell’esistenza di altre
religioni che affermavano che non c’era un inizio e una fine, ma che la vita era una sorta di continuo ciclo interminabile, e sentiva
che le telenovelas seguivano più questa filosofia che altre, ma erano sempre ambientate in paesi cattolici o cristiani, e ogni
cerimonia religiosa che aveva visto in quelle soap opera era sempre una cerimonia cristiana, mai buddista o induista o altro.
Secondo Agata, che certo non aveva mai voluto studiare o approfondire la conoscenza delle telenovelas, secondo lei, nel suo
piccolo, questa era una contraddizione fondamentale e irreparabile delle telenovelas, ma che purtroppo la gente non capiva.
Inoltre, pensava lei, queste storie non erano mai realistiche, poiché il figlio si sposava con la nipote venuta dall’Alaska che poi lo
tradiva con il cugino minore che fino ad allora non era stato altro che un barista, ma che, di punto in bianco, aveva scoperto di
appartenere anche lui alla famiglia più ricca della città e voleva, a ragione, un pezzo della torta anche lui; lui che più tardi, manco
a dirlo, si scoprirà essere un impostore, poiché verrà fuori il vero barista sconosciuto e rinnegato, e lui, questo nuovo supereroe,
idolo delle vecchiette come sua madre, lui non avrà nessun difetto e avrà tutte le migliori qualità dell’essere umano. E che gli va a
succedere? Perché proprio a lui? Muore in un incidente d’auto, causato (volontariamente?) da colui a cui ha rubato il posto, il
quale, non ci credeva ormai più nessuno, va a letto con la moglie del capofamiglia e quindi diventa padre di colui che, qualche
ventina di puntate prima, aveva ucciso fatalmente. (Fatalmente?)
Terminata la sigla e i titoli di coda, che Nunziatina seguì avidamente, le due donne si spostarono in giardino. Si stesero sulle
due sedie a sdraio e restarono un po’ in silenzio, Agata pensando alle parole da usare per dire a sua madre la triste notizia,
quest’ultima a chiedersi se prima di morire sarebbe riuscita a vedere quel povero figliolo indifeso, magari rimasto in coma per
qualche anno anziché morto sul colpo, sposarsi con la bella e ricca Elisabeth, in contemporanea alla disfatta di tutti i cattivi della
soap opera.
«Mamma…»
«Dimmi, figlia mia, che c’è?»
«Lo sai che tra poco la cappella sarà pronta? Mastro Mauro mi ha detto che prima del giorno dei Morti sarà pronta.»
«Ah, che bella cosa!» disse sua madre, entusiasta.
«Mamma… però c’abbiamo un problema. Un problema grande.»
«Ch’è successo, figlia mia?»
«Niente, mamma, è che sono andata a parlare con zio Angelo—»
«Quando, oggi?» la interruppe sua madre.
«No, mamma, ieri o l’altro ieri,» mentì Agata. «Comunque, sono andata a parlare e mi ha detto che papà non si può spostare
da lì, che deve stare lì.»
«E chi l’ha deciso?»
«Mamma, sulla lapide c’è la scritta perpetuo! Tu lo sapevi? Non mi dire che non l’avevi mai vista?»
«Certo che l’avevo vista. Ma quello vuol dire che l’amore della sua famiglia non finisce mai, che continua per sempre. È una
bella parola che c’è scritta lì.»
«Sì, ma, mamma, quella parola significa anche quello che hai detto tu, ma significa di più quello che ha detto lo zio. Che quel
loculo non si può sfossare!»
«Oh Santa Nunzia Benedetta!» ansimò la vecchia, lasciandosi andare capo e corpo. «E come si fa, ora? Ormai noi la cappella
l’abbiamo fatta!»
12
«E lo so, mamma! A me lo dici, che sono stata a completa disposizione dei muratori e sono andata al comune col capocollo e
che mi sono sbattuta di qua e di là! A me me lo dici?!»
«E zio Angelo? Che t’ha detto zio Angelo? Non può fare niente lui?»
«No, mamma. Lui non può fare niente. E lui era anche d’accordo che spostavamo a papà nella nostra cappella nuova e così lui
aveva un posto letto, come si dice… un posto per lui… a lui gli piaceva questa cosa qua. Però, mamma, non si può fare niente! E
pensa che lui, zio, lui deve essere seppellito da un’altra parte! La cappella di dove che c’è dentro anche papà, quella della famiglia
di papà, quella ormai è piena! L’hanno già riempita!»
Il volto di Nunziatina, già decrepito e deforme, assunse una rara espressione, che nemmeno Agata ricordava più. Si trattava
dell’intensa delusione che s’era attorcigliata sui flosci muscoli facciali e li strizzava con violenza, trasformando il suo viso bonario
e semplice in un viso minaccioso e tumorale.
«Mamma, vedrai che una soluzione la troviamo! Non ti prendere bile! Hai visto, finora ce l’abbiamo fatta! Ti ricordi, per
esempio, che la lista del terreno era già chiusa e poi, in un modo o nell’altro, con un agnello o un capocollo, l’abbiamo risolta?»
«Tu dici che un capocollo la può risolvere questa situazione? Eh, figlia mia, dici che la può risolvere?»
«Non lo so, mamma…»
«E pensare che io volevo stare vicino a mio marito… e volevo che tutt’e due stavamo uno vicino all’altro, così, con le
fotografie pure vicine… che cosa mi tocca, nemmeno un poco di tenero nella morte mia…»
Agata pensò che le telenovelas avevano rovinato sua madre irrimediabilmente.
«Dai, mamma, entriamo dentro,» disse, «ché comincia a rinfrescarsi l’aria.»
Tenendo sua madre da sotto l’ascella, Agata l’accompagnò in cucina, dove si sedette assieme a lei. Si guardarono negli occhi a
lungo e ad Agata sembrò che sua madre si fosse votata al mutismo o, per quella brutta notizia, avesse perso la parola, e che, con
quello sguardo profondo e materno, le stesse chiedendo aiuto, supplicandola come mai aveva fatto in vita sua.
E fu proprio grazie all’intensità di quello sguardo vitreo che Agata comprese in pieno il da farsi. Dentro di sé ringraziò l’ironia
della sorte e le stranezze della vita, come il fatto di innamorarsi di un giovane mal sopportato sin da bambina, e pensò che le
telenovelas che sua madre tanto amava le stavano correndo in aiuto in quel preciso istante e per quella determinata causa.
«Mamma,» sbottò di felicità Agata, «non tutti i mali vengono per nuocere!» e tradusse così, con un vecchio proverbio, i
pensieri che l’avevano punzecchiata in quei fatidici minuti. «Allora,» riprese un secondo dopo, «senti qua! Visto che la bara di
papà non si può spostare, noi, allora, spostiamo solo la sua fotografia e, magari, se ci riusciamo, la facciata della lapide, dove c’è il
nome e le date di nascita e di morte. Hai capito?» la madre scosse il capo in segno di diniego. «Ma’, ma sei sorda?! T’ho detto: noi
possiamo addirittura rifare la lapide! Senza dirlo a nessuno, è chiaro…» Agata notò che sua madre non riusciva a seguirla, quindi
si convinse a spiegarsi di nuovo e meglio. Disse: «Allora, ma’, te lo spiego meglio. Allora, quando muore zio Angelo, no?, e a lui
non è che gli mancano chissà quanti anni, se non mesi… sono andato a trovarlo una decina di giorni fa e lo dovevi ved—»
«Non hai detto che sei andata ieri a trovarlo?»
«No, ma’, non lo so quando sono andata… comunque, non cambiare discorso! Fatti spiegare la situazione! Allora: quando lo
zio muore, noi mettiamo la bara dentro alla cappella nostra, però quando facciamo la lapide ci scriviamo sopra il nome di papà, la
data di nascita e di morte di papà e ci mettiamo pure la fotografia di papà! Poi, sul loculo di papà ci mettiamo la foto dello zio e il
suo nome, eccetera eccetera… Hai capito?»
«Sì, figlia mia, ho capito… Ma però, poi, quando muoio io, io devo stare vicino a zio Angelo, mio cognato, e non vicino a mio
marito. Capito?»
«Sì, ma’, ma non si può avere tutto nella vita!» Agata tribolò gaiamente per un istante, pensando che aveva appena detto che
non si poteva avere tutto “nella vita”, parlando di fatti conseguenti alla morte. E, fatto questo pensiero, si convinse di avere un
cervello ancora attivo e che riusciva a fare dei ragionamenti complessi e divertenti, pur se strampalati o futili.
«No, figlia mia, io non ce la faccio… Meglio nessuno che stare con mio cognato!»
«Ma, mamma! Ogni giorno vedi quelle telenovele alla tv e lì si sposano tutti tra tutti e non c’è mai niente che va a finire bene
e ci sono intrighi e bugie e gente che prima muore e poi riappare e tutte quelle cose lì!, e tu, cazzo!, mamma, ti fai questo tipo di
problemi! Tanto, alla fine, ma’, tu sei morta lì dentro! E allora, almeno chi sta fuori vi vede tutt’e due insieme a te e papà! Che
cazzo, ma’, si può fare!» prese respiro e continuò, sempre animata dalla coscienza di avere un cervello acuto. «Mamma, io altre
soluzioni non ne vedo! Mi sembra che questa è la soluzione migliore e penso che anche a zio Angelo può andare bene. Tu, però,
magari, pensaci un po’, ché ora a caldo è sempre più difficile rispondere a queste cose.» Agata si alzò, si piegò verso la madre,
avvicinando il viso a quello di lei, e sussurrando continuò: «Ehi, mamma… lo sai che ho pregato anche Iddio che almeno ti
faceva campare fino alla fine della cappella, così la potevi vedere… ed era da un po’ che non pregavo, lo sai, mamma? Ho
ascoltato il tuo consiglio, che mi hai detto di pregare un poco di più.»
«Ma tu, figlia mia, sei una debosciata! Non devi pregare per queste cose materiali, della vita qui in terra. Devi pregare per il
bene e l’amore, per la gioia, la felicità dei popoli e che la grazia di Dio e di Cristo Nostro Signore cada sulle teste del mondo
intero. Questo devi chiedere al Signore, non disturbarlo per chiedere che una povera vecchia può campare di più per vedere una
cappella di famiglia!»
13
«Mamma però tu sei impossibile! Guarda, è incredibile! Se non prego mi dici che devo pregare!, poi prego e mi dici che non
devo pregare per quello che ho pregato! Poi, se prego per quello che ho pregato, cosa mi devi venire a dire ancora?, che non
devo usare certe parole ma altre?! Cioè, dillo chiar’e tondo: tu vuoi pregare al posto mio! Come ogni cazzo di prete!»
«Non parlare così dei preti!» l’ammonì la madre, scossa e paonazza.
«Mamma, io parlo come mi pare e piace! Dei preti, delle suore e di chi cazzo voglio io, hai capito?! E poi, ma’, un’altra cosa.
Tu dici che devo pregare per delle cose di cui che non sono materiali, vero? Eh? Giusto? Cose non materiali, no?! Rispondi! Sì o
no?»
«Sì…» riuscì a rispondere con un soffio di voce.
«Be’, allora sappi che ho chiesto di farti vedere la cappella perché era un tuo desiderio! E un desiderio non è una cosa
materiale, o non credi? Giusto? E allora, ma’, sappi che mi sono spaccata le ossa, per non dire qualcos’altro, per farti avere questa
cazzo di cappella fatta! Mi sono sbattuta di qua e di là, ho fatto io le figure con il sindaco e tutte le persone che non mi avevano
visto nella lista e che poi mi hanno visto prendermi uno dei migliori lotti a pochi soldi! Hai capito, ma’? Quelle facce di cazzo
guardavano la faccia mia e ci volevano sputare anche sopra, se lo vuoi sapere. Ma però io l’ho fatto solo per te e per il tuo ultimo
desiderio. Se poi, ma’, non ti va nemmeno questo, allora basta che me lo dici e io non mi faccio più vedere. Tanto la cappella è
quasi finita, tu sei pronta, te ne puoi anche andare ora. Vai, muori ora se hai il coraggio! Dai!»
La madre scoppiò a piangere e i singhiozzi riecheggiarono per tutta la casa, rimbalzando sui vetri delle finestre e sulle mura
che molte volte avevano ascoltato le lagne di Agata-bambina e quelle di tutti i bambini che si rivolgevano a Nunziatina per avere
conforto dopo una paternale o dopo aver fatto qualcosa di brutto. Ora quelle stesse pareti comprimevano madre e figlia una
contro l’altra; e una contro l’altra si lanciavano, lente ma pesanti, fievoli ma rabbiose, con l’idea di reprimere una gli errori
dell’altra e di esaltare ognuna le proprie ragioni, come due grosse nubi grigiastre che vogliano avere il primato assoluto d’aver
portato la pioggia. E tutto ciò nel silenzio più assordante.
Dopo la sfuriata, Agata si risedette e pensò che in quel momento, per come sentiva greve il suo stato d’animo, sarebbe stata
capace di riprendere a fumare, per cacciare il fumo in aria e raggiungere una catarsi violenta, cancerosa; ma sigarette non ne
aveva e il volto di sua madre sembrava appassire sotto la potenza di quelle lacrime acide. Agata pensò di avere esagerato
incitando la madre a morire e che nemmeno per lei sarebbe stato facile accettare di essere sepolta con il fratello di Enzo, un
buono a nulla persino peggiore del marito. E quando Agata, tremolante, stava per gettare la spugna, spinta a ciò dalla
consapevolezza che comunque, da lì a poco, sua madre sarebbe morta e quindi scomparsa per sempre, qualcuno suonò al
campanello.
«Non fare entrare nessuno!» mugugnò la madre.
«Chi è?» chiese Agata.
Nessuno rispose.
«Chi è?» chiese Agata, stavolta urlando.
Niente, nessuna risposta. Anzi, suonarono di nuovo.
«Ma chi cazzo è?!» sbraitò Agata, guardando la madre di sghimbescio, come se le stesse nascondendo di aver invitato
qualcuno. Poi andò verso la porta, aprì e davanti ai suoi occhi vide suo marito Enzo.
«E che ci fai tu qui?» gli chiese.
«Niente, sono passato a trovare tua madre. Non si può?!» urlò Enzo.
«Vuoi abbassare la voce! Mi spacchi i timpani!»
«Allora, si può entrare?»
«No… a dire la verità, no. Mamma non sta tanto bene ed è meglio se sta da sola.»
«Sei sicura?» urlò.
«La vuoi finirla di gridare! Sei tu quello sordo, non io!»
«Che c’è, sei incazzata?»
«Sì, Enzo, sono incazzata!»
«E va bene, allora ti aspetto a casa! Vieni a casa, no?»
«Sì, ora vengo. Tu vai e metti l’acqua sul fuoco se vuoi la pasta.»
«Va bene. Salutamela…» disse. Fece per andarsene, poi si voltò, infilò la testa in casa e urlò: «Ciao Nunziatina!»
«Te ne vuoi andare?!» gridò Agata, strattonandolo.
Ingobbita e stralunata, con le vene a pulsarle attorno ai polpacci e la preoccupazione che qualcuno potesse assalirla in quel
preciso istante, Agata si avviò versa casa, passando attraverso la piazza centrale. Lì dei bambini giocavano a pallone, mentre degli
anziani discutevano in dialetto della raccolta del grano, che quell’anno non era stata eccezionale, e minacciavano feroci i bambini
ogniqualvolta il pallone arrivava ai loro piedi o sulle loro cosce, assicurando che quello era l’ultimo avvertimento e che se fosse
accaduto ancora avrebbero tirato fuori il loro coltellino svizzero e avrebbero bucato il pallone una volta per tutte. Naturalmente i
bambini si prendevano gioco di loro e, con sfacciata precisione, si prodigavano a bersagliare i vecchietti, sempre più persuasi che
a questo mondo non c’era più religione.
14
Enzo aveva messo l’acqua sul fuoco, aveva affettato il pane e aveva apparecchiato. Erano secoli che non faceva una cosa del
genere senza la precisa richiesta di sua moglie. Agata pensò che suo marito avesse qualcosa in mente e che volesse conquistarla
per poi ottenere il suo bene placido. Convinta di ciò, a ogni azione o movimento, domanda o richiesta fatta da Enzo, abbinò il
subdolo e affannoso perseguimento del suo scopo. Quando, per esempio, lui le chiese quali intenzioni avesse per quella sera, se
cioè avesse intenzione di cenare dalla madre o a casa, Agata non rispose e tergiversò, pensando che quella domanda avesse il
solo obiettivo di lasciargli organizzare la serata, magari per qualche stupida cena tra uomini o per seguire senza rotture di scatole
un banalissimo programma televisivo. Tuttavia, Agata non ignorava il fatto che sarebbe stato difficile, per un uomo totalmente
sprovvisto di fantasia come il suo Enzo, mentire senza ritegno e portare avanti una farsa senza tradirsi, quindi volle affrontare la
situazione dicendo la verità, senza strategie o tattiche. La verità, nient’altro che la verità!
«No, Enzo mio, stasera non ceno da mia madre. Resto in casa. Perché me lo chiedi?»
«Così, cara… per sapere…» urlò Enzo.
«Quando oggi sei arrivato da mia madre avevamo appena finito di litigare. Ecco perché non ti ho fatto entrare.»
«Litigare? E perché?» chiese Enzo, urlando.
«Enzo mio, per favore, abbassa la voce. Non ce la faccio a parlarti se tu urli a questa maniera, capito?»
«Però,» urlò lui, «se non grido non sento quello che dico. Come faccio a dire qualcosa che non sento?!»
«Basta che la pensi. Poi la dici piano, a bassa voce, vedrai che impari.»
«Va bene, come vuoi tu.»
Quante volte si sentiva dire “come vuoi tu”. Era immersa in un mondo che le ripeteva in continuazione quell’ottuso,
sottomesso “come vuoi tu”. Perché nessuno tirava fuori le palle e l’affrontava così come avrebbe meritato di essere affrontata?
Agata, rasentando il masochismo, desiderava davvero confrontarsi con qualcuno che le tenesse testa, che la redarguisse sulle
piccolezze che lei riteneva assodate e sue proprie. Forse le uniche che ci erano riuscite erano state le sue due figlie, Matilde e
Diana. Loro sì che le avevano spiattellato in faccia i suoi errori, le sue mancanze, i gravi difetti della sua stramba personalità! Loro
sì che avevano preso da lei!
Il pomeriggio passò velocemente. Agata pensò per l’intera giornata a sua madre e a quello che le aveva detto la mattina.
Sentendosi in colpa, telefonò un paio di volte per sapere se aveva bisogno di aiuto o se semplicemente aveva voglia di parlare
con lei, ma sua madre disse di stare bene, di essere felice lì da sola, a riflettere sulle cose che si erano dette la mattina, e aggiunse
che avrebbe voluto parlarle il giorno dopo, dato che, volenti o nolenti, una decisione andava presa e al più presto. Agata fu felice
di sentire quelle parole, anche se, come un ronzio nel silenzio della notte, sentiva sibilare l’incresciosa possibilità che sua madre
le avesse parlato così solo perché conscia di essere sul punto di morire.
«Magari ha detto così solo perché sa che sta per morire,» disse Agata a Enzo, nel letto, verso le undici.
«No, Agata, non credo.»
«Però mi sembrava rassegnata. Cioè, hai capito? Sembrava che si era convinta che non aveva più voce in capitolo, capito?»
Enzo non aveva seguito alla perfezione la fine della frase, ma dentro di sé aveva pensato: “Come si fa a spuntarla con lei?”;
s’era voltato dall’altra parte e aveva portato avanti il filo dei suoi pensieri. “Vuole sempre avere ragione, gli altri sbagliano sempre
e sono sempre dei deboli. Però lei non fai niente per farli sentire più forti! Niente!”
«Perché ti sei girato?» chiese Agata.
«Stavo scomodo. Tra un po’ mi rigiro, continua…»
«Niente,» disse Agata, convinta che suo marito non la stesse ascoltando, ma allo stesso modo smaniosa di dire quello che
aveva da dire. “Chi se ne frega se mi ascolta!” pensò. Enzo si voltò verso di lei e la guardò fissa negli occhi.
«Perché ti sei fermata?» chiese.
«Niente, stavo pensando…»
«Continua, dai…»
«No, stavo pensando che la cappella è quasi pronta. Vedrai che un giorno di questi Mastro Mauro mi chiama e mi dice che è
finita e che si può andare a vederla. E, niente, pensavo che se mamma muore ora o comunque quando la cappella è finita, cioè
tra poco… insomma, voglio dire, se lei muore ora, diciamo, in questi giorni… se muore, sì, diciamo, va nella cappella di
famiglia, il suo desiderio. Va bene. Però, se ci pensi, Enzo, se ci pensi, comunque lei va lì e resta sola. Cioè, quella cosa è vuota. E
l’idea che lei deve stare sola lì mi fa un po’ stare male, come se non vorrei che morirebbe ora. Cioè, dico io, se magari qualcun
altro muore prima, diciamo, non lo so, zio Angelo per esempio, no? Quello sta per morire e, come t’ho detto, se lei accetta lo
mettiamo lì nella cappella nostra e mettiamo la foto di mio padre, eccetera… diciamo, se muore almeno lui, o qualcun altro, non
so… tipo, per esempio… ehi, lo dico solo per esempio, lo sai quanto bene ti voglio. Però, diciamo che, se morivi tu prima di
mia madre, per esempio, almeno io sapevo che c’era qualcuno a fargli compagnia, capito? Cioè, non è che voglio dire tu, Enzo
mio, direttamente… Dico… tu, come un esempio, come uno che la conosce. Che… Capito?»
Enzo sgranò gli occhi nel sentire quello che diceva sua moglie, e quando Agata aveva parlato della possibilità che lui facesse
compagnia a sua madre, lui, Enzo, cercando di non farsi notare, si era toccato i testicoli. “Meglio toccarsi!” aveva scongiurato
mentre li soppesava.
15
V
Mancavano tre o quattro giorni al 2 novembre, giorno dei Morti, quando a casa di Agata arrivò la chiamata di Mastro Mauro che
l’avvisava che la cappella era stata completata e che se voleva e, naturalmente, quando voleva, poteva andare a vedere come
erano venuti i lavori; nello stesso momento Mastro Mauro in persona le avrebbe consegnato le chiavi del cancello d’ingresso e le
avrebbe spiegato le accortezze per la manutenzione delle lapidi, per le funzioni del contatore elettrico e per ogni piccola o
grande questione che lei, la signora Caco, come si ostinava a chiamare Agata il mastro muratore, avesse avuto intenzione di
approfondire.
Agata aveva detto che gli avrebbe fatto sapere lei, giacché desiderava portarci anche sua madre, la quale, dopo aver
acconsentito a sostituire la lapide del suo defunto marito con quella prossima ventura di suo cognato, aveva deciso che sarebbe
stato un gesto bello e dignitoso andare a vedere la sua nuova cappella di famiglia proprio per il giorno dei Morti.
E proprio come programmato, il pomeriggio del 2 novembre, verso le tre, Agata andò a casa di sua madre, tirò fuori dallo
sgabuzzino una vecchia sedia a rotelle, aiutò sua madre a truccarsi con un po’ di cipria sulle gote e un leggero tocco di
lucidalabbra, e insieme si diressero verso il cimitero, dove le aspettava Mastro Mauro.
Faceva freddo e, una volta abbandonato il paese, sulla strada deserta che portava al cimitero, la tramontana riusciva a
penetrare nelle ossa di madre e figlia con disinvoltura. Ma la loro determinazione nell’affrontare l’occasione a cui erano chiamate
riusciva a scaldarle quanto bastava a continuare ad andare avanti.
«Lo sai che forse questa è l’ultima volta che vado al cimitero da viva?» disse la madre.
Agata spingeva la sedia a rotelle e si guardava intorno. Il paesaggio era tinto di marrone scuro, e scure erano anche le nuvole
che riempivano il cielo, non concedendo ai raggi del sole nessuna speranza di trafiggerle. Il venticello, tuttavia, lasciava presagire
che durante il pomeriggio il cielo si sarebbe aperto e che la notte sarebbe stata sì fredda, ma serena e senza pioggia.
Sulla strada, Agata e sua madre incrociarono molte persone, soprattutto donne, che tornavano dal cimitero vestite a lutto, la
testa china e il viso smorto, e si stringevano affrante l’una all’altra come se stessero tornando da una sepoltura. Certo, Agata
capiva lo sconforto e l’impotenza che si provavano nel visitare i propri cari defunti, ma non afferrava in pieno il coinvolgimento
emotivo estremo che attanagliava quelle donne. Lei non aveva bisogno di andare davanti alla lapide del padre per soffrire della
sua mancanza: le bastava soffermarsi a riflettere, in solitudine, in silenzio, e le immagini, i ricordi, i consigli e le dolci parole di lui
le ritornavano alla memoria con la stessa semplicità con cui si ricorda un evento accaduto di recente. E facendo questi pensieri,
considerò che se fosse stato per lei, la cappella di famiglia non avrebbe mai visto luce, poiché, appunto, lei non sentiva affatto la
necessità di avere una lapide, un epitaffio davanti a cui pregare o dimostrare devozione e attaccamento. Le erano sempre stati
antipatici i riti delle tribù o delle comunità religiose. Persino sulla Sacra Eucaristia aveva i suoi dubbi. “Comunque,” pensò, “io
l’ho fatto solo per mamma e questo è quanto,” e accantonò quelle riflessioni.
Ad aspettarle dinanzi al cancello del cimitero c’era Mastro Mauro che, sorridendo ad Agata, si piegò sulle ginocchia e
abbracciò Nunziatina come se fosse sua nonna. Tirò fuori dalla tasca il mazzo di chiavi della cappella, lo dondolò davanti agli
occhi di Agata, sorrise ancora una volta, poi disse: «Ecco le chiavi, signora Caco. Vi accompagno così vi spiego un paio di cose.»
«Grazie, Mastro Mauro,» Agata afferrò le chiavi. «Va bene così, ce la caveremo da sole. In caso ci sentiamo uno di questi giorni.
Ora, però, se ci vuole scusare, vorremmo stare da sole a goderci la nostra cappella.»
«Ma, signora…» disse deluso Mastro Mauro.
«Davvero, Mastro Mauro: è tutt’a posto. Ce la caveremo da sole.»
«Fatti dire dov’è il contatore, almeno,» disse la madre.
«Ah, sì, è vero. Dov’è il contatore?»
«Ehm… Appena aprite la porta del cancello, in basso a sinistra c’è una porticina in ferro. La chiave per aprirla è quella
esagonale: è nel mazzo. Lì basta che mettete su ON la prima leva a sinistra ed è tutto ok. Se, per caso, ma non dovrebbe
succedere, ma se solo per caso, succede che la luce salta, allora è bene che controlli tutte le leve del contatore, una a una, e vede
quale delle sei o sette o quante sono è quella che fa saltare la corrente. Ma dovrebbe essere tutto regolare, non vi preoccupate.
Sette, comunque. Le leve sono sette.»
«Grazie Mastro Mauro,» disse Agata. «È stato davvero gentile. Per saldare il conto ci mettiamo d’accordo e uno di questi giorni
ci vediamo, va bene?»
«Va bene, signora Caco. Allora,» spalancò le braccia in segno d’impotenza, «allora io me ne vado. Arrivederci signora
Nunziatina. Mi raccomando, su con la vita ché lei è ancora giovane!»
“Che lecchino!” pensò Agata ma non disse niente. Distolse lo sguardo e poggiò una mano sulla spalla della madre.
“Che brava persona,” pensò Nunziatina. “Tal’e quale al padre.” Alzò lo sguardo verso sua figlia e disse: «Davvero bravo, ‘sto
Mastro Mario.»
16
«Mamma, è Mastro Mauro! Mauro, non Mario. Quello è la buonanima di suo padre!»
«Non fa niente,» disse Mastro Mauro.
«Grazie ancora,» disse Agata, che se lo voleva togliere dai piedi.
«Davvero,» disse la madre, «grazie tante davvero!»
«Signora, è stato un piacere! Mia madre parlava sempre bene di lei…»
«Dai, mamma, andiamo.»
«Arrivederci!» disse Mastro Mauro, allontanandosi.
«Arrivederci!» dissero all’unisono madre e figlia.
Si chiusero il cancello alle spalle. Dopo nemmeno un minuto, Agata cominciò ad agitarsi. La paura che succedesse qualcosa
s’impadronì di lei, afferrandole l’intestino con delle zanne appuntite e martoriandolo con morsi sempre più atroci. Agata teneva
le mani serrate sulle manopole della sedia a rotelle, ma non riusciva a muovere un piede. Era immobile, fredda, paralizzata.
Credeva che se si fosse mossa non sarebbe più riuscita a fermarsi e che la sedia a rotelle le sarebbe sfuggita di mano e la madre
sarebbe precipitata in qualche fossa assieme alla sedia. Cominciò a tremare violentemente e, con impalpabile lentezza, sentì
contrarsi i muscoli dei polpacci e quelle vigliacche di vene varicose. I talloni le facevano male, quindi si teneva sulle punte. Sentì
di essere vicina a perdere l’equilibrio, ma strinse le mani attorno alle manopole e la sedia vibrò sotto il tremito impetuoso delle
braccia.
Nunziatina, sentendosi scuotere, voltò il capo in alto, verso Agata, e cercò di capire che cosa stesse succedendo. Notò il viso
di sua figlia contratto e pallido, i denti serrati e la fronte aggrottata. Aveva gli occhi chiusi e questi sembravano inghiottiti dalle
cavità oculari, buie e livide, e sembrava che i bulbi si stessero rimpicciolendo fino a divenire piatta epidermide nera.
«Agata!» urlò la madre. «Agatina! Ti senti bene?! Che c’è! Madonna mia! Madonna mia!»
Le parole della madre le rimbombavano in testa senza senso e, avendo gli occhi sbarrati, si immaginò stranamente di essere
in una chiesa e di assistere all’omelia domenicale, questa volta celebrata da sua madre. La vedeva lì, sul pulpito, una talare viola
addosso, i capelli erano puliti, bianchi, cotonati, e la vedeva animarsi e sbattere le mani sulla ringhiera in legno; finalmente riuscì
ad afferrare la parola Madonna, e quella parola, nonostante immaginasse di essere in una chiesa, le suonò bizzarra e a
sproposito.
«Agata! Agata!» urlò di nuovo Nunziatina. «Aiuto! Aiuto!»
Ma il cimitero era vuoto, e il frusciare del vento era più vicino al silenzio che al suono.
Era la prima volta che Nunziatina vedeva sua figlia così: debole, indifesa, vulnerabile—in una parola: malata. Non le era mai
capitato prima di allora di assistere a un suo crollo nervoso. Agata? Proprio lei. Lei che aveva sempre goduto di ottima salute? Lei
che era sempre riuscita a ottenere e, quindi, a mantenere il controllo sia di sé, sia delle situazioni attorno a lei?
Ora la vedeva capitolare davanti ai suoi occhi e temeva che morisse prima di lei.
Agata sentì mancare il respiro, e abbagliata da una luce fortissima scivolò nel profondo del suo incubo, e svenne.
«Oh mio Dio! Oh Madonna Santa!» sbraitava con tutta se stessa Nunziatina. «Aiutooo! Aiutooo!»
Dei merli, che saltellavano apatici per il cimitero, spiccarono il volo, spostandosi prima sul cancello, a tre metri dall’accaduto,
poi sulla prima cappella dell’ala destra. Le cime dei cipressi si muovevano leggiadre e in lontananza si sentì un cane abbaiare. Con
la rapidità di un lampo, una piccola tromba d’aria s’insinuò nel camposanto, alle spalle delle due donne, e dopo aver raccolto dei
ramoscelli di ginepro, un paio di cartacce e un mucchio di polvere, si allontanò verso le mura e s’incuneò in un angolo.
“Ma che siamo venute a fare, qui, oggi?!” pensava mamma-Nunziatina. “Lo sapevo che lei stava male al cimitero, me l’aveva
pure detto! Che siamo venute a fare…?”
Nunziatina scese dalla sedia — che le sfuggì non appena ebbe toccato terra — e strisciò verso la figlia. Una volta al suo
cospetto cercò di svegliarla schiaffeggiandola, ma Agata era addormentata e non dava nessun segno di risveglio. Nunziatina, la
gonna sollevata fino alle cosce dopo la caduta, continuò a colpirla senza ottenere alcun risultato e lì, stesa sul pavimento del
cimitero, iniziò a tremare dal freddo che ormai le avvolgeva il corpo.
Passarono dieci minuti, duranti i quali al silenzioso fruscio del vento e al continuo latrare del cane s’erano aggiunti il
brontolio monotono di Nunziatina, il cigolio di un cancello e il verso di un tacchino, snervante.
Poi, una schiera di raggi solari, gioiosi come bambini usciti da scuola, si fece spazio tra le nuvole. E più il vento aumentava,
più le nuvole si dipanavano; e più le nuvole si dipanavano, più i raggi aumentavano.
Apertosi il cielo, il sole invase l’intero camposanto, stendendo i suoi raggi sulle due donne a terra — una priva di sensi, l’altra
priva di forze — e sulle aiuole poco curate, le tombe sparse a terra e quelle accatastate una sull’altra; sugli ossari e sul mausoleo
dei discendenti dei capostipiti e fondatori del paese; e infine su tutte le cappelle di famiglia, in particolare su quella in marmo di
Carrara, nuova di zecca, splendente e maestosa nella sua grandezza e nel suo candore, con la croce dorata sull’arco dell’ingresso
che rifletteva i raggi spavaldamente, come a voler sfidare il sole.
Fu proprio il sole a risvegliare Agata dal sonno profondo in cui era stata assorbita. E quando si ritrovò a terra, i capelli
scompigliati, le gambe spalancate e la gonna alzata, una sensazione di formicolio lungo la schiena e l’intera muscolatura, con una
scarpa sfilata e a nemmeno un metro da lei, sua madre, stesa ed esausta, con la faccia sconvolta come mai prima di allora — in
17
quel momento Agata giurò a se stessa di andare dal medico il giorno stesso!, a capire cosa diavolo le succedeva ogni volta che si
trovava immersa in una situazione di estrema sicurezza o tranquillità. E nello stesso momento capì che quella sua particolarità,
erroneamente attribuita alla sua personalità perfino dalle sue figlie tanto intelligenti, non era altro che un disturbo, una malattia
da curare al più presto. E si convinse, inoltre, che per ritornare in salute non sarebbe bastato un capocollo o una forma di
formaggio, nuovi debiti o scenate in pubblico; forse nemmeno massicce dosi di psicofarmaci e sedute di psicoterapia l’avrebbero
mai guarita… Ad ogni modo, Agata sentì crescere dentro di sé una fresca e precisa consapevolezza, primo passo per una
completa guarigione: lei non era la donna forte e determinata che aveva sempre creduto di essere.
«Come stai, Agata?» chiese la madre.
«Bene, mamma. E tu?»
«Meglio di te, penso…»
«Eh sì!» Agata sorrise. «Dai, mamma, non è successo niente. Vieni che ti metto sulla sedia.»
«Voglio andare a casa, figlia mia, non sto tanto bene…» biascicò la madre.
«E la cappella, ma’? Non la vuoi vedere la cappella?»
«No, figlia mia. Tanto, una volta che muoio starò sempre lì dentro.»
«Va bene,» disse Agata, «vuol dire che un giorno di questi ti porto di nuovo qui. Magari dopo che mi faccio vedere da un
dottore, eh?»
«Ehm… sì, figlia mia… magari un’altra volta veniamo…»
Da lontano Agata provò a scorgere la cappella, ma riuscì a notare solo gli scintillii della luce che si rifletteva sulla croce dorata
e la spumeggiante bianchezza del marmo di Carrara che la rivestiva tutta.
Sulla strada del ritorno, giunta quasi in paese, Agata si voltò verso occidente e vide con piacere che il fiacco sole pomeridiano,
che pure l’aveva risvegliata, si stava arrendendo sfinito al crepuscolo. I colori erano lucenti e innumerevoli e possedevano delle
sfumature che, secondo Agata, nemmeno i grandi geni della pittura erano riusciti a pareggiare. La visione di quella magia di
natura, di quell’esplosione di colori lasciava attoniti e, credendo che non tutte le cose succedevano per puro caso, ma molto
spesso era la mano di Qualcuno a combinare gli eventi, Agata si sentì la protagonista assoluta di una splendida giornata da
romanzo. Si compiacque di ciò, ma le sembrò in ogni caso di non meritarsi un’atmosfera tanto solenne. E, spinta da una
sensazione d’inadeguatezza, pregò Iddio silenziosamente, a denti stretti, affinché ogni essere umano, prima di morire, potesse
godere di uno spettacolo simile. “E per contro, Signore, ti prometto che sprecherò meno soldi possibile, e rimetterò i debiti ai
miei debitori, e sarò più dolce con mio marito Enzo e accudirò senza esitazione la mia povera mamma.”
Felice e paga della preghiera fatta, Agata sorrise e continuò a spingere la sedia a rotelle.
Si piegò in avanti e chiese alla madre se si sentiva meglio. Nunziatina disse che sì, stava meglio, e che l’aria dei campi,
quantunque gelida, la faceva sentire viva.
Poi Agata disse: «Mamma, allora hai pensato al vestito che ti devi mettere quando succede che… diciamo… quando che
consegnerai le targhe? Perché è meglio se lo scegli ora che sei ancora viva, se no poi, sai com’è? È meglio che decidi ora… o non
credi?»
«E sì, figlia mia, forse è meglio come dici tu…» rispose la madre, calma.
«Ehm… allora, quale ti vuoi mettere?»
«Ma… non lo so proprio, figlia mia… Tu che dici?»
«Mettiti quello chiaroscuro, che è bello, è nuovo, è più bell’assai degli altri…»
«Quello chiaroscuro?» domandò Nunziatina.
«Sì, quello che t’ha fatto Anna-la-sarta! Non te lo ricordi?! Quello che fa i riflessi…»
«Ah, ho capito, quello che luccica…» disse la madre. «Sì, è vero, quello è bell’assai. Ma però, figlia mia, quello è estivo.»
«E a te che cazzo te ne frega?! Dico io, ma’, quando muori lo stesso non te ne frega se fa caldo o freddo. Non è che lo senti!
Tu sempre fredda sarai!»
«E sì, figlia mia, c’hai ragione tu.»
Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0. Per leggere una copia
della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/it/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second
Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA.
18