Primavera 2009

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Primavera 2009
Il cuscino di fiori scivolò dalla bara di legno lucido quando la nave, per entrare nel porto, fece una larga virata sul
mare gonfio dove scintillavano le trame dorate del tramonto mediterraneo.
A bordo, un centinaio di passeggeri. E una salma.
Il comandante annunciò l’attracco con il suono rintronante della sirena. Rari turisti incorniciavano il crepuscolo
dentro l’obiettivo delle macchine fotografiche. Affacciata
sul ponte, persa nei suoi pensieri, con lo sguardo allungato sull’orizzonte che aveva ormai inghiottito l’isola, solo in
quel momento Agata si rese conto che l’ora abbondante di
navigazione era finita, troppo presto. L’aveva passata a leggere pezzi di vita di suo padre, che affioravano fra i ricordi
scritti da Giovanni un quarto di secolo prima, nei quattro
quaderni riempiti durante le interminabili ore in servizio
nel carcere di Favonio. Ora quei quaderni erano suoi. Giovanni glieli aveva regalati dopo i tre giorni intensi di dolore e di passione trascorsi sull’isola.
Ripose i quaderni nella borsa, si avvitò il foulard e scese di sotto a raggiungere suo fratello Antonio e Giovanni.
Li trovò incollati agli oblò a osservare i movimenti esperti e sincronizzati dei mozzi che lanciavano le funi a terra,
dove altri mozzi le agganciavano alle bitte di metallo, con
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la loro curiosa forma di fungo. Uno strattone secco assicurò
la nave alla banchina e due minuti dopo una scaletta a tarozzi permise lo sbarco dei passeggeri. Agata, Antonio e
Giovanni scesero in fila indiana aggrappandosi alle sartie,
e senza dirsi nulla andarono a piazzarsi davanti alla prua
della nave, mentre con un assordante sferragliare si aprì
la rampa sulla stiva che liberò le prime auto. Videro sfilare dal ventre della nave, come formiche che sbucano dalla
tana, le macchine dei passeggeri e pochi camion. Poi, per
ultima, spuntò l’auto che aspettavano, guidata da un uomo
così piccolo che per un attimo temettero che avanzasse da
sola, senza nessuno dentro.
Antonio e Agata si accorsero solo quando la macchina fu
vicina che al volante c’era un omino lugubre, sinistro come
il carro funebre che riportava a casa la salma di loro padre, il
boss don Carmelo Sferlazza, senza più ergastoli da scontare.
«Qualcuno vuole salire con me, o preferite farmi strada?» chiese l’uomo mostrando la sua faccia da beccamorto.
Si guardarono un attimo, muti. Alla fine si fece avanti Antonio.
«Vengo io con lei... voi seguiteci» disse rivolgendosi poi
a Giovanni e ad Agata, che a piedi si avviarono al parcheggio vicino al porto a riprendere l’auto noleggiata tre giorni prima.
Venti minuti dopo, quando l’ultimo bagliore del giorno
spariva dietro al cucuzzolo dove Erice abbarbicata cominciava ad accendersi di lampioni nelle strade e di luci nelle
case, il carro funebre infilò l’autostrada che da Trapani tagliava la Sicilia per arrivare tre ore più tardi dalla parte opposta, a Catania, dove l’indomani li attendeva il funerale.
Giovanni guidava, con Agata silenziosa al suo fianco, la
faccia incollata al finestrino e gli occhi a inseguire la campagna che correva incontro al buio della sera.
Si stava perdendo in chissà quali pensieri dietro alla musica trasmessa dalla radio.
Giovanni abbassò il volume e glielo chiese senza indugiare troppo in inutili preamboli.
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«E ora che facciamo noi due?»
Agata non rispose subito e non scostò neppure lo sguardo. Davanti, il carro funebre procedeva sempre alla stessa
snervante andatura, subendo di tanto in tanto dei sorpassi
perfino da camion lenti. Piccole luci illuminavano la bara,
esaltando i cuscini di fiori adagiati tutt’attorno.
Agata stava pensando a suo padre, provava a immaginare che faccia avesse avuto da vecchio.
Il suo ricordo era fermo a un’infanzia lontana. Lei era
ancora piccola per capire, ma la figura di suo padre bello
e forte le si era appiccicata addosso e non l’aveva più abbandonata mentre cresceva e si faceva donna. Ogni tanto
le capitava di contare gli anni passati dall’ultima volta che
lo aveva visto, quando con sua madre era andata a fargli
visita in carcere.
Ma non era sicura se fossero ventidue anni, o ventitré, se
non addirittura venticinque.
Venticinque anni senza aver più visto suo padre!
Non per colpa sua. Fosse dipeso da lei, ci sarebbe andata anche da sola a trovarlo.
Ma era lui che non voleva. Da quando gli avevano ammazzato la moglie, si era ammutolito di rabbia e di dolore
nella penombra lugubre della sua cella.
Mangiava a stento. Il suo pranzo e la sua cena erano un
limone spremuto in un bicchiere d’acqua e un piatto di riso,
che una guardia riusciva a fargli buttare giù a fatica. Si era
ridotto lo scheletro di un morto di fame e non voleva che
i suoi figli lo vedessero in quelle condizioni, sepolto vivo
in un tugurio a sette metri sotto il livello del mare, umido
e fradicio, senza un filo d’aria, senza finestre, scavato nelle viscere di un penitenziario borbonico che cadeva a pezzi, ammuffito e puzzolente.
Don Carmelo voleva marcire solo e disperato in quella
prigione che gli aveva succhiato quasi trent’anni di vita, e
pregava e sperava che Agata e Antonio crescessero lontani dal suo mondo di odio e di morte. Quando il cuore non
lo aveva più sorretto, se n’era andato per sempre, con la
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consapevolezza confortante che i suoi due figli, là fuori
nel mondo, si stavano costruendo una vita dignitosa e soprattutto onesta.
Ad Antonio, che gli aveva dato un bacio in fronte prima
che gli addetti alle pompe funebri sigillassero la bara, era
sembrato per un attimo che sulla faccia di suo padre fosse
apparso un sorriso lieve. Agata non lo aveva potuto vedere
da morto: nonostante si fosse precipitata pure lei a Favonio,
non aveva ottenuto il permesso di entrare in carcere, dove
era stata allestita una frettolosa camera ardente. Antonio invece ci era riuscito grazie a Giovanni. E per uno di quei beffardi scherzi del destino, al contrario di sua sorella, lui non lo
aveva mai visto da vivo: l’unica immagine di suo padre che
si sarebbe portato dietro era quella del cadavere di un uomo
anziano, immobile per sempre nel suo inutile vestito buono.
«Tu l’hai visto morto, dentro la bara?» gli chiese di colpo
Agata.
La domanda sorprese Giovanni, rimasto appeso a ben
altri pensieri.
«No, non l’ho visto, non ho voluto. Preferisco ricordarmelo da vivo, quando era in piena salute. Faccio sempre
così quando muore una persona cara. Pensa, non ho voluto vedere neanche mia madre da morta.»
«Davvero? E perché?» gli domandò Agata.
«Perché ho paura che quella da morto sia l’immagine
che ti ricorderai per sempre. Invece mia madre, se chiudo
gli occhi e la penso, mi spunta con il suo bel sorriso, con la
sua faccia piena di sole e di energia, e non con quella livida e dolorosa della morte.»
«Hai pensato la stessa cosa anche per mio padre?»
«Sì. Peraltro non lo vedevo da moltissimi anni, dal mio
ultimo giorno di guardia a Favonio, e anche se l’avessi rivisto da vivo, probabilmente mi avrebbe fatto un certo effetto anche il suo fatale invecchiamento. Figuriamoci vederlo morto, dentro a una bara, incravattato come mai gli era
capitato di mettersi nella sua lunga e penosa detenzione.»
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