Rivista "Dialoghi", n. 1/2015.

Transcript

Rivista "Dialoghi", n. 1/2015.
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
del DIRITTO
dell’AVVOCATURA
della GIURISDIZIONE
RIVISTA TRIMESTRALE
N. 1 GENNAIO-MARZO 2015
Trimestrale di giurisprudenza e informazione
a cura del
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI VENEZIA
Direttore responsabile:
Giorgio Orsoni
Coordinamento:
Mariagrazia Romeo
Comitato di redazione:
Fulvio Cortese
Francesco Curato
Francesco Mercurio
Carmela Parziale
Mario Scopinich
Roberto Senigaglia
Ezio Zanon
Segretaria di redazione:
Manuela Lombardo
Comitato scientifico:
Luigi Benvenuti
Giulio Gidoni
Alfredo Bianchini
Chiara Cacciavillani
Antonio Franchini
Domenico Carponi Schittar
Elio Zaffalon
Candido Fois
Mauro Pizzigati
Zeno Forlati
Sito web:
www.dialoghi.eu
SEDE DELLA REDAZIONE:
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Venezia
S. Croce, 494 - 30135 Venezia - Tel. 041.5204545 - Fax 041.5208914
Editore: Wolters Kluwer Italia Srl
Centro Direzionale Milanofiori - Strada 1, Pal. F6 - 20090 Assago (MI)
Autorizzazione Tribunale di Padova n. 1723 del 7/12/2000
Centrofotocomposizione Dorigo - Padova
Stampa: GECA s.r.l. - Via Monferrato, 54 - 20098 San Giuliano Milanese (MI)
RIVISTA TRIMESTRALE
N. 1 GENNAIO-MARZO 2015
Hanno collaborato in questo numero:
Daniela Bartolucci, Sostituto Procuratore della Repubblica Tribunale di Milano
Jacopo Bercelli, Professore associato diritto amministrativo Università di Verona
Raffaella Rampazzo, avvocato del foro di Padova
Francesco Rizzo, avvocato del foro di Venezia
Giovanni Sala, avvocato del foro di Vicenza
Agnese Sbraccia, avvocato del foro di Venezia
Mario Scopinich, avvocato del foro di Venezia
Elio Zaffalon, avvocato del foro di Venezia
INDICE
GIURISPRUDENZA
Diritto civile
La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. in caso di eventi
criminosi (nota a Trib. di Venezia, 15 ottobre 2014, n. 696) di Mario
Scopinich . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pag.
3
Scrittura privata autenticata: natura di titolo esecutivo (nota a Trib. Venezia, Sez. I, 4 aprile 2012, n. 670 e App. Venezia, Sez. II, 9 ottobre 2014,
n. 2279) di Francesco Rizzo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
17
Diritto penale
Caso «Ilva». Compromesso tra diritto alla salute e diritto al lavoro di Elio
Zaffalon . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
25
L’ operazione decisoria (recensione a L. de Cataldo Neuburger, L’operazione decisoria: da emanazione divina alla prova scientifica) di Daniela
Bartolucci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
31
Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio (Nota a Corte EDU, sez. II, 4
marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia) di Agnese Sbraccia . . .
»
33
Diritto amministrativo
L’incerta natura degli atti di nomina nelle società pubbliche: le Sezioni Unite decidono ma non convincono (nota a Cass., Sez. Un., 23 gennaio
2014) di Jacopo Bercelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
39
Alcune riflessioni sul permanente obbligo di sanzionare l’opera edilizia
abusiva e sulla retroattività delle sanzioni amministrative (nota a Cons.
Stato, Sez. V, 15 luglio 2013, n. 128) di Raffaella Rampazzo . . . . . .
»
63
Sul (parziale) giudizio della Corte costituzionale riguardante il Piano casa
del Veneto (nota a Corte cost. 20 novembre 2014, n. 259) di Giovanni
Sala . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
69
Tribunale di Venezia, 15 ottobre 2014, n. 696 – Giud. Ferretti
Eventi criminosi di terzi ai danni del datore di lavoro - Responsabilità ex art.
2087 c.c. - Risarcimento danno biologico del lavoratore - Onere della prova - Misure di sicurezza nominate o innominate - Ambiente di lavoro - Assenza di prova
liberatoria da parte del datore di lavoro
La responsabilità della parte datoriale ex art. 2087 c.c. ha natura contrattuale,
con la conseguenza che il lavoratore che lamenti di avere subito un danno alla salute
in conseguenza dell’attività lavorativa svolta, è gravato dall’onere di provare l’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro ed il nesso causale tra tali
elementi; è, invece, successivo l’onere del datore di lavoro di dar prova dell’adozione
di tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, onere che varia in
relazione al fatto che si tratti di misure di sicurezza nominate ovvero innominate.
(Omissis).
Svolgimento del processo
La ricorrente riferisce di avere lavorato alle dipendenze della società convenuta presso l’unità locale di M. come operatrice di vendita con (funzioni di vice-direttore; di essere stata coinvolta in data
2.11.08 in una rapina ai danni del supermercato ove prestava servizio ad opera di un rapinatore che
entrò nel negozio subito dopo che la direttrice G. ne aveva aperto l’accesso di servizio ed era entrata
seguita dalla ricorrente: di essere stata lasciata dal rapinatore legata ad una sedia ed imbavagliata insieme alla direttrice: di essersi trovata nel panico quando scattò l’allarme del negozio temendo che il
rapinatore sarebbe rientrato imputando alle due dipendenti l’attivazione dell’allarme; di essere precipitata nei mesi successivi all’evento in uno stato di forte depressione ed ansia trattato farmacologicamente e diagnosticato come disturbo post traumatico da stress cronico di grado medio-grave causalmente collegato alla rapina per il quale veniva seguita presso il Centro di Salute Mentale di D.;
l’lnail riconosceva l’infortunio sul lavoro con una inabilità temporanea assoluta di 316 gg e permanente nella misura del 10% e le erogava l’indennizzo per il danno biologico nella misura di P
5.248,02; la successiva valutazione medico-legale indicava il danno biologico temporaneo in 158
giorni al 75% e in 156 giorni al 50% con un danno permanente del 20%.
Tanto esposto in fatto ed allegata la responsabilità del datore di lavoro nell’infortunio occorsole
per non avere adottato le cautele minime e necessarie per eliminare o almeno ridurre il rischio rapina
prevedibile in concreto e particolarmente elevato – data la collocazione del negozio in una sede totalmente isolata e priva di adeguata illuminazione, di un sistema di telecamere di sicurezza, con area
4
GIURISPRUDENZA
parcheggio accessibile da chiunque, con entrata del personale collocata sul retro dell’edificio – al
punto che il negozio fu oggetto di altre due rapine nel maggio e nel novembre 2007 e successivamente ai fatti di causa nel luglio 2010 e nel novembre 2011.
Conclude chiedendo accertarsi la responsabilità di P. s.p.a. nell’infortunio occorsole con condanna della stessa al risarcimento del danno differenziale nella misura di P 123.876,96 per il danno
non patrimoniale secondo le tabelle milanesi, in P 330.902,88 per il danno da riduzione della capacità lavorativa specifica, in P 30.000 per il danno da perdita di chances per un totale, detratta l’indennizzo Inail, di P 47.53 1,82 oltre accessori con vittoria di spese.
P. S.p.A. si è opposta all’accoglimento della domanda rifacendosi all’insussistenza di una responsabilità oggettiva ricavabile dall’art. 2087 c.c., alla necessità che l’evento sia prevedibile ed evitabile con un condono esigibile dal datore di lavoro, alla non prevedibilità del rischio rapina al di fuori
del settore bancario e postale nonché allegando di avere attuato tutte le misure generali e specifiche a
tutela dei propri dipendenti e l’inefficacia delle misure indicate in ricorso. Ha concluso per il rigetto
della domanda in subordine contestando la quantificazione del danno risarcibile effettuata dalla controparte.
Escussi i testi introdotti dalle parti ed eseguita una ctu medico legale, la causa è stata decisa all’udienza del 2.7.14.
Motivi della decisione
La domanda è fondata e va accolta.
La ricorrente ha adeguatamente provato di avere subito un danno in occasione dell’attività lavorativa nonché il nesso causale tra il danno allegato e documentato e l’evento.
Parte resistente ha invece completamente disatteso l’onere di provare di avere adottato le necessarie ed opportune cautele per evitare o quantomeno ridurre il rischio rapina trincerandosi dietro
l’argomentazione che non si tratterebbe di un rischio specifico del settore di attività e che si tratterebbe comunque di un rischio inevitabile nei tempi correnti.
Invero, posta la natura contrattuale della responsabilità incombente sul datore di lavoro in relazione al disposto dell’art. 2087 cod. civ., il principio di diritto in tema di ripartizione dell’onere
probatorio bene espresso in Cass. n. 12445/06 è che al lavoratore spetta lo specifico onere di provare
il fatto costituente inadempimento dell’obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra
l’inadempimento stesso ed il danno da lui subito, mentre – in parziale deroga al principio generale stabilito dall’art. 2697 cod. civ. non gravato dall’onere della prova relativa alla colpa del datore di lavoro
danneggiante, sebbene concorra ad integrare la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento. onere
che, invece, incombe sul datore di lavoro e che si concreta nel provare la non imputabilità dell’inadempimento. Diversamente, invece, si atteggia il contenuto dei rispettivi oneri probatori a seconda che
le misure dì sicurezza – asseritamente omesse – siano espressamente e specificatamente definite dalla
legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi
specifici (quali le misure previste dal d. lgs. n. 626 del 1994 e successive integrazioni e modificazioni,
come dal precedente D.P.R. n. 547 del 1955), oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087
c.c. che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza. Nel primo caso – riferibile alle misure
di sicurezza cosiddette “nominate” – il lavoratore ha l’onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa – ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere – nonché ovviamente il nesso di causalità materiale tra l’inosservanza della misura ed
il danno subito. La prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli
stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell’insussistenza dell’inadempimento e del nesso
eziologico tra quest’ultimo e il danno. Nel secondo caso in cui si discorre di misure di sicurezza cosiddette “innominate” – la prova liberatoria a carico del datore di lavoro l’onere restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore, risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della
misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi. di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che. ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata) siano suggeriti da conoscenze speri-
LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO EX ART. 2087 C.C. IN CASO DI EVENTI CRIMINOSI
5
mentali e tecniche, dagli “standard” di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre
fonti analoghe.
Nella specie ci troviamo di fronte alla seconda ipotesi, quella delle misure di sicurezza innominate in relazione alle quali “la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile”. Il “rischio rapina” non è in via generale ed
astratta un rischio specifico dell’attività commerciale esercitata dalla società resistente ma le concrete
circostanze del caso (stato dei luoghi, collocazione del supermercato, precedenti rapine messe a segno nello stesso negozio) inducono a ritenere che era esigibile una particolare diligenza del datore di
lavoro nel predisporre cautele e misure di prevenzione rispetto a tale rischio.
In particolare convincono di ciò i seguenti fatti (provati dalle deposizioni testimoniali): che il negozio ove la ricorrente lavorava aveva subito 2 rapine nell’anno precedente ai tatti di causa, che il negozio si trovasse in zona isolata, che la illuminazione della zona circostante l’edificio fosse scarsa, che il
parcheggio fosse accessibile ad estranei, che la società fosse stata più volte avvisata della presenza di individui sospetti nel negozio. Queste circostanze e segnatamente quelle relative ai pregressi episodi di
rapina, che rendevano prevedibile il loro possibile ripetersi, e quella della segnalazione di individui sospetti nel negozio, che ancor più avrebbe dovuto indurre la società ad attivarsi per eliminare o comunque ridurre il rischio di aggressioni – rendevano esigibile una particolare attenzione del datore di lavoro a tutela della integrità dei propri dipendenti e la adozione delle misure anche tecnologicamente
avanzate volte a tal fine. Né si dica che nessuna misura è idonea ad eliminare il rischio di rapine in
quanto ciò che si richiede al datore di lavoro e di adottare le misure che, secondo la scienza e la tecnica
di un dato momento storico, sono disponibili e sono idonee ad eliminare se possibile o a ridurre il rischio. Nella specie un sistema di telecamere a registrazione, un collegamento anche mediante dispositivo antirapina a istituti di vigilanza, un sistema di attivazione/disattivazione dell’allarme posto all’interno del negozio invece che all’esterno, un servizio di vigilanza nell’orario prossimo all’apertura e
chiusura del supermercato corrispondente all’arrivo e all’uscita dei dipendenti (oltre che nell’arco della giornata) avrebbero costituito validi deterrenti alle rapine contribuendo a ridurne il rischio.
P. S.p.A. pur avendo subito rapine e pur avendo ricevuto segnalazione da parte dei dipendenti
nulla ha fatto per tutelare la loro integrità ed è perciò responsabile, ai sensi dell’art. 2087 c.c. dei danni che la ricorrente ha subito in conseguenza dell’evento occorsole della cui prevedibilità non può
dubitarsi per quanto detto.
La resistente è pertanto tenuta a risarcire alla ricorrente il danno differenziale da questa subito.
Quante alla quantificazione del danno biologico temporaneo e permanente ci si riti alle tabelle
in uso presso l’intestato Tribunale, in quanto maggiormente aderenti alla realtà economica e territoriale, e alle risultanze della ctu medico-legale.
Il ctu ha quantificato il danno biologico temporaneo subito dalla D. L. in 12 mesi al tasso del
25% e il danno permanente nella misura del 10% pertanto considerato il valore giornaliero del danno temporaneo assoluto di P 80 e il valore del punto in relazione all’età e al grado di danno di P
2.196.55, si perviene ad una liquidazione di P 7.300 per il danno temporaneo (P 20 x 365 gg) e di P
21.965.5 per il danno permanente: dal totale di 29.265.5 va detratto l’indennizzo del biologico erogato dall’Inail nella misura di P 5.248,02 con un residuo dovuto di 24.027.48 e va aggiunto, a titolo di
personalizzazione del risarcimento che tenga conto della componente esistenziale del danno e del
grado medio di sofferenza, il 10% del complessivo danno biologico pari ad P 2.926.5 e così complessivamente P. s.p.a. dovrà erogare alla ricorrente P 26.943,98 oltre interessi legali dalla data dell’evento senza rivalutazione monetaria essendosi utilizzati valori attuali di liquidazione.
La ricorrente ha chiesto anche il risarcimento del danno patrimoniale da riduzione della capacità lavorativa specifica ma tale richiesta non può essere accolta avendo il ctu escluso e logicamente
motivato a seguito di richiesta di chiarimenti – che la menomazione subita dalla ricorrente sia di impedimento allo svolgimento di attività 1aoratia congrua alle sue capacità. Il CTU ha infatti precisato
che la patologia da cui è affetta la ricorrente non agorafobia ma un disturbo d’ansia con “spunti fobici che non solo sono in via di miglioramento ma che non si manifestano se il soggetto è accompagna-
6
GIURISPRUDENZA
to. Inoltre gli spunti fobici sono inquadrabili come manifestazioni generiche del danno alla capacità
lavorativa generica che, a tutti gli effetti, è ricompreso nel danno biologico”.
Il ctu ha tuttavia anche chiarito che tale disturbo in effetti comporta una riduzione delle chances
di reperimento di nuova occupazione risarcibile in via equitativa. Sulla scorta delle indicazioni del
medico legale si ritiene di dover riconoscere la riduzione delle opportunità di nuova occupazione e
di liquidare a tale titolo e in via equitativa tenendo conto da un lato del fatto che la ricorrente risulta
a tutt’oggi priva di occupazione e d’altro canto che non vi è prova che la D. L. si sia attivata per reperire altro posto di lavoro compatibile con il disturbo fobico (ad es. occupazione con orari o sede di
lavoro che le consentisse di essere accompagnata per recarsi e tornare dal lavoro). Di tutto ciò tenuto
conto si ritiene equo liquidare a titolo di perdita chances la somma di P 5.000.
È poi dovuto il rimborso delle spese di consulenza medico legale di parte nella misura documentata di P 71 1,81.
Le spese di ctu, come già liquidate, e le spese di patrocinio, liquidate come in dispositivo, sono a
carico della convenuta.
PQM
Il Giudice, definitivamente pronunciando, così provvede:
Accertata la responsabilità di P. S.p.A. nell’infortunio occorso alla ricorrente, condanna la società resistente a risarcirle il danno nella misura di P 31.943,98 oltre interessi legali dalla data dell’evento
lino al saldo e a corrisponderle P 711,81 a titolo di rimborso spese oltre interessi fino al saldo.
Le spese di ctu, come già liquidate, e le spese di patrocinio, liquidate in P 3.500 oltre rimborso
forfettario spese generali, iva e cpa, sono a carico della convenuta.
LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO EX ART. 2087 C.C.
IN CASO DI EVENTI CRIMINOSI
Considerazioni generali
Con la sentenza n. 696/14 il Tribunale di Venezia, Sezione Lavoro, si occupa
della questione relativa all’applicabilità della disciplina prevista dall’art. 2087 c.c.
con riguardo al caso di eventi di criminalità da parte di terzi nel luogo di lavoro a
danno dei dipendenti.
La fattispecie concreta riguarda una lavoratrice coinvolta in una rapina perpetrata ai danni del punto vendita del supermercato ove operava.
La dipendente agiva in giudizio al fine di far accertare la responsabilità della
società convenuta ed ottenere un risarcimento per il danno biologico patito sostenendo che la società non avesse provveduto ad adottare le cautele necessarie al fine di almeno ridurre il rischio di rapina e ritenendo che il rischio fosse, in relazione alle circostanze di fatto esistenti concreto e prevedibile: negozio isolato e privo
di idonea illuminazione, mancanza di un sistema di telecamere, accessibilità del
parcheggio del punto vendita a chiunque, entrata dei dipendenti posta nel retro e
soprattutto precedenti rapine verificatesi.
LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO EX ART. 2087 C.C. IN CASO DI EVENTI CRIMINOSI
7
Si costituiva la società convenuta adducendo che l’evento non fosse né prevedibile, né evitabile e che, pertanto, alcuna responsabilità alla stessa fosse imputabile ex art. 2087 c.c. al datore di lavoro, vittima anch’esso dell’evento criminoso.
Con la sentenza in commento, il Giudice riteneva non essere stato assolto
l’onere probatorio da parte della società in relazione all’avvenuta predisposizione
nel luogo di lavoro di quelle misure di sicurezza «innominate» richieste nella misura della diligenza esigibile in relazione alle circostanze del caso concreto, riconoscendo la responsabilità della società al risarcimento del danno differenziale alla
lavoratrice a norma dell’art. 2087 c.c. (l’Inail aveva riconosciuto l’evento dannoso
quale infortunio sul lavoro, stabilendo un indennizzo).
L’esito a cui giunge il Giudice di primo grado (ossia il riconoscimento di un risarcimento danni a favore della lavoratrice, a carico del proprio datore di lavoro,
per una rapina avvenuta ai danni del datore di lavoro stesso) può apparire irragionevole, atteso che si addossa al datore di lavoro, vittima anch’esso dell’evento verificatosi, una responsabilità di natura contrattuale e viene riconosciuto un risarcimento
del danno biologico a favore del lavoratore che ha direttamente subito la rapina.
In realtà, l’applicazione al caso de quo della disciplina di cui all’art. 2087 c.c. e
l’iter logico giuridico seguito dal Giudice del lavoro sposa un consolidato orientamento giurisprudenziale.
L’art. 2087 c.c: norma di chiusura del sistema di tutela infortunistico
L’art. 2087 c.c., ha gettato le basi per un diverso modo di concepire la prevenzione, nonché ha sancito l’esistenza di un obbligazione di sicurezza del lavoro a carico dell’imprenditore e quindi il corrispondente diritto soggettivo dei lavoratori
alla tutela dell’integrità psicofisica (1).
L’articolo in questione, oltre a contenere un principio generale, di cui poi la
legge in materia di prevenzione e assicurazione degli infortuni sul lavoro ne costituisce applicazione specifica, ha valore integrativo, nel senso che esso si pone quale norma di chiusura dell’intero sistema prevenzionistico, cosicché, anche laddove
non sussistano specifiche misure preventive previste dalla normativa, è vigente
l’obbligo da parte del datore di lavoro di adottare tutte le cautele necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore.
Una norma siffatta, volta a ricomprendere ipotesi e situazioni non espressamente previste, ha, come del resto tutte le clausole generali, una funzione di adeguamen-
( 1 ) Persiani-Lepore, Il nuovo diritto della Sicurezza sul lavoro, Utet Giuridica, pag. 8 e ss.
8
GIURISPRUDENZA
to permanente dell’ordinamento alla sottostante realtà socio-economica (2).
Invero, la funzione integrativa di tale articolo e le nuove esigenze meritevoli di tutela emergenti dalla realtà socio economica hanno posto, sin dai primi anni ’80, degli
interrogativi circa l’estensione della responsabilità contrattuale prevista dal menzionato articolo; in particolare, se l’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità psicofisica dei dipendenti debba imporre l’adozione da parte dello stesso anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione
di detta integrità in relazione a situazioni di ordine pubblico e di criminalità.
Sul punto la giurisprudenza si è espressa in senso affermativo: l’art. 2087 c.c.
contiene un principio di autoresponsabilità dell’imprenditore, il quale, indipendentemente da specifiche disposizioni normative, è tenuto a porre in essere tutti
gli accorgimenti e le misure necessarie ad evitare il verificarsi di lesioni del bene
primario della salute e dell’integrità fisica e morale del dipendente (3).
Le problematiche relative al rischio di aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi non differiscono, a ben vedere, dalle esigenze che derivano dallo svilupparsi di nuove organizzazioni del lavoro o di nuovi procedimenti produttivi, che parimenti pongono problemi di tutela della salute o di integrità psico-fisica del lavoratore.
L’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dal D.P.R. n. 11241
del 1965 e per i soli eventi coperti dalla assicurazione obbligatoria (4); qualora, invece, eventi lesivi eccedenti tale copertura si verifichino, comunque, in pregiudizio del
lavoratore e siano causalmente ricollegabili alla nocività dell’ambiente di lavoro,
viene in rilievo, come fonte della suddetta responsabilità, la norma dell’art. 2087 c.c.
Tale normativa, atteggiandosi quale norma di chiusura del sistema antinfortunistico, anche laddove faccia difetto una specifica misura preventiva (nominata),
impone al datore di lavoro di adottare tutte le cautele necessarie (e, comunque, le
misure generiche di prudenza, diligenza ed osservanza delle norme tecniche e di
esperienza) a tutelare l’integrità fisica e morale dei dipendenti, anche quando essi
siano stati regolarmente assicurati (5).
Peraltro, il profilo sistematico della norma in questione introduce un dovere
che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro e nei limiti costituzionalmente imposti all’imprenditore per il libero esercizio del potere datoriale; l’obbligo contrattuale imposto al datore di lavoro dall’art. 41, c. 1 e 2, Cost. consistente nel non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
(2)
(3)
(4)
(5)
Cass. civ., Sez. Lav., 6 settembre 1988, n. 5048.
Cfr. Cass. civ., Sez. Lav., 6 settembre 1988, n. 5048; Cass. civ., Sez. Lav., 20 aprile 1998, n. 4012.
Così Cass. civ., Sez. Lav., 10 luglio 1996, n. 6282.
Così Cass. civ., Sez. Lav., 19 agosto 1996, n. 7636; Cass. civ., Sez. Lav., 17 luglio 1995, n. 7768.
LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO EX ART. 2087 C.C. IN CASO DI EVENTI CRIMINOSI
9
Quest’ultimo, posto in relazione all’art. 32, c. 1, Cost. e all’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l’adozione di tutte le misure idonee a preservare l’integrità
psicofisica del lavoratore (6).
Pertanto, la presenza nell’ordinamento di un siffatto diritto di così ampio spettro consente di ritenere che una sua lesione in ambiente o in costanza di lavoro,
pur inferta da terzi estranei (ma il caso, del resto, non è sconosciuto al diritto, – di
matrice giurisprudenziale – ove si pensi all’infortunio «in itinere») possa rientrare
nell’ampia previsione dell’art. 2087 c.c., che quella integrità psico-fisica è volto appunto a proteggere.
Non può, invero, pensarsi che l’ordinamento lasci esclusivamente a carico del
lavoratore (salvo ciò che può dargli – come ad ogni cittadino – il sistema sanitario
nazionale) un danno alla sua salute, occasionato proprio dall’attività lavorativa,
senza che né la collettività, attraverso il sistema antinfortunistico, né il datore di lavoro contribuiscano a risarcirlo.
L’art. 2087 c.c. consente, quindi, senza strappi ai principi, di addossare, sia pure entro i limiti che si delineeranno, quel rischio che l’esercizio di un’impresa in sé
comporta per il lavoratore.
Trattasi di una obbligazione ex lege collaterale rispetto a quelle principali proprie del rapporto di lavoro, come tale involgente la diligenza nell’adempimento ex
art. 1176 c.c., eventualmente correlata alla natura dell’attività esercitata, e comunque improntata nella sua esecuzione a quei criteri di comportamento delle parti di
ogni rapporto obbligatorio costituiti, ex artt. 1175 e 1375 c.c., dalla correttezza e
buona fede, ormai ampiamente valorizzati dalla giurisprudenza.
Le suesposte conclusioni sono state oggetto di ampio dibattito; vi era chi riteneva, viceversa, ingiustificato attribuire all’imprenditore una responsabilità «personale» in relazione ai rischi della salute del lavoratore non provocati da una sua
personale imprudenza, negligenza e imperizia, ritenendo che in caso di rapina la
società non «creasse» direttamente un pericolo di danno all’integrità fisica del
proprio dipendente, cosicché verrebbe alla stessa imputato un danno pur in assenza di nesso causale con la sua attività, nesso che sussiste invece tra l’azione del rapinatore ed il ferimento del dipendente, rispetto al quale la prestazione lavorativa
sarebbe mera occasione.
Tale obiezione è stata agevolmente superata, considerando che l’imprenditore
deve valutare i rischi che l’esercizio di un’impresa in sé comporta nel caso di specie, nel momento attuale e la diffusione dell’attività criminosa è tale da far considerare quella specifica attività quanto meno occasione di rischio per i dipendenti
( 6 ) Cass. civ., Sez. Lav., 5 febbraio 2000, n. 1307.
10
GIURISPRUDENZA
(e per il pubblico), stante la prevedibilità della irruzione di terzi con disegni criminosi nei locali aperti al pubblico, soprattutto se ricorrono determinate circostanze
di tempo e luogo (per esempio la rischiosa collocazione del negozio, la frequentazione da parte di soggetti pericolosi, la disponibilità di denaro liquido, gli orari di
apertura e chiusura, ecc.) (7).
L’imprenditore ha il dovere di valutare se l’attività della sua azienda presenta
rischi extralavorativi di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo
di prevenzione, il quale contenuto è individuabile nella realtà alla stregua delle
tecniche di sicurezza comunemente adottate (che includono anche parametri di
frequenza statistica generale, per tipo di attività, ovvero di frequenza statistica particolare con riferimento alla singola unità produttiva).
Il profilo della colpa
Ad ogni modo l’art. 2087 c.c. non può certo essere inteso come una normativa
prescrivente l’obbligo di adottare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad
evitare qualsiasi danno, dovendo la sfera dell’obbligo datoriale essere comunque
riferita a comportamenti previsti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, ma concretamente individuati (8).
Nonostante la prescrizione dell’articolo 2087 c.c. costituisca, quindi, una norma di chiusura atta ad ampliare l’oggetto dell’obbligazione dell’imprenditore anche a situazioni non contemplate da una specifica norma di legge, non può ritenersi sussistere una responsabilità oggettiva del datore di lavoro ogni qual volta il fatto si sia comunque verificato.
Il requisito soggettivo della colpa rappresenta, infatti, un indefettibile elemento costitutivo della fattispecie di violazione della norma: è sempre necessario che si
ravvisino, nella condotta datoriale, profili di colpa, ossia la violazione di norme antinfortunistiche e di misure di prevenzione o almeno di regole di prudenza e di diligenza, legate a criteri di evitabilità e prevedibilità secondo le normali conoscenze
sperimentali e tecniche del momento, cui far risalire il danno all’integrità psico-fisica patito dal dipendente (9).
Una diversa soluzione comporterebbe l’applicazione anomala in subiecta materia di un principio di responsabilità oggettiva, ancorata all’assunto teorico che
( 7 ) Cass. civ., Sez. Lav., 6 settembre 1988, n. 5048.
( 8 ) Cass. civ., Sez. Lav., 1 giugno 2004, n. 10510; Cass. civ., Sez. Lav., 12 luglio 2004, n. 12863.
( 9 ) Oltre alle sentenze Cass. Sez. Lav. 7629/2004; Cass. Sez. Lav. 1575/2000; Cass. Sez. Lav. 7792/
1998, si veda Grandi e Pera, Breviaria Juris, III edizione, Cedam, in commento all’art. 2087 cod. civ.
LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO EX ART. 2087 C.C. IN CASO DI EVENTI CRIMINOSI
11
qualsiasi rischio possa essere evitato, pur se esorbitante da ogni previsione o prevedibilità (10).
Quindi, può essere affermata la responsabilità dell’imprenditore solo qualora
sussista la lesione del bene tutelato che derivi causalmente dalla violazione di determinati obblighi di comportamento, imposti dalla legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche in relazione al lavoro svolto, e comunque quando vi
sia anche un nesso causale tra il danno e l’attività svolta dal lavoratore (11).
Gli incerti confini dell’obbligo alla sicurezza tra «possibilità tecnologica» e «ragionevole praticabilità»
La natura di norma in bianco dell’art. 2087 c.c. pone inevitabilmente la questione della delimitazione dei confini dell’obbligo datoriale relativamente agli strumenti e misure da apprestare per rendere sicuro l’ambiente di lavoro: la necessità
di tutelare la salute del lavoratore non può infatti, comportare il rischio di una eccessiva dilatazione della norma, con conseguente estensione incondizionata della
responsabilità del datore di lavoro, altrimenti l’imprenditore sarebbe lasciato in
balia di un regime sanzionatorio, anche di natura penale, eccessivamente incerto e
ai limiti della legalità.
Il nostro ordinamento, almeno sin dai primi anni ’90, si fondava su un impianto in cui il principio cardine dell’intero sistema preventivo italiano era la massima
fattibilità tecnologica.
L’adozione di tale criterio imponeva al datore di lavoro l’obbligo di ricercare
costantemente e realizzare le tecnologie di prevenzione più progredite, indipendentemente dalla loro diffusione nel mercato, ovvero, in una lettura più equilibrata del principio, l’obbligo di adottare le misure tecnologicamente più avanzate disponibili sul mercato, a prescindere che le stesse fossero o meno applicate o diffuse al settore di appartenenza dell’azienda.
Una simile impostazione, si poneva in netto contrasto con l’indefettibile principio costituzionale di necessaria determinatezza delle previsioni della legge penale.
In tale quadro è stato risolutorio l’intervento della sentenza della corte costituzionale 25 luglio 1996, n. 312 (12), mediante la cui pronuncia si è definitivamente
( 10 ) Cass. Civ. Sez. Lavoro, 20 aprile 1998, n. 4012.
( 11 ) Cass. civ. Sez. lavoro, 26 dicembre 1995, n. 11120
( 12 ) «La sola via per rendere indenne (...) tale tecnica dalla denunciata violazione dell’art. 25 Cost. è, allora, quella di fornire in sede applicativa, una lettura tale da restringere in maniera considerevole la discrezionalità dell’interprete, (...) cioè restringere in una interpretazione costituzionalmente vincolata le potenzialità
della disposizione, (...) ritenendo che il legislatore si riferisce alle misure che nei diversi settori e nelle differen-
12
GIURISPRUDENZA
superato, in quanto incostituzionale, il principio della massima sicurezza disponibile sul mercato (c.d. best available technology); il miglioramento del livello di sicurezza generalmente praticato non rientra, infatti, nei compiti dell’imprenditore,
ma resta affidato all’introduzione di nuovi precetti, con piena salvezza della certezza del diritto.
Al datore di lavoro deve incombere l’onere di predisporre tutte le misure concretamente attuabili, ossia quelle che corrispondano ad applicazioni tecnologiche
generalmente applicate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali altrettanto
acquisiti, in relazione ovviamente al tipo di attività e alle circostanze concrete del
caso, in applicazione dei principi di diligenza, correttezza e buona fede.
Una tale impostazione pone a carico dell’imprenditore l’onere di valutare se
l’attività della sua azienda presenti rischi extra-lavorativi di fronte al cui prevedibile verificarsi insorga il suo obbligo di prevenzione, nel rispetto del principio per
cui ciascun datore di lavoro, in riferimento alla particolarità del lavoro da una parte e all’esperienza e alla tecnica dall’altra, deve, nella rappresentazione dell’evento
dannoso, prospettare a se stesso l’adozione delle misure più consone e più aggiornate, al fine di scongiurare la sua realizzazione.
Ne consegue che proprio alla stregua dei dati di esperienza il suddetto obbligo
«avrà un contenuto non teorizzabile a priori», ma ben individuabile nella realtà alla luce delle tecniche di sicurezza comunemente adottate (13).
Come bene evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità richiamata si tratta,
all’evidenza, di un’obbligazione involgente la diligenza nell’adempimento di cui
all’art. 1176 c.c. eventualmente correlata alla natura dell’attività esercitata (e quindi alle circostanze concrete del caso) e comunque improntata a quei criteri generali di comportamento delle parti di ogni rapporto contrattuale, ex art. 1175 c.c. e
1375 c.c., di correttezza e buona fede, ormai ampiamente valorizzati dalla giurisprudenza (14).
Pacifico è, peraltro, che gli obblighi in tema di tutela delle condizioni di lavoro
ex art. 2087 c.c., impongano al datore di lavoro di adottare le misure di sicurezza
esigibili non soltanto riguardo alle attrezzature, ai macchinari e ai servizi che il datore di lavoro fornisce o deve fornire, ma anche alla fase dinamica dell’espletamenti lavorazioni, corrispondono ad applicazioni tecnologiche generalmente praticate e ad accorgimenti organizzativi e procedurali, altrettanto generalmente acquisiti, sicché penalmente censurata sia soltanto la deviazione
dei comportamenti dell’imprenditore dagli standards di sicurezza propri, in concreto e al momento, delle diverse attività produttive, (...) dovendosi il giudice di volta in volta chiedere non tanto se una determinata misura sia compresa nel patrimonio di conoscenza nei diversi settori, ma se essa sia accolta negli standards di produzione industriale o specificamente prescritta (...) con secca esclusione della costituzionalità di una norma
che assegni all’impresa il compito di realizzare innovazioni finalizzate alla sicurezza».
( 13 ) Cass. Civ., Sez. Lav., 6 settembre 1988, n. 5048.
( 14 ) Tra le tante Cass. civ., Sez. Lav., 8 aprile 2013, n. 8486.
LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO EX ART. 2087 C.C. IN CASO DI EVENTI CRIMINOSI
13
to del lavoro, vale a dire anche «all’ambiente di lavoro, in relazione al quale le misure e le cautele da adottarsi dall’imprenditore devono prevenire sia i rischi insiti in
quell’ambiente, sia i rischi derivanti dall’azione di fattori ad esso esterni e inerenti al
luogo in cui tale ambiente si trova» (15).
La natura della responsabilità – la ripartizione dell’onere della prova – la necessaria prevedibilità
Una delle problematiche che tanto ha occupato i Giudici chiamati a regolare il
rapporto tra danneggiante e danneggiato è quella relativa al riconoscimento della
responsabilità civile del primo ad una delle due figure di qualificazione previste
dal nostro sistema: responsabilità contrattuale o extracontrattuale.
La questione, dopo anni di contrasti giurisprudenziali, ha trovato soluzione nel
riconoscimento della natura contrattuale della responsabilità (16), senza peraltro
escluderne l’eventuale concorso tra le stesse (17).
La norma in esame, infatti, quale specificazione del principio della tutela della
salute e della personalità morale del prestatore, che assurge al contratto di lavoro a
contenuto di un vero e proprio obbligo, entra ope legis nel sinallagma contrattuale
con la conseguenza che, alla legittimità del rifiuto del dipendente di eseguire l’attività lavorativa in condizioni di sicurezza, si aggiunge il diritto a pretendere l’adempimento di quanto statuito dall’articolo in questione; quando, poi, dall’inosservanza dell’obbligo derivi un danno al lavoratore, la norma vale di per se a configurare
una responsabilità di natura contrattuale verso il lavoratore (18).
( 15 ) Cass. civ., Sez. Lav., 6 settembre 1995, n. 9401.
( 16 ) Cass. civ., Sez. Lav., 8 aprile 2002, n. 5024.
( 17 ) «Non si esclude il concorso tra i due tipi di responsabilità, in quanto le norme della responsabilità
contrattuale dell’imprenditore sono dettate a tutela di diritti primari del singolo; tutela a cui egli non intende
certo rinunziare allorché entra in relazione contrattuale con un altro soggetto. Il contratto, infatti, vincola la
parte dell’esecuzione di quella specifica prestazione cui si è obbligata, ma non la esime dal dovere generale del
neminem laedere». Fabozzi, La tutela della salute nel rapporto di lavoro, Giuffrè, Milano, 2002, 68 e ss.
( 18 ) «Sotto il vigore dell’abrogato c.c. per lungo tempo la norma di riferimento in materia infortunistica è
stato l’art. 1151 per cui l’infortunio o la malattia professionale del lavoratore subordinato potevano essere risarciti in quanto venisse provato, secondo i comuni principi di responsabilità civile (extracontrattuale), che
l’evento dannoso era da ascriversi a colpa dell’imprenditore. L’esistenza di un preciso vincolo obbligatorio
quale il rapporto di lavoro, non era quindi tale da consentire una prospettazione dell’infortunio in termini diversi dal comune sinistro. Nella misura in cui questa soluzione, che esonorava il datore di lavoro da responsabilità da tutti quegli infortuni impunibili a caso fortuito, si rilevava insoddisfacente, si accentuava la spinta a
ricercare il fondamento delle responsabilità nel vincolo obbligatorio, attraverso il richiamo alla normativa di
esecuzione secondo buona fede del contratto e agli obblighi di diligenza media, quali desumibili dagli artt.
1124, 1123 c.c. 1865; tanto che oggi – si è sostenuto – l’obbligo sancito nell’art. 2087 c.c. potrebbe farsi derivare dagli artt. 1374-1375 e 1175-1176 del nuovo codice». Poletti, Sulla risarcibilità del danno alla salute
del prestatore di lavoro, in RGL, II, 694-712.
14
GIURISPRUDENZA
La riconosciuta natura contrattuale della responsabilità della norma in questione non riveste un’importanza solo teorica; ciò sia in relazione all’applicabilità all’insorta controversia, in sede processuale, del rito del lavoro (19), sia in ordine agli
effetti tra i due tipi di responsabilità.
Effetto rilevante è la disciplina degli oneri probatori, che in regime contrattuale si appresta ad essere certamente più favorevole al lavoratore (20).
Sul lavoratore incombe l’onere di provare, oltre alla sussistenza del rapporto di
lavoro (21) ed all’esistenza del danno, la nocività dell’ambiente di lavoro ed il nesso
causale tra il pregiudizio patito e la nocività dell’ambiente stesso. Provate tali circostanze, grava sul datore l’onere di dimostrare, nel caso si tratti di misure di sicurezza nominate (specificatamente previste dalla legge), l’adempimento dell’espressa previsione di legge, ovvero, nel caso di misure innominate, di aver adottato tutte
le cautele necessarie esigibili ad impedire il verificarsi del danno (compresa la vigilanza ovvero che la patologia lamentata dal dipendente non è ricollegabile all’inosservanza dell’obbligo di sicurezza) e che gli esiti dannosi sono stati determinati da
un evento imprevisto ed imprevedibile.
In altre parole, il lavoratore che agisce in giudizio lamentandosi dell’inadempimento datoriale, non deve dimostrare la colpa datoriale (che si presume ex art.
1218 c.c.), deve tuttavia allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale e delle
regole di condotta che assume essere state violate, contestando che il datore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere
adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori (22).
La verificazione del sinistro in sé non è, quindi, sufficiente a far sorgere a carico dell’imprenditore l’onere probatorio di aver adottato ogni sorta di misura idonea ad evitare l’evento.
( 19 ) «La domanda di risarcimento di danno proposta nei confronti del datore di lavoro dal lavoratore che
lamenti lesioni della propria integrità fisica per violazione degli obblighi di cui all’art. 2087 c.c. è diretta a far
valere una responsabilità contrattuale di una delle parti del rapporto ed è perciò devoluta alla competenza per
materia del pretore, in funzione del giudice del lavoro, ai sensi degli artt. 409, n. 1 e 413 c.p.c.» (Cass. 20 gennaio 1993, n. 698, DPLav., 1993, 720).
( 20 ) «La rilevanza pratica della distinzione tra i due tipi di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale) riguarda innanzitutto l’onere della prova: nella responsabilità contrattuale all’attore è sufficiente provare il
suo credito, e la scadenza dell’obbligazione; ed è il debitore che se vuole giustificarsi, ha l’onere di dimostrare
di non aver potuto adempiere per una causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.)». Torrente A. - Schlesinger P., Manuale di diritto privato, Giuffrè, Milano, 1999.
( 21 ) Tra le tante Cass. civ., Sez. Lav., sent. 22 dicembre 2011, n. 28205; Cass. civ., Sez. Lav., 14 aprile
2008, n. 9817.
( 22 ) Cass. civ., Sez. Lav., 7 novembre 2000, n. 14469.
LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO EX ART. 2087 C.C. IN CASO DI EVENTI CRIMINOSI
15
La sentenza in commento: considerazioni finali
L’iter logico giuridico seguito dal Tribunale del lavoro nella sentenza in commento ricalca quanto sopra esposto e ha condotto il Giudice al riconoscimento
della fondatezza della domanda risarcitoria di parte ricorrente.
Gli obblighi di prevenzione imposti dall’art. 2087 c.c. nel caso di azioni criminose da parte di terzi comportano un impegno a carico del datore di lavoro, in ragione della natura e delle circostanze concrete relative all’attività lavorativa esercitata e alla diligenza esigibile, consistente nello specifico obbligo di adottare tutte le
misure idonee a prevenire atti criminosi, fondando la responsabilità per danni del
datore di lavoro nei confronti del dipendente sulla circostanza che sia venuto meno a tali obblighi normativi.
Nel caso de quo, secondo il Giudice adito, la lavoratrice ha assolto pienamente
il suo onere probatorio (23), dimostrando sia la sussistenza del fatto costituente
l’inadempimento dell’obbligo di sicurezza, sia il nesso di causalità materiale tra
l’inadempimento stesso ed il danno da lei subito.
Il Giudice, d’altro canto, ha ritenuto non assolto l’onere probatorio in capo al
datore di lavoro consistente nel dimostrare di aver impiegato tutte le misure di
prevenzione necessarie per la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore.
In particolare, il Giudice ha ritenuto del tutto mancanti le misure di sicurezza
«innominate», tali da assolvere l’obbligo di adottare la scienza, la tecnica e l’esperienza disponibile e praticata al tempo, cosicché la lavoratrice fosse posta nelle
condizioni di operare con assoluta sicurezza.
Il Giudice, chiamato a verificare se la società avesse adempiuto o meno l’obbligazione contrattuale ad essa facente carico ex art. 2087 c.c., ha fornito una risposta
negativa, rilevando l’inefficienza del sistema di allarme, la posizione critica del
punto vendita (isolata e poco illuminata), la mancata vigilanza del parcheggio (accessibile sempre a tutti), l’inadeguata protezione dell’accesso dei dipendenti (che
si trovava isolato nel retro), nonché il fatto che già negli anni precedenti si fossero
verificati episodi di rapina a danno del medesimo punto vendita.
In particolare, il ragionamento del Tribunale nel caso di specie si è fondato su
due criteri ermeneutici al fine di valutare l’insorgere della responsabilità datoriale
nel caso di infortuni occorsi ai dipendenti a causa dell’attività criminosa di terzi:
prevedibilità e prevenibilità.
Il primo criterio (prevedibilità) attiene alla natura dell’attività lavorativa considerata e alla possibilità che insorgano dei rischi «extra lavorativi», ma pur sempre
( 23 ) Cass. civ., Sez. Lav., 25 maggio 2006, n. 12445.
16
GIURISPRUDENZA
connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa: il Tribunale ha ritenuto che, nonostante l’attività commerciale svolta dalla società non porti con se un rischio intrinseco (generale ed astratto) relativo al possibile verificarsi di attività criminosa,
le circostanze concrete rendessero prevedibile il verificarsi dell’evento (posto che
nei pressi del negozio si aggiravano individui sospetti, nonché il fatto che il punto
vendita fosse già stato bersaglio di rapine negli anni precedenti).
Il secondo criterio (prevenibilità) attiene al profilo della prevenzione e quindi
della evitabilità dell’evento stesso, da cui consegue uno specifico obbligo del datore di lavoro di predisporre tutte le misure adeguate ad evitare l’evento dannoso,
che nel caso di specie è stato individuato nell’adozione di un sistema di telecamere
a registrazione, di un collegamento a istituti di vigilanza mediante dispositivo antirapina, di un sistema di attivazione e disattivazione dell’allarme interno al punto
vendita, di un servizio di vigilanza nell’orario di lavoro prossimo all’apertura e alla
chiusura del supermercato corrispondente all’arrivo e all’uscita dei dipendenti,
con eventuali ronde infra giornata lavorativa.
Tali accorgimenti sono stati ritenuti, dalla sentenza commentata, come parte di
quel complesso di misure di sicurezza, che, lungi dall’essere inesigibili dal datore
di lavoro, rientrano in quell’ambito di prevedibilità (dell’evento) e di prevenibilità
(mediante l’adozione di idonee misure di sicurezza), ricollegabile alla particolarità
del lavoro, caratterizzato dall’offerta al pubblico e quindi dalla disponibilità di denaro liquido (24).
Misure che il datore di lavoro, secondo il Giudice, era tenuto, alla stregua di una
valutazione ex ante e del criterio dell’ordinaria diligenza, ad adottare al fine di scongiurare il verificarsi di eventi dannosi per la salute psico-fisica dei propri dipendenti.
Inevitabile, alla luce di quanto sopra dedotto, che la valutazione del Giudice,
nel ritenere soddisfatto ovvero disatteso l’onere incombente sul datore di lavoro di
aver adottato tutte le misure necessarie ed opportune a ridurre il rischio di un
evento criminoso, è connotata da ampi spazi di discrezionalità.
La previsione astratta imposta dalla norma di «chiusura» e i criteri di prevedibilità e prevenibilità lasciano, invero, un ampio margine di incertezza circa l’ampiezza dell’onere preventivo in capo al datore di lavoro con riguardo ad ogni specifico caso concreto.
Ne discende che l’analisi del Giudice nel merito è naturalmente caratterizzata,
nei casi in esame, da una indiscussa estrema discrezionalità valutativa.
Mario Scopinich
( 24 ) Cass. civ., Sez. Lav., 8 aprile 2013, n. 8486.
Tribunale di Venezia, Sez. I, sentenza 4 aprile 2012, n. 670 – Giud. Fidanzia
Corte d’Appello di Venezia, Sez. II, sentenza 9 ottobre 2014 – Giud. Gorja
Esecuzione - Titolo esecutivo - Scrittura privata autenticata - Requisiti di idoneità
Non è sufficiente, affinché la scrittura privata autenticata possa costituire titolo
esecutivo ai sensi dell’art. 474, co. 2, c.p.c., la pattuizione di una penale (pur individuata nel suo ammontare) in mancanza di una precisa determinazione – nel testo
contrattuale o in altri atti intervenuti a sua successiva modifica – del termine da cui
decorre l’obbligo del pagamento della penale stessa.
Con le sentenze in rassegna, il Tribunale di Venezia e, successivamente, la Corte d’Appello di
Venezia, hanno avuto modo di affrontare il tema, scarsamente dibattuto in dottrina e giurisprudenza, dei requisiti che una scrittura privata autenticata deve presentare, al fine di integrare titolo idoneo
a fondare un’esecuzione forzata, ai sensi dell’art. 474, co. 2, c.p.c.
La fattispecie che ha dato luogo alle due decisioni era la seguente.
Con scrittura privata autenticata risalente a fine anno 2008, una Srl concedeva in affitto, ad
un’impresa individuale, un complesso di beni preposto all’esercizio di attività di ristorazione.
Le parti stabilivano che il contratto d’affitto d’azienda avrebbe avuto durata annuale, a partire
dal 1.1.2009. Tale contratto si sarebbe automaticamente rinnovato di anno in anno, salva facoltà di
disdetta, da comunicarsi da una parte all’altra (tramite raccomandata a/r) con preavviso di almeno 3
mesi dalla scadenza naturale o prorogata.
Uno specifico articolo del contratto d’affitto prevedeva inoltre che, alla scadenza prevista dallo
stesso od in caso di sua anticipata risoluzione per qualsiasi causa, la parte affittuaria avrebbe dovuto
riconsegnare alla parte affittante l’azienda, libera da persone o da cose. Le parti prevedevano altresì
che parte affittuaria sarebbe stata in ogni caso tenuta a pagare, all’affittante, una penale contrattualmente predeterminata in Euro 570,00 per ogni giorno di tardata riconsegna dell’azienda, salvo il rilascio della stessa e ogni ulteriore risarcimento del danno.
Il contratto, avente scadenza annuale, veniva prorogato convenzionalmente dalle parti sino a fine febbraio 2010, data in cui sorgeva, in capo all’affittuario, l’obbligo (poi non assolto) di riconsegnare l’azienda concessa in affitto.
Ad oltre un anno dalla scadenza del contratto, l’affittuario non provvedeva alla restituzione dell’azienda e, per tal motivo, l’affittante, apposta la formula esecutiva sulla scrittura privata autenticata,
notificava all’affittuario (nel frattempo ancora in possesso dell’azienda) atto di precetto mediante il
quale, dando atto dell’intervenuta proroga della scadenza naturale del contratto, intimava il pagamento di complessivi Euro 212.465,00 a titolo di penale giornaliera per la mancata restituzione dell’azienda, oltre all’ulteriore penale pari ad Euro 570,00 pro die in ogni caso dovuta fino all’effettivo
rilascio del complesso aziendale.
L’affittuario proponeva opposizione avverso l’atto di precetto notificato, contestando l’effettiva
esistenza di un inadempimento da parte sua ed eccependo l’inesistenza di un valido titolo esecutivo,
non potendo essere ritenuto tale la scrittura privata autenticata notificata dall’affittante unitamente
all’atto di precetto.
L’affittante si costituiva quindi in giudizio chiedendo, in via principale, il rigetto di tutte le domande proposte con la svolta opposizione (e, di conseguenza, la conferma della validità ed efficacia
del titolo azionato e del precetto oggetto di opposizione). L’affittante, in via riconvenzionale, chiedeva in ogni caso che, accertato l’inadempimento dell’affittuario, quest’ultimo venisse condannato al
18
GIURISPRUDENZA
pagamento della somma precettata, oggetto di quotidiani aggiornamenti ed aumenti, dal momento
che il debitore, alla data di costituzione in giudizio, non risultava aver ancora restituito l’azienda.
Istruita la causa, il Tribunale Ordinario di Venezia, per la parte che interessa ai fini della presente trattazione, con sentenza n. 670 del 4.4.2012 così statuiva:
[Omissis] “Va premesso che, a norma dell’art. 474 c.p.c. la scrittura privata autenticata, per assumere qualità di titolo esecutivo, deve recare l’indicazione di un’obbligazione certa e determinata. Anche,
secondo la giurisprudenza anteriore alla novella del 2006 che ha introdotto tra i titoli esecutivi le scritture private (relativamente all’obbligazione di pagamento di una somma di denaro), l’atto ricevuto da
notaio, per avere qualità di titolo esecutivo relativamente (e limitatamente) ad un’obbligazione di somma di denaro, generata dal negozio in esso documentato, deve contenere gli elementi strutturali essenziali dell’obbligazione medesima che sono indispensabili in relazione alla funzione esecutiva assegnata
all’atto, tra i quali sono anzitutto quelli attinenti all’esistenza di una determinata e certa obbligazione
(vedi Cass. 18.1.1983 n. 477; vedi anche Cass. 19.7.2005 n. 15219).
Dall’esame dell’art. 18 del contratto di affitto d’azienda non può certo sostenersi che tale clausola
prevedesse a carico dell’affittuario una obbligazione di denaro certa e determinata, essendo stato previsto il pagamento di una penale giornaliera ‘qualora l’intera azienda non venisse riconsegnata il giorno
della scadenza del presente atto o in caso di sua anticipata risoluzione’, circostanze che al momento della
stipula erano assolutamente incerte ed il cui verificarsi poteva essere accertato solo dopo la scadenza del
contratto o in caso di sua anticipata risoluzione (evento questo a sua volta incerto).
Va peraltro osservato che la società opposta fa decorrere la penale non dal momento della risoluzione di diritto del contratto di affitto d’azienda o dalla scadenza contrattuale ‘naturale’ originariamente
prevista ma dal 1o marzo 2010, data di asserita scadenza del termine di proroga concesso all’affittuario
per la restituzione dell’azienda, termine di cui non vi era traccia nell’asserito titolo esecutivo. Ne consegue che l’opposizione appare meritevole di accoglimento con conseguente declaratoria di nullità del precetto” [omissis].
Nondimeno, il Tribunale di Venezia accertava l’inadempimento dell’opponente alle obbligazioni assunte col contratto d’affitto d’azienda citato e, per l’effetto, accoglieva la domanda riconvenzionale svolta dall’affittante condannando l’affittuario al pagamento della penale prevista nella richiamata scrittura privata autenticata.
L’affittuario proponeva quindi appello avverso la sopra citata sentenza, lamentando l’inammissibilità della domanda riconvenzionale svolta dall’affittante in primo grado ed eccependo l’insussistenza di qualsivoglia diritto, in capo a quest’ultimo, al pagamento della penale giornaliera prevista dal
contratto.
Costituitosi in giudizio, l’affittante proponeva comunque appello incidentale avverso la parte di
sentenza che aveva dichiarato la nullità dell’atto di precetto e l’inidoneità del contratto di affitto
d’azienda, notificato unitamente allo stesso, a costituire titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c.
La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza n. 2279 del 23.9.2014, rigettava l’appello proposto
dall’affittuario, confermando la sentenza di primo grado, ma, in relazione alla questione oggetto della presente trattazione, rigettava l’appello incidentale dell’affittante e così stabiliva:
[Omissis] “Anche il gravame incidentale, mosso dalla Srl [...] avverso la statuizione di nullità del
precetto per inidoneità della scrittura privata ad esser titolo esecutivo, s’appalesa priva di pregio giuridico.
Anche questa Corte condivide l’opzione interpretativa della norma, portata in art. 474 n. 2 c.p.c.,
adottata dal Giudice lagunare. Difatti, la norma in questione esige che la somma di denaro sia determinata in scrittura privata e, non già, determinabile in forza di altri elementi non presenti nel patto. Nella
specie, come rettamente evidenziato dal Tribunale, l’ammontare giornaliero della penale risulta, bensì,
stabilito nell’art. 18 del contratto d’affitto redatto per scrittura privata autenticata, ma ovviamente rimane da accertare l’inadempimento e la durata dello stesso al fine di azionare l’obbligazione ivi prevista. Dunque non tutti gli elementi essenziali, atti a determinare l’ammontare dell’obbligazione azionata
esecutivamente, risultano contenuti nella scrittura privata ritenuta titolo esecutivo” [omissis].
SCRITTURA PRIVATA AUTENTICATA: NATURA DI TITOLO ESECUTIVO
19
SCRITTURA PRIVATA AUTENTICATA:
NATURA DI TITOLO ESECUTIVO
Le due decisioni in rassegna, concordi nel non ritenere adeguatamente individuati, nel contratto stipulato dalle parti, gli elementi essenziali dell’obbligazione di
pagamento dedotta in atto di precetto (rendendo, di fatto, il credito vantato non
certo, liquido ed esigibile), offrono lo spunto per un’analisi dei requisiti che una
scrittura privata autenticata deve avere, al fine di essere considerata valido titolo
esecutivo ai sensi dell’art. 474, co. 2, c.p.c.
La natura particolare di tal tipo di documento ha sicuramente giocato a favore
del suo inserimento nel novero dei titoli esecutivi a formazione stragiudiziale. Come noto, infatti, solo a seguito della riforma portata dalla l. n. 80/05, la scrittura
privata autenticata è riconosciuta essere titolo esecutivo «relativamente alle somme di denaro in essa contenute» (1).
La ratio di tale previsione è rinvenibile nel tentativo di limitare l’accesso all’ordinario processo di cognizione, agevolando l’anticipata attuazione dei crediti in
presenza di un atto che sia in grado di dimostrare, con adeguata certezza, l’esistenza di un diritto di credito (2).
Tale attuazione anticipata viene consentita sulla base di un titolo che, per sua
natura, è idoneo a garantire una sorta di fumus boni iuris del diritto del creditore
procedente, al quale viene dunque concesso un vantaggio processuale non indiffe-
( 1 ) Art. 474 Titolo esecutivo - L’esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo, liquido ed esigibile. Sono titoli esecutivi: 1) le sentenze, i provvedimenti e gli altri
atti ai quali la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva; 2) le scritture private autenticate, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in esse contenute, le cambiali, nonché gli altri titoli di credito ai quali la legge attribuisce espressamente la sua stessa efficacia; 3) gli atti ricevuti da notaio o da altro
pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli. L’esecuzione forzata per consegna o rilascio non può
aver luogo che in virtù dei titoli esecutivi di cui ai numeri 1) e 3) del secondo comma. Il precetto deve contenere trascrizione integrale, ai sensi dell’articolo 480, secondo comma, delle scritture private autenticate
di cui al numero 2) del secondo comma.
( 2 ) Cavuoto, Il titolo esecutivo e il pignoramento, in Rivista dell’esecuzione forzata, n. 1/2007. Nel medesimo senso, Ziino, in Cipriani-Monteleone (a cura di), La riforma del processo civile, Padova, 2007,
196; Cecchella, in Bove-Cecchella, Il nuovo processo civile, Milano, 2006, 13-14; Proto Pisani, Verso
la residualità del processo a cognizione piena, in Foro italiano, 5/2006, pp. 54 ss.
A seguito della modifica dell’art. 474 c.p.c. non sono mancate le critiche di chi ha rilevato che, nella sostanza, il Pubblico Ufficiale ben può omettere qualsiasi indagine circa l’effettiva volontà delle parti, da qui
la possibilità che l’atto autenticato sia, sin dall’inizio, nullo per vizi della volontà: Petrelli, Atto pubblico,
scrittura privata autenticata e titolo esecutivo, in Notariato, n. 5/2005, pp. 547 ss. Rispetto all’atto pubblico,
la scrittura privata presenta sicuramente maggiori rischi di alterazione. Non può poi escludersi, a priori,
che le parti si limitino a presentare al Pubblico Ufficiale (il quale non interverrà quindi in alcun modo sulla
«formazione» del titolo) un testo contrattuale già predisposto (anche se ciò raramente avviene), chiedendone semplicemente l’autentica. Non sfugge quindi che, in questi casi, vi è un significativo incremento del
margine di incertezza del credito contenuto nel titolo, con maggiori possibilità che lo stesso venga poi contestato.
20
GIURISPRUDENZA
rente nei confronti del proprio debitore (3). La scrittura privata autenticata consente infatti di individuare con certezza la provenienza delle dichiarazioni in essa
contenute (art. 2702 c.c.) e, almeno dal punto di vista formale, è soggetta ad un
controllo di legalità da parte del pubblico ufficiale che la autentica (il quale, oltre
all’identificabilità dei sottoscrittori, dovrà verificare anche la legalità dell’atto sottopostogli e, nel caso di rilevazione di vizi, rifiutare il suo officio (4)).
Il vantaggio processuale concesso al creditore viene tuttavia adeguatamente
compensato dalla possibilità, per il debitore, di ricorrere allo strumento dell’opposizione all’esecuzione per paralizzare l’azione esecutiva considerata ingiusta (anche se non sfugge che l’intento deflattivo del contenzioso possa venire frustrato
dal ricorso improprio a tal strumento per fini anche meramente dilatori) (5).
Non si deve poi dimenticare che, all’interno del nostro ordinamento, tal tipo di
documento ha da sempre goduto di un’efficacia «privilegiata» (6). Tale aspetto ha
sicuramente fatto sì che il legislatore, sull’onda di quanto ormai da diversi anni auspicato da dalla più autorevole dottrina, nel 2005 decidesse infine di attribuire alla
scrittura privata autenticata (anche) valore di titolo esecutivo.
Non tutte le scritture private autenticate, tuttavia, sono idonee a costituire titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c. Il credito portato dalla scrittura deve infatti
essere liquido, certo, ed esigibile (7).
Il credito è liquido quando è determinato nel suo ammontare o se, nell’atto, sono
richiamati i criteri (di calcolo, anche puramente matematici, basati su dati certi e positivi) per una facile determinazione dello stesso. Il credito è certo se lo stesso risulta
chiaramente nel suo contenuto e nei suoi limiti dagli elementi indicati nel titolo esecutivo. Certezza del diritto indica altresì l’esistenza di un creditore ben individuato (8). Il
credito infine è esigibile quando non è sottoposto a condizione o a termine iniziale.
Secondo il Tribunale di Venezia, la clausola inserita nel contratto dalle parti (9)
non prevedeva «una obbligazione di denaro certa e determinata», dal momento che
( 3 ) Vaccarella, Diffusione e controllo dei titoli esecutivi non giudiziali, in Rivista di diritto processuale,
1992, p. 53; Mazzarella, Contributo allo studio del titolo esecutivo, Milano, 1965, pp. 127 ss., poi ripresi
da Petrelli, op. cit., p. 545.
( 4 ) Si veda, a questo riguardo, l’art. 28 della l. n. 89 del 16.2.1913.
( 5 ) Non è quindi un caso se il legislatore, al momento di introdurre la modifica al secondo comma dell’art. 474 c.p.c., ha contestualmente modificato anche l’art. 615 c.p.c., il quale ora prevede la possibilità,
per il Giudice, di sospendere l’efficacia esecutiva del titolo a seguito dell’opposizione al precetto, Acone,
in AA.VV., Il processo civile di riforma in riforma – parte II, Milano, 2006, p. 6.
( 6 ) La scrittura privata autenticata, ai sensi degli artt. 2657 e 2835 c.c. costituisce titolo per la trascrizione nei pubblici registri e per l’iscrizione di Ipoteca, Cavuoto, op. cit.
( 7 ) Art. 474, co. 1, c.p.c.
( 8 ) Roveda, Mutui Ipotecari, Riflessioni e Tecniche contrattuali, in Giornate di studio del Convegno di
Bergamo 13 novembre 1998, Milano, 1999, p. 426.
( 9 ) Che, si ricorda, prevedeva il pagamento di una penale d’importo predeterminato, da corrispondersi per ogni giorno di tardato rilascio dell’azienda.
SCRITTURA PRIVATA AUTENTICATA: NATURA DI TITOLO ESECUTIVO
21
le circostanze che avrebbero legittimato l’affittante a pretendere il pagamento della penale, al momento della stipula «erano assolutamente incerte» ed il loro verificarsi avrebbe potuto «essere accertato solo dopo la scadenza del contratto o in caso
di sua anticipata risoluzione (evento questo a sua volta incerto)».
La Corte d’Appello di Venezia, non spendendosi in un’analisi più approfondita della questione, si appiattiva sulle considerazioni svolte dal Giudice di prime
cure ma precisava che, pur essendo l’ammontare giornaliero della penale chiaramente individuato, rimaneva in ogni caso da accertare l’inadempimento e la durata dello stesso, «al fine di azionare l’obbligazione ivi prevista».
Non sfugge certo che, per sua stessa natura, l’inadempimento della parte è
condizione di per sé sempre incerta. Sarà quindi pressoché sempre impossibile
predeterminare, in un contratto, il momento esatto in cui il debitore si renderà
inadempiente (e non solo perché il creditore, per ovvi motivi, si augurerà sempre
che tale evenienza non si verifichi).
La mancanza dell’indicazione del momento esatto dell’inadempimento, quindi, non può impedire la formazione di un valido titolo esecutivo. Diversamente ragionando, si giungerebbe all’assurdo risultato di privare di ogni tipo di efficacia le
scritture private autenticate ed addirittura gli atti pubblici (costituenti titolo esecutivo, ex art. 474 c.p.c., da ben prima della novella del 2005). Si pensi solo, a titolo di mero esempio, al contratto di mutuo fondiario. Sulla base di tale contratto,
redatto come noto nella forma di atto pubblico, è pacificamente riconosciuta la facoltà alle banche di agire nei confronti del mutuatario per ottenere il pagamento
delle rate di mutuo scadute e degli interessi maturati. La situazione è del tutto simile a quella di cui si discute in questa sede: vi è la predeterminazione di un importo dovuto dal debitore e sono forniti tutti gli elementi (matematici e di calcolo,
quali l’importo delle rate, la loro scadenza ed il saggio degli interessi) utili per calcolare, a partire dalla data in cui si è verificato l’inadempimento del mutuatario al
suo obbligo di restituzione delle somme mutuate, l’importo preciso del credito
(rendendo lo stesso liquido).
Né varrebbe obbiettare che tale contratto possa in qualche modo aver una forza maggiore rispetto alla scrittura privata autenticata solo per il fatto di essere redatto nella forma di atto pubblico, data la scelta del legislatore di equiparare, quod
executionem, questi due atti (10).
( 10 ) Non sfugge l’esistenza di maggiori garanzie, soprattutto in ordine all’assenza di vizi formali e sostanziali, fornite da un atto in cui il Notaio abbia concorso sin dall’inizio a formarne il contenuto. Di fatto,
tuttavia, la norma non dà ragione di ritenere che nell’atto pubblico, solo per le diverse modalità con cui
viene formato, alle parti sia consentita una meno precisa individuazione degli elementi essenziali dell’obbligazione.
22
GIURISPRUDENZA
La giurisprudenza più accorta ha più volte sottolineato che il creditore non
può essere costretto ad agire in giudizio per ottenere una condanna al pagamento
che si risolva, unicamente, in una miglior espressione, in termini puramente monetari, dell’obbligazione di pagamento già contenuta e precisamente individuata all’interno del titolo azionato (11).
Non si ritiene quindi che la previsione di una penale, d’importo predeterminato e facilmente calcolabile nel suo ammontare (a partire dalla data di effettivo inadempimento del debitore, con semplici operazioni aritmetiche sulla base dell’effettiva durata dell’inadempimento stesso), sia idonea a rendere il credito azionato
tramite la scrittura privata autenticata illiquido.
Ma cosa dire in ordine agli altri due requisiti della certezza ed esigibilità?
Secondo la dottrina ormai prevalente, è necessario e sufficiente che i requisiti
di liquidità, certezza ed esigibilità del credito risultino tutti e tre sussistenti non al
momento della formazione del titolo esecutivo (e dell’apposizione della formula
sullo stesso), bensì all’atto della notifica dell’atto di precetto (12), ossia quando
eventuali fatti impeditivi ed estintivi della pretesa creditoria possono essere rilevati, dal debitore, nell’eventuale fase di opposizione. Nulla vieta quindi alle parti di
meglio specificare – in un momento successivo (ma sempre antecedente la notifica
dell’atto di precetto) – il contenuto dell’obbligazione o, addirittura, modificare i
termini della stessa (13).
Posta quindi l’ammissibilità di un titolo esecutivo a formazione od integrazione «progressiva», (e al di là dei più semplici casi in cui insorgenza del credito è data dalla scadenza del termine chiaramente previsto dal contratto (14), dalla liquidazione di interessi ad un tasso predeterminato ecc.), il verificarsi, anche successivo,
dei tre requisiti della certezza, liquidità ed esigibilità dovrà comunque essere accertato in un altro documento che dia atto del sopravvenire dei tre requisiti e che
( 11 ) Ex multis Trib. Milano 27.10.2009. Ad onor del vero, la quasi totalità delle pronunce di segno analogo a questa citata, ha ad oggetto titoli esecutivi di formazione giudiziale (sentenze o decreti ingiuntivi su
tutti). I principi di diritto ivi enunciati, tuttavia, non possono che essere ritenuti validi anche nel caso si discuta di titoli esecutivi di formazione stragiudiziale. Una volta in possesso dei requisiti richiesti dall’art. 474
c.p.c., infatti, non vi è ragione per effettuare delle distinzioni in base alla provenienza del titolo stesso, proprio perché la normativa prevede una parificazione tra i titoli elencati nel summenzionato articolo.
( 12 ) Petrelli, op. cit., pp. 555 ss., secondo il quale, (richiamando quanto affermato – molto addietro –
da Bonsignori, in Assegnazione Forzata e distribuzione del ricavato, Milano, 1962, pp. 351 ss.) «non esiste
[...] nessuna disposizione dalla quale possa espressamente desumersi che i tre requisiti suddetti (certezza,
liquidità ed esigibilità del credito), debbano esistere sin dall’inizio». In senso conforme, più risalente, Massari, Titolo esecutivo, in Novissimo digesto italiano, XIX, Torino, 1973, p. 377.
( 13 ) Si pensi al contratto che, ab origine, non preveda una scadenza precisa (la cui determinazione può
avvenire in un secondo momento) o, come nel caso di cui qui ci occupa, al contratto la cui scadenza venga
prorogata.
( 14 ) Di per sé verificabile senza particolari sforzi, a patto che si tratti di un termine certo nell’an e nel
quando.
SCRITTURA PRIVATA AUTENTICATA: NATURA DI TITOLO ESECUTIVO
23
abbia le medesime caratteristiche e forme di quello oggetto di integrazione (15).
Ed è questo il motivo (non ben evidenziato e forse non ben compreso dalla
stessa Corte d’Appello, giunta poi comunque alla medesima conclusione) che, all’evidenza, ha portato il Tribunale di Venezia a dichiarare la nullità del titolo esecutivo e del precetto notificati.
Il Giudice di prime cure, infatti, osservava, seppur in via incidentale, «che l’affittante, nel proprio atto di precetto, faceva decorrere la penale, non dal momento
della risoluzione di diritto del contratto di affitto d’azienda o dalla scadenza contrattuale “naturale” originariamente prevista, ma dal 1o marzo 2010, data di asserita (la
sottolineatura è dello scrivente) scadenza del termine di proroga concesso all’affittuario per la restituzione dell’azienda, termine di cui non vi era traccia nell’asserito
titolo esecutivo».
Il precetto notificato pertanto, aveva ragione di essere dichiarato nullo non
tanto perché il credito non fosse determinabile (essendo pacifico che erano contenuti nella scrittura privata tutti gli elementi per procedere ad un facile conteggio
degli importi dovuti), quanto piuttosto perché non veniva adeguatamente documentata la sussistenza degli elementi essenziali per rendere il credito vantato certo
e esigibile. Non risultava infatti chiaramente specificato quale fosse il termine a
partire dal quale la penale doveva considerarsi dovuta e quindi, in via mediata, da
cui doveva desumersi l’inadempimento dell’affittuario (16). Il creditore, nel proprio atto di precetto, dava infatti atto dell’intervenuta modifica ed integrazione del
testo contrattuale, limitandosi ad affermare che il contratto doveva intendersi risolto alla data del 28.2.2010. Non veniva tuttavia prodotto quell’atto modificativo
delle precedenti volontà delle parti – che avrebbe dovuto essere redatto sotto forma di scrittura privata autenticata, stando a quanto sopra esposto (17).
Da qui probabilmente la statuizione del Giudice, secondo il quale l’affittante
non era stato in grado di provare l’inadempimento (e la durata dello stesso) del
proprio debitore.
Non tanto, quindi, veniva richiesto di provare l’effettiva mancata restituzione
( 15 ) Condizione necessaria affinché l’atto integrativo, redatto nelle forme previste anche dall’art. 474
c.p.c., possa essere ritenuto valido titolo esecutivo (da solo o unitamente all’atto che va a modificare o ad
integrare). Sul punto Massari, op. cit., p. 379, il quale ritiene «che il verificarsi successivo e tempestivo della
certezza, liquidità ed esigibilità debba essere accertato da altro atto o provvedimento della stessa indole e forma del titolo esecutivo da integrare, con l’espressa indicazione della destinazione specifica ad integrare appunto tale titolo».
( 16 ) Volendo anche andare oltre il ragionamento del Giudice, infatti, non è nemmeno da darsi per
scontato che la proroga della scadenza del contratto faccia poi venir meno, come sua naturale conseguenza, il rinnovo automatico dello stesso alla nuova scadenza.
( 17 ) Sul punto, particolarmente chiarificatrice, Cass. civ. n. 6228 del 27.11.1979, in Foro Italiano, 1979,
c. 3060, la quale ha escluso che possa essere fatta valere come titolo esecutivo la dichiarazione di proroga
del termine, che non abbia la stessa forma dell’atto costitutivo del debito.
24
GIURISPRUDENZA
del complesso di beni (prova – peraltro negativa – che non è richiesta nella fase di
notifica del precetto, essendo sempre salva la facoltà del debitore, in sede di opposizione, di provare l’effettivo adempimento (18)), quanto piuttosto l’esistenza di un
termine preciso da cui far decorrere il pagamento della penale e, di conseguenza,
l’effettiva durata dell’inadempimento.
Diversamente ritenendo, non si spiegherebbe per qual motivo il Tribunale di
Venezia, pur annullando l’atto di precetto, abbia poi comunque condannato l’affittuario al pagamento della penale, in accoglimento della domanda riconvenzionale svolta dall’affittante.
Solo in sede di opposizione, infatti, il giudice dell’esecuzione ha potuto prendere cognizione di quegli ulteriori elementi (proroga del contratto sino a fine febbraio 2010 con risoluzione dello stesso in tale data e conseguente insorgenza dell’obbligo di restituzione dell’azienda) necessari a provare l’esistenza di una precisa
obbligazione di pagamento.
Non può quindi dubitarsi che la previsione contrattuale di una penale, in
astratto, risulti idonea a far sì che la scrittura privata autenticata costituisca titolo
esecutivo ai sensi del secondo comma dell’art. 474 c.p.c. È tuttavia necessario che
all’interno del contratto stesso siano presenti gli elementi minimi (importo della
penale, data di decorrenza ecc.) utili, anche in via induttiva, a fornire gli elementi
per il calcolo del credito al momento della notifica dell’atto precetto e per consentire una prima, anche se sommaria, delibazione circa la certezza ed esigibilità del
credito specificato nel precetto stesso.
Tali elementi rischiano di non essere ritenuti sussistenti, nell’eventualità in cui
l’originaria convenzione sia soggetta ad integrazioni o modifiche che le parti non
siano in grado di provare nelle forme richieste dal legislatore.
Sarà quindi necessario che le parti abbiano sempre cura di apportare eventuali
modifiche ed integrazioni all’accordo originario nelle stesse forme in cui era stato
redatto l’accordo stesso, onde premunirsi di quello che, di fatto, risulta essere un
«nuovo» titolo esecutivo, nato dall’unione del titolo originario alla scrittura introducente le modifiche o gli elementi necessari alla precisa individuazione dell’obbligazione a carico del debitore (che, pertanto, andrà allegata anch’essa, si ritiene,
all’atto di precetto notificato).
Francesco Rizzo
( 18 ) Petrelli, op. cit., p. 560, sullo spunto della, pur risalente, Cass. 11 giugno 1969, n. 2069, in Giurisprudenza italiana, 1970, I, 1, c. 1855, che chiarisce che il creditore, tramite il titolo esecutivo, ha unicamente l’onere di dimostrare l’esistenza del vinculum iuris e l’attualità del suo credito, spettando poi al debitore far valere, in sede d’opposizione all’esecuzione, l’inesistenza dell’inadempimento.
CASO «ILVA». COMPROMESSO TRA DIRITTO ALLA SALUTE
E DIRITTO AL LAVORO
1. Si richiama sul tema il recente splendido scritto del prof. Paolo Tonini (Ordinario di diritto processuale penale nell’Università di Firenze), pubblicato sul n.
10/14 di «Diritto Penale e Processo»: tratta delle rilevanti novità (D.L. 3.12.12, n.
207 e succ.) in materia di sequestro preventivo introdotte con gli interventi legislativi (e poi governativi) conseguenti ai sequestri degli impianti ILVA disposti dal
luglio 2012 dall’Autorità giudiziaria tarantina. Vicenda che la Commissione Cultura della Camera Penale Veneziana ha fatto oggetto del Seminario 25.10.13 (come
Tonini ha avuto la bontà di ricordare nella Nota 12) per l’evidente incidenza del
bilanciamento del «diritto al lavoro» con il «diritto alla salute»: bilanciamento sancito dalla sentenza 9.4.13, n. 85 Corte Costituzionale chiamata a dirimere il contrasto fra interventi giudiziari e governativi.
2. In punto «nuovo» sequestro preventivo, nel rimandare alla trattazione di
Tonini si ricorda che è ora consentito – in tutti gli impianti ILVA in Italia, ma (forse) anche in tutte le aziende cd. «strategiche», cioè con più di 200 dipendenti – di
proseguire la produzione pur in costanza di sequestro anche se sia stato appena dato il via al programma di risanamento: in detta situazione è quindi possibile, non
impedire, ma solo sanzionare penalmente la tenuta di condotte cui possano venire
correlate malattie professionali alla fine magari letali.
3. In ordine alla disciplina introdotta emergono allora forti perplessità; che
vengono confermate dalle conclusioni cui l’illustre Autore giunge con logica rigorosa: l’essere irragionevole (quindi in contrasto con l’art. 3 Cost.?) che la nuova disciplina del sequestro preventivo possa venire applicata soltanto alle imprese strategiche (meno dell’1%) anziché a tutte le imprese.
3.1. La svolta è stata sbattuta in prima pagina dal caso ILVA, ma le avvisaglie
sono risalenti. Dopo decenni in cui la giurisprudenza di legittimità in materia di
26
GIURISPRUDENZA
infortuni sul lavoro ha sancito drasticamente l’obbligatorietà dell’adozione della
migliore tecnologia nell’esercizio dell’impresa; dopo la sentenza n. 127/90 Corte
Costituzionale che ha ribadito l’incomprimibilità del diritto alla salute da parte di
altri diritti costituzionali; erano tuttavia già intervenuti (come ricorda Tonini) la
sentenza n. 250/09 della Consulta richiedente un (meno categorico) «costante progressivo adeguamento» alla migliore tecnologia (quindi con tempi di attuazione
ampiamente discrezionali), nonché l’articolo 15 L. n. 231/01 sulla responsabilità
da reato degli Enti disponente in caso di sanzione interdittiva, non la cessazione
dell’attività, ma la nomina di un commissario giudiziale per proseguire la produzione. Dette avvisaglie non erano tuttavia inequivoche: la sentenza n. 250/09 è piuttosto generica (essendo stata emessa su temi relativi al conflitto di competenze
Stato/Regioni); l’art. 15 L. n. 231/01 invece è senz’altro contradittorio perché, da
un lato, nemmeno stabilisce i tempi secondo cui il commissario debba (mentre la
produzione prosegue) introdurre ed applicare i modelli idonei a prevenire i reati
(comma 3), dall’altro, dispone addirittura la confisca del profitto derivante dalla
prosecuzione dell’attività (comma 4).
3.2. Ma ora c’è la nuova disciplina del sequestro preventivo. Il cui nucleo essenziale è senza dubbio (come detto) l’essere stata consentita la prosecuzione dell’attività anche solo appena iniziati (tantomeno completati) gli interventi risanatori: in una fase cioè in cui è impensabile che continuando la produzione non permanga – a fronte di una prolungata durata temporale (3 anni per l’ILVA) – la pregiudizievole esposizione dei lavoratori e della cittadinanza viciniore all’inquinamento (benzopirene e diossina, sostanze cancerogene, per l’ILVA). È vero che
l’AIA (autorizzazione integrata ambientale) imponeva per l’ILVA il rispetto immediato dei limiti massimi di emissione; e che nessuno esclude la legittimità di un
minimo di «progressione» nell’attuazione del risanamento: qualora questo venisse
attuato in pochi mesi, potrebbe dunque essere accettabile che la produzione prosegua. Ma la vicenda ILVA è paradigmatica dei guasti conseguenti al self restraint
della Corte nell’affermare, formalizzare la comprimibilità del diritto alla salute: tre
anni di produzione in presenza di alti livelli documentati di inquinamento da sostanze cancerogene e di alte evidenze epidemiologiche di patologie professionali
anche mortali rendono manifesto a tutti che il Governo e l’Amministrazione si sono sentiti pienamente autorizzati a non aver ritegno nel consentire la prosecuzione
dell’attività per un tempo abbondantemente sufficiente (come è ben noto) a
causare/rinforzare/concausare le citate patologie.
Quanto successivamente avvenuto ne è la conferma: a metà 2013, circa 6 mesi
dopo il Decreto n. 207, il Governo ha dovuto sostituire con un Commissario
straordinario la gestione privata della Società che nel produrre non risanava e con-
CASO «ILVA». COMPROMESSO TRA DIRITTO ALLA SALUTE E DIRITTO AL LAVORO
27
tinuava ad inquinare; ma nemmeno questa mossa è stata risolutiva, tanto che recentemente, nel dicembre 2014, dopo ben due anni dal citato Decreto, l’impresa è
stata affidata dal Governo (sia pure in via transitoria) ad una gestione pubblicistica, disponendo una rilevantissima immissione di risorse finanziarie pubbliche.
3.3. Le ulteriori preoccupazioni sono (come detto) che il nuovo regime del sequestro preventivo venga esteso dalle forse 4.000 imprese strategiche a tutte le imprese. Ma anche che la giurisprudenza di legittimità si ammorbidisca in ordine alla
finora ritenuta obbligatorietà per le imprese di adottare con la massima sollecitudine la migliore tecnologia per la prevenzione antinfortunistica, con le immaginabili conseguenze in ordine all’incremento di malattie professionali alla fine anche
mortali.
4. Per chi ha a cuore il diritto al lavoro e più ancora il diritto alla salute, si pone con forza l’impegno – non de jure condendo, ma de jure interpretando – per la
migliore soluzione possibile della problematica.
4.1. La citata sentenza 16.3.90, n. 127 («interpretativa di rigetto») ha sottoposto al vaglio costituzionale l’art. 2 D.P.R. 24.5.88, n. 203, norma in tema di
contenimento/riduzione delle emissioni inquinanti da parte degli stabilimenti industriali, che appariva subordinare l’adozione della «migliore tecnologia disponibile» (n. 7) alla condizione che «non comporti costi eccessivi».
La sentenza ha subito respinto l’interpretazione meramente letterale: «non
sembra possibile perciò che, con una sorprendente “contradictio in adiecto’, il legislatore, da una parte ponga “limiti massimi insuperabili” per contenere l’inquinamento
“a livelli accettabili” per la detta fondamentale protezione e, dall’altra, consenta all’imprenditore di non adottare il sistema tecnologico, attraverso il quale soltanto
quella protezione si rende possibile, quando il costo risulti eccessivo». La stessa sentenza ha poi richiamato l’art. 20 L. n. 615/66, «che, riferendosi anche al regolamento di esecuzione, prescriveva che gli stabilimenti industriali dovessero “... possedere
impianti, installazioni o dispositivi tali da contenere, entro i più ristretti limiti che il
progresso della tecnica consenta, l’emissione di fumi o gas o polveri o esalazioni
che, oltre a costituire comunque pericolo per la salute pubblica, possono contribuire
all’inquinamento atmosferico”. Nessun accenno all’onerosità delle installazioni» ...
«In altri termini, nonostante i regolamenti di esecuzione fissassero nel corso degli anni nuovi limiti inquinanti, aggiornati al progresso ed alla scienza (cfr. D.P.R. n. 322/
71), l’imprenditore comunque era tenuto ai più ristretti limiti consentiti dal progresso della tecnica: e, perciò, anche al di sotto dei limiti massimi se la tecnica lo avesse
consentito». La sentenza in esame, dopo un ampio richiamo alle normative euro-
28
GIURISPRUDENZA
pee, ha infine concluso che «il limite massimo di emissione inquinante, tenuto conto dei criteri sopra accennati, non potrà mai superare quello ultimo assoluto e indefettibile rappresentato dalla tollerabilità per la tutela della salute umana e dell’ambiente in cui l’uomo vive: tutela affidata al principio fondamentale di cui all’art. 32
Cost., cui lo stesso articolo 41 c. 2 si richiama».
La sentenza ha peraltro concesso (solo) un’eccezione: «il limite del costo eccessivo viene in causa soltanto quando quel limite ultimo sia stato rispettato: nel senso
cioè che l’Autorità non potrebbe imporre nuove tecnologie disponibili, capaci di “ridurre ulteriormente” il livello di inquinamento, se queste risultino eccessivamente
costose per la categoria cui l’impresa appartiene». Ma nemmeno questa eccezione è
consentita «quando si tratta di “zone particolarmente inquinate” [caso ILVA], “o
per specifiche esigenze di tutela ambientale” ...: nel qual caso i limiti delle emissioni
possono essere persino “più restrittivi degli stessi valori minimi” definiti nelle linee
guida». E il giudice, se in linea generale deve presumere che i limiti fissati dall’Autorità siano congrui, «ben può disporre indagini scientifiche atte a stabilire la compatibilità del limite massimo delle emissioni con la loro tollerabilità, traendone le
conseguenze giuridiche del caso».
La sentenza esaminata (relatore Ettore Gallo) non ha certo bisogno di commenti. È solo il caso di ricordare che il commento (favorevole) di Violini (comparso all’epoca su Giustizia Costituzionale, 1990, 727) intitolava «Protezione della
salute e dell’ambiente “ad ogni costo”» e concludeva trattarsi di una presa di posizione che appariva di «estrema radicalità».
4.2. Lo stesso art. 32 Cost. è ora divenuto con la citata sentenza n. 85/13 (cui
si rimanda) suscettibile di bilanciamento: è dunque cambiata, non la norma della
Costituzione, ma l’interpretazione della Corte. E tutti ricordano le condizioni
industriali/sindacali e la crisi economico/finanziaria nel cui infuriare detta sentenza è intervenuta.
4.3. Il diritto alla salute appare il più importante dei diritti umani, questi una
categoria speciale fra i diritti costituzionali: diritto secondo cui, in ordine all’attività lavorativa, nessuno deve ammalarsi o morire perché lavora, mentre i lavori che
non salvaguardano detta tutela vanno impediti perché illeciti. E tra coloro che debbono farsi carico di ciò – anche con l’eventuale ricorso al sequestro preventivo –
non possono non farsi rientrare anche quei magistrati che inquisiscono fatti di reato cui siano più o meno direttamente correlabili le note patologie.
Il tema dovrebbe essere, dunque, non solo e non tanto (l’estensione della nuova disciplina del sequestro preventivo a tutte le imprese anziché alle sole imprese
strategiche, come sostiene Tonini, ma) l’incomprimibilità del diritto alla salute (che
CASO «ILVA». COMPROMESSO TRA DIRITTO ALLA SALUTE E DIRITTO AL LAVORO
29
la Carta qualifica «fondamentale») rispetto alle esigenze della produzione, con la
conseguente illegittimità di tutte quelle normative che contrastino con il precetto
così individuato dell’art. 32 Cost.
Ciò implica ovviamente un impegno degli operatori giudiziari, al fine di ottenere un ripensamento della Corte Costituzionale ed una sentenza meno «politica».
5. Certo va posto il problema, in questi anni sempre più grave, della salvaguardia anche dei posti di lavoro: ma è la soluzione data, che deve essere diversa. La
quale è stata in piccola parte già additata proprio nella citata recente gestione pubblicistica istituita dal Governo per l’ILVA; che prevede però la prosecuzione dell’attività (ancora per 3 anni) a mezzo di impianti tuttora inquinanti, con la conseguente prolungata pregiudizievole esposizione di maestranze e cittadinanza a sostanze cancerogene. I miliardi ora stanziati dal Governo per l’ILVA avrebbero
avuto migliore destinazione nel dicembre 2012 (quando venne emesso il citato Decreto), cioè all’inizio dell’operazione: l’intervento pubblicistico avrebbe allora potuto prevedere, nel mentre l’impresa veniva chiusa e risanata, la cassa integrazione
guadagni a retribuzione piena dei lavoratori. I finanziamenti per non pregiudicare
la salute vanno trovati, dovendo avere precedenza su altre destinazioni; ora si è visto che detti finanziamenti si potevano trovare, ma né allora si è ritenuto né ora si
ritiene di poter rispettare il diritto alla salute.
Elio Zaffalon
L’ OPERAZIONE DECISORIA
(RECENSIONE A L. DE CATALDO NEUBURGER,
L’OPERAZIONE DECISORIA: DA EMANAZIONE DIVINA
ALLA PROVA SCIENTIFICA)
L’operazione decisoria, che non si esaurisce nella decisione giudiziaria, è stata
a lungo studiata nel contesto tradizionale del diritto come momento espressivo
della razionalità umana.
Per lungo tempo le teorie del pensiero razionale hanno tenuto ai margini l’incertezza e tutto ciò che non era misurabile, come le emozioni e l’intuito, assumendo il ragionamento umano nei termini di un’attività retta da leggi formali.
In realtà gli studiosi dei processi cognitivi hanno ampiamente dimostrato come
una gran parte delle nostre decisioni quotidiane si basi sui processi mentali che
«bypassano» la razionalità normativa.
Capita talvolta di leggere sentenze e provvedimenti giudiziali che sembrano
esprimere giudizi e pervenire a conclusioni quasi a prescindere dalle evidenze processuali. Si percepisce in questi casi come l’operazione decisoria sia stata suggerita
più da intuizioni soggettive che da una meditata analisi delle prove. Come se prima si fosse deciso e solo in un secondo momento si fossero cercati argomenti per
sostenere la decisione finale.
Le scienze cognitive negli ultimi decenni hanno dimostrato che la decisione, ed
il giudizio in genere sono fortemente condizionati da tendenze sistematiche della
mente, da errori inferenziali, da pregiudizi e da preconcetti che possono avere effetti irreparabili se coinvolgono investigatori o magistrati.
Uno di tali aspetti problematici del pensiero umano, costituito dal cosiddetto
confirmation bias, era stato individuato già quattro secoli fa da Francesco Bacone.
Il filosofo inglese aveva parlato di questa inclinazione naturale della specie umana
ad accettare, credere, ritenere provate le conclusioni ed i risultati raggiunti non
perché veri di per sé, ma ritenuti tali perché desideriamo che lo siano.
Recenti studi hanno dimostrato come esista una evidente differenza tra la valutazione imparziale delle prove, finalizzata al raggiungimento di una conclusione
32
GIURISPRUDENZA
non viziata e la ricostruzione degli eventi per giustificare una conclusione già maturata.
Nel primo caso gli individui cercano le prove in tutte le direzioni, valutando
nel modo più obiettivo e giungono così ad una conclusione coerente.
Nel secondo caso, invece, le prove vengono raccolte in modo selettivo per confermare una sola opinione o negare l’altra.
Di fronte agli eventi ognuno di noi ha la tendenza a restringere l’attenzione ad
una singola ipotesi e a non dare adeguata considerazione ad ipotesi alternative.
Errori di tal genere sono frequenti nelle aule giudiziarie.
Di questi argomenti e di molti altri ancora se ne parla nell’ultima fatica di Luisella De Cataldo Neuburger dal titolo suggestivo: «L’operazione decisoria» da
emanazione divina alla prova scientifica. Passando per Rabelais.
L’autrice ha raccolto un insieme di materiali del convegno svoltosi nel maggio
2013 presso l’ISISC di Siracusa che ha visto la partecipazione di magistrati, studiosi e ricercatori universitari, avvocati, ma anche di economisti e medici.
L’accostamento di professionalità così diverse si è rivelata proficua ed in linea
con le tendenze affermatesi in materia. Già gli studi condotti dallo psicologo Klein
e colleghi negli anni Novanta sulle decisioni di esperti quali giudici, medici, comandanti militari, vigili del fuoco, avevano rivelato come in situazioni critiche, caratterizzate da vincoli temporali e da gravi conseguenze nel caso di decisione mancata o errata, essi non seguivano modelli di ragionamento formali, ma decidevano
rapidamente rifacendosi a situazioni ed esperienze già note.
Quest’opera, pubblicata da Cedam, è di grandissimo interesse proprio perché
rappresenta il frutto di un apporto interdisciplinare di altissimo livello, offerto da
relatori che si sono impegnati ad elaborare i nodi problematici della decisione e a
dare risposte che rappresentano il portato di una visione attuale del sapere.
Daniela Bartolucci
Corte Europea dei Diritti Umani, sez. II, 4 marzo 2014, n. 18640/10 e altri –
Grande Stevens e altri c. Italia
Cosa giudicata - Divieto di un secondo giudizio (“Ne bis in idem”) - Identità del
fatto - Nozione - Fatti perseguiti nel diritto interno con doppia previsione di illecito, amministrativo e penale - Rilevanza - Condizioni - Interpretazione della
Corte EDU ai sensi dell’art. 4 del Protocollo n. 7 aggiuntivo della Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali Fattispecie in tema di illeciti di abuso del mercato
La celebrazione di un processo penale dopo la conclusione di un procedimento
sanzionatorio avanti alla CONSOB – un procedimento formalmente qualificato come amministrativo dal nostro ordinamento, ma in realtà di natura penale ai fini dell’applicazione delle garanzie convenzionali – viola il principio del ne bis in idem, tutelato dall’art. 4 del Protocollo 7 CEDU.
(Omissis).
NE BIS IN IDEM E DOPPIO BINARIO SANZIONATORIO
Con la sentenza del 4 marzo 2014 la Corte EDU ha decretato l’incompatibilità
del doppio binario sanzionatorio, amministrativo e penale, previsto in materia di
abusi di mercato dagli artt. 185 e 187 ter del D.lgs. 58/1998 (testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) con il diritto fondamentale al
ne bis in idem, riconosciuto dall’art. 4 Prot. 7 CEDU.
Alla base di tale pronuncia vi è, come vedremo, la qualificazione della sanzione
amministrativa e della procedura ad essa preordinata come «sostanzialmente penali», con conseguente applicazione di tutte le garanzie che la Convenzione prevede per la materia penale, prime tra tutte il diritto ad un equo processo (art. 6 § 1
CEDU) e il divieto di un secondo giudizio su fatti già giudicati in via definitiva
(art. 4 Prot. 7 CEDU).
In estrema sintesi, il caso portato all’esame della Corte EDU è quello di due
società, la IFIL Investment e la Giovanni Agnelli s.a.s., il loro Presidente Gianluigi
Gabetti, il procuratore Virgilio Marrone e il legale Avv. Franzo Grande Stevens,
ritenuti responsabili di avere manipolato il mercato diffondendo un comunicato
stampa falso e, per questo, resi destinatari di pesanti sanzioni amministrative da
parte della CONSOB in esito al procedimento di cui all’art. 187 septies t.u.f. (con
34
GIURISPRUDENZA
successiva parziale riforma da parte della Corte d’appello di Torino) nonché perseguiti penalmente in ordine al delitto di manipolazione del mercato di cui all’art.
185 t.u.f. (successivamente dichiarato estinto dalla Corte di Cassazione per intervenuta prescrizione).
Durante il processo penale di primo grado i tre imputati e le due società avevano presentato ricorso alla Corte EDU lamentando, tra l’altro, la violazione di una
serie di parametri del processo equo di cui all’art. 6 CEDU nel procedimento amministrativo avanti alla CONSOB e nel successivo giudizio di opposizione avanti
alla Corte d’appello di Torino, nonché la violazione del diritto a non subire un secondo processo per il medesimo fatto, garantito dall’art. 4 Prot. 7 CEDU, in relazione al rifiuto del Tribunale di Torino di pronunciare immediatamente sentenza
di non doversi procedere una volta divenuto irrevocabile il provvedimento di inflizione della sanzione amministrativa di cui all’art. 187 ter t.u.f.
La Corte di Strasburgo ha accolto la prospettazione dei ricorrenti, riconoscendo l’infrazione dell’art. 6 CEDU (seppur sotto il limitato profilo del difetto di
pubblicità del procedimento di opposizione all’irrogazione delle sanzioni) nonché
la violazione dell’art. 4 Prot. 7 CEDU, consistita nel rifiuto da parte dei giudici dei
tre gradi di giudizio di porre fine al procedimento penale in considerazione della
definitività del provvedimento amministrativo.
Benché la norma convenzionale faccia esplicito riferimento alla materia penale,
la Corte ha rammentato la sua ormai consolidata giurisprudenza secondo cui il ne
bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. 7 CEDU non presuppone la formale qualificazione come «penale» da parte dell’ordinamento nazionale del provvedimento che
chiude la prima procedura né la formale qualificazione come «reato» dell’illecito
che ne è stato oggetto.
I giudici di Strasburgo hanno adottato – a partire dalla nota sentenza Engel e
altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976 – un sistema di qualificazione autonomo e sostanziale di ciò che deve considerarsi, ai fini dell’applicazione delle tutele convenzionali, come materia penale. I criteri da tenere in considerazione sono tre: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di
quest’ultima e la natura e il grado di severità della sanzione. «Questi criteri – precisa la Corte – sono peraltro alternativi e non cumulativi: affinché si possa parlare di
accusa in materia penale è sufficiente che l’illecito in causa sia di natura penale rispetto alla Convenzione o abbia esposto l’interessato a una sanzione che per natura e
livello di gravità rientri in linea generale nell’ambito della materia penale».
Sicché nel caso di specie la Corte ha ritenuto che – a dispetto di una formale
qualificazione dell’illecito e delle sanzioni previste dall’art. 187 ter t.u.f. come amministrativi – il fatto abbia sostanzialmente natura di reato, in quanto lesivo di interessi generalmente protetti dal diritto penale quali la tutela degli investitori, la
NE BIS IN IDEM E DOPPIO BINARIO SANZIONATORIO
35
trasparenza e lo sviluppo dei mercati borsistici; lo stesso per quanto riguarda le
sanzioni, certamente orientate per entità e gravità a perseguire scopi preventivi e
repressivi e non il fine meramente riparatorio proprio della sanzione amministrativa.
Il principio sancito dall’art. 4 Prot. 7 CEDU vieta dunque di esercitare una seconda volta l’azione penale nei confronti degli stessi soggetti per il medesimo fatto. La Corte ha precisato altresì che il fatto deve essere considerato in senso naturalistico, dovendosi procedere ad una comparazione tra l’insieme delle circostanze
fattuali concrete contestate nell’ambito dei due procedimenti e non – come invece
sostenuto dal Governo – ad un confronto strutturale tra l’illecito formalmente amministrativo e quello formalmente penale.
In tale prospettiva la Corte ha riconosciuto la sostanziale sovrapponibilità delle
condotte contestate rispettivamente dalla CONSOB e dai giudici penali ai ricorrenti, accusati di non aver menzionato nei comunicati stampa del 24 agosto 2005 il
piano di rinegoziazione del contratto di equity swap con la Merill Lynch International Ltd mentre tale progetto esisteva e si trovava in fase di realizzazione avanzata.
In conclusione, la Corte ha ingiunto all’Italia di adottare non solo misure individuali volte ad assicurare nel più breve tempo possibile la chiusura dei procedimenti penali eventualmente ancora in corso nei confronti dei ricorrenti, ma – quel
che più conta – di scegliere i mezzi da utilizzare per conformarsi, a norma dell’art.
46 CEDU, alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di Strasburgo in modo
da evitare ulteriori violazioni dei diritti convenzionali.
Del medesimo avviso si sono del resto mostrate le nostre supreme giurisdizioni, Sezioni Unite e Corte Costituzionale, in occasione della nota vicenda dei «fratelli minori» di Scoppola, sostenendo che gli obblighi discendenti dalle sentenze
della Corte hanno una portata che trascende lo specifico caso concreto deciso, vincolando lo Stato e i suoi organi giurisdizionali ad assicurare la medesima tutela a tutti
coloro che si trovano in una situazione identica.
La più autorevole dottrina si è in questi mesi interrogata su quali scenari si dischiudano nell’ambito dell’ordinamento italiano a seguito della sentenza Grande
Stevens e della sua statuizione unanime secondo cui una volta chiuso con provvedimento definitivo il primo procedimento di natura sostanzialmente penale, la pendenza di un secondo processo avente ad oggetto gli stessi fatti è lesiva del diritto fondamentale al ne bis in idem sancito dall’art. 4 Prot. 7 CEDU, sicché occorrerà trovare
il modo di por fine immediatamente al processo.
E ciò, si badi, non solo con riguardo alla materia degli abusi di mercato, ma a
tutti i settori ordinamentali analogamente strutturati su un doppio binario sanzionatorio, amministrativo e penale – per primo quello penale tributario – che, per
36
GIURISPRUDENZA
loro natura, preludono ad una sistematica violazione del principio del ne bis in
idem così come interpretato uniformemente della Corte EDU.
Il generale obbligo a carico della giurisdizione italiana di conformarsi alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza comunitaria si scontra, tuttavia, con un
ordinamento processuale interno che non consente la definizione anticipata del
processo penale in siffatta ipotesi. L’art. 649 c.p.p. prevede, infatti, l’obbligo per il
giudice di pronunciare sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere
soltanto nel caso che l’imputato sia stato prosciolto o condannato «con sentenza o
decreto penale divenuti irrevocabili» e, dunque, secondo consolidata interpretazione, con provvedimento definitivo pronunciato dal giudice penale.
La prima prospettiva di adeguamento del nostro sistema penale agli obblighi
sovranazionali passa, quindi, per la proposizione di una questione di legittimità
costituzionale dell’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 4 Prot. 7 CEDU, nella parte in cui la disposizione impugnata non
prevede che il giudice debba pronunciare sentenza di proscioglimento o di non
luogo a procedere anche nel caso in cui l’imputato sia già stato giudicato per il medesimo fatto, con provvedimento ormai irrevocabile, in un procedimento che, seppur qualificato come amministrativo dal diritto italiano, debba ritenersi di natura
penale ai sensi della CEDU e dei suoi protocolli.
La seconda ipotesi si fonda, invece, sul riconoscimento dell’effetto diretto dell’art. 50 della Carta di Nizza, che, nell’ambito del diritto comunitario, fa eco all’art. 4 Prot. 7 CEDU, enunciando anch’esso il principio del ne bis in idem.
La norma in esame, rubricata «Diritto di non essere giudicato o punito due volte
per lo stesso reato» dispone, infatti, che nessuno può essere perseguito e condannato
per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di
sentenza penale definitiva conformemente alla legge.
Anche la Corte di Giustizia, così come la Corte EDU, ha fatto propri i criteri
sostanziali e autonomi di delimitazione della materia penale, individuati nella sentenza Engel e altri c. Paesi Bassi, statuendo nell’altrettanto nota sentenza Fransson
del 26 febbraio 2013 che ben può ravvisarsi un giudicato penale ai sensi dell’art.
50 CDFUE nell’imposizione di una sovratassa per un illecito tributario all’esito di
un procedimento formalmente amministrativo, laddove il fatto e la conseguente
sanzione appaiano sostanzialmente di natura penale.
Vi è, però, una fondamentale differenza negli esiti applicativi delle due norme.
L’art. 4 Prot. 7 CEDU, in quanto norma di diritto convenzionale, necessita di una
pronuncia di illegittimità costituzionale per produrre l’adeguamento dell’ordinamento italiano al principio del ne bis in idem, così come interpretato dalla Corte di
Strasburgo. L’art. 50 della CDFUE ha invece acquisito, per esplicita disposizione
del Trattato di Lisbona (entrato in vigore l’1.12.2009) lo stesso valore giuridico
NE BIS IN IDEM E DOPPIO BINARIO SANZIONATORIO
37
delle norme contenute nei Trattati dell’Unione Europea e sul Funzionamento dell’Unione Europea, con ciò esplicando effetto diretto negli ordinamenti degli Stati
membri, con carattere di primazia rispetto ad eventuali norme nazionali contrastanti.
Alla luce della seconda opzione ermeneutica, ben potrebbe, dunque, il giudice
penale italiano, in diretta applicazione dell’art. 50 della Carta di Nizza, pronunciare immediatamente sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere in tutti i procedimenti pendenti nei confronti di soggetti che siano già stati destinatari di
una sanzione che, seppur formalmente amministrativa e irrogata a seguito di un
procedimento amministrativo, venga considerata sostanzialmente penale.
Interessante sarà leggere le pronunce applicative della nostra giurisprudenza.
Agnese Sbraccia
Cassazione Civile, Sez. Un., ord. 23 gennaio 2014, n. 1237 – Pres. Rovelli – Rel. Di
Palma
Società a partecipazione pubblica - Nomina o revoca di amministratori o sindaci Atti del socio pubblico - Giurisdizione dell’A.G.O. - Sussistenza
Quando lo statuto di una società a partecipazione pubblica conferisca, come consentito dall’art. 2449 c.c., all’ente pubblico socio la facoltà di nominare uno o più amministratori o sindaci, i relativi atti di nomina, al pari di quelli di revoca, assunti dall’ente pubblico sono manifestazione di una volontà essenzialmente privatistica, con
la conseguenza che a fronte dell’esercizio della potestà di revoca degli amministratori
la posizione giuridica soggettiva degli stessi è di diritto soggettivo e la controversia relativa alla legittimità di tale revoca è attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario.
(Omissis)
Fatto e Diritto
Ritenuto che, con ricorso del 22 dicembre 2011, B.M. ha proposto istanza di regolamento di giurisdizione, nei confronti di G.P. e di M.S., della Provincia di Belluno, della s.p.a. Dolomiti Bus e di
O.F.;
che tale istanza di regolamento di giurisdizione è proposta in riferimento al giudizio, promosso
dai Signori G. e M. contro la Provincia di Belluno e nei confronti della s.p.a. Dolomiti Bus, nonché
dei Signori B. ed O. con ricorso del 16 dicembre 2011 e pendente dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto (r.g. n. 2173 del 2011);
che in questo giudizio i Signori G. e M. hanno chiesto al T.a.r. adito – previa sospensione degli
atti impugnati e reintegrazione dei ricorrenti nelle rispettive cariche di presidente e di membro del
consiglio di amministrazione della s.p.a. Dolomiti Bus –: “di annullare gli atti impugnati, e cioè del
decreto del Presidente della Provincia di Belluno 20.10.2011, n. 101 ..., avente ad oggetto: revoca
dell’ing. G.P. e del Sig. M. S. dalle funzioni rispettivamente di Presidente e membro semplice del
Consiglio di Amministrazione ... della società partecipata Dolomiti Bus S.p.a.; – del decreto del Presidente della Provincia di Belluno 28.10.2011, n. 104, avente ad oggetto: nomina del Dott. B. M. e
del Dott. O.F. rispettivamente alla carica di Presidente e membro del C. d. A. ... di Dolomiti Bus
S.p.a., in sostituzione dei membri revocati; – di ogni altro atto presupposto, connesso o conseguente”; nonché di condannare la Provincia di Belluno “ex art. 34, comma 1, lett. c), c.p.a., ad adottare, in
via immediata, gli atti necessari alla reintegrazione dei ricorrenti negli uffici di Presidente e consigliere del C.d.A. ... della società Dolomiti Bus; ex art. 30, comma 2, c.p.a. a risarcire i danni subiti e su-
40
GIURISPRUDENZA
bendi dai ricorrenti a causa dell’illegittimo esercizio di attività amministrativa, con rivalutazione monetaria ed interessi legali sulle somme via via rivalutate di anno in anno, dal dì del dovuto e sino all’effettivo soddisfo”;
che l’odierno ricorrente B.M. riferisce che:
a) i Signori G. e M., con decreto del Presidente della Provincia di Belluno n. 58 del 2 dicembre 2009, ai sensi dell’art. 21 dello Statuto, sono stati nominati, rispettivamente, presidente e consigliere del consiglio di amministrazione della s.p.a. Dolomiti Bus, società a partecipazione mista pubblica e privata (Provincia di Belluno, Comune di Belluno, s.r.l. R. A. T. P. DEV Italia), avente ad oggetto il trasporto pubblico automobilistico ed attività connesse;
b) con il su menzionato decreto del Presidente della Provincia di Belluno n. 101 del 2011, i
Signori G. e M. sono stati revocati dall’incarico ai sensi del combinato disposto dell’art. 2449 c.c., richiamato dall’art. 21 dello Statuto sociale, “essendo venuto meno il rapporto di fiducia con la Provincia, non essendosi essi attenuti alle direttive di voto della Soda Provincia in sede di Assemblea”;
c) con il successivo su menzionato decreto n. 104 del 2011 il Presidente della Provincia di
Belluno ha nominato, in sostituzione dei membri revocati, i Signori B. ed O., il primo con funzioni di
presidente del c.d.a.;
d) con i motivi di impugnazione dinanzi al T.a.r. per il Veneto, i Signori G. e M. hanno dedotto: 1) “Violazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 50, comma 8, e, in combinato disposto, degli
artt. 2449 c.c., comma 2, artt. 2380 bis, 2392, 2394 e 2395 c.c. Eccesso di potere per sviamento, carenza e contraddittorietà della motivazione ..., essendo quella di revoca di amministratori di società
partecipate da enti pubblici espressione di un potere pubblico”; 2) “Violazione del D.Lgs. n. 267 del
2000, art. 50, comma 8, della delibera del Consiglio Provinciale di Belluno n. 40 del 9.7.2009. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e di presupposto necessario, nonché per carenza di motivazione”, non essendo state motivate nel provvedimento di revoca le ragioni dell’adozione di tale misura;
3) “Violazione della L. n. 241 del 1990, art. 7, e del correlativo principio del giusto procedimento”,
non essendo stata data comunicazione di avvio del procedimento, con conseguente violazione del diritto di difesa; 4) “Violazione del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, art. 4, commi 19 e 20, convertito in L.
14 settembre 2011, n. 148”, essendo il B. incompatibile, in forza di tali disposizioni, a ricoprire la carica affidatagli di presidente della Società Dolomiti Bus;
che, tanto riferito, il ricorrente B.M. chiede che la Corte di cassazione, a sezioni unite, voglia “dichiarare la giurisdizione del giudice ordinario a giudicare della causa”;
che, al riguardo, il ricorrente sostiene che, nella specie, il potere di nomina e di revoca degli amministratori è previsto per il Comune e per la Provincia di Belluno dall’art. 21 dello Statuto sociale
della s.p.a. Dolomiti Bus, che richiama esplicitamente l’art. 2449 c.c., sicché l’esercizio di tale potere
deve intendersi attribuito a detti Enti pubblici esclusivamente in ragione della loro qualità di soci
della Società partecipata e non come espressione di un potere di natura pubblicistica a tutela e cura
di interessi generali della comunità locale (viene richiamata la sentenza delle sezioni unite della Corte
di cassazione n. 7799 del 2005);
che resistono, con controricorso illustrato da memoria, G. P. e M.S. i quali, nel chiedere che le
sezioni unite della Corte di cassazione dichiarino la giurisdizione del giudice amministrativo, sostengono, tra l’altro, che “non è l’inserimento del potere previsto ex art. 2449 c.c., nello statuto societario
a connotarlo come diritto potestativo negoziale, ma, attraverso l’art. 2449 c.c., si consente al socio
pubblico, mediante modifica statutaria, di assoggettare alcuni aspetti dell’organizzazione interna delle S.p.a. a partecipazione mista (segnatamente, la nomina e la revoca di un certo numero di amministratori e sindaci) al suo potere unilaterale, espressivo di pubblica funzione, consistente nel garantire
il rispetto, da parte dei nominati, degli indirizzi fissati dall’organo politico dell’Ente locale, al fine di
assicurare continuità e coerenza di strategie, programmi ed azione tra Ente pubblico affidante e i società privata affidataria del pubblico servizio”, con la conseguenza che “l’art. 2449, non muta la natura autoritativa del potere attribuito al Sindaco ed al Presidente della Provincia dal D.Lgs. n. 267
del 2000, art. 50, comma 8, ma ne integra una sorta di presupposto legale di operatività”;
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
41
che la Provincia di Belluno, la s.p.a. Dolomiti Bus e O. F., benché ritualmente intimati, non si
sono costituiti né hanno svolto attività difensiva;
che il Procuratore generale ha concluso, chiedendo che le sezioni unite della Corte di cassazione
dichiarino la giurisdizione del giudice ordinario;
che, all’esito dell’adunanza in Camera di consiglio del 6 novembre 2012, il Collegio, con ordinanza interlocutoria n. 297/13 del 9 gennaio 2013, ha rinviato il ricorso a nuovo ruolo, ritenendo
preliminarmente “opportuno acquisire dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo di questa Corte una
relazione che approfondisca: 1) il completo quadro normativo di riferimento – anche se non strettamente applicabile alla fattispecie ratione temporis (come, ad esempio, almeno in prima approssimazione, la D.L. 15 marzo 2012, n. 21, art. 3, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 11 maggio
2012, n. 56, art. 1, comma 1) – concernente la disciplina delle società di servizi pubblici a partecipazione totalitaria di enti pubblici o a partecipazione mista pubblico-privato: in particolare, la disciplina dei servizi pubblici locali, di cui al D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 113 e ss., e successive modificazioni, in relazione allo stesso D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 50, comma 8; 2) la vicenda normativa
dell’art. 2449 c.c., ed i suoi rapporti con le disposizioni del D.Lgs. n. 267 del 2000; 3) la natura ed i
caratteri dei rapporti che si istituiscono tra l’ente pubblico ed amministratori e sindaci nominati; 4)
la natura ed i caratteri dei poteri di nomina e di revoca di amministratori e sindaci da parte dell’ente
pubblico: in particolare, l’esercizio del potere di revoca e la sua motivazione; 5) l’analisi della giurisprudenza – comunitaria, costituzionale, ordinaria ed amministrativa – e della dottrina in tema di nomina e di revoca di amministratori e sindaci, segnatamente sotto il profilo della giurisdizione a conoscere le eventuali controversie in materia”);
che è stata acquisita la relazione n. 95/2013 del 4 giugno 2013 dell’Ufficio del Massimario e del
Ruolo;
che G.P. e M.S. hanno depositato ulteriore memoria;
che il Procuratore generale ha concluso, chiedendo che le sezioni unite della Corte di cassazione
dichiarino la giurisdizione del giudice ordinario.
Considerato che deve dichiararsi la giurisdizione del Giudice ordinario a conoscere la controversia, promossa dai Signori G. P. e M.S. contro la Provincia di Belluno e nei confronti della s.p.a.
Dolomiti Bus, nonché dei Signori B. M. e O.F. con ricorso del 16 dicembre 2011 e pendente dinanzi
al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto (r.g. n. 2173 del 2011);
che la fattispecie sottostante al presente ricorso – quale emerge dall’esame diretto degli atti di
causa – sta in ciò:
a) che il Presidente della Provincia di Belluno pro tempore, con decreto n. 101 del 20 ottobre
2011, ha revocato, ai sensi del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 50, comma 8, (Testo unico delle
leggi sull’ordinamento degli enti locali), G.P. e M. S., in precedenza dallo stesso nominati, dalle cariche, rispettivamente, di presidente e di membro del consiglio di amministrazione della s.p.a. Dolomiti Bus, società a partecipazione mista pubblica e privata (le cui azioni sono possedute, per il 49,90
per cento, dalla Provincia di Belluno, per il 10,60 per cento, dal Comune di Belluno, e per il restante
39,50 per cento, dalla s.r.l. R. A. T. P. DEV Italia), avente ad oggetto il trasporto pubblico automobilistico ed attività connesse;
b) che detta revoca è stata motivata con i rilievi che, sulla deliberazione del consiglio di amministrazione della s.p.a. Dolomiti Bus avente ad oggetto la proposta di cessione delle azioni della s.p.a.
ATVO possedute dalla Società, i predetti rappresentanti della Provincia, nonostante l’avviso contrario alla cessione espresso dalla stessa Provincia, avevano votato a favore, e che “tale comportamento
è contrario alle direttive di voto fornite dal Socio Provincia in sede di Assemblea e manifesta, pertanto, il venir meno del rapporto fiduciario che deve sempre sussistere tra il vertice dell’Amministrazione e i suoi rappresentanti in Società, Enti, Aziende e Istituzioni”;
che – a fronte delle conclusioni formulate dai ricorrenti e dell’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla Provincia di Belluno e dal Sig. B.M., nonché del ricorso in esame nel giudizio a quo
– la questione di giurisdizione, sottoposta per la prima volta a queste Sezioni Unite, consiste nello
42
GIURISPRUDENZA
stabilire se la controversia, avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di revoca dei rappresentanti della provincia presso una società per azioni partecipata parzialmente dalla stessa provincia – disposta dal presidente pro tempore della provincia, ai sensi del citato D.Lgs. n. 267 del
2000, art. 50, comma 8, – e le conseguenti domande di tutela reale (reintegrazione) e risarcitoria siano attribuite alla cognizione del Giudice ordinario oppure del Giudice amministrativo;
che, in prima approssimazione e con più stretto riferimento alla fattispecie, l’essenziale e rilevante quadro normativo di riferimento è costituito dalle seguenti disposizioni: a) l’art. 4 dello statuto
della s.p.a. Dolomiti Bus (adottato con atto pubblico del 5 maggio 2011, per notaio de Ciutiis di Belluno, rep. n. 1728, racc. n. 1136) prevede: “La Società ha per oggetto la gestione del trasporto pubblico automobilistico e l’attività di Impresa Ferroviaria passeggeri e merci ed ogni altra attività connessa a tali servizi, nonché l’attività di officina meccanica, riparazione ed allestimenti di autoveicoli,
di veicoli industriali e ferroviari, montaggio installazione di accessori per veicoli in genere, soccorso
stradale, ed ogni attività accessoria, ivi compresi le attività di analisi, prove e revisioni tecniche su veicoli stradali, ferroviari ed agricoli, anche finalizzati al rilascio di documentazione tecnica, informativa
e relative certificazioni, sia per Enti che per privati.
La Società ha altresì per oggetto sociale lo studio, la progettazione, la realizzazione, la vendita,
l’intermediazione e la gestione di sistemi innovativi o non convenzionali per il trasporto di persone e
di merci o comunque attinenti alla mobilità convenzionale ed innovativa in genere, nonché la gestione, la produzione, la vendita e l’intermediazione di servizi commerciali, turistici e di noleggio con o
senza conducente. La Società potrà estendere l’oggetto ad ulteriori attività multiservizi, incluse l’attività di prestazione di servizi alle persone e servizio di ricerca, studio, progettazione e costruzione con
particolare riferimento alle infrastrutture e alla mobilità, purché connessi e strumentali al perseguimento dell’oggetto sociale primario e prevalente ed a qualsiasi altra attività che abbia attinenza allo
scopo sociale e che consenta lo sviluppo delle iniziative della stessa. La Società potrà compiere inoltre tutte le inerenti operazioni industriali, commerciali, finanziarie e quante altre fossero necessarie,
istituire sedi secondarie e recapiti, partecipazioni in associazioni, società ed altri enti anche a carattere consorziale, aventi scopi affini o comunque connessi al proprio, al fine di una comune organizzazione interessante, in particolare, l’incremento turistico ed il miglioramento dei servizi compresi
quelli riguardanti i flussi di pendolarità degli studenti e dei lavoratori”; b) l’art. 21 dello stesso statuto della s.p.a. Dolomiti Bus – dopo aver previsto, al primo comma, che “La società è amministrata da
un Consiglio di amministrazione composto da cinque membri” –, per quanto in questa sede rileva,
dispone: “Il Comune di Belluno e la Provincia di Belluno, quali Soci Pubblici, ai sensi dell’art. 2449
c.c., hanno il diritto di procedere alla nomina diretta degli amministratori proporzionalmente alla
propria partecipazione al capitale, con arrotondamento all’unità superiore, sino al massimo complessivo pari a tre, di cui uno, da essi stessi nominato, con funzioni di Presidente del Consiglio di Amministrazione. ... Gli amministratori nominati ex art. 2449 c.c., dai Soci Pubblici non possono assumere
la carica di amministratore delegato e possono essere revocati esclusivamente dai soggetti che li hanno nominati, cui compete altresì la sostituzione qualora nel corso dell’esercizio vengano meno per
qualsiasi causa ...” (commi 2, 4); c) l’art. 2449 c.c. (che reca la rubrica: “Società con la partecipazione
dello Stato o di enti pubblici”) – nel testo sostituito dalla L. 25 febbraio 2008, n. 34, art. 13, comma
1, (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità
Europee – Legge comunitaria 2007) – prevede: che, “Se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazione in una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, lo statuto può ad
essi conferire la facoltà di nominare un numero di amministratori e sindaci, ovvero componenti del
consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione al capitale sociale” (primo comma); e che
“Gli amministratori e i sindaci, o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del
primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Essi hanno i diritti e
gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea. ...” (secondo comma); d) il citato D.Lgs. n. 267 del
2000, art. 42, comma 2, lett. m), secondo cui: “Il consiglio comunale o provinciale ha competenza limitatamente ai seguenti atti fondamentali: ... m) definizione degli indirizzi per la nomina e la desi-
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
43
gnazione dei rappresentanti del comune presso enti, aziende ed istituzioni, nonché nomina dei rappresentanti del consiglio presso enti, aziende ed istituzioni ad esso espressamente riservata dalla legge”; e) l’art. 50 (che reca la rubrica “Competenze del sindaco e del presidente della provincia”), stesso D.Lgs. n. 267 del 2000, comma 8, stabilisce che, “Sulla base degli indirizzi stabiliti dal consiglio, il
sindaco e il presidente della provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei
rappresentanti del comune e della provincia presso enti, aziende e istituzioni”;
che, più in generale e con specifico riferimento alla questione di giurisdizione in esame, rilevano
astrattamente, ratione temporis – nel senso dell’eventuale attribuzione della controversia de qua al
Giudice amministrativo – alcune disposizioni del codice del processo amministrativo (approvato con
il D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, e successive modificazioni ed integrazioni): a) l’art. 7, comma 1, primo
periodo, secondo cui: “1. Sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali
si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere,
posti in essere da pubbliche amministrazioni”; b) l’art. 133, comma 1, lett. c), secondo cui: “1. Sono
devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge: ...
c) le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla
pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo,
ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità”;
c) l’art. 133, comma 1, lett. z-quinquies), lettera aggiunta dal D.L. 15 marzo 2012, n. 21, art. 3,
comma 7, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 11 maggio 2012, n. 56, art. 1, comma 1, secondo cui: “1. Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori
previsioni di legge: ... z-quinquies) le controversie relative all’esercizio dei poteri speciali inerenti alle
attività di rilevanza strategica nei settori della difesa e della sicurezza nazionale e nei settori dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni”;
che, invece, rileva concretamente e in modo decisivo – come si vedrà –, per la soluzione della
presente questione di giurisdizione nel senso dell’affermata attribuzione della controversia de qua al
Giudice ordinario, il D.L. 6 luglio 2012, n. 95, art. 4 (che reca la rubrica: “Riduzione di spese, messa
in liquidazione e privatizzazione di società pubbliche”), comma 13, quarto periodo, (Disposizioni
urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini, nonché misure di
rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 135, art. 1, comma 1, secondo cui: “13. ... Le disposizioni del presente
articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”;
che queste Sezioni Unite, con la sentenza n. 7799 del 2005 – in una fattispecie parzialmente analoga alla presente, in cui alcuni consiglieri di amministrazione di una società a capitale interamente
posseduto da un comune avevano impugnato le deliberazioni della giunta comunale con le quali era
stata disposta la svalutazione della stessa società e la revoca degli amministratori –, hanno enunciato
il principio di diritto, per il quale la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua
natura di soggetto di diritto privato solo perché il Comune ne possegga, in tutto o in parte, le azioni,
in quanto il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, al comune non essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società
per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti
negli organi della società, con la conseguenza che è attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario
la controversia avente ad oggetto la domanda di annullamento di provvedimenti comunali di non ap-
44
GIURISPRUDENZA
provazione del bilancio e conseguente revoca degli amministratori di società per azioni di cui il Comune sia unico socio, costituendo gli atti impugnati espressione non di potestà amministrativa ma
dei poteri conferiti al comune dagli artt. 2383, 2458 e 2459 c.c., (nei testi all’epoca vigenti, anteriori
alla riforma di cui al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6), nella specie trasfusi nello statuto della società per
azioni, e quindi manifestazione di una volontà essenzialmente privatistica, di tal che la posizione soggettiva degli amministratori revocati – che non svolgono né esercitano un pubblico servizio – è configurabile in termini di diritto soggettivo, dovendo inoltre escludersi la riconducibilità di detta controversia al novero di quelle attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo dal D.Lgs.
31 marzo 1998, n. 80, art. 33, novellato dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7;
che, in particolare, nella motivazione di tale pronuncia è, tra l’altro, affermato: 1) “... come è stato già sottolineato da questa Corte (Cass. Sez. Un. 6.5.1995, n. 4989; 6.6.1997, n. 5085; 26.8.1998, n.
8454) la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto
privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggano le azioni, in
tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico: il rapporto tra la società e l’ente locale
è di assoluta autonomia, sicché non è consentito al Comune incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali. Invero, la legge non prevede alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla
comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di
servizi pubblici istituiti dall’ente locale ... La posizione del Comune all’interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla prevalenza del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l’ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società ... avvalendosi non
già dei poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario,
da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società (v. art. 2459
c.c.)” (n. 4.1. dei Motivi della decisione); 2) “... la controversia non rientra neppure nella giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, atteso che, come sopra detto, la situazione giuridica di cui si chiede la tutela ha natura di diritto soggettivo e non certo di interesse legittimo. ...
L’art. 2458 c.c., come ricordato, prevede che se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazione in
una società, l’atto costitutivo può ad essi conferire la facoltà di nominare uno o più amministratori o
sindaci, disponendo anche che gli amministratori o sindaci nominati a norma del comma precedente
possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. ... La facoltà attribuita all’ente
pubblico dal citato art. 2458 c.c. è, quindi, sostitutiva della generale competenza dell’assemblea ordinaria, trovando la sua giustificazione nella peculiarità di quella tipologia di soci, e deve essere qualificata estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato,
in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria, restando esclusa
qualsiasi sua valenza amministrativa. ... Dalla configurazione dell’atto di revoca come espressione di
una facoltà inerente la qualità di socio e, quindi, come manifestazione di una volontà essenzialmente
privatistica, deriva la esclusione della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo” (nn. da 8. a 8.3. dei Motivi della decisione);
che, sulla base della natura privatistica della società partecipata dall’ente pubblico, affermata
con tale decisione, queste Sezioni Unite, ad esempio: – hanno attribuito alla giurisdizione del Giudice ordinario la cognizione della controversia avente ad oggetto la domanda proposta da alcuni dei
soci privati di una società mista costituita con la partecipazione di un Comune per ottenere la dichiarazione d’illegittimità dell’accordo intervenuto tra l’ente pubblico ed un altro socio privato, con cui
quest’ultimo si sia accollato l’obbligo del primo di versare i tre decimi di un aumento di capitale da
esso sottoscritto, nelle more dell’ottenimento da parte del Comune di un finanziamento della Cassa
Depositi e Prestiti, trattandosi di una normale controversia di tipo civile-societario, che non attiene
all’esercizio di un pubblico potere, non essendo consentito all’amministrazione comunale d’incidere
unilateralmente sullo svolgimento dei rapporti sociali e sull’attività della società mediante i propri
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
45
poteri autoritativi e discrezionali, ma soltanto di avvalersi degli strumenti previsti dal diritto societario (ordinanza n. 17287 del 2006); – hanno ribadito che il principio secondo il quale le controversie
tra privati non possono essere assoggettate alla giurisdizione del giudice amministrativo trova applicazione anche nell’ipotesi in cui una delle parti sia una società a responsabilità limitata a partecipazione comunale, in quanto tale partecipazione non muta la natura di soggetto privato della società e
il rapporto di assoluta autonomia con l’ente territoriale, non essendo consentito al soggetto pubblico
di incidere unilateralmente sullo svolgimento dell’attività della società mediante l’esercizio di poteri
autoritativi o discrezionali, ma solo di avvalersi degli ordinari strumenti privatistici previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società (sentenza n. 392 del 2011);
che, inoltre, questa Corte ha affermato la fallibilità della società a capitale misto pubblico-privato incaricata della gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale, enunciando il principio per cui
una società per azioni, il cui statuto non evidenzi poteri speciali di influenza ed ingerenza, ulteriori
rispetto agli strumenti previsti dal diritto societario, dell’azionista pubblico, ed il cui oggetto sociale
non contempli attività di interesse pubblico da esercitarsi in forma prevalente, comprendendo, invece, attività di impresa pacificamente esercitabili da società di diritto privato, non perde la propria
qualità di soggetto privato – e, quindi, ove ne sussistano i presupposti, di imprenditore commerciale
fallibile – per il fatto che essa, partecipata da un comune, svolga anche funzioni amministrative e fiscali di competenza di quest’ultimo (in applicazione di tale principio, la Corte ha confermato la sentenza che aveva attribuito la qualità di impresa commerciale ad una società mista, nel cui oggetto sociale erano ricomprese, tra l’altro, attività quali la realizzazione di parcheggi, la gestione di servizi
portuali, turistici e di trasporto, la gestione di mense, l’effettuazione di lavori di manutenzione e giardinaggio, a tale qualificazione non ostando la riscossione, da parte della stessa società, di una tariffa
per il servizio svolto) (cfr., la sentenza n. 21991 del 2012, nonché, in senso sostanzialmente conforme, la sentenza n. 22209 del 2013);
che peraltro, nella prospettiva di una più articolata sistemazione del riparto di giurisdizione,
queste Sezioni unite hanno affermato: – che spettano alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto l’attività unilaterale “prodromica” alla vicenda societaria,
considerata dal legislatore di natura pubblicistica, con cui un ente pubblico delibera di costituire una
società (provvedendo anche alla scelta del socio), o di parteciparvi, o di procedere ad un atto modificativo o estintivo della società medesima, o di interferire, nei casi previsti dalla legge, nella vita della
stessa società, mentre sono attribuite alla giurisdizione del Giudice ordinario le controversie aventi
ad oggetto gli atti societari “a valle” della scelta di fondo di utilizzazione del modello societario, le
quali restano interamente soggette alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito,
dal contratto di costituzione della società alla successiva attività della compagine societaria partecipata con cui l’ente esercita, dal punto di vista soggettivo e oggettivo, le facoltà proprie del socio
(azionista), fino al suo scioglimento; – che, nell’ambito di quest’ultima categoria, rientrano le controversie volte ad accertare l’intero spettro delle patologie e inefficacie negoziali, siano esse inerenti alla
struttura del contratto sociale, ovvero estranee e/o alla stessa sopravvenute e derivanti da irregolarità-illegittimità del procedimento amministrativo “a monte”, perciò comprendenti le fattispecie sia di
radicale mancanza del procedimento di evidenza pubblica (o di vizi che ne inficino singoli atti), sia di
successiva mancanza legale provocata dall’annullamento del provvedimento di aggiudicazione, ivi
compresi i profili di illegittimità degli atti consequenziali compiuti dalla società già istituita, i quali
costituiscono espressione non di potestà amministrativa, bensì del sistema della invalidità-inefficacia
del contratto sociale che postula una verifica, da parte del giudice ordinario, di conformità alla normativa positiva delle regole in base alle quali l’atto negoziale è sorto ovvero è destinato a produrre i
suoi effetti tipici (sentenza n. 30167 del 2011; in senso conforme, l’ordinanza 21588 del 2013; cfr. anche, in senso sostanzialmente conforme, la sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 3
giugno 2011, n. 10);
che – anche alla luce del quadro normativo di riferimento e dei menzionati precedenti giurispru-
46
GIURISPRUDENZA
denziali, ed in continuità con l’ormai consolidato orientamento di queste Sezioni Unite inaugurato
con la citata pronuncia n. 7799 del 2005 – concorrono alla dichiarazione della giurisdizione del Giudice ordinario nella fattispecie in esame le seguenti ulteriori considerazioni: a) già la Relazione al codice civile del 1942, nell’illustrare la disciplina delle società partecipate dallo Stato, affermava: “... in
questi casi, è lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge della società per azioni, per assicurare alla
propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici; la disciplina comune
della società per azioni deve, pertanto, applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o
di enti pubblici, senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente” (n. 998);
b) l’art. 2449 c.c. – nella formulazione vigente consolidatasi, come già rilevato, nel 2008, anche a seguito della nota sentenza della Corte di giustizia UE (Prima Sezione) 6 dicembre 2007 (nei procedimenti riuniti nn. C-463/04 e C-464/04, Federconsumatori e AEM e. Comune di Milano) – individua
nello statuto, cioè in un atto fondamentale della società di natura negoziale (art. 2328 c.c., comma 3),
la fonte esclusiva dell’attribuzione allo Stato o all’ente pubblico della facoltà di nomina di amministratori in numero proporzionale alla propria partecipazione al capitale sociale, ed esprime i principi
sia della irrilevanza personale del socio di capitali, sia della parità di status di tutti gli amministratori,
indipendentemente dalla nomina dell’assemblea o dell’ente pubblico titolare della partecipazione
(“Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea”), sia – in definitiva – della
perfetta autonomia della società, dei suoi organi e del suo funzionamento secondo la propria “legge”
rispetto alle vicende della sua formazione e della partecipazione ad essa, mentre l’attribuzione esclusiva all’ente pubblico del potere di revoca degli amministratori dallo stesso nominati (“Gli amministratori e i sindaci, o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del primo comma
possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati”) ha l’unica finalità di impedire la
totale frustrazione della designazione effettuata, secondo statuto, dall’ente pubblico – uti socius, non
jure imperii – e degli interessi di natura pubblica ad essa sottesi; c) secondo l’ormai consolidato
orientamento di queste Sezioni Unite (cfr. la menzionata sentenza n. 30167 del 2011 e le successive
conformi), la nomina e la revoca degli amministratori da parte dell’ente pubblico debbono essere
ascritte agli atti societari “a valle” della scelta di fondo di utilizzazione del modello societario e restano perciò interamente assoggettate alle regole del diritto commerciale proprie del modello recepito;
d) qualsiasi dubbio circa l’inquadramento “privatistico” delle società con partecipazione dello Stato
o di enti pubblici, la cui specifica disciplina sia contenuta esclusivamente o prevalentemente nello
statuto sociale – quindi, qualsiasi dubbio circa l’attribuzione della giurisdizione a conoscere le relative controversie al Giudice ordinario o al Giudice amministrativo –, deve essere oggi risolto alla luce
del su menzionato D.L. n. 95 del 2012, art. 4, comma 13, quarto periodo, secondo cui “Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a
totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto non diversamente
stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali”: tale norma infatti – ancorché introdotta in un provvedimento legislativo volto specificamente al contenimento della spesa pubblica (cosiddetta spending review) – ha natura esplicitamente interpretativa e come tale efficacia retroattiva, si caratterizza quale clausola normativa ermeneutica generale (norma di chiusura) “salvo deroghe espresse”, ed impone all’interprete, il quale dubiti dell’interpretazione di “disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o
parziale partecipazione pubblica”, di optare “comunque” per l’applicazione della “disciplina del codice civile in materia di società di capitali” (si noti, incidentalmente, la significativa consonanza di tale disposizione con le illustrazioni contenute nella su ricordata Relazione al codice civile del 1942); e)
l’inquadramento “privatistico” delle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici è conforme con gli orientamenti espressi sia dalla Corte di giustizia UE – che, con le sentenze Volkswagen
(sentenza 23 ottobre 2007, nella causa C-112/05) e Federconsumatori (sentenza 6 dicembre 2007,
nei procedimenti riuniti nn. C-463/04 e C-464/04), ha ritenuto collidenti con l’art. 56 del Trattato
CE disposizioni che incidano sul principio della “parità di trattamento tra gli azionisti” –, sia dalla
Corte costituzionale che, con le sentenze n. 35 del 1992 e n. 233 del 2006 ha ricondotto al diritto pri-
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
47
vato le disposizioni sulla nomina e sulla revoca degli amministratori ed ha sottolineato che l’intuitus
personae sotteso al rapporto di nomina degli amministratori esclude la rilevanza immediata dei principi di cui all’art. 97 Cost., comma 2, (buon andamento ed imparzialità);
che quanto allo specifico argomento – secondo cui l’attribuzione al Giudice ordinario della giurisdizione sulle controversie aventi ad oggetto la revoca degli amministratori nominati dal socio pubblico priverebbe l’amministratore revocato anche della tutela “reale” (reintegrazione nella carica di
amministratore), conseguente al sindacato sulla legittimità del provvedimento (amministrativo) di revoca, consentita soltanto al Giudice amministrativo (cfr. art. 30, comma 2, e art, 34, comma 1, lett. e,
cod. proc. amm.), dovendo invece il Giudice ordinario limitarsi alla tutela risarcitoria di cui all’art.
2383 c.c., comma 3, nel caso di revoca priva di giusta causa –, può osservarsi che la parità di status
tra gli amministratori di nomina assembleare e quelli di nomina dell’ente pubblico partecipante
(“Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea”), stabilita dall’art. 2449 c.c.,
comma 2, secondo periodo, implica indefettibilmente parità di tutela, che risulterebbe vulnerata da
un trattamento differenziato più favorevole agli amministratori di nomina pubblica per il solo fatto
di tale nomina, con conseguente implicito riconoscimento di una posizione “privilegiata” del socio
pubblico rispetto ai soci privati, in contrasto con l’affermato principio di parità di trattamento tra gli
azionisti, residuando semmai la necessità di assicurare comunque il controllo sulla legittimità della
revoca disposta dall’ente pubblico, che il Giudice ordinario può ben esercitare proprio ai sensi del
richiamato art. 2383 c.c., secondo i generali canoni della correttezza e della buona fede;
che – alla luce di tutte le considerazioni che precedono e, segnatamente, della clausola normativa ermeneutica generale di cui al menzionato D.L. n. 95 del 2012, art. 4, comma 13, quarto periodo,
– non v’è dubbio che la controversia nella specie promossa da G. P. e da M.S. contro la Provincia di
Belluno e nei confronti della s.p.a. Dolomiti Bus, nonché di B.M. e O.F. dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Veneto sia invece da attribuire alla cognizione del Giudice ordinario territorialmente competente;
che in particolare, per quanto attiene alla nomina ed alla revoca degli amministratori della s.p.a.
Dolomiti Bus di spettanza della Provincia di Belluno e del Comune di Belluno (possessori di azioni,
rispettivamente, nella misura del 49,90 per cento e del 10,60 per cento), il menzionato art. 21 dello
Statuto sociale, nel richiamare espressamente l’art. 2449 c.c., riproduce sostanzialmente e senza deroga alcuna la disciplina codicistica, il che dimostra sia che la fonte esclusiva di tale disciplina è costituita da un atto tipico espressivo di autonomia privata, sia che anche i predetti soci pubblici, titolari
di dette partecipazioni azionarie, “si assoggettano alla legge della società per azioni”, uti socius e jure
privatorum appunto, e non jure imperii;
che inoltre, quanto all’oggetto sociale della s.p.a. Dolomiti Bus, è sufficiente rileggere il su riprodotto art. 4 dello stesso Statuto sociale, per rilevare che esso non prevede attività di interesse pubblico da esercitarsi in forma assolutamente prevalente, né evidenzia poteri speciali di influenza e/o di
ingerenza, ulteriori rispetto agli strumenti previsti dal diritto societario, dei predetti azionisti pubblici;
che il tribunale ordinario territorialmente competente, dinanzi al quale le parti sono rimesse,
provvederà anche a regolare le spese della presente fase del giudizio, tenendo conto della sostanziale
novità della questione di giurisdizione trattata.
P.Q.M.
Dichiara la giurisdizione del Giudice ordinario, rimettendo le parti dinanzi al tribunale competente per territorio, che provvederà anche al regolamento delle spese della presente fase del giudizio.
(Omissis)
48
GIURISPRUDENZA
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA
NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE:
LE SEZIONI UNITE DECIDONO MA NON CONVINCONO
1. Premessa
L’art. 2449 c.c. oggi prevede che, nelle società a partecipazione pubblica, lo
statuto possa conferire agli enti pubblici soci la facoltà di nominare direttamente,
e revocare, amministratori o sindaci della società.
Una previsione analoga era contenuta, prima della riforma del diritto societario del 2003, nell’art. 2458 c.c.
Si è sempre posta nel passato (sulla base dell’art. 2458 c.c.) e continua a porsi
oggi (sulla base dell’art. 2449 c.c.) la questione se la nomina, e soprattutto la revoca, degli amministratori della società operata dall’ente pubblico in via diretta, ossia al di fuori dell’assemblea, siano atti di diritto privato e societario, o invece atti
di diritto pubblico, soggetti al regime del provvedimento amministrativo.
Si tratta in sostanza di stabilire se con tali atti (di nomina e di revoca) l’ente
pubblico eserciti un potere pubblicistico o una – sia pur speciale – facoltà di diritto privato.
La natura pubblicistica è stata a lungo sostenuta dalla prevalente dottrina amministrativistica (1), e ha nel passato trovato riscontro anche nella giurisprudenza
della Cassazione (2).
( 1 ) Basti citare: V. Ottaviano, Sull’impiego a fini pubblici della società per azioni, in Riv. soc., 1960,
pag. 1013 ss.; F. Benvenuti, Profili giuridici della organizzazione economica pubblica, in Riv. soc., 1962,
pag. 206 ss.; F.A. Roversi Monaco, Revoca e responsabilità dell’amministratore nominato dallo Stato (Osservazioni sugli artt. 2458 ss. del codice civile), in Riv. dir. civ., 1968, pag. 258 ss.
Per una recente ricostruzione di tale indirizzo dottrinale, cfr. G. Sala, Del regime giuridico delle società
a partecipazione pubblica: contributo alla delimitazione dell’ambito del diritto dell’amministrazione (della cosa) pubblica, in Servizi pubblici e società private, quali regole? a cura di V. Domenichelli, G. Sala, Padova, 2007, pag. 58 ss.
Per una ricostruzione completa di tale problematica, cfr. M. Cammelli, A. Ziroldi, Le società a partecipazione pubblica nel sistema locale, II ed., Rimini, 1999, pag. 186 ss.
La natura del potere di nomina e revoca è stato recentemente studiato, anche con specifico riferimento
alle s.r.l., da R. Ursi, Società ad evidenza pubblica, Napoli, 2012, pag. 190 ss.
Per una ricostruzione complessiva delle problematiche relative alla rappresentanza dell’ente locale
azionista nell’assemblea della società, cfr. le preziose indicazioni di G. Falcon, Sulla rappresentanza dell’ente locale azionista nell’assemblea della società, in Foro amm., 1989, pag. 1293 ss.
( 2 ) Cfr. Cass. civ., sez. I, 15 luglio 1982, n. 4139, ove si statuisce che «La revoca di cui agli artt. 24582459 c.c. è disposta dall’ente pubblico con un atto amministrativo (in tale ipotesi un’eventuale delibera assembleare di revoca ha carattere meramente dichiarativo o ricognitivo). Il giudice ordinario non può pertanto sindacare se sussiste giusta causa di revoca ai sensi dell’art. 2383 c.c.». La sentenza è pubblicata in Giur. comm.,
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
49
Ma altra parte della dottrina ha sempre sostenuto una ricostruzione privatistica (3), la quale ha finito per affermarsi come prevalente sia nella giurisprudenza
amministrativa sia in quella della Cassazione. L’ordinanza in commento è espressione di tale ricostruzione privatistica.
2. I fatti, le norme e la questione decisa dalla Corte
La Dolomiti Bus s.p.a. è una società a partecipazione mista pubblico privata,
partecipata dalla Provincia e dal Comune di Belluno, che non fa ricorso al mercato
di capitali di rischio, costituita e operante per la gestione del servizio di trasporto
pubblico automobilistico.
L’art. 2449 cod. civ. prevede che «Se lo Stato o gli enti pubblici hanno partecipazioni in una società per azioni che non fa ricorso al mercato di capitali di rischio, lo
statuto può ad essi conferire la facoltà di nominare un numero di amministratori e
sindaci, ovvero componenti del consiglio di sorveglianza, proporzionale alla partecipazione al capitale sociale. // Gli amministratori e i sindaci o i componenti del consiglio di sorveglianza nominati a norma del primo comma possono essere revocati soltanto dagli enti che li hanno nominati. Essi hanno i diritti e gli obblighi dei membri
nominati dall’assemblea».
L’art. 21 dello Statuto di tale società prevede che «Il Comune di Belluno e la
Provincia di Belluno, quali soci pubblici, ai sensi dell’art. 2449 del Codice Civile,
hanno il diritto di procedere alla nomina diretta degli amministratori proporzionalmente alla propria partecipazione al capitale», aggiungendo che «Gli amministratori
nominati ex art. 2449 C.C. dai Soci Pubblici ... possono essere revocati esclusivamente dai soggetti che li hanno nominati».
Quanto alla competenza ad effettuare tale nomina e revoca, l’art. 50, comma
o
8 , del d.lgs. n. 267 del 2000, statuisce che «Sulla base degli indirizzi stabiliti dal
consiglio il sindaco e il presidente della provincia provvedono alla nomina, alla desi-
1983, II, pag. 509 con una interessante nota di commento di F. Bonelli, La revoca degli amministratori
nominati dallo Stato o da enti pubblici.
( 3 ) A. Scognamiglio, Sulla revoca dell’amministratore nominato dallo Stato o da enti pubblici ex art.
2458, in Foro amm., 1984, I, pag. 571; G. Minervini, Gli amministratori di società per azioni, Milano,
1956.
Si ricorda che M.S. Giannini, nell’opera Diritto amministrativo, Milano, 1970, pag. 215, nel riferirsi
alle norme del Codice Civile che disciplinano le partecipazioni pubbliche (artt. 2458, 2459 e 2460), afferma «Queste poche norme hanno dato luogo ad alquante difficoltà applicative, ma – come si vede – non costituiscono deroghe profonde alle norme generali delle società di capitali, e potrebbero essere convenute anche in
sede di autonomia privata. Per il resto le società con partecipazione pubblica sottostanno integralmente al regime privatistico ordinario (ossia non danno neppur luogo ad un diritto privato speciale)».
50
GIURISPRUDENZA
gnazione e alla revoca dei rappresentanti del comune e della provincia presso enti,
aziende ed istituzioni». Il potere di indirizzo del consiglio è previsto dall’art. 42,
comma 2o, lett. m) del medesimo testo unico enti locali, il quale attribuisce al consiglio comunale la competenza relativamente alla «definizione degli indirizzi per la
nomina e la designazione dei rappresentanti del comune presso enti, aziende ed istituzioni».
Nel dicembre 2009, il Presidente della Provincia di Belluno, con proprio decreto, ha nominato, ai sensi dell’art. 21 dello Statuto della Società, il presidente e
un consigliere del consiglio di amministrazione della s.p.a.
Nel 2011 il Presidente della Provincia di Belluno ha adottato, ai sensi del combinato disposto dell’art. 2449 c.c. e dell’art. 21 dello statuto sociale, un atto di revoca dall’incarico dei due soggetti nominati «essendo venuto meno il rapporto di fiducia con la Provincia, non essendosi [essi] attenuti alle direttive di voto della Socia
Provincia in sede di Assemblea».
Più esattamente, la revoca è stata motivata con il rilievo che, in occasione della
deliberazione del consiglio di amministrazione della Dolomiti Bus s.p.a. avente ad
oggetto la proposta di cessione delle azioni della ATVO s.p.a. posseduta dalla società, i predetti rappresentati della Provincia, nonostante l’avviso contrario alla
cessione espresso dalla stessa Provincia, avevano votato a favore, e che «tale comportamento [è] contrario alle direttive di voto fornite dal socio Provincia in sede di
assemblea e [manifesta], pertanto, il venir meno del rapporto di fiduciario che deve
sempre sussistere tra il vertice dell’Amministrazione e i suoi rappresentati in Società,
Enti, Aziende e Istituzioni».
Dunque: la Provincia ha impartito agli amministratori da essa nominati precise
direttive relative allo sviluppo dell’attività societaria; i consiglieri non hanno seguito tali direttive; questo ha fatto venire meno il rapporto di fiducia e ha pertanto
determinato la revoca della loro nomina.
Contro l’atto di revoca i soggetti interessati hanno presentato ricorso al TAR
Veneto, chiedendo: – l’annullamento dell’atto di revoca (nonché degli atti di nomina dei nuovi consiglieri individuati); – la condanna dalla Provincia a disporre la
reintegrazione dei ricorrenti nel Consiglio di amministrazione; – la condanna della
Provincia al risarcimento dei danni.
Uno dei due soggetti controinteressati nel giudizio pendente avanti il TAR Veneto, in quanto nominato dalla Provincia nel Consiglio di amministrazione al posto dei soggetti revocati, ha proposto in Cassazione istanza di regolamento di giurisdizione, chiedendo che le Sezioni Unite della Corte dichiarassero la giurisdizione del Giudice Ordinario.
La questione interpretativa oggetto dell’ordinanza in commento, pertanto, è
individuato dalla stessa Cassazione esattamente nei seguenti termini: «la questione
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
51
di giurisdizione, sottoposta per la prima volta a queste Sezioni Unite, consiste nello
stabilire se la controversia, avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di
revoca dei rappresentanti della provincia presso una società per azioni partecipata
parzialmente dalla stessa provincia – disposta dal presidente pro tempore della provincia, ai sensi del citato art. 50, comma 8, d.lgs. n. 267 del 2000 – e le conseguenti
domande di tutela reale (reintegrazione) e risarcitoria siano attribuite alla cognizione
del Giudice ordinario oppure del Giudice amministrativo».
3. Le prospettazioni delle parti e l’inquadramento che ne deriverebbe (a giudizio
di chi scrive)
Per inquadrare la vicenda nei suoi esatti termini appare opportuno partire dalle prospettazioni avanzate dalle due parti in causa.
I soggetti revocati dalla carica sostengono la giurisdizione del Giudice amministrativo, avanti al quale avevano presentato il ricorso. Il loro ricorso avanti il TAR
Veneto, infatti, partiva dal presupposto che la revoca di amministratori di società
partecipate da enti pubblici fosse espressione di un potere pubblico. In particolare
essi sostengono che l’art. 2449 c.c. prevede la possibilità che la nomina e la revoca
degli amministratori da parte dell’ente pubblico socio «sia assoggettata al suo potere unilaterale, espressivo di pubblica funzione, consistente nel garantire il rispetto,
da parte dei nominati, degli indirizzi fissati dall’organo politico dell’Ente locale, al fine di assicurare continuità e coerenza di strategie, programmi ed azione tra Ente pubblico affidante e società affidataria del pubblico servizio», con la conseguenza che
«l’art. 2449 non muta la natura autoritativa del potere attribuito al Sindaco ed al
Presidente della Provincia dall’art. 50, comma 8o, d.lgs. n. 267/2000, ma ne integra
una sorta di presupposto legale di operatività».
Il nuovo amministratore nominato, con il ricorso per regolamento preventivo
di giurisdizione, al contrario, sostiene la giurisdizione del giudice ordinario sulla
base di un percorso argomentativo del tutto differente. Egli sostiene che il potere
di nomina e revoca degli amministratori da parte della Provincia di Belluno «è previsto per il Comune e la Provincia di Belluno dall’art. 21 dello Statuto sociale della
s.p.a. Dolomiti Bus, che richiama esplicitamente l’art. 2449 cod. civ., sicché l’esercizio di tale potere deve intendersi attribuito a detti Enti pubblici esclusivamente in ragione della loro qualità di soci della Società partecipata e non come espressione di un
potere di natura pubblicistica a tutela e cura di interessi generali della comunità locale».
A giudizio di chi scrive, a fronte delle due ricostruzioni delle parti, si manifesta
con immediatezza il fatto che la scelta tra le due soluzioni qualificatorie alternative
52
GIURISPRUDENZA
possa e debba essere basata sul rapporto tra l’art. 50, comma 8o, del d.lgs. n. 256/
2000 e l’art. 2449 c.c.
Dunque, le due alternative qualificatorie potrebbero e dovrebbero essere ricostruite nei termini seguenti.
Sub a. La soluzione pubblicistica si fonda sulla considerazione che la previsione codicistica (e statutaria) della potestà di nomina e revoca non fa venire meno la
natura provvedimentale dell’atto di nomina e di revoca, in quanto la natura pubblica di tale atto si radica comunque sull’art. 50, comma 8o, del d.lgs. n. 267/2000.
In altre parole: l’art. 50, comma 8, del d.lgs. n. 267 del 2000, anche nel momento in cui viene richiamato (implicitamente) dall’art. 2449 cod. civ., mantiene la
sua natura di norma di diritto pubblico del testo unico enti locali, che prevede e
disciplina l’esercizio di un potere amministrativo di nomina da parte del Sindaco o
del Presidente della Provincia;
Sub b. La soluzione privatistica, al contrario, si basa sulla considerazione che
la previsione da parte dell’art. 50 d.lgs. n. 267/2000 del potere di nomina e revoca
in capo al Sindaco e al Presidente della provincia non fa venir meno la natura privata dell’atto di nomina e di revoca, in quanto la natura privata di tale atto si radica sull’art. 2449 e sulla relativa previsione statutaria.
In altre parole: l’art. 50, comma 8o, nel momento in cui è richiamato dall’art.
2449 cod. civ., viene da questo assorbito, e dunque diviene una norma di diritto
societario, che prevede l’esercizio da parte del Sindaco e del Presidente della Provincia di potestà societarie e di diritto privato.
Se, come appare corretto a chi scrive, la questione venisse prospettata nel modo sopra proposto, la soluzione giuridicamente preferibile apparirebbe abbastanza scontata, alla luce della considerazione che una norma (l’art. 50 del d.lgs. n.
267/2000) mantiene comunque la propria natura, anche quando venga richiamata
da norma appartenente ad altro sistema (l’art. 2449 c.c.).
Infatti è certamente vero che l’art. 2449 cod. civ. (con la relativa previsione statutaria) è norma di diritto privato che, per parte sua, non potrebbe che qualificare
in termini societari, la facoltà di nomina attribuita allo Stato e agli enti pubblici.
Ma, e qui sta il punto dirimente, l’art. 2449 c.c., e la previsione statutaria da esso
facoltizzata, non si occupano affatto di qualificare l’atto di nomina operato dall’ente pubblico socio.
Dunque, nel caso in cui tale nomina spetti al Comune o alla Provincia, l’art.
2449 cod. civ. e la connessa previsione statutaria non fanno altro che rinviare e richiamare l’applicazione dell’art. 50, comma 8o del d.lgs. n. 267 del 2000, quale
unica norma del nostro ordinamento che disciplina il procedimento e l’atto di nomina da parte di tali enti dei propri rappresentanti in seno alla società.
E l’art. 50, comma 8o, del d.lgs. n. 267 del 2000 è certamente norma di diritto
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
53
pubblico che, per parte sua, qualifica in termini pubblicistici, di esercizio di potere discrezionale, la facoltà di nomina attribuita al Sindaco e al Presidente della
Provincia, procedimentalizzando la relativa scelta (4).
Dunque, a giudizio di chi scrive, alla luce delle considerazioni sopra svolte, la
soluzione del problema sottoposto alla Corte apparirebbe abbastanza piana e semplice, nel senso dell’affermazione della giurisdizione del Giudice amministrativo.
In tale quadro, l’affermazione della giurisdizione del Giudice Ordinario si prospetterebbe solo se l’art. 2449 cod. civ. prevedesse espressamente che gli enti pubblici nominano gli amministratori «con l’esercizio dei poteri del socio privato», ossia
solo nel caso in cui l’art. 2449 cod. civ. si spingesse a qualificare espressamente in
termini privatistici anche la nomina compiuta da Comuni e Province (e disciplinata anche dall’art. 50 del testo unico enti locali).
In tale caso, si avrebbe una antinomia normativa (sia pure apparente) tra art.
2449 cod. civ. e art. 50 testo unico enti locali. E tale apparente antinomia andrebbe risolta alla luce del principio di specialità, ossia nel senso della prevalenza della
qualificazione privatistica prevista dall’art. 2449 cod. civ. quale norma speciale per
la nomina di amministratori di società per azioni (rispetto all’art. 50 quale norma
generale relativa al potere di nomina nella generalità degli enti e soggetti partecipati).
Ma l’art. 2449 cod. civ. nulla dice sulla potestà di nomina e revoca che esso
stesso genericamente attribuisce agli enti pubblici, e pertanto – così omettendo –
necessariamente rinvia all’art. 50 d.lgs. n. 267/2000.
E l’art. 50 è una norma di diritto pubblico, che prevede e disciplina l’esercizio
di poteri amministrativi.
L’ordinanza della Cassazione in commento, tuttavia, opera un inquadramento
della problematica su basi del tutto diverse, e dunque giunge attraverso varie argomentazioni ad una conclusione opposta a quella sopra proposta.
4. L’affermazione della giurisdizione del Giudice Ordinario e le argomentazioni
che la sorreggono nell’ordinanza delle Sezioni Unite
L’ordinanza delle Sezioni Unite dunque conclude la propria analisi affermando che «alla luce di tutte le considerazioni che precedono e, segnatamente, della
clausola normativa ermeneutica generale di cui al menzionato art. 4, comma 13,
( 4 ) La procedimentalizzazione è rappresentata dal fatto che tale nomina da parte del Sindaco o del
Presidente della Provincia deve essere effettuata nel rispetto degli indirizzi espressi dal Consiglio comunale
o Provinciale, come previsto dall’art. 42, comma 2o, lett. m) del d.lgs. n. 267 del 2000.
54
GIURISPRUDENZA
quarto periodo del d.l. n. 95 del 2012 – non v’è dubbio che la controversia nella specie promossa ... sia da attribuire al Giudice ordinario territorialmente competente».
Per la Corte, dunque, le argomentazioni svolte non lasciano luogo ad alcun
dubbio: si deve dunque analizzarle, verificando se effettivamente esse siano così risolutive, come la Corte sostiene.
Le argomentazioni della Corte si sviluppano su sei elementi:
1. l’affermazione della «natura» privatistica della società partecipata dall’ente pubblico, basata sul consolidato orientamento delle Sezioni Unite (5);
2. l’art. 2449 c.c., nella parte in cui individua nello statuto quale atto negoziale la fonte esclusiva dell’attribuzione all’ente pubblico della facoltà di nominare
direttamente gli amministratori;
3. l’art. 2449 c.c., nella parte in cui afferma la parità di status di tutti gli amministratori prevedendo che gli amministratori nominati dall’ente pubblico in via
diretta hanno «i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea»;
4. l’affermazione che gli atti di nomina e revoca degli amministratori da parte dell’ente pubblico debbano essere ascritti agli atti societari «a valle» della scelta
di fondo di utilizzare il modello societario, e restano perciò interamente assoggettate alle regole del diritto commerciale, sulla base del consolidato orientamento
delle Sezioni Unite (6);
5. l’art. 4, comma 13 del d.l. n. 95 del 2012, secondo cui «Le disposizioni del
presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per
quanto non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la
disciplina del codice civile in materia di società di capitali»;
6. l’affermazione che la Corte di giustizia ha giudicato contrastare con il diritto comunitario la presenza di disposizioni che incidano sul principio della parità
di trattamento tra gli azionisti e l’affermazione che l’intuitus personae sotteso al
( 5 ) L’ordinanza in commento cita quali precedenti essenzialmente la sentenza Cass., Sez. Un., 15 aprile 2005, n. 7799.
In tale sentenza la Corte affronta in modo approfondito il tema se tale controversia rientri o meno nella
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di servizi pubblici, arrivando ad escluderlo.
Quanto alla giurisdizione generale di legittimità, la Corte la esclude sulla base della seguente considerazione: «La facoltà attribuita all’ente pubblico dal citato art. 2458 c.c. è, quindi, sostitutiva della generale competenza dell’assemblea ordinaria, trovando la sua giustificazione nella peculiarità di quella tipologia di soci, e
deve essere qualificata estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto
privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria, restando esclusa
qualsiasi sua valenza amministrativa».
Anche questa sentenza delle Sezioni Unite è stata generata da una controversia sorta avanti il TAR Veneto, il quale declinò la propria giurisdizione.
( 6 ) Il riferimento è alla sentenza Cass., n. 30167 del 2011, all’ordinanza n. 21588 del 2013 e alla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 3 giugno 2011.
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
55
rapporto di nomina degli amministratori esclude la rilevanza immediata dei principi di imparzialità e buon andamento sanciti dall’art. 97 Cost. (come sarebbe stato affermato dalla Corte costituzionale).
Sub 1. Quanto al primo argomento, l’ordinanza della Corte in molteplici passaggi rimarca che si è ormai consolidato il principio di diritto secondo il quale «la
società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di
diritto privato solo perché il Comune ne possegga, in tutto o in parte, le azioni, in
quanto il rapporto tra società ed ente locale è di assoluta autonomia, al comune non
essendo consentito incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o
discrezionali, ma solo avvalendosi degli strumenti previsti dal diritto societario, da
esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società».
Il principio di diritto affermato è certamente consolidato, corretto e coerente
con il vigente ordinamento. Esso tuttavia, come è reso evidente dai riferimenti letterali in esso contenuti al rapporto tra società e ente e all’attività della società, non
riguarda la questione che ci occupa, ossia la qualificazione del potere di nomina
degli amministratori ex art. 50 d.lgs. n. 267 del 2000.
In altre parole, il principio di diritto richiamato dalla Corte, a volerlo leggere
con attenzione, dà già per avvenuta la nomina comunale (o provinciale) dei membri degli organi societari, e quindi non pertiene al regime giuridico applicabile a
tale nomina.
D’altra parte, in assenza di alcuna spiegazione al riguardo, non si vede in quale
modo l’affermazione della natura privata della società partecipata da enti pubblici
possa e debba influire in modo determinante sulla natura giuridica dell’atto con il
quale il Sindaco o il Presidente della Provincia nominano un membro del consiglio di amministrazione della s.p.a.
In conclusione, il principio di diritto richiamato a sostegno della soluzione
proposta è sì in sé corretto, ma non appare affatto risolutivo rispetto alla soluzione
della questione sottoposta alla Corte.
Sub 2. Con il secondo argomento, la Corte sostiene che se è lo statuto societario la fonte esclusiva dell’attribuzione all’ente pubblico della facoltà di nominare
direttamente gli amministratori, ne deriva che tale nomina è espressione di una
potestà di diritto privato, espressiva di una situazione giuridica societaria, restando esclusa qualsiasi sua valenza amministrativa.
In realtà, la circostanza che l’art. 2449 c.c. affidi allo statuto la scelta di attribuire all’ente pubblico la facoltà di nomina diretta di alcuni amministratori, non
elimina il fatto che tale nomina, sempre e comunque, dovrà essere effettuata dall’ente locale ai sensi e per gli effetti dell’art. 50 d.lgs. n. 267 del 2000.
56
GIURISPRUDENZA
Ed infatti, anche lo statuto della Dolomiti Bus s.p.a., certamente prevede il potere di nomina diretta da parte della Provincia di Belluno, ma non si occupa minimamente di disciplinare come la Provincia debba procedere ad effettuare tale nomina. E ciò per il motivo che le modalità con le quali una Provincia provvede alla
nomina è ordinamento degli enti locali, e certamente uno statuto societario non
può disciplinare (e infatti quello in esame non va a disciplinare) l’ordinamento degli enti locali.
Sub 3. Il terzo argomento è incentrato sul principio della parità di status tra
amministratori. La Corte sottolinea che l’art. 2449 c.c. sancisce il principio della
parità di status tra amministratori di nomina diretta pubblica e amministratori di
nomina assembleare: secondo la Corte tale parità «implica indefettibilmente parità
di tutela, che risulterebbe vulnerata da un trattamento differenziale più favorevole
agli amministratori di nomina pubblica per il solo fatto che tale nomina, con conseguente implico riconoscimento di una posizione di “privilegio” del socio pubblico rispetto al socio privato» (7).
Anzitutto, si deve lamentare l’assoluta contraddittorietà del ragionamento della Corte: se l’amministratore nominato dall’ente pubblico è più protetto dall’ente
che lo ha nominato (di quanto lo sia l’amministratore di nomina assembleare rispetto all’assemblea), è del tutto evidente che l’ente che lo ha nominato non ha affatto una posizione «privilegiata» ma al contrario ha, al massimo, una posizione
«meno favorevole».
In realtà, appare del tutto improprio parlare di posizione «privilegiata» come
di posizione «meno favorevole» con riferimento ad una qualificazione pubblicistica dell’atto di nomina. Una qualificazione pubblicistica infatti implica l’esercizio
di un potere, che si esplica attraverso atti che non sono retti dalla libertà ed autonomia privata, ma dalla funzionalizzazione, ossia dall’obbligo di perseguire l’interesse pubblico e di rendere trasparente e giustificare le modalità attraverso le quali
si persegue tale interesse. E tale posizione di potere non è né privilegiata né sfavorevole rispetto a quella di autonomia privata, è semplicemente ontologicamente
diversa e quindi non paragonabile.
Di riflesso, in caso di qualificazione pubblicistica dell’atto di nomina, anche la
posizione dell’amministratore nominato dall’ente pubblico sarebbe diversa, in
quanto di interesse legittimo e non di diritto soggettivo. E certo – anche qui – appare poco pertinente qualificare tale diversità in termini di privilegio o di sfavore.
Passando al merito dell’argomento usato, esso è certamente rilevante ma non
( 7 ) Sulla tutela civilistica e risarcitoria che viene garantita ad un amministratore di una società a partecipazione pubblica revocato dall’ente pubblico senza giusta causa, cfr. Cass. civ., 15 ottobre 2013, n.
23381, con nota di F. Salinas, in Giur. comm., 2014, II, pag. 1011 ss.
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
57
può essere considerato decisivo per affermare la giurisdizione del giudice ordinario.
In primo luogo a noi pare che la norma per come è scritta si voglia riferire al
ruolo che gli amministratori hanno nella società: essi hanno gli stessi diritti e gli
stessi obblighi nella società e verso la società. Ma non vuole necessariamente anche significare che essi devono essere equiparati rispetto ai diritti e gli obblighi che
hanno verso i soggetti che li hanno nominati (8).
In altre parole, l’affermazione della equiparazione dello status degli amministratori certamente rappresenta un argomento a favore della equiparazione anche
della tutela dell’amministratore verso l’ente o l’assemblea che lo voglia revocare:
tuttavia si tratta di un argomento non così forte da superare quello rappresentato
dalla vigenza dell’art. 50 d.lgs. n. 267 del 2000 quale norma che prevede l’esercizio
di un potere amministrativo. E comunque la Corte non approfondisce tale argomento quando, invece, a parere di chi scrive, esso rappresentava l’argomento più
fecondo per tentare di affermare la giurisdizione del giudice ordinario.
Sub 4. Il quarto argomento si fonda sull’affermazione che gli atti di nomina e
revoca degli amministratori da parte dell’ente pubblico debbano essere ascritti
agli atti societari «a valle» della scelta di fondo di utilizzare il modello societario.
L’applicazione di questo criterio di giudizio agli atti di nomina e revoca degli
amministratori da parte dei Sindaci e Presidenti di Provincia appare piuttosto arbitrario.
Gli atti di nomina di un amministratore sono certamente atti «a valle» della
scelta di ricorrere al modello societario, ma sono altrettanto certamente atti «a
monte» rispetto a tutta l’attività della società e degli stessi amministratori nominati
dall’ente pubblico.
Pertanto, attribuire un valore ontologico dirimente alla distinzione tra atti «a
monte» e atti «a valle» della scelta di ricorrere al modello societario non appare
così convincente con riferimento alla fattispecie in esame.
In altra parole, l’ordinanza richiama una regola generale (e generica) elaborata
dalla Cassazione sul riparto di giurisdizione in tema di società pubbliche, ma senza
verificarne l’applicabilità e l’utilità nel caso di specie, che infatti è assai dubbia. Se
infatti si legge con attenzione il principio affermato dai precedenti della Cassazione (9), si verifica come le parole e i concetti ivi enunciati non si attaglino al problema della natura giuridica dell’atto di nomina degli amministratori da parte dei Sindaci e Presidenti di province ex art. 50 d.lgs. n. 267/2000.
Dunque, anche qui l’ordinanza richiama principi generali in tema di riparto,
( 8 ) Cfr. V. Ottaviano, Sull’impiego a fini pubblici della società per azioni, cit., pag. 1051.
( 9 ) Il riferimento è alla sentenza Cass. n. 30167 del 2011, all’ordinanza n. 21588 del 2013 e alla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 10 del 3 giugno 2011.
58
GIURISPRUDENZA
ma non si preoccupa di verificarne la rilevanza e il valore risolutivo con riferimento al problema specifico in esame.
Sub 5. Il quinto argomento è definito dalla Corte come quello risolutivo, ossia
idoneo a risolvere qualsiasi dubbio potesse essere rimasto alla luce degli argomenti
precedenti.
L’art. 4, comma 13 del d.l. n. 95 del 2012, dispone: «Le disposizioni del presente articolo e le altre disposizioni, anche di carattere speciale, in materia di società a
totale o parziale partecipazione pubblica si interpretano nel senso che, per quanto
non diversamente stabilito e salvo deroghe espresse, si applica comunque la disciplina del codice civile in materia di società di capitali».
Tuttavia, il valore risolutivo attribuito dall’ordinanza alla norma riportata lascia perplessi.
Non si vuole mettere in dubbio l’importanza della norma in oggetto, che certamente, come dice la Cassazione, contiene una «clausola normativa ermeneutica generale (norma di chiusura)» (che forse, peraltro, era già ricavabile dal sistema).
Quello che invece non si coglie è la sua efficacia risolutiva rispetto al tema che
ci occupa.
Nel caso in esame, infatti, che si applichi la disciplina del codice civile è il dato
di partenza. È certo che alla nomina e revoca degli amministratori si applica l’art.
2449 c.c. Dunque, l’art. 4 cit. che ci dice che si deve applicare la disciplina del codice civile nulla muta per la questione che ci occupa.
La nostra fattispecie è infatti caratterizzata non dal dubbio se si applichi o meno
l’art. 2449 c.c., ma dal fatto che certamente si applica anche l’art. 50 d.lgs. n. 267/
2000.
Dunque l’art. 4 non muta i termini del problema, in quanto certamente nessuno può sostenere che l’art. 4 del d.l. 95/2012 abbia tacitamente abrogato l’art. 50
del d.lgs. n. 267/2000, imponendone la sostituzione con una disciplina del codice
civile ... che non c’è.
D’altra parte, si evidenzia anche che l’art. 4 si premura altresì di fare salvo
«quanto diversamente stabilito» rispetto alla disciplina codicistica. Ma nella nostra
fattispecie tale clausola di salvaguardia non è necessaria per fare salvo l’art. 50 del
d.lgs. n. 267/2000, proprio perché non esiste alcuna disciplina codicistica sulla nomina degli amministratori da parte di Sindaci e Presidenti di provincia rispetto alla quale l’art. 50 d.lgs. n. 267/2000 possa essere considerato in contrasto.
Dunque, l’affermazione della portata risolutiva dell’art. 4 del d.l. 95/2012 appare decisamente non convincente.
Sub 6. Dopo che il quinto argomento, nella prospettazione della Corte, ha risolto ogni dubbio, il sesto viene quasi aggiunto, senza troppa convinzione né argomentazione. E infatti esso non convince affatto.
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
59
In primo luogo viene invocato il principio di parità di trattamento tra gli azionisti elaborato dalla Corte di Giustizia. Ma certamente tale principio non si riferisce alla questione in esame.
In secondo luogo, vengono invocate due sentenze della Corte costituzionale
(n. 35/1992 e n. 233/2006) le quali – secondo l’ordinanza – avrebbero elaborato il
principio secondo il quale «l’intuitus personae sotteso al rapporto di nomina degli
amministratori esclude al rilevanza immediata dei principi di cui all’art. 97, secondo
comma, Cost. (buon andamento e imparzialità)».
In realtà, ad un attento esame, nella sentenza della Corte cost. n. 35/1992 non
si trova affermato il principio enunciato dalla Cassazione.
Quanto alla sentenza della Corte cost. n. 233 del 2006, essa, oltre a non affermare il principio indicato dall’ordinanza, offre semmai indicazioni nel senso contrario. In essa infatti si statuisce che le procedure di nomina e revoca dei rappresentanti degli enti pubblici negli organi delle società non sono soggetti solo alla disciplina codicistica e non appartengono alla materia «ordinamento civile», tanto è
vero che possono essere disciplinati da leggi regionali.
5. La vera ragione giuridica della decisione delle Sezioni Unite
Se le argomentazioni utilizzate non paiono in sé così convincenti e risolutive, e
purtuttavia la Corte si è pronunciata nel senso indicato, deve essere individuata
nel corpo dell’ordinanza una ragione giuridica ulteriore e forte.
A giudizio di chi scrive tale ragione si ritrova nella prospettiva dalla quale giudicano le Sezioni Unite, ossia quella di operare, possibilmente in modo chiaro e
schematico, regole di riparto di giurisdizione valevoli in generale.
In tale prospettiva, la ratio della decisione può essere trovata nel passaggio ove
la Corte espressamente afferma di inquadrare il problema in esame «nella prospettiva di una più articolata sistemazione del riparto di giurisdizione». La Corte vuole
mantenere una chiarezza, semplicità e schematicità di regola di riparto di giurisdizione nella materia delle società a partecipazione pubblica.
Essa dunque applica anche alla problematica in esame il criterio di riparto che
distingue tra atti adottati «a monte» della scelta di utilizzare il modello societario e
atti adottati «a valle» di tale scelta, perché esso è un criterio che ha il pregio della
chiarezza, della semplicità e della schematicità, a vantaggio dell’intero sistema.
E, come dire, la circostanza che tale regola generale non sia perfettamente attinente e convincente rispetto alla specifica problematica in esame passa in secondo
piano: prevale l’esigenza del sistema di riparto considerato nel suo complesso.
Se questa è la prospettiva, allora non deve stupire il fatto che le plurime argo-
60
GIURISPRUDENZA
mentazioni giuridiche sviluppate non siano in sé così convincenti e risolutive.
D’altra parte, la soluzione accolta dalle Sezioni Unite della Cassazione ha altresì il vantaggio di trovare consenziente il Giudice Amministrativo.
Vi sono infatti varie pronunce nelle quali il Giudice Amministrativo ha affermato che negli atti di nomina e revoca degli amministratori non è configurabile
l’esercizio di potere pubblico e che tali atti sono privi di quella preordinazione alla
realizzazione dell’interesse pubblico che è necessaria per catalogarli come provvedimenti amministrativi (10).
6. Conclusioni: l’invito a rileggere le ricostruzioni dottrinali del passato sulla natura pubblica degli atti di nomina e revoca degli amministratori delle società
da parte degli enti pubblici
L’analisi sopra condotta dunque conduce a due constatazioni, e ad una sollecitazione.
In primo luogo si deve prendere atto che sia il giudice della giurisdizione sia il
giudice amministrativo oggi ritengono che la nomina e revoca degli amministratori
costituisca esercizio di un potere privato.
In secondo luogo, si deve osservare che le argomentazioni sviluppate a sostegno di tale qualificazione non appaiono convincenti e stringenti, mentre sarebbe
molto più piana la via della qualificazione pubblicistica.
Tali due considerazioni devono sollecitare l’interprete ad andare a rileggere
quella – sia pur risalente – dottrina che, con approfondimento sistematico e logica
( 10 ) Cons. Stato, sez. V, 13 giugno 2003, n. 3346, ove si statuisce che «L’inconfigurabilità nella specie di
un potere pubblico si fonda, inoltre, sul rilievo che, mentre quest’ultimo postula la sua diretta derivazione da
una disposizione legislativa, la facoltà di nomina degli amministratori non risulta costituita in capo agli enti
pubblici direttamente dall’art. 2458 c.c. (che contempla la sola possibilità che tale potestà venga attribuita a
quel tipo di soci in sede statutaria) ma dalla conforme (e libera) determinazione costitutiva della società», aggiungendosi che gli atti di revoca degli amministratori rappresentano una categoria di atti che «risulta in
sintesi priva della necessaria preordinazione, per la loro catalogazione come provvedimenti amministrativi, alla realizzazione dell’interesse pubblico, che, nella presente materia, coincide con la selezione delle modalità
gestionali maggiormente utili al soddisfacimento dei bisogni cui risulta finalizzato il servizio e con l’efficiente
amministrazione del modulo prescelto», e concludendo dunque nel senso che «Va, quindi, negata la sussistenza della giurisdizione generale di legittimità, per il dirimente rilievo che l’oggetto della lite non è qualificabile come un atto amministrativo».
Tale sentenza è stata pronunciata su appello proposto contro la sentenza del TAR Veneto, sez. I, 13
agosto 2002, n. 4127 ove si affermava che «l’atto impugnato, ancorché riconducibile ad una pubblica amministrazione, non costituisce estrinsecazione di potestà amministrative ma esercizio di poteri negoziali di natura
civilistica ... per cui la situazione soggettiva degli amministratori, indipendentemente da quale ne sia il contenuto specifico ed il tipo di censure dedotte, è configurabile in termini di diritto soggettivo ed è tutelabile, come
tale, dianzi al giudice ordinario».
L’INCERTA NATURA DEGLI ATTI DI NOMINA NELLE SOCIETÀ PUBBLICHE
61
argomentativa, perveniva a concludere che il potere di nomina e di revoca sono
espressioni di un potere pubblicistico.
Come affermato anche di recente da autorevole dottrina (G. Sala), infatti, «La
tesi di un potere pubblicistico aveva certo una sua coerenza» (11).
Infatti, se si poteva pensare, come sosteneva F. Benvenuti, che «in fondo, anche la costituzione o la partecipazione, almeno quando sia maggioritaria, a società è
un modo di organizzazione (delle risorse dell’) amministrazione pubblica, in senso
oggettivo, si poteva inferirne che anche nella nomina e revoca diretta degli amministratori si esercita un potere, pubblicistico, di organizzazione» (12).
D’altra parte, V. Ottaviano, in una organica e sistematica ricostruzione della
natura e del regime giuridico delle società a partecipazione pubblica, in un passaggio afferma che «L’atto con cui l’ente pubblico incarica una persona di svolgere le
mansioni di amministratore ha natura analoga all’atto di nomina di ogni altro pubblico funzionario, cioè può ritenersi un atto di ammissione, per mezzo del quale il futuro amministratore entra a far parte di quella speciale forma di organizzazione amministrativa costituita mediante l’azionariato pubblico» (13).
Infine, il saggio nel quale in modo preciso e convincente si dimostra la natura
pubblicistica dell’atto di nomina e di revoca degli amministratori è senz’altro quello di F.A. Roversi Monaco del 1968, ove si arriva a dimostrare che la norma del
codice civile che prevede tale potere di nomina «è norma di diritto pubblico e che
dà luogo ad un rapporto parimenti pubblicistico» e che di conseguenza «sembra difficile contestare che l’atto di nomina concreta un vero e proprio provvedimento amministrativo» (14).
Se si leggono con attenzione i saggi sopra citati, ci si accorge che l’ordinamento
giuridico positivo ha sì subito da allora un’evoluzione, ma non tale da sconfessare
le fondamenta di tali ricostruzioni.
In assenza di nuove e diverse ricostruzioni che si rivelino più convincenti di
quelle sopra indicate, pertanto, la ricostruzione della natura pubblica di tali atti
appare ancora quella più coerente con il vigente ordinamento.
In realtà, come indicato ancora da G. Sala, vi è forse una norma sopravvenuta
di carattere generale che potrebbe legittimare nella dottrina un ribaltamento di
( 11 ) G. Sala, Del regime giuridico delle società a partecipazione pubblica: contributo alla delimitazione
dell’ambito del diritto dell’amministrazione (della cosa) pubblica, cit., pag. 64.
( 12 ) G. Sala, Del regime giuridico delle società a partecipazione pubblica: contributo alla delimitazione
dell’ambito del diritto dell’amministrazione (della cosa) pubblica, cit., pag. 64 ove si cita F. Benvenuti, Profili giuridici della organizzazione economica pubblica, in Riv. soc., 1962, pag. 210.
( 13 ) V. Ottaviano, Sull’impiego a fini pubblici della società per azioni, cit., pag. 1057.
( 14 ) F.A. Roversi Monaco, Revoca e responsabilità dell’amministratore nominato dallo Stato (Osservazioni sugli artt. 2458 ss. del codice civile), in Riv. dir. civ., 1968, passim.
62
GIURISPRUDENZA
prospettiva nella soluzione del problema qui in esame, e dunque fondare dogmaticamente la posizione espressa dalla giurisprudenza.
Si tratta del nuovo comma 1 bis dell’articolo 1 della legge n. 241 del 1990, il
quale «ponendo il principio per cui l’amministrazione nell’adozione di atti di natura
non autoritativa agisce secondo le norme del diritto privato, potrebbe offrire l’opzione ermeneutica per non forzare ricostruzioni in chiave pubblicistica» (15).
Dunque, si può ipotizzare che la soluzione indicata dalle Sezioni Unite Cassazione potrebbe essere fondata su di una lettura dell’art. 50 del d.lgs. n. 267 del
2000 che fosse condotta alla luce del nuovo comma 1 bis dell’art. 1 della legge n.
241.
Ma si tratta di un’operazione interpretativa che appare ancora tutta da compiere.
Jacopo Bercelli
( 15 ) G. Sala, Del regime giuridico delle società a partecipazione pubblica: contributo alla delimitazione
dell’ambito del diritto dell’amministrazione (della cosa) pubblica, cit., pag. 65.
Consiglio di Stato, Sez. V, 15 luglio 2013, n. 128 – Pres. F. Caringella – Est. Gaviano
Edilizia e urbanistica - Abuso edilizio - Sanzione a distanza di tempo - Onere di
motivazione - Caso di affidamento al mantenimento dell’opera - Sussistenza.
In casi eccezionali, nell’attivazione del potere repressivo dell’abuso edilizio a distanza di tempo, l’onere della motivazione dell’iniziativa sanzionatoria si impone come contrappeso proprio alla mancanza di termini di prescrizione – decadenza dell’esercizio del potere repressivo. Negli eccezionali casi accennati, infine, non vi sarebbe ragione di circoscrivere l’indicato onere motivatorio all’eventualità che l’Amministrazione intenda applicare in concreto la sola misura demolitoria, esonerandola nella diversa ipotesi in cui debba essere invece inflitta una sanzione pecuniaria.
Il divieto di norme sanzionatorie retroattive è stato costituzionalizzato per le sole
norme penali, ciò non toglie che per le sanzioni amministrative debba pur sempre valere il generale canone di irretroattività posto dall’art. 11 disp. prel. cod. civ.
ALCUNE RIFLESSIONI SUL PERMANENTE OBBLIGO
DI SANZIONARE L’OPERA EDILIZIA ABUSIVA
E SULLA RETROATTIVITÀ DELLE SANZIONI AMMINISTRATIVE
Le questioni che generalmente vengono in gioco di fronte ad un abuso edilizio
risalente nel tempo sono: la vincolatività dei provvedimenti sanzionatori, la possibilità che si formi o meno un qualche affidamento alla conservazione dell’opera
abusiva, la sussistenza o meno di un onere di motivazione sull’interesse pubblico
sotteso alla sanzione, la sua comparazione con gli interessi privati sacrificati, l’applicabilità della sanzione entrata in vigore dopo la realizzazione dell’abuso edilizio.
In ordine a tali punti la giurisprudenza dei Tribunali Amministrativi e del
Consiglio di Stato non è univoca, si possono infatti rinvenire numerose sentenze
sia in un senso che nell’altro; v’è da registrare, tuttavia, che ultimamente l’orientamento prevalente è quello dell’imprescrittibilità del potere repressivo e della sua
vincolatività.
Tale indirizzo arriva ad eliminare anche la necessità del rispetto delle garanzie
della partecipazione al procedimento, la cui comunicazione dell’avvio non è necessaria(1).
( 1 ) Cons. Stato, Sez. III, 26 giugno 2013, n. 649; Sez. VI, 29 dicembre 2012, n. 6071; Sez. IV, 19 settembre 2012, n. 4945; T.A.R. Veneto, Sez. II, 11 dicembre 2013, n. 1397; T.A.R. Campania, Napoli, Sez.
VIII, 15 gennaio 2010, n. 151.
64
GIURISPRUDENZA
Lo spunto del presente commento è quindi offerto dalla decisione in controtendenza del Consiglio di Stato che, nel confermare la sentenza del T.A.R. Campania-Napoli, Sezione IV n. 3426/2000, ha trovato argomenti per discostarsi dai
principi prevalenti di derivazione giurisprudenziale afferenti all’imprescrittibilità
del potere repressivo.
La decisione si cura di ripercorrere i principali arresti giurisprudenziali sulle
molteplici problematiche inerenti alle sanzioni edilizie irrogate dopo un lungo lasso di tempo dalla realizzazione dell’abuso edilizio.
I punti di partenza della giurisprudenza più rigorosa sono: il carattere di permanenza dell’abuso edilizio, o meglio il perdurare dei suoi effetti, la conseguente
imprescrittibilità del potere repressivo che non è soggetto né a termini di prescrizione, né di decadenza(2).
Da questi punti, la giurisprudenza trae la conseguenza che in capo all’autoreproprietario dell’abuso non si ingenera mai alcun affidamento alla conservazione
dell’opera(3).
Il carattere vincolante della sanzione e la mancanza di affidamento al mantenimento dell’opera fanno sì che l’Amministrazione non abbia alcun onere di motivazione, dal momento che è lo stesso abuso che giustifica e vincola l’esercizio del potere repressivo.
Pertanto non vi è alcuna necessità di motivazione sia con riferimento all’esistenza di ragioni di pubblico interesse alla sanzione sia con riferimento alla sua
comparazione con gli interessi privati sacrificati.
Un altro principio, sul quale si basa la giurisprudenza più severa, è quello connesso alla permanente attualità della situazione di illegittimità, che aggancia, per
escluderlo, quello della irretroattività delle norme, che non opererebbe, perché la
sanzione amministrativa da applicare è quella vigente al momento dell’esercizio
del potere repressivo, anche se entrata in vigore dopo la realizzazione dell’abuso.
Come si è anticipato, agli argomenti su richiamati, il Consiglio di Stato ne oppone altri che risultano più ragionevoli e convincenti, perché mitigano l’eccesivo
rigore dell’impianto sul quale si basa la giurisprudenza più dura.
Nella fattispecie vagliata il Consiglio Stato ha rinvenuto i seguenti elementi per
incrinare la rigorosità della prevalente giurisprudenza, precisamente: la sanzione
( 2 ) Tra le decisioni più intransigenti si veda Cons. Stato, Sez. IV, 16 aprile 2010, n. 2160, secondo il
quale la permanenza dell’abuso edilizio deriva dal protrarsi dell’omissione dell’obbligo di riportare la situazione secundum jus, da ciò consegue che la sanzione ha carattere sempre attuale perché reprime una situazione di illegittimità in atto.
( 3 ) Si veda sul punto la decisione del Cons. Stato, Sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4907 che esclude che la
persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza agisca in sinergia con il fattore
tempo per formare in capo al soggetto che ha posto in essere l’abuso un’aspettativa meritevole di tutela.
REPRESSIONE DELL’ABUSO EDILIZIO E RETROATTIVITA DELLE SANZIONI
65
irrogata dopo mezzo secolo dalla realizzazione dell’abuso; l’esistenza di un titolo
abilitativo edilizio dal quale l’opera è difforme ma non carente; la mancanza di
identità dell’autore dell’abuso con il destinatario della sanzione; il rilevante importo della sanzione pecuniaria irrogata.
Tali concomitanti elementi assumono una particolare valenza, perché permettono di superare l’ininfluenza del fattore tempo e il relativo assioma della costante
attualità dell’illegittimità e, inoltre, consentono di escludere l’automaticità della
sanzione vigente al momento della sua applicazione.
La realizzazione dell’abuso cinquant’anni prima che fosse sanzionato e la circostanza che i destinatari della sanzione non ne erano gli autori integrano gli elementi per affermare la loro buona fede, ingenerata dal fatto che l’apparenza reale
faceva presumere la legittimità dell’opera.
L’esistenza dell’affidamento alla tollerabilità dell’opera da parte dell’Amministrazione permette al Consiglio di Stato di affermare che l’Amministrazione ha
l’onere di motivazione in ordine all’interesse pubblico alla sanzione e alla comparazione di questo con gli interessi privati sacrificati.
La sentenza in esame introduce poi un elemento di novità, perché estende
l’onere della motivazione sull’interesse pubblico, anche alla sanzione pecuniaria.
Al riguardo il Consiglio di Stato si basa sulla considerazione che sia la sanzione
della demolizione che quella pecuniaria hanno la medesima funzione di reintegrazione della legalità violata, si tratta di «una finalità riparatoria per equivalente della
lesione dell’interesse pubblico arrecata dalla violazione edilizia», pertanto la loro
identità ontologica comporta la loro «assimilazione anche per quanto concerne
l’onere motivatorio».
Ne consegue che l’Amministrazione di fronte all’affidamento del privato non
può sottrarsi all’onere motivazionale, neppure se la sanzione da infliggere è quella
pecuniaria.
Ma non è tutto, la decisione in esame affronta anche il problema dell’applicazione nel tempo delle sanzioni edilizie e ne esclude l’automatica retroattività.
Il Consiglio di Stato si discosta dalla giurisprudenza che afferma l’applicabilità
della sanzione edilizia entrata in vigore dopo la realizzazione dell’abuso, sulla base
del principio generale contenuto nell’art. 11 delle disp. prel. cod. civ. per cui la
legge non ha effetto retroattivo, principio che non è intaccato dalla previsione costituzionale del divieto di retroattività solo delle norme sanzionatorie penali.
Sulla base di detto codificato principio, in mancanza di una previsione espressa di legge che disponga l’applicazione retroattiva della norma, il Consiglio di Stato ha escluso che le sanzioni amministrative previste dalla legge n. 47 del 1985 siano applicabili alle costruzioni realizzate prima dell’entrata in vigore della legge,
perché l’abuso è soggetto alla sanzione vigente all’epoca della realizzazione.
66
GIURISPRUDENZA
Il Consiglio di Stato supera così l’orientamento della giurisprudenza che fa discendere dalla natura permanente dell’illecito il potere di reprimerlo con una sanzione entrata in vigore successivamente.
Dalla sentenza in esame si ricava che la sanzione edilizia non è più una conseguenza vincolata e diretta dell’abuso, perché non è possibile escludere a priori che
si sia formato l’affidamento alla conservazione dell’opera priva di titolo abilitativo.
Il punto attorno al quale ruota il problema della sanzione dell’abuso, irrogata a
lunga distanza di tempo, è quindi di capire quando e come si ingenera l’affidamento al mantenimento dell’opera.
Assumono pertanto decisiva importanza gli elementi costitutivi della fattispecie, quali la tipologia dell’abuso, le vicende dell’autore o dei suoi aventi causa e,
ovviamente, l’inerzia dell’Amministrazione, tutti elementi che consentono di verificare la buona fede del privato, in presenza della quale sussiste l’onere della motivazione che si impone come contrappeso alla mancanza di termini di prescrizione
e decadenza del potere repressivo.
In ordine all’inerzia dell’Amministrazione, v’è da registrare che una parte della
giurisprudenza è propensa a ritenere che l’onere di motivazione rafforzata sussiste
se intercorre un lungo lasso di tempo tra la conoscenza dell’abuso da parte dell’Amministrazione e l’applicazione della sanzione: «In mancanza di conoscenza dell’illecito da parte dell’Amministrazione, infatti, non può consolidarsi in capo al privato, alcun affidamento giuridicamente apprezzabile, il cui affidamento meriti di essere adeguatamente apprezzato in sede motivazionale»(4).
L’irrilevanza del tempo tra la commissione dell’illecito e il suo accertamento
da parte dell’Amministrazione stride però con il sistema di tutela del territorio del
nostro ordinamento.
L’Amministrazione ha il potere-dovere di vigilare il territorio e, a tal fine, dispone di svariati strumenti che permettono la rilevazione degli abusi.
L’art. 4 della L. n. 28/2/1985, n. 47 pone tra le funzioni del Sindaco (ora del
dirigente o responsabile del competente ufficio comunale ex art. 27, D.P.R. 6/6/
2001, n. 380) l’esercizio della vigilanza del territorio, e l’art. 23 della stessa legge n.
47 del 1985 prevede controlli periodici dell’attività edilizia e urbanistica anche
mediante rilevamenti aereofotogrammetrici, che consentono di sorvegliare l’intero
territorio comunale.
Alle rilevazioni aereofotogrammetriche, la legge n. 47 del 1985 affianca poi altri strumenti, volti ad impedire l’uso dell’opera abusiva, ed infatti l’art. 45 vieta a
tutte le aziende erogatrici di pubblici servizi di somministrare le loro forniture per
( 4 ) Si veda Cons. di Stato, Sez. V, 9 settembre 2013, n. 4470; in tal senso anche T.A.R. Veneto, Sez. II,
10 ottobre 2012, n. 1235.
REPRESSIONE DELL’ABUSO EDILIZIO E RETROATTIVITA DELLE SANZIONI
67
le opere prive di concessione, inoltre prevede che il richiedente il servizio alleghi
copia del titolo abilitativo.
Da tale insieme di strumenti ormai operativi da trent’anni, tutti diretti a rilevare le opere abusive e ad impedirne l’utilizzazione, nessuno può pensare di realizzare un abuso che non sia sanzionato, per cui non è irragionevole da parte del privato dedurre dall’inerzia dell’Amministrazione la legittimità o la tollerabilità dell’opera.
Certamente il silenzio dell’Amministrazione non legittima l’opera abusiva, tuttavia il lungo lasso di tempo tra la realizzazione dell’opera priva di titolo abilitativo
e la sua sanzione può ingenerare in capo al privato l’affidamento al mantenimento
dell’opera abusiva da parte dell’Amministrazione, a meno che l’autore dell’abuso
o i suoi aventi causa non abbiano posto in essere comportamenti o accorgimenti
diretti a nascondere l’illecito per impedirne l’accertamento da parte dell’Amministrazione.
Al di fuori di detti casi, bisogna dunque valutare quale tutela spetti al possibile
affidamento.
Poiché l’epoca di realizzazione dell’abuso è un elemento di fatto che l’Amministrazione deve prendere in considerazione, se l’abuso è risalente nel tempo, deve
rispettare le garanzie di partecipazione al procedimento sanzionatorio, perché il
provvedimento non ha il carattere della vincolatività e deve essere emanato all’esito dell’apprezzamento di tutte le circostanze del caso e quindi richiede la partecipazione dell’interessato al relativo procedimento.
L’interessato potrà così esplicitare gli argomenti di difesa della sua posizione,
di modo che il provvedimento finale sia assunto sulla base della ponderata valutazione anche delle sue ragioni.
In presenza di un ragionevole convincimento da parte del privato della tollerabilità dell’opera derivante dalla protratta inerzia dell’Amministrazione, questa non
potrà sottrarsi all’onere di motivare sul concreto interesse pubblico per il raggiungimento del quale è necessario reprimere l’abuso, né potrà sottrarsi alla comparazione dell’interesse pubblico con il sacrificio di quello privato.
In definitiva, dalla decisione in commento si ricava che l’Amministrazione deve rapportare l’esercizio del potere repressivo all’affidamento che ha ingenerato
con la propria inerzia, ponendo in essere un’attenta istruttoria procedimentale e
consentendo al privato di parteciparvi, sorreggendo poi il provvedimento sanzionatorio con una seria motivazione in ordine all’interesse pubblico e alla sua comparazione con quello privato.
Raffaella Rampazzo
Corte Costituzionale, sent. 20 novembre 2014, 259 – Pres. Napolitano – Red. Mattarella – Pres. Cons. Ministri c. Regione Veneto
Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Veneto - Interventi di ristrutturazione edilizia di beni immobili sottoposti a vincolo ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio - Ricorso del Governo - Lamentata omessa previsione dell’obbligo di rispetto della sagoma dell’edificio preesistente, in conformità alla disciplina statale - Asserita violazione della competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dei beni culturali - Insussistenza - Materia di competenza statale
esclusiva, sottratta alla potestà normativa regionale - Non fondatezza, nei sensi
di cui in motivazione.
Non è fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, commi 1 e 2, della legge della Regione Veneto 29 novembre
2013, n. 32 – impugnato, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.,
dal Presidente del Consiglio dei ministri. A giudizio del ricorrente la norma impugnata – che per gli interventi di ristrutturazione edilizia elimina l’obbligo di rispetto
della sagoma dell’edificio preesistente – troverebbe applicazione anche nei confronti
dei beni culturali, vincolati ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004. Il ricorso introduttivo
del giudizio, però, non fa alcun riferimento alle modifiche che l’art. 30 del d.l. n. 69
del 2013 – convertito, con modifiche, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 98 del 2013
– ha apportato all’art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001. La norma, infatti, pur avendo eliminato l’obbligo di rispetto della sagoma nella definizione degli
interventi di ristrutturazione edilizia, tuttavia ha mantenuto fermo il suddetto obbligo con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo
22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni. La richiesta del ricorrente pertanto, deve essere interpretata come volta a censurare la disposizione regionale per non
aver ribadito l’obbligo di rispetto della sagoma per tali ultimi beni, analogamente a
quanto stabilito dalla normativa statale. Tale conclusione non è condivisibile in
quanto quando una norma è riconducibile ad un ambito materiale di esclusiva competenza statale, nella specie la tutela dei beni culturali, le Regioni non possono emanare alcuna normativa, neppure meramente riproduttiva di quella. Risulta evidente,
quindi, che la disposizione statale che prevede l’obbligo di rispetto della sagoma preesistente nelle ristrutturazioni aventi ad oggetto beni culturali vincolati è necessariamente operativa anche in ambito regionale. Sull’impossibilità per le Regioni di emanare alcuna normativa, neppure meramente riproduttiva di quella statale, quando
una norma è riconducibile ad un ambito materiale di esclusiva competenza statale, v.
le citate sentenze nn. 18/2013, 271/2009, 153/2006 e 29/2006.
70
GIURISPRUDENZA
(Omissis)
3.2. Rileva la Corte, comunque, che la prospettata violazione della competenza concorrente assume, in relazione al ricorso in esame, un ruolo secondario, perché esso fissa prevalentemente la propria attenzione sulla presunta violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela
dei beni culturali. L’Avvocatura dello Stato, infatti, ritiene che l’eliminazione dell’obbligo di rispetto
della sagoma in relazione alle attività di ristrutturazione edilizia comporti una lesione di tale competenza per ciò che riguarda i beni culturali, vincolati ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004; e, a questo proposito, il ricorso richiama, fra l’altro, la particolare situazione della città di Venezia i cui edifici, patrimonio dell’umanità, potrebbero essere alterati sulla base della censurata disposizione.
3.3. Osserva la Corte che tale doglianza non è fondata, nei sensi che saranno ora precisati.
Il testo attuale dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001 – come risultante dalle
modifiche apportate dal citato art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 – oltre ad aver eliminato, come detto, il
riferimento all’obbligo di rispetto della sagoma nella definizione degli interventi di ristrutturazione
edilizia, ha tuttavia mantenuto fermo che, «con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi
del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente». Il
che corrisponde ad una scelta obbligata, poiché sarebbe inimmaginabile la ristrutturazione di
un’opera edilizia, che sia anche vincolata con l’alterazione della relativa sagoma.
Pertanto, interpretando sul punto il ricorso che, come detto, non contiene alcun espresso riferimento alla modifica legislativa del 2013, deve ritenersi che la censura realmente prospettata dall’Avvocatura dello Stato consista nella presunta illegittimità costituzionale dell’omessa previsione, da
parte della disposizione regionale in esame, di una norma di contenuto identico (o almeno analogo) a
quella statale. In altre parole, non aver previsto, da parte della Regione Veneto, che l’obbligo di rispetto della sagoma preesistente debba comunque considerarsi vigente in relazione alla ristrutturazione dei beni assoggettati a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004, avrebbe comportato il venire
meno di tale vincolo e la conseguente illegittimità costituzionale della disposizione.
Tale conclusione, peraltro, non è condivisibile.
Come la giurisprudenza di questa Corte ha già in passato chiarito, quando una norma è riconducibile ad un ambito materiale di esclusiva competenza statale – nella specie, la tutela dei beni culturali – le Regioni non possono emanare alcuna normativa, neppure meramente riproduttiva di quella
statale (sentenze n. 18 del 2013, n. 271 del 2009, n. 153 e n. 29 del 2006). In altri termini, ove la Regione Veneto, nel rimodellare il concetto di ristrutturazione edilizia, avesse esplicitamente aggiunto
che l’obbligo di rispetto della sagoma permane per i beni culturali assoggettati a vincolo, la norma
regionale sarebbe stata costituzionalmente illegittima, perché sarebbe andata ad interferire in un ambito di competenza esclusiva dello Stato, come tale sottratto alla potestà normativa delle Regioni. Nel
caso in esame, invece, il silenzio della legge reg. Veneto n. 32 del 2013 sul punto non può che essere
interpretato – come correttamente osservato dalla Regione – nel senso della vigenza della disposizione statale di cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380 del 2001; e, quindi, nel senso che la
disposizione statale in materia di obbligo di rispetto della sagoma preesistente nelle ristrutturazioni
aventi ad oggetto beni culturali vincolati è necessariamente operativa anche nell’ambito regionale.
Così interpretata, la disposizione dell’art. 11, commi 1 e 2, della legge della Regione Veneto n.
32 del 2013 è immune dalle censure di illegittimità costituzionale prospettate in riferimento all’art.
117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. Il che comporta che la relativa questione sia da
dichiarare non fondata.
(Omissis)
LA CORTE COSTITUZIONALE SUL PIANO CASA DEL VENETO
71
SUL (PARZIALE) GIUDIZIO DELLA CORTE COSTITUZIONALE
RIGUARDANTE IL PIANO CASA DEL VENETO
Con la sentenza n. 259 del 20/11/2014 la Corte costituzionale ha respinto il ricorso proposto in via principale dal Governo contro la L.R. 29/11/2013, n. 32(1),
che apportando modifiche alla L.R. 8/7/2009, n. 14 ha dato vita al c.d. «terzo Piano Casa» del Veneto. Prima di analizzare gli aspetti rilevanti della pronuncia, vale
la pena di ricordare la singolarità delle vicende che hanno caratterizzato l’entrata
in vigore della legge e le settimane successive, senza il richiamo alle quali la stessa
sentenza in commento non si comprenderebbe appieno.
Si ricorderà che, all’atto dell’entrata in vigore della legge, si levarono aspre critiche, in particolare da parte dei Comuni, dato che la nuova disciplina, a differenza di quella dei primi due Piani casa (come disciplinati dalla L.R. 14/2009, in seguito modificata dalla L.R. 8/7/2011, n. 13), non dava loro in alcun modo la possibilità di limitare, nel proprio territorio, l’applicazione delle norme regionali di incentivazione edilizia e la loro capacità di derogare alle discipline urbanistiche locali. Una particolare enfasi era data, come ricorda anche la sentenza in commento, al
caso simbolo della città di Venezia.
Ne derivò una serie di prese di posizioni e di iniziative(2), e tra queste era evidentemente pressante l’invito allo Stato affinché impugnasse la legge. Cosa che il
Governo in effetti si era apprestato a fare, salvo poi giungere ad un accordo – in
qualche modo di compromesso – con la Regione, consistente nell’assunzione dell’impegno da parte della stessa, a fronte della decisione del Governo di impugnare
la legge non sul tema centrale della violazione delle prerogative dei Comuni, di rimettere mano alla disciplina sul Piano casa proprio su quei punti, tornando quindi
a riconoscere «ai Comuni la possibilità, attraverso le procedure della variante semplificata dei piani urbanistici, di apporre limiti al nuovo Piano casa della Regione»(3).
È stato dunque sulla base di questo accordo che l’Avvocatura generale dello
Stato ha limitato l’impugnazione della legge unicamente ai due aspetti – il combinato disposto degli artt. 7 e art. 10 comma 6, nella parte in cui vi si prevede la pos( 1 ) Pubblicata nel B.U.R. Veneto n. 103 del 30/11/2013 ed entrata in vigore il 1/12/2013.
( 2 ) Se ne ha una sintetica esposizione negli articoli intitolati «Gli ammutinati del piano casa» in
www.venetoius.it. La città di Venezia, assieme ai Comuni di Vicenza e Treviso, deliberò inoltre di presentare un proposta di legge regionale per la modifica della legge. Si tratta del progetto di legge n. 430 depositato il 24/4/2014, intitolato «Modifica della legge regionale 29 novembre 2013, n. 32 “Nuove disposizioni per
il sostegno e la riqualificazione del settore edilizio e modifica di leggi regionali in materia urbanistica ed edilizia”».
( 3 ) Così si legge nel comunicato della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 27/1/2014, rinvenibile
in http://www.governo.it/Presidenza/Comunicati/dettaglio.asp?d=74595.
72
GIURISPRUDENZA
sibilità di demolire edifici esistenti in area classificate come a rischio anche idrogeologico e ricostruirli in zona territoriale propria, e l’art. 11 commi 1 e 2 nella
parte in cui, modificando l’art. 10 della L.R. 14/2009, ha eliminato la previsione
dell’obbligo, per gli interventi di ristrutturazione edilizia, di rispettare la sagoma
esistente – affrontati dalla sentenza della Corte Costituzionale in commento(4).
Venendo dunque al commento della sentenza, merita approfondimento la seconda delle questioni sottoposte al vaglio della Corte, dato che sulla prima è intervenuto un netto giudizio di inammissibilità della censura per genericità e carenza
di motivazione della stessa (cfr. par. 2 in diritto).
La seconda censura, come poc’anzi richiamato, riguardava le modifiche apportate dall’art. 11 della L.R. 32/2013, all’art. 10, comma 1, lett. a) e b) della prima
legge sul Piano casa(5). Quest’ultimo articolo, intitolato «ristrutturazione edilizia»,
detta una disciplina che, come noto, non è assoggettata al limite di vigenza temporale del Piano casa, e che quindi opera anche in relazione ad interventi edilizi che
non necessitano dell’apparato derogatorio del Piano casa stesso(6). Allo stesso
tempo, la ragione per la quale questa previsione è stata introdotta dal legislatore
del primo Piano casa (e tuttora mantenuta in quel corpus in attesa di una futura
eventuale disciplina regionale organica in materia edilizia) è agevolmente comprensibile alla luce del rinnovato e accentuato favor attribuito dalla disciplina del
Piano casa agli interventi di demolizione e ricostruzione, anche con ampliamento,
che sono per l’appunto l’oggetto della previsione dell’art. 10(7). Più precisamente,
la norma riguarda, alla lettera a), i casi in cui la ristrutturazione avviene con inte-
( 4 ) Può essere curioso evidenziare che della genesi appena richiamata si ha chiara traccia nello stesso
ricorso introduttivo del giudizio costituzionale (pubblicato nella Gazzetta ufficiale, 1a Serie Speciale - Corte Costituzionale, n. 10 del 26/2/2014). Nelle premesse del ricorso, infatti, l’Avvocatura di Stato aveva fatto un excursus complessivo delle possibilità di intervento introdotte dalla L.R. 32/2013, non sottacendo il
fatto che detti interventi erano ammessi «con categorica ed insindacabile sovrapposizione agli strumenti di
pianificazione urbanistica comunale, tanto che risultano espressamente abrogate le norme che demandavano
ai comuni l’individuazione degli ulteriori limiti e modalità applicative della legge regionale sul proprio territorio, così da generare una diffusa protesta da parte di molti sindaci (Venezia in testa) che hanno visto lese le
proprie prerogative». Ma, nonostante di seguito il ricorso dichiarasse l’esistenza di «numerosi profili di criticità per quanto riguarda la sua compatibilità con i principi costituzionali», i motivi di impugnazione sono stati poi limitati ai due – riguardanti l’art. 7 e l’art. 10 comma 6 che estendono gli interventi edilizi anche alle
aree a rischio idrogeologico e l’art. 11 comma 1 e 2 che elimina l’obbligo, per gli interventi di ristrutturazione edilizia, di rispettare la sagoma esistente – richiamati nella parte conclusiva del comunicato della Presidenza del Consiglio dei ministri.
( 5 ) L’art. 11 della L.R. 32/2013 ha anche aggiunto una nuova lettera 2 bis) all’art. 10 comma 1 della
L.R. 14/2009, ma questa modifica non è stata oggetto di contestazioni nel ricorso.
( 6 ) Cfr. T.A.R. Veneto, 12/8/2011, n. 1359, nella quale si evidenzia che «dall’analisi ermeneutica della
disposizione emerge» come la medesima sia «da ascrivere tra quelle “a regime” e, cioè, destinate ad un’applicazione senza limiti temporali».
( 7 ) Per un’analisi approfondita dell’art. 10 si veda il commento di Roberto Travaglini nel commentario
«Il terzo “piano casa” del Veneto», Corriere del Veneto, 2014.
LA CORTE COSTITUZIONALE SUL PIANO CASA DEL VENETO
73
grale demolizione e ricostruzione; alla lettera b) la fattispecie di «ristrutturazione
edilizia con ampliamento di cui all’art. comma 1, lett. c) del D.P.R. n. 380/2001 qualora realizzati mediante integrale demolizione e ricostruzione dell’edificio esistente»(8).
Su entrambe le previsioni la disciplina del terzo Piano casa è intervenuta per rimuovere il riferimento al vincolo della sagoma nella ricostruzione dei volumi demoliti.
Nella sentenza della Corte costituzionale in commento (cfr. par. 3 in diritto) si
legge che «la questione sulla quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi... consiste
nello stabilire se tale soppressione comporti o meno la violazione dei criteri di riparto
delle competenze invocati dalla parte ricorrente».
Per la verità l’oggetto sottoposto alla valutazione della Corte era più definito,
poiché l’Avvocatura dello Stato, nel proprio ricorso, non aveva denunciato tout
court la presunta illegittimità costituzionale delle predette previsioni, ma l’aveva limitata – come peraltro correttamente richiamato al punto 1.3. in fatto della sentenza(9) – al solo caso in cui la demolizione e ricostruzione (senza più il vincolo
della sagoma) riguardasse «immobili sottoposti ai vincoli di cui al decreto legislativo
22 gennaio 2004, n. 42».
( 8 ) Vale la pena di richiamare che l’espressione utilizzata nella lettera b) non è del tutto corretta, dato
che un intervento di «demolizione e ricostruzione con ampliamento» rientra propriamente non già nella
definizione di ristrutturazione (per come si delinea alla luce del combinato disposto dell’art. 3 comma 1
lett. d) e 10 comma 1 lett. c) del D.P.R. 380/2001) bensì in quella di nuova edificazione. Se ne trova conferma nella già citata sentenza del T.A.R. Veneto 1359/2011: «il Collegio sottolinea, in primo luogo, che nell’analisi ermeneutica della disposizione – da ascrivere tra quelle “a regime” e, cioè, destinate ad un’applicazione senza limiti temporali – è necessario privilegiare un’interpretazione costituzionalmente orientata che porta
ad escludere che, con essa, il legislatore regionale abbia inteso introdurre una definizione contrastante con
quella di intervento di “ristrutturazione edilizia” prevista dall’art. 3 del D.P.R. n. 380/2001; alle definizioni
degli interventi edilizi contenute in tale disposizione del testo unico, infatti, è attribuita la natura di principio
fondamentale della materia, come tale vincolate per il legislatore regionale. La disposizione, dunque, non contiene una diversa qualificazione giuridica dell’intervento, emergendo, ad un’attenta interpretazione, che ove la
demolizione e ricostruzione avvenga con modifiche del volume e della sagoma l’intervento è, comunque, assoggettato a permesso di costruire.
Con tale disposizione, infatti, il legislatore regionale ha inteso chiarire che, in tutti quei casi in cui sia possibile individuare, in esito ad un intervento di demolizione e ricostruzione, un corpo di fabbrica avente la medesima volumetria e sagoma di quello preesistente demolito al quale si aggiunge un ulteriore corpo di fabbrica
che determina l’ampliamento contestuale dell’immobile, ai soli fini delle prescrizioni in materia di indici di
edificabilità e di ogni ulteriore parametro di carattere quantitativo, il corpo di fabbrica riproduttivo del preesistente anche nella sagoma e nel volume viene assoggettato alla disciplina propria della ristrutturazione edilizia
mentre quello ulteriore, integrante l’ampliamento, è valutato anche ai suddetti fini quale nuova costruzione».
( 9 ) «Quanto alle disposizioni di cui all’art. 11, commi 1 e 2, della medesima legge regionale impugnata,
l’Avvocatura dello Stato osserva che tali previsioni, nel modificare l’art. 10, comma 1, lettere a) e b), della citata legge regionale n. 14 del 2009, eliminano l’obbligo, per gli interventi di ristrutturazione edilizia, di rispettare la sagoma esistente. Ciò comporta, a parere della ricorrente, un contrasto con il principio fondamentale di
cui all’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia edilizia), che impone, ai fini della qualificazione degli interventi di ristrutturazione
edilizia sottratti al permesso di costruire ed assoggettati a mera s.c.i.a., il rispetto della sagoma dell’edificio
preesistente, qualora si tratti di immobili sottoposti ai vincoli di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.
42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137)».
74
GIURISPRUDENZA
Ragion per cui, a parere di chi scrive, non è corretto presupporre (come fa la
sentenza al paragrafo 3.1) che l’Avvocatura dello Stato avesse omesso di considerare che l’eliminazione dell’obbligo di rispetto della sagoma precedente era stato
già stabilito in sede di disciplina edilizia nazionale, e precisamente con una serie di
puntuali modifiche all’art. 3 comma 1, lett. d) e all’art. 10 comma 1 lett. c) del
D.P.R. 380/2001 ad opera del D.L. 21/6/2013, n. 69 (cd. «Decreto del Fare»),
convertito nella L. 98/2013. Non si capirebbe altrimenti la focalizzazione della
censura sul rispetto degli immobili vincolati, né il fatto che l’Avvocatura dello Stato abbia principalmente invocato, quali parametro costituzionale suppostamente
violato, l’art. 117 comma 2, lett. s) della Costituzione in tema di competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dei beni culturali.
Su questa censura si incentra dunque la parte conclusiva (e più rilevante) della
pronuncia in commento (cfr. par. 3.3).
La Corte – dopo avere richiamato che ancora il «Decreto del Fare», contestualmente alla eliminazione del vincolo della sagoma, ha inserito nella definizione
di ristrutturazione di cui all’art. 3 comma 1, lett. d) del Testo unico dell’edilizia la
precisazione che «con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di
demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell’edificio preesistente» (anch’essa verosimilmente del tutto presente all’attenzione dell’Avvocatura dello Stato all’atto di redigere il ricorso) – ha
in primis dovuto operare una ricostruzione interpretativa della censura avanzata
dall’Avvocatura, giungendo alla conclusione che «la censura realmente prospettata
dall’Avvocatura dello Stato consista nella presunta illegittimità costituzionale dell’omessa previsione, da parte della disposizione regionale in esame, di una norma di
contenuto identico (o almeno analogo) a quella statale. In altre parole, non aver previsto, da parte della Regione Veneto, che l’obbligo di rispetto della sagoma preesistente debba comunque considerarsi vigente in relazione alla ristrutturazione dei beni assoggettati a vincolo ai sensi del d.lgs. n. 42 del 2004, avrebbe comportato il venire meno di tale vincolo e la conseguente illegittimità costituzionale della disposizione». Detto in altri termini, l’Avvocatura dello Stato ha censurato la disposizione
regionale non tanto per quello che ha detto (e cioè che in caso di demolizione e ricostruzione la sagoma dell’edificio preesistente non è più un vincolo necessario),
ma per quello che non avrebbe detto (e cioè che, per essere conforme ai principi
dettati dalla legge statale, il vincolo della sagoma non può venir meno in caso di interventi su beni vincolati).
La risposta della Corte consta di due statuizioni, tra loro collegate. La seconda,
e decisiva, consiste nell’affermazione di quella che la Corte considera la corretta
LA CORTE COSTITUZIONALE SUL PIANO CASA DEL VENETO
75
interpretazione della norma impugnata. Tuttavia, poiché la particolarità della censura prospettata è che essa riguarda non una disposizione normativa espressa, ma
un «silenzio» del legislatore, ne viene fuori una pronuncia interpretativa di rigetto(10), anch’essa sui generis, perché al fine di interpretare la norma regionale contestata deve necessariamente invocare (e in qualche modo interpretare) un’altra
norma, quella statale la cui presenza e vigenza determina le infondatezze dei timori dell’Avvocatura dello Stato: «il silenzio della legge reg. Veneto n. 32 del 2013 sul
punto non può essere interpretato [...] nel senso della vigenza della disposizione statale di cui all’art. 3, comma 1, lettera d) del d.P.R. n. 380 del 2001».
L’altra affermazione, in sé e per sé forse non essenziale per la decisione, ma
ugualmente molto interessante anche per il suo carattere paradossale, è che la tesi
prospettata dall’Avvocatura dello Stato – e cioè che la norma regionale avrebbe
dovuto riconfermare espressamente il vincolo della sagoma per gli interventi sugli
immobili vincolati – sarebbe stata essa sì «incostituzionale», ma solo nella misura
in cui la Regione avrebbe finito (per giunta con una disposizione «meramente riproduttiva») per legiferare in un ambito di competenza esclusiva dello Stato, e «come tale – è il corretto richiamo della Corte – sottratto alla potestà normativa delle
Regioni».
Nei termini appena richiamati, dunque, la Corte Costituzionale ha sancito che
il terzo Piano Casa della Regione Veneto è legittimo.
Conclusivamente, rimarrebbe da verificare cosa ne è stato di quella diversa
parte della legge regionale che l’accordo tra lo Stato e la Regione aveva deciso (deve presumersi sulla base di un implicita condivisione sul fatto che qualche problema di legittimità costituzionale potesse effettivamente esserci) di non sottoporre al
vaglio della Corte, in quanto ne sarebbe stata operata una spontanea revisione da
parte del legislatore regionale.
Si scoprirebbe allora che il 4 aprile 2014 la Giunta regionale ha depositato il
progetto di legge regionale n. 426 («Modifiche della legge regionale 8 luglio 2009,
n. 14 “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio e per favorire l’utilizzo
dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche” e disposizioni in materia urbanistica»), che tuttavia non è mai arrivato nemmeno alle soglie dell’esame in commissione.
Giovanni Sala
( 10 ) Il punto 3) del dispositivo della sentenza utilizza infatti la formula «dichiara non fondata, nei sensi
di cui in motivazione».
LUISELLA DE CATALDO NEUBURGER
“L’OPERAZIONE DECISORIA”.
DA EMANAZIONE DIVINA
ALLA PROVA SCIENTIFICA
novità
Passando per Rabelais
“L’OPERAZIONE DECISORIA”
DA EMANAZIONE DIVINA
ALLA PROVA SCIENTIFICA
Passando per Rabelais
a cura di
LUISELLA DE CATALDO NEUBURGER
CEDAM 2014
Edizione I
ISBN 978-88-13-34585-3
Pagine 300
Prezzo € 27,00
“L’operazione decisoria” nata e studiata nel contesto tradizionale
del diritto, oggi riguarda anche discipline apparentemente lontane
come l’economia, la medicina, la psicologia, le neuroscienze,
l’intelligenza DUWL¿FLDOH. Un’apertura quantomeno insolita per la
tradizionale posizione di isolamento che da sempre le ha caratterizzate ma che ha consentito di individuare precisi punti di riferimento per quanto attiene al requisito della decisione. Questo cambiamento di prospettiva è stato letteralmente destabilizzante per il
tradizionale punto di vista su concetti come la verità, la realtà e la
conoscenza ma, al tempo stesso, entusiasmante per nuove e inedite
escursioni in questi stessi ambiti.
Oggi, il nuovo nodo nevralgico è rappresentato dalla prova scienWL¿FDFKHLQYHVWHHLQWHUHVVDVDSHULGLYHUVL¿QRDTXHOPRPHQWR
arroccati nelle rispettive fortezze. Anche il percorso che compie
il giudice per arrivare alla sentenza è investito in pieno da nuove
visioni e revisioni di principi e di metodo.
Assumendo un atteggiamento metodologico corretto, si può concludere che la scoperta dei fenomeni complessi, ai quali apparWHQJRQRWXWWHOHGLVFLSOLQHSUHVHLQHVDPHQRQVHJQDOD¿QHGHOOD
causalità, della verità o della realtà, ma richiede una metodologia e
un approccio diverso, come quello utilizzato dalla scienza.
IN VENDITA NELLE MIGLIORI LIBRERIE, PRESSO I NOSTRI AGENTI
E SUL SITO INTERNET www.cedam.com
9!BM CF>:RTSOTR!
5!;E ; F:WVTUOQ!
00187560
ISBN 978-88-13-35405-3