Recensioni e libri ricevuti

Transcript

Recensioni e libri ricevuti
RECENSIONI E LIBRI RICEVUTI
LA 44 (1994) 663-736
RECENSIONI
Groß W.
Irsigler H.
Seidl Th.,
Ciprotti P.
Beare F. W.
Text, Methode und Grammatik. Wolfgang Richter
zum 65. Geburtstag (A. Niccacci)
667
Introduzione pratica allo studio dell’ebraico biblico
(M. Pazzini)
692
Il Vangelo secondo Matteo. Commento
(G. C. Bottini)
693
D’un temple à l’autre (G. Bissoli)
695
Légasse S.
Naissance du Baptême (A. M. Buscemi)
697
Giglioli A.
L’uomo o il creato? Ktisis in S. Paolo
(A. M. Buscemi)
699
Il Dio longanime. La longanimità nell’epistolario
paolino (A. M. Buscemi)
705
Introduzione alla teologia patristica
(M. C. Paczkowski)
708
Storia della Teologia, I: Epoca patristica
(M. C. Paczkowski)
711
Grappe Ch.
Tarocchi S.
Padovese L.
Di Berardino A.
Studer B.
James F.
McGovern P. E.
Gal Z.
Hoppe L. J.
The Late Bronze Egyptian Garrison at Beth Shan:
A Study of Levels VII and VIII (L. J. Hoppe)
715
Lower Galilee During the Iron Age
(P. Kaswalder)
716
The Synagogues and Churches of Ancient
Palestine (P. Kaswalder)
719
666
RECENSIONI
Tsafrir Y.
Di Segni L.
Green J.
Tsafrir Y.
Gibson S.
Taylor J. E.
Raby L.
Johns J.
Tabula Imperii Romani. Judaea - Palaestina.
Eretz Israel in the Hellenistic, Roman and
Byzantine Periods. Maps and Gazetteer
(M. Piccirillo)
720
Ancient Churches Revealed (P. Kaswalder)
722
Beneath the Church of the Holy Sepulchre –
Jerusalem. The Archaeology and Early History
of Traditional Golgotha (E. Alliata)
725
Bayt al-Maqdis. ‘Abd al-Malik’s Jerusalem,
Part One (M. Piccirillo)
730
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
667
Groß Walter - Irsigler Hubert - Seidl Theodor, ed., Text, Methode und
Grammatik. Wolfgang Richter zum 65. Geburtstag, EOS Verlag Erzabtei St.
Ottilien, St. Ottilien 1991, XII-606 pp.
Questo massiccio volume è il meritato omaggio al prof. Richter, in attività da
circa metà degli anni ‘60, che a 65 anni (nel 1991) è autore di un numero notevole di libri (13 titoli nella bibliografia in fondo al volume), articoli (12), recensioni, resoconti, conferenze, interviste, compresa la pubblicazione elettronica.
Nella sua ricerca il prof. Richter ha coltivato un disegno preciso che si è sviluppato in circa 20 anni, da Exegese als Literaturwissenschaft (1971), dove si è occupato del metodo esegetico nel quadro di una moderna scienza della letteratura
come correttivo alla critica letteraria tradizionale; a Grundlagen einer althebräischen Grammatik I-III (1978-1980); a Biblia Hebraica transcripta — BHt,
un grande progetto comprendente 16 volumi (1991- 1993). Il prof. Richter ha
creato una scuola di fedeli discepoli e una serie “Arbeiten zu Text und Sprache
im Alten Testament (ATS)” edita a cura dell’abbazia di St. Ottilien. Nella presentazione al volume in suo onore viene sottolineato il carattere schivo del maestro e la sua cura generosa dei discepoli.
Il volume comprende 32 articoli di discepoli (la maggioranza) e amici, disposti secondo l’ordine alfabetico degli autori. Ne riporto l’elenco completo,
ma non mi sarà possibile rendere conto di tutti, per cui mi concentrerò su alcuni, in particolare quelli che riguardano la grammatica e sintassi dell’ebraico
biblico.
§ 1. Inizio con 2 articoli che valutano il metodo esegetico proposto da Richter: C. Hardmeier, “Hermeneutik und Grammatik. Zur Zusammenhang von
Sprachbeschreibung und Textwahrnehmung” (119-140); J.W. Rogerson, “Exegese als Literaturwissenschaft: Revisited” (379-386). E’ positivo che si sia dato
spazio non solo a Rogerson, che valuta positivamente il metodo, ma anche a
Hardmeier che lo critica. In poche parole, Hardmeier critica la scelta di descrivere la lingua dal punto di vista esclusivamente formale: descrizione di ogni
mezzo espressivo in modo esatto, fino agli ultimi dettagli, descrizione che diventa eccessivamente complicata e non riesce a cogliere l’“energia” della lingua. E’ comunque merito di Richter aver utilizzato un metodo di tipo strutturalistico per far uscire la grammatica ebraica dal modello tradizionale desunto dalla
lingua latina; ma la sua è per Hardmeier una “grammatica della parole”; perché
diventi una “grammatica della langue” è necessario considerare tutti i livelli:
della parola, della frase e del testo. Per quello che capisco (l’articolo è piuttosto
complesso), la critica di Hardmeier coglie nel segno. La descrizione grammaticale non può essere pura fenomenologia; occorre delineare un sistema che consenta di valutare l’opposizione e l’intercambiabilità dei vari sintagmi grammaticali e il loro effetto nel testo. Come apparirà nel corso della recensione, è questo il punto debole di alcuni contributi del presente volume. Detto questo però,
aggiungo che non sono riuscito ad apprezzare il senso del caso grammaticale
668
RECENSIONI
analizzato da Hardmeier per spiegare la sua tesi. Secondo lui, le due ultime parole della frase „al-debar ¬äray ∑ëået ∑abrä(hä)m (Gen 12,17; 20,18) non sarebbe da analizzare, come si fa normalmente, come apposizione: “Saras wegen, der
Frau Abrahams”, ma come proposizione completa in stato attributivo: “wegen
der Tatsache, daß Sara die Frau Abrahams war” (cita Ges-K § 130d sulle proposizioni complete che compaiono come nomen rectum).
Da parte sua, Rogerson, notati i risultati notevolissimi raggiunti da Richter
e dalla sua scuola, ricostruisce la situazione in cui fu pubblicata Exegese als
Literaturwissenschaft: tempo in cui, a seguito di un crescente disamore per lo
studio storico-critico, si diffuse l’interesse per lo strutturalismo e la nuova analisi letteraria, ambedue di tipo sincronico. Richter, che pure cercava rimedio ai
mali dello studio storico-critico, sembrò andare nella direzione sbagliata e perciò fu trascurato negli ambienti anglosassoni. Un altro fattore negativo per il
metodo di Richter fu il lancio, pochi anni più tardi, dell’“approccio canonico”
di B.S. Childs, il quale, senza ripudiare lo studio storico-critico, fece apparire
il metodo dello studioso tedesco non abbastanza “teologico”. Rogerson conclude affermando che il metodo di Richter (che egli però non ha mai avuto
occasione di utilizzare) può essere utile in un momento come quello presente,
in cui è forte il rischio di ritenere che ogni metodo sia accettabile e che, alla
fine, il Dio della Bibbia non sia troppo diverso da un personaggio delle novelle. A mio avviso, questo pericolo è reale. L’approccio sincronico non può eliminare quello diacronico; e perciò il metodo di Richter, con la sua attenzione
alla forma del testo finale, rappresenta un correttivo alle arbitrarietà dello studio storico-critico. E’ però un metodo complesso, macchinoso e troppo legato
alla “forma”. Ma, qualora uno abbia il coraggio di applicarlo, consente risultati
affidabili, che potranno poi essere completati con l’ausilio di altri metodi.
§ 2. Tre articoli miscellanei riguardano, rispettivamente, i nuovi dizionari
ebraici, l’educazione biblica degli adulti e la sura che apre il Corano: L. Alonso
Schökel, “Sobre diccionarios bilingües” (1-10); B. Haßlberger, “Dialog mit der
Bibel. Methodische Fragestellungen in der Theologischen Erwachsenenbildung” (141-154); A. & K. Neuwirth, “Sürat al-Fäti˙a — ‘Eröffnung’ des
Text-Corpus Koran oder ‘Introitus’ der Gebetsliturgie?” (331-357).
Altri 3 articoli si interessano di orientalismo e Bibbia: D.O. Edzard,
“Zahlen, Zählen und Messen im Gilgameå-Epos” (57-66) sull’importanza simbolica dei numeri, serie numeriche e misurazioni in Ghilgamesh; M. Görg, “Der
Name im Kontext. Zur Deutung männlicher Personennamen auf -at im Alten
Testament” (81-95) su tre nomi maschili filistei con terminazione apparentemente femminile, di origine egiziana (Ahuzzat; Golyat; Genubat); A. Kammenhuber, “Nochmals: der hethitische König trinkt Gott NN”, (221-226) su una
curiosa espressione, “il re beve il Dio NN”, usata nel rituale delle feste, in
origine dal re poi da chiunque, che alcuni hanno interpretato in modo simile
all’eucaristia cristiana, mentre altri intendono come “dar da bere al dio NN”, o
“bere in onore del dio NN”.
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
669
Ho contato 12 articoli esegetici, anche se alcuni di essi includono anche
grammatica semantica, pragmatica e stilistica. Li elenco nell’ordine: K. Baltzer,
“Bild und Wort. Erwägungen zu der Vision des Amos 7,7-9” (11-16); C. Culley,
“Psalm 3: Content, Context and Coherence” (29-39); J.P. Floß, “«Ich bin mein
Name». Die Identität von Gottes Ich und Gottes Namen nach Ex 3,14” (67-80);
H. Irsigler, “Thronbesteigung in Psalm 93? Der Textverlauf als Prozeß
syntaktischer und semantischer Interpretation” (155-190); J. Jeremias, “Am 8,47 – ein Kommentar zu 2,6f.” (205-220); N. Lohfink, “Lexeme und Lexemgruppen in Psalm 25. Ein Beitrag zur Technik der Gattungsbestimmung und
der Feststellung literarischer Abhängigkeiten” (271-295); J. Scharbert, “«Gesegnet sei Abram vom Höchsten Gott»? Zu Gen 14,19 und ähnlichen Stellen
im Alten Testament” (387-401); A. Schmitt, “Komposition, Tradition und
zeitgeschichtlicher Hintergrund in Weish 1,16-2,24 und 4,20-5,23” (403-421);
H. Schweizer, “Erkennen und Lieben. Zur Semantik und Pragmatik der Modalitäten am Beispiel von Hld 4” (423-444); O.H. Steck, “Zukunft der einzelnen
– Zukunft des Gottesvolkes. Beobachtungen zur Annäherung von weisheitlichen
und eschatologischen Lebensperspektiven im Israel der hellenistischen Zeit”
(471-482); S.Ö. Steingrímsson, “Der priestliche Anteil. Bedeutung und Aussageabsicht in Psalm 23” (483-519); P. Tagliacarne, “Grammatik und Poetik:
Überlegungen zur Indetermination in Psalm 1” (549-559).
Floß ritorna sulla crux interpretum Es 3,14, che egli propone di tradurre:
“Io sono il mio Nome”, e specula sulla identità tra persona e nome in Dio,
impossibile per l’uomo. Floß ritiene che yiqtol di prima posizione nella frase
abbia valore di presente; per lui non ha valore il fatto notato da R. Bartelmus,
che cioè una voce del verbo häyâ compare solo per indicare il futuro o il passato, mentre non compare per il presente. Esaminando i 6 casi in cui la forma
∑ehyeh compare in prima posizione (3 in prosa e 3 in poesia), Floß ragiona in
modo singolare: primo, nota che nei casi di prosa ∑ehyeh non è in realtà in prima
posizione, il che è vero (in Gios 1,5 e 2 Sam 15,34 ∑ehyeh è apodosi, preceduta
dalla protasi, mentre in 2 Sam 15,34 ∑ehyeh non è iniziale di frase); secondo,
ritiene che nei casi poetici (Os 14,6; Sal 50,21; Giob 10,19) ∑ehyeh non indica
futuro. Ora, si può osservare che i casi di poesia non possono essere decisivi per
la prosa (come in ogni lingua, anche in ebraico la poesia presenta un uso delle
forme verbali diverso dalla prosa), e in ogni caso si tratta di tre esempi soltanto.
E’ necessario allargare l’indagine a tutte le forme yiqtol in prima posizione
(häyâ non è diverso dagli altri verbi in questo). Ora l’uso normale della prosa
insegna che yiqtol in prima posizione è volitivo (rimando alla mia The Syntax
of the Verb in Classical Hebrew Prose §§ 55; 64). Benché quando scrissi “Esodo 3,14a: ‘Io sarò quello che ero’ e un parallelo egiziano” (LA 35, 1985, 7-26)
non ero ancora cosciente di questo fatto, ritengo che la traduzione che detti
allora è valida: “Sarò (prometto di essere; mi impegno ad essere) quello che
ero”. Questa traduzione rispetta la sintassi del verbo, si adatta al contesto biblico
ed è in linea con lo sviluppo che la frase riceve nella letteratura giudaica: “Io
670
RECENSIONI
sono ora quello che fui e quello che sarò nel futuro”. Questa non è ‘sintassi
teologica’, come Floß ritiene (nota 61, p. 76); al contrario, la sua rischia di
esserlo (anzi, più filosofica che teologica). Infatti, se è chiaro che la risposta di
Dio in Es 3,14 gioca sul nome Yahveh, è meno chiaro come si possa arrivare
alla traduzione di Floß: “Ich bin mein Name”. E’ strano, poi, che l’autore non
citi una monografia del 1989, dove si trova un excursus sull’argomento: G.
Fischer, Jahwe unser Gott (147-154). Fischer traduce al futuro ambedue i casi
di ∑ehyeh: “Ich werde sein, wer immer ich sein werde”, affermando che il senso
di passato continuo che io detti del secondo ∑ehyeh non è attestato altrove; ma
già nell’articolo del 1985 ne portai un caso chiaro (2Sam 15,34). In linea più
generale, l’uso di yiqtol per il passato è tipico della narrazione, mentre nel discorso diretto yiqtol indica il futuro; tuttavia sono attestate intrusioni di forme
verbali da un genere all’altro della prosa (un esempio chiaro è l’uso di wayyiqtol,
che è forma narrativa per eccellenza, nel discorso diretto). Questi casi, vale la
pena notarlo, non producono caos nel sistema verbale perché si verificano in
luoghi sintattici speciali e dipendono dal fatto che l’ebraico (a differenza, ad
esempio, delle lingue neo-latine) non ha una serie completa di forme per il
discorso distinte da quelle della narrazione. Tornando a Floß, è vero che Dio in
Es 3,14 rivela il suo nome; ma non sembra vero che questo nome fosse ignoto
prima di allora. Infatti la risposta divina gioca sul nome Yahveh, che perciò è
presupposto. Lo scopo non è rivelare qualcosa di nuovo, ma far prendere coscienza che colui che si rivela è il Dio dei Padri: quello stesso che “fu con” loro,
ora “sarà con” Mosè e con il popolo in Egitto. Le speculazioni filosofiche sulla
identità tra persona e nome non sono perciò giustificate né dalla sintassi né dal
contesto.
Mi pare giusta la proposta di Scharbert di tradurre bärûk ∑abräm le∑ël „elyôn
“Abramo è benedetto di fronte a El-Elion” (Gen 14,19); così rendo la complessa parafrasi di Scharbert: “B ist/sei dem Gott N.N. rühmlich empfohlen”; “A
empfiehlt rühmend B dem Gott N.N.”; “B ist/sei dem Gott N.N. zum Segnen
empfohlen”; “A empfiehlt B dem Gott N.N. zum Segnen”. Aggiungo soltanto
che D. Pardee aveva già proposto un senso praticamente identico per questa
formula che compare anche in lettere extrabibliche: “pronounce a blessing in
favor of someone to a deity” (UF 10, 1978, 311; stranamente Scharbert, p. 397,
cita solo le pagine successive di questo articolo).
Steck studia il rapporto tra la prospettiva sapienziale rivolta all’individuo e
a una vita piena sulla terra e la prospettiva escatologica rivolta al popolo. Per
lui le due prospettive si presentano separate nel IV-III sec. a.C. (Giobbe, Sal 49
e 73, da una parte; profeti, dall’altra), mentre si incontrano nel III-II sec. a.C.
(Sal 102; Tob 13-14; Sir 36). Questo tema è interessante, ma costato con sorpresa quanto la posizione di Steck sia distante da quelle di altri autori nel datare i testi e nell’interpretarli. E’ positivo il fatto che egli noti la prospettiva specifica dei libri sapienziali, interessati all’individuo e alla vita sulla terra. Il problema è, da una parte, se l’interesse per la vita sulla terra escluda ogni speranza
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
671
escatologica; dall’altra, se nella Bibbia esista solo l’escatologia collettiva del
popolo. Aderendo a una posizione di minoranza, ritengo che l’interesse sapienziale per la vita sulla terra non escluda la speranza in una vita dopo la
morte, e che perciò si debba parlare di un’escatologia individuale accanto a
un’escatologia collettiva. C’è poi il problema della datazione dei testi (Giobbe,
Salmi, Qohelet): problema certo discusso, ma la datazione di Steck appare francamente molto bassa. Le mie opinioni sull’argomento sono espresse in nei seguenti articoli: “Sulla vita futura nei Proverbi”, Euntes Docete 34 (1981) 381391; “La foi eschatologique d’Israël à la lumière de quelques conceptions
égyptiennes”, LA 33 (1983) 7-14; “La teologia sapienziale nel quadro dell’Antico Testamento. A proposito di alcuni studi recenti”, LA 34 (1984) 7-24.
§ 3. Altri 12 contributi riguardano direttamente grammatica e sintassi dell’ebraico: R. Bartelmus, “haåkem welammed – die ‘Unermüdlichkeitsformel’
und die Etymologie von hiåkïm oder: Hat engagiertes Lehren etwas mit dem
Beladen von Kamelen zu tun?” (17-27); W. Eckardt - C. Riepl, “Zur Grammatizität der Grammatik. Am Beispiel der Basis G-TMH” (41-55); W. Groß,
“Satzfolge, Satzteilfolge un Satzart als Kriterien der Subkategorisierung hebräischer Konjunktionalsätze, am Beispiel der yk-Sätze untersucht” (97-117); E.
Jenni, “Verba gesticulationis im Hebräischen” (191-203); M. Krebernik, “Gtund tD-Stämme im Ugaritischen” (227-270); C.H.J. van der Merwe, “The Old
Hebrew ‘particles’ ∑ak and raq (in Genesis to 2 Kings)” (297-311); A.R. Müller,
“Zu den Artikelfunktionen im Hebräischen” (313-329); F.V. Reiterer, “Markierte
und nicht markierte direkte Objekte bei Ben Sira. Präliminaria zur Untersuchung
der Hebraizität Siras anhand der Verben mit ta-Verwendung” (359-378); T.
Seidl, “∑aoåer als Konjunktion. Überblick und Versuch einer Klassifikation der
.
Belege in Gen – 2 Kön” (445-469); H.-J. Stipp, “w =hayä für nichtiterative
Vergangenheit? Zu syntaktischen Modernisierungen im masoretischen Jeremiabuch” (521-547); G. Vanoni, “Zur Bedeutung der althebräischen Konjunktion
.
w .=. Am Beispiel von Psalm 149,6” (561-576); J. Wehrle, “Die PV k m„† als
Indikator für den Satzmodus in Sprechakten” (577-594).
Groß si assume il compito non certo facile di riesaminare la congiunzione
kî dopo i tentativi di A. Schoors in OTS 21 (1981) 240-276 e di A. Aejmelaeus
in JBL 105 (1986) 193-209. Il suo scopo diretto è studiare i criteri di subordinazione e coordinazione; la congiunzione kî fornisce il materiale di esame.
L’opinione comune, afferma Groß, sembra essere che in ebraico non c’è differenza nell’ordine delle parole delle proposizioni principali rispetto a quello delle
subordinate, e l’ordine è V-S-O (verbo - soggetto - oggetto); ma manca una
ricerca precisa. Groß si prefigge di esaminare i 1412 casi di kî nel complesso
Genesi - 2 Re; da questo computo sono esclusi i casi con il verbo häyâ (senza
ragione, per conto mio, dato che häyâ è un verbo alla pari degli altri).
Un criterio utilizzato da Groß merita attenzione: ciò che importa dal punto
di vista sintattico, egli dice, è ciò che precede il verbo (detto “Vorfeld”) non ciò
che lo segue. Altri criteri di partenza, desunti da altre lingue, possono essere
672
RECENSIONI
validi, ma è evidente che debbono venir controllati, come ad esempio quello che
dice che il coordinatore dev’essere uno solo, altrimenti si tratta di subordinatore.
Groß divide la trattazione delle proposizioni con kî in 5 titoli: oggettive;
causali; avversative dopo negazione; temporali; condizionali. In ogni caso distingue i passi in cui kî è seguito direttamente dal verbo da quelli in cui tra la
congiunzione e il verbo si inserisce un elemento nominale o avverbiale che
reca enfasi; in questa seconda categoria vengono trattati a parte gli esempi con
casus pendens (kî + pendens + verbo). Questa attenzione alla struttura formale
è positiva (non si trova negli studi citati sopra di Schoors e di Aejmelaeus) ed
è una caratteristica della scuola di Richter; peccato che non sia sorretta da una
chiara sintassi del verbo. In altre parole, perché la ricerca di Groß vada oltre i
limiti della statistica è necessario che venga condotta con criteri chiari riguardo
alla struttura della frase. Il punto principale di discussione è la posizione del
verbo finito. Groß riconosce, di per sé, una differenza se il verbo si trova all’inizio della frase o è preceduto da un sintagma nominale o avverbiale; elenca
infatti le funzioni del costrutto ‘sintagma + verbo finito’ distinguendo: a) quando il costrutto è preceduto da congiunzione (nel caso specifico, kî), il sintagma
reca enfasi; b) quando non compare alcuna congiunzione, il costrutto si trova
usato per indicare: inizio assoluto (in una narrazione; detto “antefatto” nella
mia terminologia: Syntax §§ 18-19); inizio di un dialogo (cioè “narrazione orale”); interruzione nell’esposizione (soprattutto nella narrazione); informazione
antecedente alla linea della narrazione (“Rückgriff”); inizio di una nuova linea
narrativa parallela; sfondo. A mio avviso, questi elementi sono giusti; è una
descrizione fenomenologica corretta, benché incompleta; ma manca un sistema. Groß non vede il motivo alla base di quelle funzioni: il fatto, cioè, che il
verbo non occupa la prima posizione, la quale è preminente in ebraico, ma la
seconda. Questo fatto fa sì che il verbo non sia più l’elemento importante del
frase (cioè il predicato, l’elemento nuovo), e perciò il sintagma che precede il
verbo reca enfasi; oppure fa sì che l’intera proposizione non sia indipendente
ma dipenda da un’altra di livello principale. Questa seconda possibilità, che
opera a livello di testo, comporta che il costrutto ‘sintagma + verbo finito’ non
indica la linea principale della narrazione, ma la linea secondaria; così si spiegano le funzioni della frase senza congiunzione elencate da Groß (si confrontino i casi di interruzione della catena narrativa di wayyiqtol elencati in Syntax
§§ 39-49), eccetto quella della “narrazione orale”, che richiede un trattamento
diverso (Syntax §§ 22-23; 74-76).
L’analisi di Groß è dunque fenomenologica più che sintattica. D’altra parte, la sua distinzione tra proposizioni introdotte da congiunzione, in cui il
sintagma che precede il verbo reca enfasi, e proposizione senza congiunzione,
in cui il sintagma che precede il verbo non reca enfasi, non è esatta: è vera in
parte, ma non sempre; e inoltre non è quello il criterio decisivo. Infatti ci sono
casi con congiunzione in cui quel sintagma non reca enfasi (Gen 30,26; 42,38;
43,5 ecc.) e, viceversa, casi senza congiunzione in cui il sintagma reca enfasi
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
673
(si può consultare “Marked Syntactical Structures in Biblical Greek in Comparison with Biblical Hebrew”, LA 43, 1993, 9-69).
I grammatici sono soliti distinguere le proposizioni con kî in due classi:
quelle che precedono la proposizione principale e quelle che la seguono; le
prime sarebbero dipendenti e avrebbero valore condizionale, temporale e causale; le seconde avrebbero per lo più valore causale e per alcuni sarebbero indipendenti. Questa distinzione tra causale dipendente (in inglese “because”,
tedesco “weil”) e causale indipendente (coordinata; in inglese “for”, tedesco
“denn”) è però discussa; tra i più recenti Schoors e Aejmelaeus la negano, affermando che non è cosa riscontrabile a livello di sintassi ebraica ma solo a
livello di traduzione, mentre Groß non la esclude, suggerendo che un parlante
competente saprebbe distinguere l’una dall’altra.
Per parte mia, è vano invocare l’autorità di un parlante competente che
non c’è; bisogna cercare criteri sintattici. Il criterio della posizione della frase
con kî prima o dopo la principale merita attenzione. Nel sistema verbale che ho
delineato, la frase con kî posta prima della principale si riduce al tipo fondamentale ‘x - verbo finito’ in cui ‘x’ è una frase a sé. Si ottiene allora una proposizione di due membri, che possiamo chiamare protasi e apodosi, intendendo
per protasi una frase circostanziale qualsiasi, non solo condizionale ma anche
temporale, causale o comparativa, posta prima della frase principale, o apodosi.
Dal punto di vista sintattico, esiste un unico kî e un unico schema sintattico; le
distinzioni condizionale, temporale o causale sono semantiche, e non importa
molto se i diversi valori non sono ben distinguibili nei singoli testi.
Questa proposizione di due membri assume forme molto diverse (esaminate in Syntax, cap. 8). Infatti possono svolgere funzione di protasi non solo kî +
verbo finito, ma anche ∑im / ∑Äåer / ka∑Äåer + verbo finito; anche sintagmi preposizionali bet / kap + infinito e bet + nome; e anche il casus pendens. Gli
studiosi stentano a rendersi conto di questi fatti, ma gli esempi lo mostrano
chiaramente in virtù del principio della sostituzione paradigmatica. In virtù dello
stesso principio, nell’apodosi si scambiano senza alcuna differenza i seguenti
costrutti (raggruppati secondo gli assi temporali): nell’asse del passato, wayyiqtol, qatal e (waw-) x-qatal; nell’asse del presente, (waw-) proposizione nominale semplice (senza verbo finito); nell’asse del futuro, le forme indicative
yiqtol, (waw-) x-yiqtol e weqatal, e le forme volitive coortativo, imperativo e
iussivo. Si può consultare Syntax, cap. 8, con sintesi nei §§ 111 (costrutti della
protasi) e 113 (costrutti dell’apodosi).
Il secondo costrutto, quello con kî + verbo finito che segue la proposizione
principale, sempre secondo il mio sistema, si riconduce al tipo di proposizione verbale ‘verbo finito + x’ in cui la circostanza ‘x’ è una proposizione completa. Dal
punto di vista linguistico la proposizione verbale indica il primo piano, mentre la
frase con kî + verbo finito indica lo sfondo. Dal punto di vista sintattico, questo tipo
di circostanza posta dopo la proposizione principale è ugualmente subordinato:
non vedo alcun motivo grammaticale o sintattico per decidere diversamente.
674
RECENSIONI
In conclusione, non sembra avere alcun peso sintattico il fatto che il costrutto kî + verbo finito preceda o segua la proposizione principale: in ambedue
i casi è un costrutto subordinato.
I problemi però non sono finiti. Infatti esistono alcuni tipi di kî che i grammatici riconoscono come coordinanti, non subordinanti: il cosiddetto kî enfatico; il kî recitativum; il kî con il senso di “ma”, “piuttosto”, attestato dopo una
frase negativa esplicita o implicita; ∑ap kî “davvero…?”, “realmente…?”; hÄlö∑
/ hÄlö∑ kî “non è il caso che…?”. Le opinioni però sono diverse, a riprova del
fatto che non si hanno criteri sintattici. Sulla base di criteri semantici, alcuni
affermano, altri negano l’esistenza del kî enfatico e di quello recitativum;
Aejmelaeus propende per il carattere subordinante di tutti i tipi di kî, eccetto
forse quello che segue una negazione con il senso di “but rather”; da parte sua,
Schoors segue R. Meyer nel ritenere che il kî che introduce il discorso diretto
non è subordinante ma enfatico.
Il discorso è complesso e non riguarda solo kî ma tutta la serie delle congiunzioni e particelle dell’ebraico, di cui si deve determinare se hanno un ruolo
grammaticale (cioè se svolgono una funzione nella frase), o sintattica (legata ai
rapporti tra le proposizioni) o/e pragmatica (funzione illocutoria, legata alla
forza persuasiva). Se non si risolve il nodo di base, che è la funzione grammaticale, non si potrà determinare con sicurezza la funzione testuale di congiunzioni e particelle.
Un criterio grammaticale consiste nel controllare se, tolta la preposizione/
particella, la frase è ugualmente completa e svolge la medesima funzione. Un
esempio chiaro è costituito da wayehî e di wehäyâ quando hanno funzione “macrosintattica”. E’ un fatto che ogni proposizione introdotta da wayehî e wehäyâ
macrosintattici è attestata anche senza queste due forme verbali; il che significa che esse non hanno una funzione grammaticale. E’ chiaro, però, che non
sono inutili; infatti hanno una funzione testuale: creano connessioni all’interno
del testo rendendo verbale la frase che segue, che altrimenti sarebbe nominale
e produrrebbe interruzione della linea principale della comunicazione. In fondo, dunque, wayehî e wehäyâ cambiano la struttura grammaticale della frase
che segue, in quanto la rendono verbale; ma, ripeto, essa potrebbe esistere anche da sola, con funzione però diversa (vedi infra).
Ora, nell’esaminare la funzione di kî, entrano in gioco due fattori: da un lato,
secondo l’opinione dei grammatici la proposizione che segue kî conserva l’ordine delle parole che ha quando non è preceduta da congiunzione (cf. Groß, 97);
dall’altro, secondo il mio sistema, kî occupa un posto della proposizione perché,
quanto alla funzione, equivale alla proposizione con un elemento ‘x’ al primo
posto (x-qatal oppure x-yiqtol), che è proposizione subordinata dal punto di vista sintattico (cioè non può stare da sola in un testo; non è indipendente). Come
si può dunque decidere se kî è subordinante o coordinante? Forse applicando il
principio enunciato sopra: controllando, cioè, se la frase che segue può stare da
sola e svolge la medesima funzione senza la congiunzione kî. E’ da notare, al
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
675
riguardo, che la seconda condizione dev’essere valutata con criterio, in quanto
se la frase può svolgere la medesima funzione anche senza kî, non segue che la
congiunzione non sia subordinante; viceversa, se la frase da sola non può svolgere la medesima funzione, allora kî è chiaramente subordinante.
Ad esempio, 1 Sam 18,12(b) è frase subordinata con funzione causale esplicita a motivo della congiunzione kî; infatti la frase che segue non potrebbe stare
da sola, dato che qatal nella narrazione storica compare preceduto da un elemento ‘x’ (che in questo caso è la congiunzione subordinante kî), cioè nella forma xqatal. D’altra parte, 1 Sam 18,14(b) è ugualmente subordinata, in quanto è
proposizione nominale semplice (senza verbo finito), che è costrutto di livello secondario nella narrazione. Essa indica lo sfondo e svolge una funzione causale
senza bisogno di alcuna congiunzione, esattamente come 2 Sam 7,3(e) che invece è retta dalla congiunzione kî (cf. Lettura sintattica della prosa ebraico-biblica, 236). Inoltre, in 2 Re 18,7 la funzione causale è svolta dal semplice weqatal
preposto alla principale (weqatal di protasi: Syntax § 97). Ecco gli esempi:
1Sam 18,12 (a)
(b)
(c)
dwId: ynEp]˝Li˝mi lWav; ar:YI˝w"
/˝M[i hw:hy“ hy:h;AyKi
rs… lWav; µ[i˝me˝W
Saul ebbe paura di David perché Yahveh era con lui, mentre si
era allontanato da Saul.
1Sam 18,14 (a)
(b)
lyKic]m' w˝k…r:D“Alk;˝l] dwId: yhiy“˝w"
/˝M[i hw:hy˝w"
David ebbe successo in tutte le sue imprese (‘fu fortunato in tutte le sue vie’) poiché Yahveh era con lui.
2Sam 7,3
(a)
(b)
(c,d)
(e)
Ël,M,˝h'Ala, ˆt;n: rm,aYo˝w"
Ú˝b]b;l]˝Bi rv≤a} lKo (casus pendens)
hc´[} Ël´
Ë˝M…[i hw:hy“ yKi
Natan disse al re: “Tutto quello che è nel tuo cuore, va’ e fallo,
poiché Yahveh è con te”.
2Re 18,7
(a)
(b)
/˝M[i hw:hy“ hy:h;˝w“
lyKic]y" ax´yEArv,a} lko˝B]
Poiché Yahveh era con lui, era fortunato in tutto quello che intraprendeva (‘in tutto quello [a cui] usciva’).
Questo genere di esame, qui solo abbozzato, dovrebbe essere fatto non solo
per kî, ma per tutte le congiunzioni e particelle dell’ebraico allo scopo di stabilire la loro funzione a livello di frase singola (grammaticale), di proposizioni
(sintattica) e di testo (pragmatica o illocutoria). Se vogliamo evitare i limiti di
676
RECENSIONI
un’analisi solo statistica o solo semantica è urgente, mi pare, avere dei criteri
sintattici. Non si può dire, credo, che questo sia circolo vizioso o equivalga a
mettere il carro davanti ai buoi. Una corretta analisi sintattica parte da casi chiari e formula ipotesi di lavoro, le quali poi devono essere controllate, ed eventualmente modificate, man mano che si allarga il materiale esaminato. Ma affrontare
l’esame di migliaia di attestazioni (ora cosa facile con le diverse banche dati esistenti) senza criteri sintattici, è come buttarsi in alto mare senza saper nuotare.
Non si può sperare che la completezza dei dati possa supplire la qualità.
Ritornando alla ricerca di Groß, alcuni punti sono degni di nota. Riguardo
alle proposizioni temporali con kî egli annota che esse quasi sempre precedono la principale (“Matrixsatz”). Poi aggiunge:
Die vorausgehenden [Temporalsätze] beginnen nicht sehr häufig asyndetisch,
Syndese überwiegt bei weitem; sie wird kaum durch ykw, sondern – ein Charakteristikum der Temporalsätze mit yk – durch hyhw, yhyw hergestellt; diese Syndese verknüpft aber nicht zwei Temporalsätze miteinander, sondern den Temporalsatz auf unspezifische Weise mit dem vorausgehenden Kontext. (p. 109)
Sono osservazioni che costatano fenomeni e niente più. La mancanza di
una base sintattica si mostra, mi pare, nel modo in cui viene descritto il legame delle proposizioni temporali con il contesto. Il fatto che tale legame avvenga quasi sempre mediante wehäyâ e wayehî è un dato statistico, ben comprensibile del resto; ma non si può dire che wehäyâ e wayehî abbiano un legame sintattico speciale con il kî temporale piuttosto che con quello condizionale o causale. Dal punto di vista sintattico si può dire solo che una proposizione
temporale introdotta da wehäyâ (nel discorso diretto) o da wayehî (narrazione)
è collegata alla linea principale della comunicazione, mentre quella che non
ha tali forme verbali appartiene a una linea secondaria della comunicazione (ad
esempio, sfondo) e crea una interruzione (più o meno notevole) nel testo. Sull’argomento si può consultare: “Sullo stato sintattico del verbo häyâ”, LA 40
(1990) 9-23, § 6; Lettura sintattica § 24.
Ritorniamo a ciò che è stato detto sopra circa i diversi costrutti che si scambiano nella funzione di protasi della proposizione duplice. Groß non considera
univoco il costrutto ‘kî + verbo finito – proposizione principale’, poiché quando
kî è (ritenuto!) causale e temporale egli chiama la proposizione principale
“Matrixsatz”, mentre quando kî è (ritenuto!) condizionale la chiama “Apodosis”.
Inoltre egli considera a parte il casus pendens e non segnala alcuna relazione di
esso con il costrutto ‘kî + verbo finito – proposizione principale’. Di nuovo, il
problema è l’analisi sintattica della proposizione. Come è stato detto sopra, l’elemento decisivo è la posizione del costrutto subordinato ‘kî + verbo finito’: se
esso precede la principale, il complesso è una proposizione duplice e la proposizione con kî è protasi mentre quella principale è apodosi. Il casus pendens funge anch’esso da protasi per il fatto che si scambia con costrutti espliciti di tipo
‘congiunzione + verbo finito’, e la proposizione principale che lo segue è
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
677
apodosi. Chiamare la proposizione principale apodosi non è solo questione di
terminologia poiché l’apodosi, anzi la proposizione duplice nel suo complesso,
ha uno stato sintattico proprio, che è diverso da quello del costrutto inverso ‘proposizione principale – kî + verbo finito’ (Syntax § 126).
Questa situazione non dovrebbe essere inaccettabile per Groß, dato che
egli considera casus pendens i seguenti costrutti: sintagma preposizionale con
bet (Deut 12,14; 16,6), la nota accusativi ∑et + nome (2 Re 17,36) e ∑Äåer +
verbo finito (Gen 15,4) (p. 109, nota 87). L’equivalenza di casus pendens e
‘congiunzione + verbo finito’ nella funzione di protasi si dimostra confrontando 1 Sam 2,15 con 1 Sam 2,13. Inoltre, i costrutti della protasi sono attestati
anche preceduti da wayehî (narrazione) e da wehäyâ (discorso diretto) (si consulti Syntax § 112); in questo caso però la loro funzione testuale cambia: essi
indicano connessione invece che interruzione della linea principale della comunicazione.
Un luogo sintattico privilegiato per studiare la proposizione duplice è quello delle leggi casuistiche, citate da Groß per illustrare un costrutto speciale che
egli chiama “Pend[ens] # kî conditionale – Verb – …# Apodosis” (cioè casus
pendens che precede kî condizionale + verbo finito, ed è seguito dall’apodosi),
e che per lui ricorre 33 volte nel corpus studiato (citazioni nella nota 115, p.
113). Prima di discutere questa analisi di Groß, notiamo la grande varietà di
protasi nel libro del Levitico prendendo come esempio due sezioni: una riguardante un’offerta da presentare a Dio (Lev 2), l’altra un peccato commesso da
varie persone (Lev 4).
Lev 2,1
Lev 2,4
Lev 2,11
Lev 2,14
Lev 4,2
Lev 4,3
Lev 4,22
(…) hw:hy˝læ hj;n“mi ˆBær“q; byrIq]t'AyKi vp,n<˝w“
(…) ˆBær“q; brIq]t' yki˝w“
(…) hw:hy˝l' WbyrIq]T' rv≤a} hj;n“Mi˝h'AlK;
(…) hw:hy˝l' µyrIWKBi tjæn“mi byrIq]T'Aµai˝w“
(…) af…j‘t,AyKi vp,n<
(…) af…j‘y< j"yviM;˝h' ˆh´Ko˝h' µai
(…) af…j‘y< aycin: rv≤a}
Questa è una scelta di protasi piccola ma sufficiente per illustrare l’equivalenza di diversi costrutti: verbo finito preceduto da kî (Lev 2,1; 2,4; 4,2), da
∑im (Lev 2,14; 4,3) e da ∑Äåer (Lev 4,22); casus pendens (Lev 2,11). Come sarà
detto più avanti discutendo l’articolo di Seidl (§ 5), in Lev 4,22 ∑Äåer + verbo
finito (nominalizzato) è sintatticamente casus pendens, come si trova in Lev
2,11: lett. “quanto al fatto che un capo pecca”, e perciò “se un capo pecca”;
così si spiega l’equivalenza tra Äåer e le congiunzioni kî e ∑im.
Da questi esempi si conclude anche che l’analisi di Groß non è esatta: il nome
che precede il costrutto kî + verbo finito (Lev 2,1; 4,2) non è casus pendens ma
soggetto anticipato; questa è del resto l’analisi comune (cf. Joüon-Muraoka § 167i,
pp. 630-631; Waltke-O’Connor § 38.2.d, p. 637). Dal punto di vista sintattico le
678
RECENSIONI
seguenti espressioni sono equivalenti e semplici varianti l’una dell’altra: nepeå
kî-taqrîb; kî taqrîb (nepeå); *nepeå taqrîb (variante non attestata ma possibile).
Dal punto di vista sintattico, infatti, ciò che conta è la posizione del verbo finito,
che non è iniziale quando è preceduto dal costrutto ‘soggetto + kî’ o semplicemente da kî. Il sintagma nominale che precede ‘kî + verbo finito’ è invece è casus
pendens quando viene ripreso da un pronome, come nel caso seguente:
Num 5,12
(a)
(b)
vyai vyai
(…) /˝Tv]ai hf≤c]tiAyKi
Quanto ad ogni uomo, quando / se sua moglie sarà infedele…
Da ciò che è stato detto segue che le “regole” enunciate nella conclusione
(113-116), come anche i criteri per distinguere la subordinazione dalla coordinazione, hanno valore relativo essendo risultato di statistiche; per di più, le statistiche stesse sono aleatorie in quanto sono basate su una distinzione
semantica dei valori di kî (temporale, condizionale, causale ecc.) che difficilmente raggiunge l’unanimità in tutti i casi.
§ 4. Proseguendo la sua ricerca su gam, van der Merwe si propone di andare oltre le indicazioni di Andersen, The Sentence, e della grammatica di
Waltke-O’Connor riguardo alle particelle ∑ak e raq. Il criterio principale, afferma van der Merwe, per evitare classificazioni improduttive, consiste nel suddividere le particelle ∑ak e raq in ragione dello stato sintattico dei vari elementi
che esse modificano (“in terms of their syntactic domains”, pp. 299-300). Sia
∑ak che raq vengono designate come “particelle con enfasi restrittiva” (“restrictive focus particle”). La trattazione si svolge nell’ordine seguente: raq + sintagma; raq + proposizione subordinata; raq + proposizione con forza illocutoria;
casi problematici di raq. La trattazione di ∑ak è simile: ∑ak + sintagma; ∑ak +
proposizione subordinata (condizionale e “2.Sy”, una delle sigle che non vengono spiegate); ∑ak + proposizione con forza illocutoria; ∑ak come avverbio
che specifica una circostanza di tempo; casi problematici.
Controllando alcuni esempi, ho notato qualche problema. Ad esempio, parecchi passi citati sotto la suddivisione raq + sintagma (§ 2.1) presentano non
un semplice sintagma ma una proposizione con un sintagma avverbiale o nominale preposto al verbo finito, sono cioè di tipo x-yiqtol (Gios 6,17), oppure xqatal (dove ‘x’ può essere ∑aåer: Gen 14,24; Gios 6,24; 8,27) e casus pendens
(Deut 20,20; Gios 11,13). Non è chiaro, perciò, come mai van der Merwe parli
di sintagma soltanto e non di proposizione; in effetti in questi casi raq modifica la proposizione, non solo il sintagma iniziale. Tanto più che sotto la suddivisione raq + proposizione con forza illocutoria (§ 2.2.2) elenca esempi del
tipo x-yiqtol. Su che si fonda tale distinzione? Non su criteri sintattici, sembra
chiaro; forse su criteri semantici.
Nella medesima suddivisione raq + proposizione con forza illocutoria (§
2.2.2), e poi nell’analoga suddivisione con ∑ak (§ 3.3), si mostra ancora un’in-
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
679
certa base sintattica. Infatti le proposizioni di questa suddivisione vengono
designate “appelli” (“appeals”), “affermazioni” (“statements”) o “desideri”
(“wishes”). A parte il fatto che queste non sono designazioni grammaticali usuali, se si controlla qualche esempio per capire di che si tratta, i risultati sono un
po’ sconcertanti. Infatti sotto gli “appelli” van der Merwe elenca non solo imperativi e iussivi (negati con ∑al) ma anche yiqtol indicativi (negati con lö∑: 1
Re 8,19; Lev 21,33; 23,27; 23,39; Num 18,3 ecc.); sotto le “affermazioni” elenca non solo proposizioni nominali semplici (senza verbo finito), ma anche proposizioni di tipo x-yiqtol (Es 21,19; 1 Re 11,13; Gen 9,5; 1 Re 11,12), x-qatal
(1 Re 15,14; 15,23; 2 Re 3,3; 1 Sam 29,9); e sotto i “desideri” troviamo xyiqtol indicativo (Es 8,25), yiqtol iussivo (Gios 1,17; 1 Sam 1,23). Con quali
criteri sono fatte le suddivisioni?
I casi presentati come problematici di raq (si dice che sono 5, ma gli esempi elencati sono 4; p. 304) non mi sembrano incomprensibili.
Num 20,19 (a)
(b)
(c)
(d)
(e)
(f)
laer:c]yIAynEB] w˝yl…ae Wrm]aYo˝w"
hl,[}n" hL…sim]˝Bæ
y˝n"q]mi˝W ynIa} hT,v]nI Ú˝ym≤ymeAµai˝w“
µ˝r:k]mi yTit'n:˝w“
rb…D:Aˆyae qr"
hr:bo[‘a≤ ylæg“r"˝B]
Gli dissero i figli di Israele: “Solo per la strada andremo e se
berremo della tua acqua, io e i miei greggi, la pagherò. Per il resto, non c’è da preoccuparsi (‘Ma non c’è cosa’; cf. 1 Sam
20,21): solo a piedi passerò”.
Il commento di van der Merwe su questo passo mostra un’analisi incerta:
In Nu 20:19 raq functions semantically like cases in 2.2 [raq + proposizione],
but it is not immediately followed by its domain. Instead, it is followed by an
appositional sentence that functions like an interjection, reformulating the
restrictive connotation, normally associated with raq. (p. 304)
E’ difficile capire in che senso Num 20,19(e) sia un proposizione appositiva che funziona come un’interiezione; per me è una frase per se stessa, con
∑ên predicato e däbär soggetto, che viene modificata da raq, come al solito.
Anche Gios 11,14 è comprensibile senza molti problemi: “Tutto depredarono; ma (raq) gli uomini uccisero con la spada”. Negli altri due casi, raq introduce una restrizione negativa dopo una descrizione positiva: “Sua figlia gli uscì
incontro con tamburelli [= tutto OK!]. Ma lei era unica; egli non aveva, a parte
ciò, né figlio né figlia [ecc.: voto di Iefte!]” (Giud 11,34); “Salomone si imparentò con il faraone re d’Egitto [= tutto OK]. Però il popolo offriva sacrifici sulle
alture” (1 Re 3,2). Forse il problema avvertito da van der Merwe è semantico:
680
RECENSIONI
questi esempi non si inquadrano facilmente nella sua teoria che prevede una
“general predication”, da cui qualcosa viene escluso mediante raq (p. 300). Raq,
però, può indicare semplicemente una contrapposizione con ciò che precede,
un’eccezione a una situazione positiva (che ho indicato sopra con ‘tutto OK’).
Un paio di casi difficili si possono analizzare in questo modo (diversamente van der Merwe, p. 302): “Ho pensato (detto): ‘(Tutto OK) però (= Assolutamente) non c’è timor di Dio in questo luogo’ ” (Gen 20,11); “Assolutamente
sapiente e intelligente è questo popolo” (Deut 4,6).
Un’osservazione di dettaglio riguarda p. 301, dove si dice che raq in vari
casi è negato. In realtà la negazione segue la particella raq, non la precede; per
cui non è negata la particella ma il sintagma o la proposizione da essa modificata (Gen 47,22; 47,26; Deut 2,37 ecc.). L’espressione lö∑ raq “non solo” dell’ebraico moderno non è attestata nell’ebraico biblico.
Alla fine van der Merwe confessa di non aver scoperto differenze sostanziali tra raq e ∑ak; in effetti non va molto oltre la dottrina di Andersen e WaltkeO’Connor. Anche le conclusioni riguardanti gli “appelli”, le “affermazioni” e gli
altri tipi di proposizione in rapporto all’uso di kî non sembrano granché significative. Come ho osservato sopra a proposito di Groß, senza una corretta sintassi
del verbo non è possibile alcuna sintassi delle congiunzioni e particelle.
§ 5. Seidl studia un argomento controverso e difficile: ∑aåer come congiunzione. In effetti i grammatici sono soliti distinguere due usi di ∑aåer: come pronome relativo e come congiunzione. Seidl sembra ritenere che il problema
maggiore sia la completezza dei dati e per questo si affida alla concordanza
verbale stabilita con l’ausilio del computer sulla base della BHt, il testo biblico
elaborato dal prof. Richter e la sua équipe. Risulta che nel corpus Gen - 2 Re
si hanno 2663 proposizioni con ∑aåer. Tra queste, 803 sono i casi in cui ∑aåer
viene classificato come non relativo, e perciò come congiunzione; il che, naturalmente, dà adito a differenze di giudizio perché, come appare dalla classificazione di Seidl, il confine tra le due possibilità è talvolta tenue. In qualche misura la bontà dell’analisi dipende dall’accuratezza delle scelte sintattiche che
sono alla base della BHt.
Seidl si interroga circa i criteri di classificazione degli 803 casi in cui ∑aåer
non è pronome relativo secondo l’opinione della BHt. Esclude le proposizioni
soggettive, oggettive e altre che rappresentano un “Kernsatzsyntagma”. (Il lettore è avvertito che la terminologia e le sigle proprie del circolo Richter sono
frequenti in questo e in altri articoli del volume; e non vengono quasi mai spiegate a beneficio di quelli che non sono membri del circolo.) Seidl studia soltanto le proposizioni con ∑aåer che sono subordinate ma non sintatticamente inglobate nella principale; proposizioni in cui ∑aåer compare al posto di una congiunzione subordinata. Classificare le subordinate secondo criteri formali è agevole
quando ∑aåer è associato a congiunzioni che ne esplicitano la funzione, come „al
∑aåer, „ad ∑aåer, ya„an ∑aåer ecc. I 61 casi che non rientrano in questa lista, e sono
perciò più difficili da analizzare, costituiscono l’oggetto specifico della ricerca
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
681
di Seidl. Molto opportunamente egli fa leva sul parallelismo delle frasi e
l’intercambiabilità dei mezzi sintattici sia nel contesto che in frasi simili provenienti da altri testi. Ulteriori criteri sono di tipo lessicale e critico-testuale.
Il criterio del parallelismo e dell’intercambiabilità vengono applicati con
frutto in vari passi, tra cui Deut 23,5; 1 Re 8,39; Lev 5,1-2; Deut 11,27-28;
4,40; 1 Re 8,33-34 // 2 Cron 6,24; Deut 28,20 // 29,24 e 1 Re 9,9; Num 5,2930 // 5,12.14; Deut 6,3 // 5,16. Desidero fermarmi un momento su alcuni di
questi passi:
Lev 5,1
Lev 5,2
Num 5,29
Deut 11,27 (a)
(b)
(c)
Deut 11,28 (a)
1 Re 8,33
(b)
(c)
(d)
(a)
(b)
2 Cron 6,24 (a)
(b)
(…) af;j‘t,AyKi vp,n<˝w“
(…) amef; rb…D:Alk;˝B] [G"Ti rv,a} vp,n< /a
(…) H˝v;yai tj'Tæ hV;ai hf,c]Ti rv,a}
hk…r:B]˝h'Ata,
µk,˝yheløa‘ hw:hy“ twOx]miAla, W[m]v]Ti rv,a}
µ/Y˝h' µk,˝t]a, hW<x'm] ykinOa; rv,a}
hl;l;Q]˝h'˝w“
µk,˝yheløa‘ hw:hy“ twOx]miAla, W[m]v]ti aløAµai
Ër<D<˝h'Aˆmi µT,r“s'˝w“
µ/Y˝h' µk,˝t]a, hW<x'm] ykinOa; rv,a}
byE/a ynEp]˝li la´r:c]yI Ú˝M][' πgEN:hi˝B]
(…) Ë˝l…AWaf]j,y< rv≤a}
byE/a ynEp]˝li la´r:c]yI Ú˝M][' πgEN:yIAµai˝w“
(…) Ë˝l…AWaf]j,y< yKi
(Lev 5,1) Se una persona peccherà (…)
(Lev 5,2) O se una persona (lett. ‘O quanto a una persona che’)
toccherà qualsiasi cosa impura (…)
(Lev 5,29) Se (lett. ‘quanto al fatto che’) una moglie sarà infedele a suo marito (…)
(Deut 11,27) La benedizione (pongo davanti a voi), se (lett. ‘in
relazione al fatto che’) ascolterete i comandamenti di Yahveh
vostro Dio che io vi comando oggi; (Deut 11,28) la maledizione,
se non ascolterete i comandamenti di Yahveh vostro Dio e vi allontanerete dalla via che io vi ordino oggi.
(1 Re 8,33) Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto (lett. ‘nell’essere sconfitto il tuo popolo…’) davanti al nemico perché (lett.
‘in relazione al fatto che’) peccheranno contro di te (…)
(2 Cron 6,24) E se il tuo popolo Israele verrà sconfitto davanti al
nemico perché peccheranno contro di te (…)
Seidl nota, giustamente, che nelle formulazioni casuistiche di Lev 5,1-2 kî
e ∑aåer sono intercambiabili; ma non si chiede perché, né si chiede se le due
proposizioni siano identiche dal punto di vista grammaticale. Questo è, a mio
682
RECENSIONI
avviso, il limite della sua ricerca: si notano fenomeni ma non si dà, e neppure
si cerca, una spiegazione; si riscontra anche qui la metodologia fenomenologica di cui si diceva sopra (§ 1).
Se le frasi citate di Lev 5,1 e 5,2 sono equivalenti dal punto di vista della funzione, non lo sono dal punto di vista grammaticale. Infatti, come si è osservato
sopra a proposito di Groß, Lev 5,1 equivale in tutto e per tutto alle seguenti formulazioni: af…jT‘ , tjæa vp,nA< µaiw˝ “ (Lev 4,27) e Ë˝lA; Waf]jy, yKi “quando peccheranno contro
di te” (1 Re 8,46); si tratta, cioè, di una proposizione subordinata retta da kî o ∑im,
in cui il soggetto può precedere o seguire il costrutto congiunzione + verbo finito.
Come interpretare ∑aåer che regge una proposizione? Si dice normalmente
che è una congiunzione; ma, a quanto mi risulta, nessuno ha spiegato come mai
∑aåer sia ora pronome ora congiunzione. Per trovare una spiegazione coerente
del fenomeno dobbiamo partire dalla funzione chiara, che è quella di pronome.
Veramente ∑aåer non è un pronome vero e proprio, perché non concorda, ma
una particella di relazione che si comporta come un pronome; indica cioè un
qualche rapporto tra due elementi nominali della frase, rapporto che viene normalmente precisato mediante un pronome di ripresa (necessario appunto perché ∑aåer è indeclinabile).
Quando ∑aåer regge un verbo finito ha la funzione di nominalizzarlo; ad
esempio, ∑aåer + qatal equivale a un participio (si veda l’analisi di Gios 24,17
in Syntax § 6). Ciò è pacifico: anche in italiano “colui che parla” equivale a “il
parlante”. Bisogna riflettere però che la nominalizzazione può riguardare tutti
gli elementi della proposizione: il soggetto, il predicato e il complemento. Prendendo come esempio la frase “Yahveh ha fatto salire gli Israeliti dalla terra
d’Egitto”, la nominalizzazione può riguardare il soggetto: (1) “Yahveh che ha
fatto salire gli Israeliti dall’Egitto”; o l’oggetto: (2) “gli Israeliti che Yahveh ha
fatto uscire dall’Egitto”; o l’intera proposizione: (3) “il fatto che Yahveh ha
fatto salire gli Israeliti dalla terra d’Egitto”. In (1) la frase relativa equivale a
un participio attivo, in (2) a un participio passivo, in (3) a un infinito.
In ebraico, quando l’antecedente è espresso, ∑aåer indica una relazione di
tipo (1) o (2), cioè modifica il soggetto o l’oggetto (senza pronome di ripresa)
o un complemento indiretto (normalmente con complemento di ripresa). Quando invece manca un antecedente, oppure quando il verbo che segue ha un soggetto diverso dall’antecedente, ∑aåer indica una relazione di tipo (3), cioè
nominalizza l’intera proposizione che segue. Ritornando ai nostri esempi, Lev
5,2 è nominalizzazione di tipo (1), Deut 11,27(c) e 11,28(d) sono di tipo (2);
invece Num 5,29; Deut 11,27(b) e 1 Re 8,33(b) sono di tipo (3).
Ciò significa che le frasi di Lev 5,1 e 5,2 sono equivalenti quanto alla
funzione, ma diverse quanto alla grammatica; la prima è una protasi esplicita,
con proposizione subordinata mediante kî: “se una persona peccherà”; la seconda è un casus pendens che però svolge la medesima funzione di protasi:
“quanto alla persona che toccherà (= se una persona toccherà) qualsiasi cosa
impura”. Questo esempio (e altri simili) chiariscono, da un lato, come mai
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
683
∑aåer equivalga a congiunzione; dall’altro, rivelano la funzione sintattica del
casus pendens: è una protasi (implicita, ma vera protasi) e costituisce una
proposizione da solo. E’ da notare che la funzione sintattica del casus pendens
non è sempre ben descritta dai grammatici, i quali ritengono che sia soggetto
messo in posizione di preminenza (Ges-K § 143; Driver, Hebrew Tenses §
197; Joüon-Muraoka § 156), o che rechi enfasi su di sé (Waltke-O’Connor §
4.7). Si può consultare la mia discussione in “On the Hebrew Verbal System”,
in: R.D. Bergen, ed., Biblical Hebrew and Discourse Linguistics (sezione
“Emphasis, topic, focus”).
In base al parallelismo e intercambiabilità tra 1 Re 8,33(a) e 2 Cron 6,24(a)
si può affermare che il sintagma preposizionale bet + infinito equivale a una
protasi esplicita con ∑im + verbo finito; perciò funge da protasi e costituisce
una proposizione da solo, esattamente come il casus pendens. Si delinea così
una serie di possibilità grammaticali, diverse ma equivalenti quanto alla funzione, per esprimere la protasi (che è frase circostanziale preposta alla frase
principale o apodosi).
Un’ultima osservazione riguardante la particella ∑aåer usata come congiunzione (cioè con nominalizzazione di tipo 3). Abbiamo visto che quando è all’inizio di frase e non ha alcun antecedente, grammaticalmente è casus pendens;
invece quando non è iniziale, come in Deut 11,27(b) e 1 Re 8,33(b), è analizzabile come complemento di relazione senza preposizione (accusativo avverbiale, o sintagma nominale usato come un avverbio: Ges-K § 118m; Driver,
Hebrew Tenses § 193): “in relazione al fatto che”, e perciò: “perché”, “affinché”, o “cosicché” secondo i contesti.
Con questi principi, si possono analizzare in modo coerente tutti gli usi di
∑aåer; credo di poter affermare questo anche se non ho esaminato tutti i passi.
Fondamentalmente ∑aåer è una particella di relazione con la funzione di nominalizzare la frase che segue; i differenti usi di tale particella si spiegano come
forme diverse di nominalizzazione. Sul fenomeno della nominalizzazione in
generale e in particolare dal punto di vista dell’egiziano antico, mi piace citare
uno dei pochi grandi grammatici che ho avuto la fortuna di conoscere: H.J.
Polotsky, “Les transpositions du verbe en égyptien classique”, Israel Oriental
Studies 6 (1976) 1-50, spec. § 2.
Proviamo ora ad analizzare uno dei casi speciali (“Grenzfälle”) in cui Seidl
non è riuscito a stabilire con sicurezza se ∑aåer è congiunzione o pronome
(464): Num 9,20-21. Dato che si tratta di un testo interessante per la nostra
ricerca, lo cito a partire dal v. 17.
Num 9,17
(a)
(b)
(c)
(d)
lh,ao˝h; l[æ˝me ˆn:[;˝h, tlø[;he ypi˝l]˝W
la´r:c]yI ynEB] W[s]yI ˆkeAyrEj}aæ˝w“
ˆn:[;˝h, µv;AˆK;v]yI rv,a} µ/qm]˝bi˝W
laer:c]yI ynEB] Wnj}y" µv;
684
RECENSIONI
Num 9,18
(a)
(b)
(c)
(d)
Num 9,19
Num 9,20
(a)
(b)
(c)
(a)
(b)
(c)
Num 9,21
(a)
(b)
(c)
(d)
(e)
Num 9,22
(f)
(a)
(b)
(c)
(d)
(e)
Num 9,23
(a)
(b)
(c)
laer:c]yI ynEB] W[s]yI hw:hy“ yPiAl["
Wnj}y" hw:hy“ yPiAl['˝w“
ˆK…v]Mi˝h'Al[' ˆn:[;˝h, ˆKov]yI rv,a} ymey“AlK;
Wnj}y"
µyBir" µymiy: ˆK;v]Mi˝h'Al[' ˆn:[;˝h≤ ËyrIa}h'˝b]˝W
hw:hy“ tr<m,v]miAta, la´r:c]yIAynEb] Wrm]v;˝w“
W[S…yI alø˝w“
ˆK;v]Mi˝h'Al[' rP…s]mi µymiy: ˆn:[;˝h, hy<h]yI rv,a} vyE˝w“
Wnj}y" hw:hy“ yPiAl['
W[S…yI hw:hy“ yPiAl['˝w“
rq,BoAd[' br<[≤˝me ˆn:[;˝h≤ hy<h]yI rv,a} vyE˝w“
rq,Bo˝B' ˆn:[;˝h, hl…[}n"˝w“
W[s;n:˝w“
hl;y“l'˝w: µm;/y /a
ˆn:[;˝h, hl…[}n"˝w“
W[s…n:˝w“
µymiy:A/a vd,joA/a µyIm'yOA/a
w˝yl;[; ˆKov]˝li ˆK;v]Mi˝h'Al[' ˆn:[;˝h, ËyrIa}h'˝B]
la´r:c]yIAynEb] Wnj}y"
W[S…yI alø˝w“
/˝tlø[;he˝b]˝W
W[S;yI
Wnj}y" hw:hy“ yPiAl['
W[S…yI hw:hy“ yPiAl['˝w“
hv,moAdy"˝B] hw:hy“ yPiAl[' Wrm;v; hw:hy“ tr<m,v]miAta,
(Num 9,17) E secondo che si sollevava la nuvola da sopra la tenda, dopo di ciò gli Israeliti partivano, e nel luogo dove la nuvola
sostava, là gli Israeliti si accampavano. (Num 9,18) Secondo
l’ordine di Yahveh gli Israeliti partivano, e secondo l’ordine di
Yahveh si accampavano; per tutti i giorni che la nuvola sostava,
rimanevano accampati. (Num 9,19) E se la nuvola restava sopra
tenda molti giorni, gli Israeliti osservavano l’indicazione di
Yahveh e non partivano. (Num 9,20) E se accadeva che (lett. ‘se
c’era il fatto che’) la nuvola stava pochi giorni sopra la tenda,
secondo l’ordine di Yahveh restavano accampati, e secondo l’ordine di Yahveh partivano. (Num 9,21) E se accadeva che (lett.
‘se c’era il fatto che’) la nuvola stava da sera a mattina, se poi la
nuvola si sollevava la mattina, partivano; o se (stava) il giorno e
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
685
la notte, se poi la nuvola si sollevava, partivano. (Num 9,22) E
se due giorni o un mese o vari giorni la nuvola restava sopra la
tenda sostando sopra di essa, gli Israeliti rimanevano accampati
e non partivano, e quando si sollevava, partivano. (Num 9,23)
Secondo l’ordine di Yahveh si accampavano e secondo l’ordine
di Yahveh partivano. L’indicazione di Yahveh sempre osservarono secondo l’ordine di Yahveh per mano di Mosè.
La varietà di forme grammaticali in questo brano è pari alla precisione
delle indicazioni: ambedue sono fuori del comune. Tutto il brano gioca su
due elementi: (a) il sollevarsi o il sostare della nuvola e (b) il partire e l’accamparsi degli Israeliti. L’elemento (a) è espresso con una serie di espressioni circostanziali preposte alla frase principale, e perciò con funzione di
protasi, le quali assumono la forma di sintagma preposizionale (nella maggior parte dei casi) o nominale (casus pendens), o di weqatal: Num 9,17(a;
c); 9,18(c); 9,19(a); 9,20(a); 9,21(a; b; d; e); 9,22(a; d). L’elemento (b) compare come apodosi nelle forme x-yiqtol, yiqtol semplice, weqatal e la forma
negativa welö∑ + yiqtol senza alcuna differenza sintattica: Num 9,17(b; d);
9,18(d); 9,19(b; c); 9,20(b; c); 9,21(c; f); 9,22(b; c; e). In due casi l’elemento
(b) è un sintagma ‘x’ che precede il costrutto x-yiqtol (unica proposizione):
Num 9,18(a; b); 9,23(a; b).
In generale Num 9,17-23 è un brano commentativo (il commento inizia in
9,15); non vi compare alcuna forma narrativa di livello principale, cioè
wayyiqtol. Le forme utilizzate sono x-yiqtol (yiqtol in seconda posizione della
frase), yiqtol (in funzione di apodosi) e weqatal, che sono tutte forme di livello
secondario nella narrazione, indicanti ripetizione, abitudine. Alla fine compare
x-qatal (Num 9,23c), anch’esso costrutto di livello secondario, indicante però
un’informazione singola o complessiva. Questa distinzione tra (x-) yiqtol e
weqatal, da una parte, e (x-) qatal, dall’altra, riguarda chiaramente l’aspetto
dell’azione. In ebraico l’aspetto è dunque all’opera nella linea secondaria della
comunicazione, mentre l’elemento tempo (verbale) è all’opera nella linea principale (wayyiqtol è il tempo della narrazione storica; sull’argomento si può
vedere Syntax § 133; Lettura sintattica § 6.2).
Ritornando al problema di Seidl, diremo che in Num 9,20 e 9,21 ∑aåer non
è congiunzione ma pronome e che nominalizza il successivo yiqtol (nominalizzazione di tipo 3); insieme, ∑aåer + yiqtol costituiscono il soggetto di weyëå,
che funge da predicato e ha la funzione di protasi. Dato però che ambedue gli
usi di ∑aåer sono fondamentalmente convergenti, non è cosa grave se non si
può riconoscere con sicurezza l’uno dall’altro.
Credo, insomma, che il principio dato sopra consenta di analizzare tutti i
casi; il principio è il seguente: ∑aåer ha funzione di pronome quando si aggancia a un antecedente; ha funzione di congiunzione quando non ha un antecedente, o quando il soggetto del verbo che lo segue è diverso dall’antecedente o
viene ripetuto.
686
RECENSIONI
Applico ora questo principio ad alcuni casi difficili segnalati da Seidl (464467) indicando il tipo di nominalizzazione che è presente in ognuno. In Num
14,29 manca un antecedente diretto ma il verbo ha lo stesso soggetto “voi” del
contesto precedente, per cui si può intendere “(voi) che avete mormorato (nominalizzazione di tipo 1) contro di lui”, oppure “per il fatto che avete mormorato
(nominalizzazione di tipo 3) contro di lui”.
1 Sam 25,26: “Perciò, mio signore, per la vita di Yahveh e per la tua stessa
vita: per il fatto che Yahveh ti ha trattenuto (nominalizzazione di tipo 3) dallo
spargere sangue (‘entrare nel sangue’) (protasi), la tua mano ti darà vittoria
(apodosi)”; cioè: avrai successo perché non ti sei fatto giustizia da te.
1 Sam 25,33: “E’ benedetta la tua saggezza e benedetta tu, che oggi mi hai
impedito (nominalizzazione di tipo 1) di spargere sangue, e così la mia mano
mi darà vittoria”.
1 Sam 26,16: “Non è buona la cosa che hai fatto. Per la vita di Yahveh:
siete degni di morte voi che (oppure: per il fatto che) non avete fatto la guardia
(nominalizzazione di tipo 1 oppure 3) al vostro signore”.
2 Sam 2,5: “Siete benedetti di fronte a Yahveh voi che (oppure: per il fatto
che) avete fatto questa misericordia (nominalizzazione di tipo 1 oppure 3)”.
2 Re 22,13: “Andate, interrogate Yahveh … poiché grande è l’ira di Yahveh,
in quanto essa (∑Äåer-hî∑, con pronome soggetto espresso; nominalizzazione di
tipo 3) si è accesa contro di noi per il fatto che („al ∑Äåer; nominalizzazione di
tipo 3) i nostri padri non hanno ascoltato le parole di questo libro”.
1 Re 3,12-13: “Ecco, con ciò stesso faccio (qatal performativo!) secondo
le tue parole; ecco, do (qatal performativo!) a te un cuore saggio e intelligente
al punto che come te non ci fu nessuno (nominalizzazione di tipo 3) prima di te
e dopo di te non sorgerà nessuno come te. E anche quello che non hai chiesto
(nominalizzazione di tipo 2) io do (qatal performativo) a te: sia ricchezza che
gloria, al punto che non ci fu nessuno (nominalizzazione di tipo 3) tra i re per
tutta la tua vita (‘per tutti i tuoi giorni’)”.
Gen 13,16: “Porrò la tua discendenza come la polvere della terra, al punto
che se uno potrà contare la povere della terra, anche la tua discendenza potrà
contare (nominalizzazione di tipo 3)”. Si noterà che in questo passo ∑aåer
nominalizza l’intera proposizione duplice (protasi + apodosi) che segue.
Nella conclusione Seidl sintetizza i risultati della sua ricerca, che non sono
disprezzabili anche se manca una base sintattica precisa: ∑aåer svolge le funzioni di kî, ∑im, lema„an e delle congiunzioni composte con ∑aåer stesso: causale, condizionale, temporale, finale/consecutivo; inoltre, queste funzioni sono
dimostrabili con criteri formali, almeno in parecchi casi. ∑Aåer stabilisce una
relazione di subordinazione della frase retta rispetto a un’altra; dal punto di
vista semantico, questa relazione è polivalente.
§ 6. Stipp si occupa di un residuo non spiegato nella grammatica di W.
Richter: weqatal usato per il passato non iterativo. Egli si collega espressamente alla sua precedente ricerca su un altro residuo non spiegato dal maestro: le
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
687
forme narrative (wayyiqtol) ‘irregolari’ che contengono uno yiqtol di forma
lunga invece che di forma breve come è atteso. Secondo la sua ricerca, queste
forme sono limitate a Geremia e 1-2 Re; sono un fenomeno tardivo che non
risale al tempo della composizione ma è stato introdotto durante la tradizione
manoscritta, nel senso che quelle forme narrative rispecchiano la lingua dei
copisti, la quale subiva l’influsso dell’aramaico e dell’ebraico mishnico; sono
perciò degli ammodernamenti che hanno interessato l’ortografia e la morfologia in Geremia.
Come è noto, il fenomeno di weqatal usato per il passato non iterativo viene segnalato nelle grammatiche, le quali normalmente affermano che quando a
qatal è premesso un waw conversivo, il composto ha senso di futuro o di passato iterativo; quando invece è premesso un waw coordinativo, il senso è passato semplice non iterativo. In Syntax § 158 (ii) ho elencato i casi a me noti
allora, senza darne una spiegazione. Ultimamente R.E. Longacre ha studiato
gli esempi elencati da Ges-K, pp. 338-339, in un articolo dal titolo “WQTL
forms in Biblical Hebrew Prose: A Discourse-Modular Approach”, in: R.D.
Bergen, ed., Biblical Hebrew and Discourse Linguistics. Nel quadro del suo
sistema dei “tipi testuali” (“text-types”), Longacre ritiene che il carattere di
consecuzione che viene comunemente attribuito a weqatal non è di primaria
importanza; più importante è il fatto che weqatal costituisce la linea principale
del cosiddetto “discorso di predizione, di procedura e di istruzione” (“Predictive, Procedural, and Instructional discourse”); molti esempi di weqatal detti
iterativi sono in realtà resti di “discorso di procedura” inglobati nella narrazione; d’altra parte, molti esempi di weqatal non iterativi sono segnali di eventi
culminanti nello svolgimento del racconto (“marker of pivotal/climatic events”).
A mio avviso, però, tale presentazione di weqatal, che sarebbe rivoluzionaria,
non è ha base grammaticale e sintattica; essa anzi scavalca il piano grammaticale e sintattico e propone soluzioni a livello testuale (nel senso della “discourse
analysis” praticata da Longacre e dal suo centro di Dallas, il Summer Institute
of Linguistics), soluzioni che sono per forza di cose personali.
Al solito, è necessaria una solida sintassi del verbo. Penso che weqatal sia
una forma verbale propria del discorso diretto, dove indica il tempo futuro (futuro non volitivo), usata nella narrazione per indicare non un tempo fisso ma
l’aspetto dell’azione (iterazione, ripetizione, descrizione). Nel discorso diretto
weqatal indica la linea principale della narrazione, mentre nella narrazione indica la linea secondaria (sfondo di un wayyiqtol precedente, o antefatto di un
wayyiqtol seguente). Si può consultare una sintesi delle funzioni di weqatal in
Syntax §§ 156-158.
Ritengo che prima di ammettere un weqatal non conversivo, preceduto da waw
coordinativo, bisogna aver esaurito ogni possibilità di spiegare i passi in base alle
funzioni normali del weqatal ‘inversivo’ o ‘conversivo’. Su questa base sintattica
esaminiamo i casi studiati da Stipp, in primo luogo i 5 esempi di Geremia che presentano wehäyâ con valore presunto di passato non iterativo (522-527).
688
RECENSIONI
Ger 3,9 (narrazione orale; wehäyâ indica sfondo): “Ora avveniva (wehäyâ)
che, a motivo della facilità del suo adulterio (protasi), (Israele) rese impura
(wayyiqtol di apodosi) la terra”.
Ger 37,11 (antefatto che introduce un nuovo episodio riprendendo la notizia storica di 37,5): “Ora avveniva (wehäyâ) che mentre l’esercito dei Caldei si
allontanava da Gerusalemme di fronte all’esercito del faraone, (37,12) Geremia uscì da Gerusalemme…”.
Ger 38,28 (wehäyâ è costrutto di sfondo alla fine della pericope se prendiamo il TM com’è, lasciando da parte le considerazioni critico-letterarie degli autori, cf. p. 523): “Ora questo avveniva (wehäyâ) quando Gerusalemme fu presa”.
Ger 40,3 (discorso diretto; wehäyâ è apodosi): “Poiché avete peccato contro Yahveh e non avete ascoltato la sua voce (due protasi), questa parola sarà
(wehäyâ) contro (oppure: per) voi (apodosi)”.
Dopo aver notato che oggi, a differenza del passato, in questi esempi wehäyâ
non viene più corretto in wayehî, Stipp critica la soluzione di G.S. Ogden, H.
Spieckermann e C. Hardmeier secondo i quali wehäyâ in questi esempi introduce una spiegazione o indica contemporaneità, e anche la soluzione di H. Migsch
secondo il quale indica sfondo. Nella sua discussione (523-526) Stipp dimostra
di non seguire una chiara sintassi del verbo. Ad esempio, contro Hardmeier, il
quale afferma che in Ger 37,11 si sottolinea la contemporaneità tra partenza dei
Babilonesi e quella di Geremia, Stipp obietta che altrove la contemporaneità si
esprime con wayehî, e porta come esempio Gen 4,8, che egli traduce: “Während
sie auf dem Feld waren, erhob sich Kain gegen Abel”. Ma la “imperfettività” che
Stipp vede in questo testo esiste solo nella sua traduzione; il testo non presenta
alcuna imperfettività avendo wayyiqtol: “E avvenne che, quando furono nella
campagna (wayehî bihyôtäm ba¬¬ädeh, protasi), Caino insorse (wayyäqom) contro Abele (apodosi)”. Giustamente, wehäyâ bihyôt… in 1 Sam 16,23 indica invece ripetizione: “E così ogni volta che (lo spirito di Dio) era (su Saul)…”. Il
che significa che non ci si può fondare sul modo di tradurre: l’analisi sintattica
non dipende dalla traduzione, ma al rovescio; nella narrazione storica wayehî
indica un’informazione unica di primo piano (livello principale della comunicazione), mentre wehäyâ indica ripetizione, abitudine o descrizione, che sono informazioni di sfondo (livello secondario della comunicazione). La valutazione
che Stipp fa delle frasi con il verbo häyâ è difettosa in quanto egli non fa distinzione di forme verbali, ma ritiene che esse siano in ogni caso di primo piano.
Scrive infatti:
Sätze mit hyh und Zeitangabe verlangen nach einem Hauptsatz, hier gestellt
durch [Jer] 37,12 und 39,3a. Beides aber ist Vordergrundschilderung. Hintergrundschilderung ist aber vom Vordergrund syntaktisch separiert oder hat die
Gestalt eines Umstandssatzes. (p. 526)
Cosa voglia dire la seconda frase, proprio non capisco; Stipp non dice in
che modo lo sfondo sia distinto sintatticamente dal primo piano, né cosa egli
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
689
intenda per frase circostanziale. Per me weqatal nella narrazione è forma di
sfondo e forma circostanziale (due designazioni equivalenti).
In mancanza di criteri precisi, l’inchiesta sul modo come la LXX traduce
wehäyâ non dà risultati che possano chiarire la situazione dell’ebraico (527530). Nel seguito Stipp studia alcuni casi problematici, a cominciare da Gen
38,5, un passo che nella conclusione definisce un chiaro sbaglio testuale (544).
Tuttavia, se si applica la teoria sintattica enunciata sopra, molti testi problematici appaiono ben costruiti. Ad esempio, in Gen 38,5 l’espressione wehäyâ
bikzîb belidtäh si può analizzare come frase di livello secondario, esprimente
lo sfondo dei precedenti wayyiqtol: “(Shua) partorì ancora un figlio e gli pose
il nome di Shela. Ora egli (Giuda) si trovava a Kezib quando ella partorì”. La
correzione wehî∑ al posto di wehäyâ si basa sulla LXX (“ora lei si trovava a
Kezib quando li partorì”), ma il TM è analizzabile molto bene come sta: soggetto è Giuda di cui si parla all’inizio del cap. 38; egli è soggetto in 38,1.2.3 e
poi in 38,6. Si potrà discutere quale sia la lezione migliore dal punto di vista
del senso, ma la sintassi dell’ebraico è del tutto regolare.
Il modo in cui Stipp analizza Es 36,29-30 è ancora più discutibile (534). Com’è noto, questo passo fa parte di una sezione ampia (Es 35-40) in cui si racconta l’esecuzione delle istruzioni di Dio a Mosè riguardanti la costruzione della
tenda sacra e l’ordinamento del culto (Es 25-30); istruzione ed esecuzione ripetono per lo più il medesimo testo usando però forme verbali diverse: discorsive nel
primo caso, narrative nel secondo. Ora, seguendo Bartelmus, Stipp ritiene che in
Es 36,29-30 le forme verbali dell’istruzione non siano state adattate alla esecuzione; si sarebbe verificato cioè un lapsus del redattore, il quale avrebbe dimenticato di cambiarle. Mi pare che tale opinione misconosca la funzione delle forme
verbali utilizzate. Per mostrare questo, è utile confrontare con Es 36,29-30, che è
l’esecuzione, con l’istruzione corrispondente nel cap. 26 a partire dal v. 23.
Es 26,23-25 – istruzione
(…) hc,[}T' µyvir:q] ynEv]˝W
Es 36,28-30 – esecuzione
(…) hc;[; µyvir:q] ynEv]˝W
hF;m'˝L]˝mi µymia}to Wyh]yI˝w“
(…) µyMit' Wyh]yI wD:j]y"˝w“
µh,˝ynEv]˝li hy<h]yI ˆKe
Wyh]yI t[oxoq]Mi˝h' ynEv]˝li
(…) µyvir:q] hn:mov] Wyh;˝w“
hF;m'˝L]˝mi µmia}/t Wyh;˝w“
(…) µyMit' Wyh]yI wD:j]y"˝w“
t[oxoq]Mi˝h' ynEv]˝li µh,˝ynEv]˝li hc…[; ˆKe
Due assi farai (…)
affinché siano combacianti dal basso
e ambedue siano intere (…)
Così sarà per ambedue;
per i due angoli serviranno (‘saranno’).
Saranno otto assi (…)
(…) µyvir:q] hn:mov] Wyh;˝w“
Ora, due assi fece …
Erano combacianti dal basso
e insieme erano interi (…)
Così fece per ambedue,
per i due angoli.
Erano otto assi (…)
690
RECENSIONI
Queste corrispondenze delle forme verbali nell’istruzione e nell’esecuzione non sono né “distrazione” né “sbaglio”, poiché lo stesso fenomeno si verifica in molti altri passi paralleli in Es 25-30 // 35-40; si può consultare
Syntax §§ 57-60. Le corrispondenze attestate sono le seguenti (istruzione →
esecuzione):
–
–
–
–
–
weqatal → wayyiqtol (quando si tratta di opere singole)
x-yiqtol iniziale → wayyiqtol (quando si tratta di opere singole)
x-yiqtol enfatico (non iniziale) → x-qatal ugualmente enfatico (entrambi
con enfasi su ‘x’)
weqatal / x-yiqtol → weqatal / x-yiqtol (con valore di ripetizione o descrizione; equivalente a futuro → imperfetto)
proposizione nominale semplice (senza verbo finito) → proposizione nominale semplice (con valore di presente → contemporaneità).
Perciò le forme attestate in Es 36,29-30 non sono affatto “inattese” e le
considerazioni critico-letterarie di Stipp (534) non si possono basare sulla
grammatica. Aggiungo, a questo proposito, che è bene tenere la critica letteraria al di fuori della grammatica e della sintassi: grammatica e sintassi hanno
leggi proprie, che i redattori e glossatori conoscevano bene, a differenza di noi;
non possiamo sperare di risolvere i problemi di sintassi facendo ricorso alla
critica letteraria; sarebbe solo saltare da un piano all’altro e non aumenterebbe
la conoscenza.
Altri passi difficili possono essere analizzati secondo le regole date sopra,
e perciò non si possono considerare corrotti, né è consigliabile invocare alcun
“aramaismo erudito” (536) o ipotizzare cambiamenti testuali posteriori.
1 Sam 1,12 (wehäyâ indica antefatto, cioè l’inizio di un nuovo episodio nel
racconto; l’antefatto prosegue nel v. 13; la linea narrativa principale inizia con
wayyiqtol nel v. 14): “Ora avveniva che, poiché (Anna) prolungava la sua preghiera (protasi), Eli stava osservando la sua bocca (apodosi)”.
1 Sam 10,9 (wehäyâ introduce un’informazione di antefatto; benché due
manoscritti abbiano wayehî e così leggano di solito i critici, il TM è in ordine):
“Ora (la situazione era la seguente), quando egli voltò le sue spalle per andare
via da Samuele (protasi), Dio cambiò a lui un altro cuore (apodosi)”.
1 Sam 13,22 (è parte di un commento di sfondo che inizia nel v. 17b e si
collega al wayyiqtol del v. 17a; lo sfondo è costituito da forme x-yiqtol che,
come weqatal, indicano abitudine o descrizione nella narrazione storica):
“(13,19) Ora non si trovava nessun fabbro in tutta la terra di Israele, poiché i
Filistei avevano detto: ‘Non sia mai che gli Ebrei facciano spada o lancia’;
(13,20) tutto Israele scendeva (wayyiqtol continuativo nel TM: Syntax § 158
[ii]; ma si può leggere weyäredû) ai Filistei per affilare ciascuno il suo vomere,
la sua zappa, la sua ascia e la sua falce; (13,21) ora l’affilatura costava (‘era’,
wehäyetâ) due terzi di siclo…; (13,22) avveniva dunque (come questa volta)
che il giorno della guerra non si trovò spada o lancia nella mano di tutto l’eser-
GROSS ET AL.
TEXT, METHODE UND GRAMMATIK
691
cito (‘il popolo’) che era con Saul e Gionata, ma si trovò per Saul e Gionata
suo figlio”.
2 Sam 6,16 (wehäyâ continua la linea secondaria dei vv. 14-15; la linea
narrativa principale riprende con il wayyiqtol che segue; invece il parallelo 1
Cron 15,29 ha wayehî e perciò inizia qui la linea narrativa principale): “E mentre l’arca di Yahveh entrava…” (cf. Lettura sintattica, p. 225).
2 Re 3,15 (antefatto): “Ora, appena il suonatore iniziò a suonare, venne su
di lui la mano del Signore”.
Giob 1,1-5 (è tutto antefatto; dopo il costrutto x-qatal iniziale indicante
informazione puntuale di livello secondario, wehäyâ ha la funzione di descrivere il personaggio; la descrizione si sviluppa in una piccola narrazione inglobata nell’antefatto [wayyiqtol di continuazione]; questo fenomeno avviene due
volte: vv. 1-3; 4-5; il brano termina con weqatal descrittivi; la linea principale
della narrazione inizia nel v. 6 con wayyiqtol): “Ci fu un uomo (∑îå häyâ) nella
terra di Uz di nome Giobbe. Quell’uomo era (wehäyâ) retto e giusto… (1,2)
Gli nacquero (wayyiwwäledû) sette figli e tre figlie… (1,4) I suoi figli andavano (hälekû) e banchettavano… E (wayehî) quando avevano completato i turni…” (cf. Syntax § 90).
In conclusione direi che wehäyâ nella narrazione storica svolge due funzioni fra loro strettamente collegate: comunicare un’informazione di livello secondario e indicare ripetizione o descrizione. La prima funzione si verifica in
ogni caso, mentre la seconda appare talvolta problematica per la nostra sensibilità linguistica. Ad esempio, in 1 Sam 13,22 wehäyâ continua la linea secondaria e anche il carattere di ripetizione (descrizione) dei versetti precedenti, ma
nello stesso tempo segna il passaggio dalla situazione generale al caso particolare (la guerra di Micmas). Così si spiega la tensione tra le forme verbali di
quel passo, e questo potrebbe riflettere una caratteristica della “consecutio
temporum” dell’ebraico. Un tensione analoga si riscontra nella LXX, che spesso traduce wehäyâ con kai; ejgevneto, eliminando l’aspetto di ripetizione, ma
poi usa l’imperfetto, che indica ripetizione, nella frase dipendente. Ad esempio, in 1 Sam 1,12 l’ebraico ha wehäyâ (ripetizione) kî hirbetâ lehitpallël (qatal;
unicità), mentre il greco ha al rovescio kai; ejgenhvqh (unicità) o{te ejplhvqunen
proseucomevnh (imperfetto; ripetizione). Questo fenomeno meriterebbe una ricerca approfondita per scoprire le peculiarità di ogni lingua.
Le conclusioni a cui giunge Stipp mi sembrano discutibili per fatto che
egli non procede con alcun criterio sintattico; semplicemente costata i casi in
cui, secondo la LXX o gli interpreti moderni, il senso iterativo di wehäyâ
sembra escluso. Ripete la sua convinzione che nei passi esaminati wehäyâ è
subentrato come correzione nel corso della trasmissione del testo, per cui sarebbe vano invocare le regole dell’ebraico antico. Da ciò trae anche una conseguenza circa il problema se l’ebraico biblico fosse lingua parlata: la sua
ricerca appoggerebbe chi ne dubita. Per parte mia tutta la ricerca è da controllare, per non dire da rifare: non si può cominciare con l’ignorare la sintassi
692
RECENSIONI
dell’ebraico per poi concludere che essa è inutile. E’ chiaro inoltre che occorre
ben altra base per affermare qualcosa circa il carattere parlato o non parlato
dell’ebraico biblico.
Alviero Niccacci, ofm
Ciprotti Pio, Introduzione pratica allo studio dell’ebraico biblico, Editrice
Pontificia Università Gregoriana, Roma 1993, vol. I: testo, XIII-175 pp.; vol.
II: materiale per esercizi, 190 pp. (non numerate); paradigmi dei verbi, 23 pp.,
L. 35.000.
L’opera del Ciprotti suscita allo stesso tempo reazioni contrastanti: di gioia e
di smarrimento. La gioia proviene dalla pubblicazione di questa nuova grammatica, fatto che mostra la vitalità degli ebraisti italiani. Lo sconcerto deriva
dal fatto che si viene introdotti allo studio dell’ebraico biblico riducendo al minimo indispensabile (e spesso anche a meno) il contatto con parole e frasi
ebraiche.
Si tratta di un’opera di mole notevole (circa 400 pp. in totale) che copre
interamente l’ambito della morfologia con l’aggiunta di nozioni di morfosintassi. Più che una grammatica nel senso rigoroso del termine, la possiamo
definire un ‘diario di viaggio’ in cui l’autore narra le vicende del suo amore per
la lingua santa e le sue peripezie nel processo di avvicinamento ad essa. Vuol
essere una carezza all’animo del lettore con lo scopo di ammorbidire le asperità del percorso. Non bisogna aver timore, sembra raccomandare l’autore, perché questo cammino non è più difficile di quello che conduce ad altre lingue,
siano esse antiche o moderne. Proprio in queste lingue l’autore, sfruttando la
sua notevole cultura umanistica, trova dei paralleli per ogni problema dell’ebraico. Così vengono riportati di tanto in tanto esempi tratti da Manzoni, Omero,
Virgilio e altri autori, soprattutto classici.
La scarsità di parole e frasi ebraiche, dovuta quasi certamente a motivi di
ordine tecnico e non alla volontà dell’autore, è ciò che rende questo metodo di
studio poco pratico e piuttosto dispersivo. Capita di leggere pagine e pagine di
nozioni, consigli e regole senza trovare una frase o una parola in ebraico; anzi
le caratteristiche grammaticali dell’ebraico vengono spiegate spesso su testi tradotti in italiano. Si aggiunga inoltre che, per poter seguire con frutto questo
metodo, occorre aprire contemporaneamente il testo (vol. I), il volume degli
esercizi (vol. II) e un’edizione della Bibbia ebraica (senza contare il fascicolo
dei paradigmi). Troppo per un principiante!
Vi sono parecchi refusi, per lo più scambi / omissioni di vocali e mancanza
del dagesh lene. Vi sono anche confusioni come, ad es., a p. 76 (plurale delle
parole ‘mare’ e ‘giorno’) proprio nel paragrafo dal titolo: “Non confondere!”;
oppure la trascrizione della lettera ayin come se si trattasse di alef nei nomi
BEARE
IL VANGELO SECONDO MATTEO
693
delle diverse coniugazioni (ad es. a p. 8, 139, 140, 142, ecc.). Ritengo che non
valga qui la pena di proporre una lista con tutte le correzioni da apportare.
Massimo Pazzini, ofm
Beare Francis Wright, Il Vangelo secondo Matteo. Commento, Edizioni
Dehoniane, Roma 1990, 646 pp., L. 50.000.
L’opera che presentiamo è la traduzione dell’originale inglese pubblicato nel
1981 in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Il Beare, che ha lavorato per 15 anni a quest’opera, ha inteso scrivere un
commento che, tenendo conto degli studi precedenti, mettesse in evidenza “il
significato di Matteo come evangelista, come autore, e in un certo senso come
teologo, e considerare così l’opera nella sua totalità” (p. 5). Ha fatto questo
avendo di mira non solo gli studiosi, ma anche il grande pubblico dei lettori del
vangelo. Il suo commento infatti si presenta abbastanza ampio, ricco di rinvii e
di informazioni, di facile lettura.
Nell’introduzione Beare presenta le sue opinioni e scelte di fondo circa le
caratteristiche generali, paternità e ambiente, struttura narrativa, discorsi, dottrina e fonti del vangelo di Matteo.
Il vangelo di Matteo, secondo Beare, è opera di un anonimo della seconda
o terza generazione cristiana scritta intorno all’anno 100 in Siria o Fenicia e in
una comunità bilingue, cittadina, relativamente benestante, con un’organizzazione interna non ben definita, separata dalla sinagoga e in conflitto col
Giudaismo farisaico.
Beare è seguace fedele della teoria delle due fonti e secondo lui la struttura
del vangelo non è “narrativa (p. 15), ma è data dai cinque grandi discorsi, sui
quali cade tutto l’interesse dell’evangelista che li ha messi insieme “con l’intento di dimostrare come Gesù con sovrana autorità abbia steso le leggi che
conducono alla vita nel regno dei cieli” (p. 15). Scopo del vangelo in ultimo
non è dare informazioni esatte su Gesù, ma essere “un manuale di insegnamento sul modo di vita cristiana” (p. 13).
Il vangelo risulta per Beare un libro severo (p. 6), pervaso dal tema del
giudizio (cf. p. 55-56), privo di tonalità gioiose (cf. p. 6.56), con scarse tracce
di un annuncio di grazia (cf. p. 55-56.553.609), senza “teologia della croce” (p.
56) e il ritratto di Gesù che ne emerge è “nell’insieme una figura terrificante”
(p. 6), “maestro e legislatore” (p. 29), ispiratore del Cristo Pantocràtore dell’arte bizantina (cf. p. 6.56), “in un certo senso… rabbinizzato” (p. 42).
L’evangelista è un pastore con formazione di “ ‘scriba’ giudeo, che ha
imparato i metodi di interpretazione delle sacre scritture sviluppati dagli insegnanti del giudaismo (in seguito chiamati ‘rabbini’)” (p. 17). Egli “ha contribuito infatti grandemente a quel tipo di legalismo che toglie alla vita spirituale
694
RECENSIONI
la gioia spontanea che, in verità, appartiene al vangelo” (p. 6.; cf. 41-44); “dà
l’impressione, il più delle volte, di considerare la vita cristiana semplicemente
come un’osservanza più fedele di comandamenti più rigorosi di quelli già noti
al giudaismo farisaico” (p. 609) e non è lontano dal voler “imporre ‘il giogo
della schiavitù’ contro il quale Paolo ha ammonito con tanto ardore i suoi convertiti” (p. 610).
La tradizione storica sui fatti e i detti di Gesù, secondo Beare chiaramente
dipendente da Bultmann, non è raggiungibile che in forma e misura molto
frammentarie.
Quanto all’aspetto letterario, Beare da un lato definisce Matteo “scrittore
attento e meticoloso” (p. 122), ma dall’altro non raramente lo mette sotto accusa per varie cose: riferimenti scritturistici non importanti (cf. p. 307), riprese
non appropriate (cf. p. 353), aggiunte fatte “in modo del tutto incongruente”
(p. 429), “formulazione assurda” (p. 509), “una quantità di cambiamenti apparentemente superflui” (p. 576), insomma “elaborato proprio male” (p. 587).
Il commento si sviluppa in cinque grandi parti: A. Mt 3,1-4,22 Preparazione dell’attività pubblica; B. Mt 4,23-11,1 Inizio dell’attività pubblica; C.
Mt 11,2-13,58 Dubbi, critiche e aperta ostilità; D. Mt 14,1-25,46 Il conflitto si
acuisce, emerge un nuovo Israele; E. Mt 26,1-27,66 Racconto della passione.
Precede un’Introduzione (Mt 1,1-2,23 La nascita di Gesù) e conclude un Epilogo (Mt 28,1-20 La risurrezione di Gesù). Queste parti sono a loro volta suddivise in sezioni e paragrafi che si aprono con il testo evangelico tradotto. Il
commento è fatto versetto per versetto. La bibliografia, piuttosto limitata, è
data all’inizio e i rinvii nel corso del commento sono inseriti nel testo tra parentesi. Dopo l’indice delle citazioni bibliche si dà un indice delle materie o
analitico, mentre manca (anche nell’originale inglese) un indice generale dettagliato; quello che porta questo nome è in realtà un sommario.
Com’è facile immaginare, questo commento non poteva non sollevare critiche e riserve, ciò che difatti è accaduto nelle principali riviste specializzate.
Non poche impostazioni e scelte esegetiche del Beare risultano al vaglio della
critica non sufficientemente fondate, sorpassate, o addirittura arbitrarie e parziali. Traducendo l’opera dopo circa dieci anni sarebbe stato opportuno tenerne
conto, magari premettendo una nota che mentre ne avesse rilevato i pregi, ne
avesse anche indicato i punti da integrare con altre visioni e con i progressi
compiuti dalla ricerca sul vangelo di Matteo.
La traduzione solleva più di qualche problema; ne segnaliamo due di carattere generale. Nella bibliografia vengono tradotti in italiano tutti i titoli in
inglese, anche di opere che certamente non esistono nella nostra lingua. Nel
corso del commento però si cita l’opera in inglese. La cosa sorprende ancora di
più quando effettivamente esiste di tale opera la traduzione italiana (cf. il caso
della monografia di J. Jeremias sulle parabole a p. 33 e 64).
In testa alle pagine viene riportato come titolo corrente costantemente quello dell’intero capitolo e non si dà il riferimento alla pericope rispettiva commen-
GRAPPE CH.
D’UN TEMPLE À L’AUTRE
695
tata, diversamente da quanto si trova nell’originale inglese. Si verifica così, per
esempio, che da p. 361 a p. 553 il titolo è sempre “Il conflitto si acuisce… (Mt
14,1-25,46)”. E’ ovvio che ciò non facilita la consultazione del commento.
Ci si augura che il lettore superi questi ed altri limiti e possa comunque
giovarsi di un commento, frutto di grande fatica e ricco di elementi utili.
G. Claudio Bottini, ofm
Grappe Christian, D’un temple à l’autre. Pierre et l’Église primitive de
Jérusalem (Études d’Histoire et de Philosophie Religieuses, 71) Presses
Universitaires de France, Paris 1992, 371 pp., 15,5 x 24 cm, FF 380.
E’ una tesi presentata alla Facoltà di Teologia protestante dell’Università di
Strasburgo il 1º dicembre 1989, edita come primo volume di una collana diretta da Étienne Trocmé, noto esegeta domenicano.
L’A. adotta una prospettiva storico-sociologica per situare gli inizi del
movimento cristiano nel suo contesto. Divide il lavoro in una prima parte, dove
considera la Chiesa primitiva di Gerusalemme, e una seconda, dove studia la
posizione e l’autorità di Pietro in seno alla stessa comunità. Il primo argomento
è considerato sui dati letterari del NT, di Giuseppe Flavio e di altra letteratura
antica, specialmente giudaica. A questa si aggiunge quella recente di Qumran.
Il tutto ci fa conoscere i fermenti che al tempo romano agitavano la società
palestinese, nella quale vari movimenti riformatori si proponevano di instaurare una società conforme alla volontà divina. Fra questi movimenti segue un
comportamento sui generis Gesù e la primitiva cerchia dei discepoli. La fine
del Maestro, senza entrare in dettagli, è dovuta alla sua presa di posizione contro l’autorità religiosa del Tempio.
La comunità primitiva di Gerusalemme, le cui vicende ci sono riferite dagli Atti, costituisce “l’altro Tempio”. Per situare questa comunità l’A. rileva
varie analogie riscontrate con il gruppo qumranico ed alle fonti letterarie accosta anche ipotesi desunte da ritrovamenti archeologici recentemente scoperti
sul Monte Sion. Egli avverte che non c’è dipendenza da Qumran, ma le somiglianze sono illuminanti sul mondo culturale contemporaneo, specialmente per
la simbologia del gruppo dei Dodici e per l’interpretazione messianica data da
entrambi i gruppi ad identici passi della Scrittura. All’interno della comunità
cristiana si manifesta una diversità di tendenze che toccano i rapporti con il
tempio, il culto sacrificale e la stessa organizzazione della comunità. È noto
che il gruppo degli ellenisti è l’elemento dirompente in seno alla stessa comunità e nei rapporti con l’autorità giudaica, per cui la persecuzione li allontana
da Gerusalemme. Ne deriva però una intensa attività missionaria e l’A. rileva
come il movimento giudeo-cristiano che ha il suo centro a Gerusalemme sente
di avere un ruolo unico e mantiene la supremazia, sorvegliando lo sviluppo
696
RECENSIONI
missionario, gestendo l’eredità del Nazareno e infine ponendo a capo della
comunità Giacomo, “fratello del Signore”. Questa tendenza si manifesta già
nelle “chiese domestiche, distinguendo quella dove si rifugia Pietro liberato da
prigione e l’altra legata a Giacomo (At 11,13 e 12,17). Anche Paolo ci conferma la supremazia che va acquistando Giacomo nella comunità di Gerusalemme, quando lo comprende fra le “colonne” della comunità (Gal 2,9) e riportando la tradizione primitiva lo dice beneficiario dell’apparizione del risorto in
parallelo con Pietro (1Cor 15,7 e 5). Nell’assemblea del concilio di Gerusalemme è ancora Giacomo che interpreta le preoccupazioni del gruppo giudaico
cristiano e detta le famose clausole da imporre ai convertiti dal mondo gentile.
Egli alla fine resta il solo capo della comunità locale.
Nonostante questa evoluzione di tipo ereditario nell’istituzionalizzazione
del carisma, il NT prova l’importanza unica di Pietro nella Chiesa, compresa la
Chiesa primitiva di Gerusalemme.A questo tema l’A. dedica la seconda parte
della monografia. Non solo Pietro ricopre il ruolo di primo nella costituzione
dei Dodici avanti e dopo la risurrezione, lui è la figura più autorevole nel collegio apostolico nell’attività iniziale a Gerusalemme. A lui dev’essere attribuito anche un ruolo preminente nella riflessione cristologica, legata alla storia
della salvezza che trova la sua tappa decisiva nella vita di Gesù, e sempre a lui
deve ricoscersi un influsso particolare nella formazione del culto della comunità a partire dalle festività giudaiche che acquistano un contenuto nuovo. In tutto questo l’A. vede una conferma che alla cristologia si unisce una ecclesiologia.
La comunità che Gesù ha cominciato a costruire beneficia dell’opera che Dio
ha realizzato attraverso di lui. Nei contatti con Gesù ricompare in primo piano
la figura di Pietro, portavoce dei discepoli, testimone privilegiato della sua risurrezione, oggetto della sollecitudine del Maestro e continuatore della sua
opera. Notevole il fatto che il suo nome aramaico di Cefa sia radicato nella
tradizione che risale alla comunità di Gerusalemme. L’ultimo capitolo l’A. lo
dedica al fatto che, nonostante questa autorità, Pietro cede il posto direttivo
nella comunità a Giacomo. La libertà di Gesù di fronte alle prescrizioni rituali
(Mc 7,15), abbracciata da Pietro per rivelazione divina nell’approccio ai pagani (At 10,1-11,18), trova resistenza nel conformismo dei giudeo-cristiani di
Gerusalemme. Le istanze richieste dalla convivenza in seno alla chiesa madre
trovavano in Giacomo il portavoce più naturale. Il carisma istituzionale divenne dinastico.
Il recente documento della Pontificia Commissione Biblica sull’Interpretazione della Bibbia nella Chiesa pone l’approccio sociologico al primo posto
fra quelli propri delle scienze umane. Il nostro A. inizia il suo volume con un
preambolo sul “contributo della sociologia allo studio della nascita di una religione”. Dal suo punto di vista sociologico e storico unisce dati neotestamentari
piuttosto difficili, eppure è necessario tenerli presenti per comprendere l’evoluzione storica dei primi decenni di vita dalla Chiesa. Come esegeta eviterei di
parlare di comunità come “nuovo tempio”, perché il NT non usa questa espres-
LÉGASSE
NAISSANCE DU BAPTÊME
697
sione. Forse obbedendo al principio che la figura cede il posto alla realtà si
dice che la comunità è il tempio (1Cor 3,16; 2Cor 6,16), ma forse il motivo è
che ci troviamo ancora prima del 70 e la comunità di Gerusalemme non si è
separata da questo simbolo.
Resta ancora molto da chiarire sul periodo iniziale della Chiesa e sulla
formazione del suo culto distinto da quello giudaico. Intanto questo studio ci
introduce con competenza nell’argomento.
Giovanni Bissoli, ofm
Légasse Simon, Naissance du Baptême (Lectio Divina, 153), Les Éditions du
Cerf, Paris 1993, 174 pp., 120 FF
L’opera è frutto di una paziente ricerca dell’A., espressa precedentemente in
vari articoli ed ora presentata in maniera più matura e organica (p. 7). Lo scopo
che si prefigge è “éclairer le plus possible le chemin passablement obscur qu’a
pris le baptême pour divenir, tôt il est vrai, le rite d’entrée dans la communauté
chrétienne” (p. 7). La questione non è nuova, basta confrontare i lavori di M.A. Chevalier e di J. D. G. Dunn. Ma lo specifico del lavoro di Légasse sta
proprio nel voler accentuare la ricerca sotto l’aspetto storico (p. 13). Il punto di
partenza, pertanto, è quello di chiedersi se il comando di battezzare, tramandatoci dai testi tardivi di Mt 28,19 e Mc 16,15-16, può in effetti risalire proprio a
Gesù. Paolo e la Didachè non dicono nulla a riguardo. Ma ciò storicamente non
significa che la tradizione marciana e matteana non possono tramandarci un
dato, forse sconosciuto a Paolo, ma vero nella sua sostanza storica. D’altra parte, la tradizione giovannea non solo fa risalire l’origine del battesimo a Gesù,
ma ci presenta lo stesso Gesù (Gv 3,23-26) e almeno alcuni dei suoi discepoli
(Gv 4,1-3) come dei “battezzatori” alla maniera di Giovanni Battista.
Ciò impone allo studioso “une étude critique des textes et de leurs
antécédents traditionnels”. Proprio per questo, l’A. dichiara nell’introduzione
(pp. 11-13) di voler affrontare il problema sotto varie sfaccettature: nel c. I
esamina il vocabolario specifico del battesimo (pp. 15-25); nel c. II viene preso
in considerazione il rapporto esistente tra il battesimo comandato da Gesù e il
battesimo di Giovanni Battista che lo ha preceduto (pp. 27-55); nel c. III si
sottopone ad esame critico la teoria secondo cui il battesimo ricevuto da Gesù
al Giordano sta alla base del battesimo cristiano (pp. 57-69); nel c. IV si sottomettono ad esame specifico i testi della tradizione giovannea che presentano
Gesù e alcuni suoi discepoli come battezzatori (pp. 71-87); nel c. V viene preso
in considerazione un possibile influsso del cosiddetto “battesimo dei proseliti”
sul battesimo cristiano (pp. 89-106). Il c. VI, dall’andamento di una pausa di
riflessione, fa il punto della ricerca e contemporaneamente rilancia il problema
(pp. 107-113) verso la ricerca (c. VII) del senso profondo e originario del bat-
698
RECENSIONI
tesimo cristiano (pp. 115-132) e verso una breve conclusione generale (pp. 133134), a cui fanno seguito un Annexe: “Le premiers disciples de Jésus ont-ils été
baptisés?” (pp. 135-148), una bibliografia scelta (pp. 149-153) e gli indici (pp.
155-174).
Le conclusioni a cui giunge l’A. ci sono offerte in maniera breve e chiara:
(1) il collegamento del battesimo cristiano ad una parola di istituzione da parte
del Gesù storico, analoga a quella dell’Eucaristia, deriva da dati storicamente
isolati e tardivi; né si può provare ancora che il battesimo ricevuto da Gesù al
Giordano sia divenuto il modello a cui si sarebbero ispirate le prime generazioni cristiane: le prime tracce di tale collegamento le si trova solo a partire dal II
sec. d. C.; (2) se non si può provare (soprattutto per motivi cronologici) un
influsso del “battesimo dei proseliti”, al contrario è chiaro che il battesimo cristiano riproduce in maniera predominante le caratteristiche del “battesimo di
Giovanni”: amministrato per mezzo di un “ministro”, in forma definitiva e non
reiterabile e soprattuto in vista del “perdono dei peccati”; (3) anche se tra molti
dubbi e incertezze di cronologia e di senso, ciò spiega perché anche Gesù e i
suoi primi discepoli in un primo tempo battezzavano e dopo la sua morte la
comunità abbia assunto tale rito per marcare l’accesso dei candidati alla nuova
fede e il cambiamento di vita che esso implicava; (4) dopo la morte e resurrezione di Gesù, si nota un progressivo allontanamento dal “battesimo di Giovanni”, distinguendo il battesimo di acqua e il battesimo dello Spirito e soprattutto quando tale battesimo viene amministrato “nel nome di Gesù” e concepito come partecipazione alla sua morte salvifica.
Bisogna riconoscere all’A. equilibrio critico nel trattare un argomento strapieno di ipotesi e di dati poco verificabili, rigore metodologico nell’impostare
la problematica e nell’analizzare i dati a sua disposizione e attenzione degna di
lode ad ogni piccolo indizio utile a far progredire la soluzione del problema affrontato. Le conclusioni a cui egli è giunto non sono del tutto nuove e per lo più
abbastanze condivisibili. Solo mi sembra un po’ strano spingere la datazione di
Mt 28,19 e di Mc 16,15-16 verso la fine del I sec. o addirittura agli inizi del II
sec. (p. 12): anche ad ammettere la datazione più corrente tra gli studiosi (6580), essi risulterebbero dei testi tardivi rispetto alla tradizione paolina e probabilmente anche a quella della Didachè. Forse l’A., spingendo tale datazione più
lontano possibile dai fatti storici, vuol meglio far risultare le sue tesi principali:
(1) che il collegamento del battesimo cristiano ad una parola di istituzione da
parte del Gesù storico, analoga a quella dell’Eucaristia, deriva da dati storicamente isolati e tardivi e (2) che non c’è alcun indizio che la comunità primitiva
abbia stabilito nel I sec. un qualunque rapporto tra il battesimo di Gesù al
Giordano e il rito praticato posteriormente nella Chiesa.
Io credo, invece, che la comunità cristiana abbia potuto riprodurre in maniera predominante le caratteristiche del “battesimo di Giovanni” solo a causa
del battesimo che Giovanni amministrò a Gesù al Giordano e pertanto quel battesimo divenne il punto di riferimento per la comunità. Ma ben presto la comu-
GIGLIOLI
L’UOMO O IL CREATO?
699
nità si distanziò da tale modello, prima non facendo più riferimento a Giovanni
Battista (cf. Paolo) per motivi di polemica con le sette battiste (At 19,1-5; Gv
1,19-28; 1,29-34), ma direttamente a Gesù che aveva personalmente amministrato il battesimo e dopo facendolo amministrare ai suoi primi discepoli (cf. la tradizione giovannea, probabilmente di origine palestinese). Costoro, non solo lo
amministrarono “nel nome di Gesù”, ma lo interpretarono subito (cf. Paolo) alla
luce del suo mistero pasquale e lo collegarono al dono dello Spirito che egli
aveva loro lasciato. Ciò spiega, a mio parere, perché Mt 28,19 e Mc 16,15-16 e
anche gli Atti riferiscono del battesimo in connessione con l’evento pasquale.
Essi si collocano alla fine della traiettoria che porta dal “battesimo di Giovanni”
alla pienezza del “battesimo cristiano”. Un ultimo appunto critico mi pare si
possa muovere al problema dell’influsso del “battesimo dei proseliti” sul battesimo cristiano. Visto che l’A. aveva trattato il problema in altra sede e con risultati decisamente negativi, credo che avrebbe potuto tralasciarlo o al limite accennarvi nell’introduzione, in quanto nell’economia della presente ricerca tale
problematica non solo non porta alcun chiarimento, ma sembra che disturbi la
linearità della discussione sulla tesi che egli vuole dimostrare.
A. Marcello Buscemi, ofm
Giglioli Alberto, L’uomo o il creato? Ktisis in S. Paolo (Studi Biblici 21), Edizioni Dehoniane, Bologna 1994, 139 pp., L. 15.000
L’opera, presentata dal card. S. Piovanelli (pp. 7-9), si articola in forma classica: introduzione (pp. 11-16) in cui l’A. presenta la genesi del lavoro e gli incoraggiamenti ricevuti per pubblicare la sua opera; corpo del lavoro, diviso in 10
brevi capitoli: un’antica questione esegetica, in cui l’A. stabilisce lo “status
quaestionis” (pp. 17-31); questioni di metodo (pp. 33-36); ktivsi" nei LXX,
negli Apocrifi e negli scritti non paolini del NT (pp. 37-45); ktivsi" nelle Lettere di S. Paolo (Gal - 2Cor - Col - Rm 1,20; 8,39) (pp. 47-52); ktivsi" in Rm
8,19-22 (pp. 53-69); lo scambio dei generi (pp. 71-77); il neutro plurale pavnta
(pp. 79-94); cieli nuovi e terra nuova (pp. 95-104); il Concilio ecumenico (pp.
105-110); la liturgia (111-116); conclusione (pp. 117-121); bibliografia (pp. 123132); indici (pp. 135-139).
La tesi dell’A. è chiara: “So bene che i risultati di qualsiasi ricerca vanno
presentati con quel tono interlocutorio, che riconosce all’altro piena libertà di
dissentire. Però non nascondo il fatto che il lungo e vasto lavoro di verifica mi
ha condotto ad un alto livello di sicurezza soggettiva circa la seguenti tesi: La
lettura cosmologica di ktivsi" in s. Paolo e nel NT non è sostenuta da nessun
valido supporto biblico; perciò l’unica interpretazione possibile dei testi paolini
è quella antropologica” (p. 15). Lo scopo è conseguente: “Il punto debole di
quanti hanno letto i testi paolini in chiave cosmologica, è quello di aver attribu-
700
RECENSIONI
ito a ktivsi" e pavnta, come ad ajpokatavstasi" di At 3,21, un significato presunto, che nessuno ha avuto la pazienza di verificare a largo raggio mediante
un attento confronto con il contesto. Con la presente ricerca mi propongo soprattutto di colmare questa lacuna” (p. 16; cf. anche pp. 17 e 37). In quanto al
metodo, l’A. afferma: “Com’è noto, la retta interpretazione di qualsiasi frase
della Sacra Scrittura è garantita dall’osservanza di sette regole: il testo, il contesto, i paralleli, le circostanze di composizione, l’interpretazione della chiesa,
l’interpretazione dei Padri e l’analogia della fede. Le prime quattro sono comuni alla interpretazione di qualsiasi libro; le ultime tre sono proprie della esegesi
biblica” (p. 33).
I risultati della ricerca l’A. li sintetizza nel seguente modo: “ ‘Qual è il
significato di ktivsi" in s. Paolo?’. Da quando s. Agostino pose questa domanda, moltissimi studiosi hanno espresso in proposito il loro parere; ma nessuno
ha fornito una risposta precisa, motivata e completa. I più non si rendevano
conto del diverso significato che assumono certi vocaboli nel greco biblico;
altri si limitavano ad un’indagine sommaria, che non prevedeva il confronto
con il contesto prossimo e remoto; altri infine accettavano a occhi chiusi la
spiegazione diventata tradizionale nel loro ambiente culturale. Ma ai nostri giorni è possibile, finalmente, formulare la risposta giusta. Ho atteso a questo intento con una meditata ricerca, le cui convergenti verifiche hanno approdato a
questa chiara conclusione: ‘Ktivsi", nelle Lettere di s. Paolo significa sempre
l’uomo, l’umanità, gli esseri personali’ ” (p. 117).
A questo risultato principale, se ne aggiungono altri a mo’ di corollari: “La
ricerca ha dato il seguente risultato: 1) non c’è nessun conflitto fra quanto afferma 2Pt sulla fine del mondo e quanto scrive s. Paolo in Rm 8,19-22, perché
anche l’apostolo delle genti riserva alla sola umanità la futura gloria dei figli di
Dio; 2) il pronome neutro plurale pavnta esprime il più delle volte soggetti
personali; 3) s. Pietro, in At 3,21, non parla di ‘restaurazione di tutte le cose’
ma di compimento delle antiche profezie; 4) secondo Isaia, s. Pietro e l’Apocalisse, ‘i cieli nuovi e la terra nuova’ scompariranno dopo la distruzione del
vecchio mondo e coincideranno con la celeste Gerusalemme; 5) l’ambiguo termine kovsmo" si riferisce molte volte al mondo degli uomini e non al mondo
delle cose; una più diligente attenzione al contesto salverà l’esegeta dall’infortunio di assumerlo come argomento per una interpretazione cosmologica; 6)
gli animali (sic) associati all’alleanza del popolo di Dio prefigurano i popoli
pagani, che mediante la fede vengono accolti nella chiesa; 7) certe affermazioni del Concilio ecumenico, anche se favorevoli a una esegesi cosmologica dei
testi paolini, non hanno dispensato biblisti e teologi dal dovere di ulteriori verifiche; i Padri conciliari, infatti, dichiarando di non voler dirimere certe questioni discusse fra teologi e di non voler impegnare l’infallibilità della chiesa,
hanno implicitamente richiamato il detto di s. Agostino, secondo il quale i Concili possono essere ‘emendati’ da Concili posteriori; 8) infine, riguardo ai testi
della riforma liturgica, s’impone quanto meno una correzione delle versioni.
GIGLIOLI
L’UOMO O IL CREATO?
701
Infine, da “buon pastore”, l’A. termina la sua esposizione, mettendo in
guardia dai pericoli che possono derivare da una lettura cosmologica dei testi
biblici dove compare il termine ktivsi": un calo del senso della fede che non sa
più operare il passaggio dalle cose visibili e terrene all’invisibile ma eterna
realtà di Dio, che è il vero fine dell’uomo; il pericolo di cancellare il confine di
valore tra l’uomo e gli animali, con il conseguente scadimento nel panteismo e
nella religione cosmica del paganesimo; una strisciante divinizzazione della
materia mediante la teoria della redenzione cosmica; la perdita del tema dei
Novissimi e della fine del mondo e quindi il conseguente pullulare di sette
apocalittiche che intendono riempire questo vuoto (pp. 119-121).
Confesso di aver letto questo “studio” con molta pena: (1) perché uno “studioso”, che non condivide un’opinione diversa dalla sua, accusa di mancanza
di “diligenza” e di “onestà culturale” (p. 54) chi per secoli (Padri, Dottori della
Chiesa, esegeti [cf. la lista a p. 22], teologi) ha dedicato con amore, passione e
santità tutta la propria vita allo studio della Parola; (2) perché un “ricercatore”
mette in dubbio la “competenza dei Padri greci circa il greco biblico”, essi che
erano di lingua greca e mentalità greca, che conoscevano il greco ellenistico
dalla scuola, il greco della LXX e del NT per la loro assiduità amorosa alla
lettura del testo biblico, il greco bizantino erede diretto del greco del NT; (3)
perché un “vescovo”, andando contro il “sensus fidei” della Chiesa universale,
si permette di fare differenza tra Padri latini e Padri greci, entrambi maestri
della fede, e ancor di più osa esprimere una simile alternativa: “Fra questa dottrina conciliare e la nostra versione dei testi paolini c’è una manifesta
inconciliabilità. O è sbagliata nel metodo e nelle conclusioni la nostra verifica
del significato di ktivsi" e di pavnta negli scritti paolini, oppure questi testi
conciliari in quanto fondati non sulla roccia della parola di Dio, ma sulla sabbia di una interpretazione erronea, perdono la loro autorevolezza” (p. 105); (4)
perché un “uomo”, limitato come tutti gli altri, può affermare in base alla sola
sua “sicurezza soggettiva” (cf. p. 15; quella degli altri per principio è errata)
che “nessuno ha fornito una risposta precisa, motivata e completa... ma ai nostri giorni è possibile, finalmente, formulare la risposta giusta” (p. 117).
Non voglio soffermarmi solo a questi appunti di carattere generale, ma desidero brevemente entrare nel merito della questione con alcuni appunti critici
sulla tesi dell’A.
Le interpretazioni angelologica, antropologica e cosmologica dei passi relativi alla ktivsi" e a panvta sono delle ipotesi: nessun Concilio né alcun documento della Chiesa ha mai elevato a dottrina della fede una delle tre ipotesi.
Allora, è perfettamente inutile instaurare una polemica. L’A. avrebbe potuto
esprimere la sua opinione con più rispetto e adducendo quelle motivazioni che
gli sembrano più ovvie: (a) l’apporto dei Padri greci e latini alla questione: a
quanto pare non tutti i Padri greci sono per la soluzione cosmologica (cf. Clemente Alessandrino, Origene (? cf. Commento a Romani, VII,4,1109-1113) né
tutti i Padri latini sono per quella antropologica (Ilario, Tertulliano, Ippolito,
702
RECENSIONI
Ambrosiaster), né tutta la tradizione occidentale (cf. S. Tommaso, Cornelio a
Lapide); (b) le sue analisi sui testi: veramente dopo aver dichiarato che gli altri hanno esercitato un’analisi “sommaria” (cf. pp. 16; 117), ci saremmo aspettati un’analisi dettagliata almeno del testo di Rm 8,19-22, ma ciò non è avvenuto e l’A. ne è cosciente quando scrive nella conclusione: “I risultati di questa ricerca, pur avendo comportato un paziente confronto di molti testi biblici
e una vasta consultazione di autori antichi e moderni, sono stati esposti in un
linguaggio e in una forma volutamente semplici. Si è dato un certo sviluppo
all’analisi quando questa era necessaria per aiutare il lettore a toccare con
mano le prove di una esegesi contro corrente. Ma poi si è preferita la brevità
alle lungaggini erudite, perché, quando le idee sono chiare, non c’è bisogno di
moltiplicare le parole”. Veramente tale dichiarazione ci lascia stupiti, non solo
per l’accusa di “mancanza di diligenza” e di “sommarietà” lanciata contro gli
studiosi, ma perché l’A. ritiene che l’interpretazione cosmologica possa intaccare la fede e frenare lo slancio della testimonianza di carità e di santità (p.
120). Qualunque sacrificio avrebbero fatto gli studiosi, pur di leggere un’analisi più dettagliata ed esaustiva, che avrebbe aperto la loro mente alla verità e
il loro cuore all’amore.
Ma forse l’A. non era proprio sicuro né del suo metodo (le poche pagine dedicate all’argomento sono delle pie considerazioni su un metodo comunemente
applicato da qualsiasi esegeta cattolico e anche protestante), né delle sue analisi
ridotte purtroppo a qualche considerazione lessicografica e a qualche rilevamento del fenomeno del neutro (per l’A. un’eccezione sintattica viene elevata a regola generale e poi applicata acriticamente a numerosi casi, facendo rilevare il fenomeno, ma senza darne una spiegazione grammaticale convincente) e ad incerte ricostruzioni sintattiche di qualche testo. Così, per esempio, per ciò che riguarda la lessicografia: l’A. ci avverte che “quando vogliamo sapere il preciso
significato di una parola, consultiamo il vocabolario” (p. 37). Verità lapalissiana,
come lapalissiano è per qualsiasi esegeta il concetto che il greco del NT non è
quello classico. Proprio per risolvere il problema l’A. rinvia a Zorell, Lexicon
Graecum Novi Testamenti. Buona scelta, anche se ritengo che sarebbe stato bene
riportare anche il parere di W. Bauer - W. Arndt - W. Gingrich - W. Danker, A
Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian
Literature, Chicago - London 1979, oppure quello del Thayer, entrambi, oltre a
riportare il materiale dello Zorell, includono la letteratura dei papiri e degli autori contemporanei al NT. Ma ciò che mi sembra più grave dal punto di vista
lessicografico, è il fatto che l’A., nonostante che rimandi a Zorell, non si fida di
lui, al punto da tralasciare tutto ciò che egli propone (fundatio, institutio, applicato a Rm 1,20); conditio, id est creatio; universitas rerum creaturarum,
creaturae, applicato a Rm 8,19-22; res creata, creatura, homo) e riportare solo
l’ultima accezione che lo Zorell dà di ktivsi". Dal punto di vista grammaticale e
sintattico, mi ha impressionato molto l’analisi di Rm 1,20, in cui l’A., trovando
appoggio su un filologo di vaglia (G. Sacco), cerca di ricostruire il senso
GIGLIOLI
L’UOMO O IL CREATO?
703
sintattico del brano. Purtroppo, l’ipotesi del Sacco (egli dice con molta modestia:
“si può difendere”) gli è poco utile, in quanto nessuno nega che qualche volta nel
greco della Koiné anche ajpov + gen. possa fare le veci di uJpov + genitivo. Ma il
problema non sta lì, perché a qualsiasi lettore non prevenuto non verrebbe affatto
in mente la soluzione data dall’autore e attribuirebbe d’istinto ad ajpov il suo valore di punto di partenza spaziale o temporale. Ma il punto, ripeto, non sta qui. I
problemi sintattici da risolvere nella frase sono altri: a chi si riferisce ajpov +
genitivo, sia che esso venga interpretato come complemento d’agente o come
complemento temporale, a kaqora'tai o a noouvmena? Entrambi sono passivi e
l’espressione può dipendere da tutte e due (Sacco preferisce riferirlo a kaqora'tai,
ma la cosa non è così sicura). Inoltre, non è vero che kaqora'tai ha bisogno dell’integrazione che gli vogliono dare Sacco e l’A., in quanto kaqora'tai ha già la
sua integrazione in noouvmena, che può essere o participio predicativo del soggetto (in quanto retto da un verbo di percezione) o participio congiunto di valore
condizionale. Le traduzioni possibili della frase pertanto mi sembrano due: “Infatti, si percepisce chiaramente che a partire dalla creazione del mondo le cose
invisibili di lui si conoscono attraverso le (sue) opere”; oppure: “Infatti, a partire
dalla creazione del mondo, le cose invisibili di lui si possono contemplare (pres.
potenziale, cf. L. Cignelli, LA 35, 1985, 213), se si cerca di conoscerle attraverso
le (sue) opere”. In tali traduzioni non vi è tautologia, in quanto ktivsi" e poivhma
mantengono il loro senso proprio: ktivsi" quello di un termine di azione, che unito
al genitivo oggettivo kovsmou, dà all’espressione ajpo; ktivsew" kovsmou questo
senso: “da quando Dio creò il mondo” e a poivhma quello dell’effetto dell’atto
creativo: “le opere di Dio”. L’autore, è vero, rifiuta per una sua precomprensione
il senso attivo di ktivsi", ma questo senso è ammesso proprio in base a quelle
grandi autorità di cui si suole servire l’A.: Agostino (De civ. Dei, VIII,12; Serm
241,1), Zorell e Zerwick, che l’autore cita diverse volte lungo la sua opera (pp.
48; 63; 66; 74; 77; 85), ed in questo contesto è certamente il senso migliore.
Certamente si resta sorpresi dinanzi alla striminzita analisi di Rm 8,19-22
(pp. 53-69), dopo avere letto una dichiarazione solenne e forte come questa:
“Noi invece (si legga: contro Lyonnet) cercheremo di sottoporre a una diligente radiografia (la sottolineatura è mia) tutte le parole che concorrono ad esprimere il significato di questo brano” (p. 55). In ogni caso, faccio alcune osservazioni critiche.
(a) Non si fa esegesi per andare contro qualcuno o contro qualche opinione, ma solo per cercare il senso di un testo e la ricchezza che da esso deriva.
Può essere che la nostra ricerca alla fine non coincide o è diametralmente opposta all’opinione di qualche altro autore, in quel caso la si deve considerare o
come un correttivo critico o come un’interpretazione complementare che migliora il senso del testo in esame. Mai, per principio, si deve proporre come
punto di arrivo l’annullamento di un’altra opinione, solo perché è diversa dalla
nostra. Ritengo molto saggio ciò che mi ripeteva spesso il mio patrono di tesi,
E. W. Pax: “In esegesi mai usare l’aut-aut, ma sempre possibilmente l’et-et”.
704
RECENSIONI
(b) Buona regola quella lessicografica e contestuale! ma bisogna osservare: (1) la lessicografia da sola non è sufficiente, in quanto il testo non è fatto di
sole parole poste in un contesto che spazia dal Genesi all’Apocalisse. L’esegesi
scientifica risulta dalla lessicografia, dai collegamenti grammaticali e sintattici,
dal genere letterario, dalla struttura e dalla coerenza interna dei contenuti del
testo e del suo contesto. (2) Riportare dei testi paralleli (metodo oggi alquanto
contestato) è molto utile, ma a patto che vadano usati con molta prudenza critica, in quanto ogni testo ha un suo contesto proprio e un suo ambiente vitale.
Quindi, non basta stabilire, come fa l’A., un raffronto sommario e trinciare il
verdetto; bisogna far vedere al lettore in dettaglio la corrispondenza. (3) Il contesto: per l’A. questa è una “parola magica” che risolve tutti i problemi di un
testo. Purtroppo, non ci offre una delimitazione della pericope che egli intende
esaminare (nel titolo del c. V si legge: “ktivsi" in Rm 8,19-22”, alla fine dell’analisi ci troviamo dinanzi anche il v. 23; cf. pp. 53; 65-66); quali sono gli
elementi letterari che la comprovano; qual è il contesto letterario prossimo della pericope; qual è il contesto remoto della stessa pericope: qualche volta sembrano i cc. 5-8, altre volte tutta la Lettera, in modo da poter spigolare meglio
qualche frasetta che appoggi la sua tesi o addirittura enucleare una sua “teologia” a proprio uso e consumo (cf. p. 57). (4) L’A., infine, non dice proprio
nulla del “genere letterario” della pericope (promette di farlo all’inizio di p. 71,
ma poi se ne dimentica). Eppure, nell’enunciare il “metodo”, parlava di “circostanze di composizione”, che presumo indichino la struttura di un testo, il suo
genere letterario e l’ambiente vitale. (5) A proposito di “ambiente vitale” non
credo che possa avere la presunzione di averci convinto con le poche pagine
dedicate in maniera sommaria e superficiale alla LXX, agli scritti giudaici e
alla letteratura neotestamentaria, dove le carenze esegetiche sono vistosamente
presenti anche lì. Comunque, l’A. non ha bisogno di rifare l’analisi, basterà
che con un po’ di buona volontà rilegga (ma l’ha proprio letto?) l’opera da lui
citata a p. 21: B. Rossi, La Creazione fra il gemito e la gloria. Studio esegetico
e teologico di Rm 8,18-25, Roma 1992, scritta con molta diligenza.
(c) Non per un senso di rivalsa a ciò che l’A. scrive alle pp. 120-121, ma
credo che a voler insistere troppo solo sul senso antropologico ci possa essere il
pericolo di cadere in un larvato platonismo manicheo, che disprezza la “materia” per esaltare lo “spirito”. In tal modo, non solo si annulla l’idea biblica e paolina dell’incarnazione, della resurrezione, ma anche quella della “ricapitolazione
di tutte le cose in Cristo”. Egli non è solo il centro della storia umana, ma il centro di tutta l’opera di Dio. Egli, attraverso il suo atto redentore non solo elimina
il peccato dell’uomo, rendendo questi giusto, ma elimina anche quell’effetto
cosmico prodotto dal peccato sulla creazione (cf. Gen 3,17-19; Is 24,4-7). Così
all’effetto cosmico del peccato corrisponde quello cosmico della redenzione. La
fede non ha nulla da perdere da questa visione, ma molto da guadagnare. Inoltre, a voler ammettere la sola interpretazione antropologica, non solo si appiattisce la teologia emergente dai testi del NT, ma si perde quella ricchezza propria
TAROCCHI
IL DIO LONGANIME
705
della teologia paolina, che con la sua visione cristocentrica eleva l’uomo alla
dignità di “figlio di Dio” e riversa su tutte le cose create questa gloria, perché
ogni cosa creata è per l’uomo un gradino verso l’Amore che tutto ha creato.
Volendo assumere come unica e sola un’interpretazione - antropologica o
cosmologica - si tende ancora a far violenza al testo biblico. Proprio per questo
mi si permetta di rispondere alla domanda di p. 105: “È sbagliata nel metodo e
nelle conclusioni la nostra verifica del significato di ktivsi" e di pavnta negli
scritti paolini, oppure il dettato del Concilio assunto senza un’attenta verifica?”. Dopo aver letto l’opera, sono in grado di dire: ha ragione il Concilio, che
invece di accettare una visione povera, ristretta o di parte dei testi biblici sulla
ktivsi" - sia antropologica, sia angelologica, sia cosmologica - ha assunto quella vasta e poliforme propria del testo biblico, aperta alla ricchezza dell’amore
immenso di Dio verso l’uomo e verso ogni sua creatura.
A. Marcello Buscemi, ofm
Tarocchi Stefano, Il Dio longanime. La longanimità nell’epistolario paolino
(ABI Supplementi alla Rivista Biblica 28), Edizioni Dehoniane, Bologna 1993,
176 pp., L. 24.000
La ricerca ripropone sostanzialmente la tesi dottorale che l’A. ha elaborato e discusso nel 1991 presso la P.U.L. di Roma sotto la direzione del prof. Romano Penna. Lo scopo che si propone non è solo quello di illustrare il termine makroqumiva
e i termini affini ad esso (p. 9), ma soprattutto, “una volta posto lo stretto riferimento al linguaggio veterotestamentario, sia pure veicolato dalla cultura ellenista,
stabilire la peculiarità del pensiero paolino, a riguardo del tema della makroqumiva”
(p. 11). Inoltre, si propone di porre in rilievo l’evoluzione del pensiero dell’apostolo, sia pure tenendo conto della particolare forma in cui ci giunge, in bilico fra
i due momenti che ci trasmettono fedelmente il pensiero e la teologia dell’apostolo di Tarso: l’epistolario paolino e quello pseudoepigrafico (p. 11). In altre parole, l’A. “cerca di appurare se esista una specifica proposta paolina sul tema della
makroqumiva, che l’apostolo, appropriandosi di un linguaggio venutosi a costruire assai faticosamente attraverso lo spessore dell’Antico Testamento greco, integri e componga nello stesso contesto neotestamentario” (p. 12).
Per raggiungere tale scopo, l’A. svolge la ricerca in cinque tappe di lavoro: la
makroqumiva nella grecità pagana (pp. 13-30) in modo da stabilire il senso fondamentale del termine nei vari ambiti culturali del pensiero greco (letteratura, filosofia, ecc); la makroqumiva nel Giudaismo ellenistico (pp. 31-62) per determinare
il senso del termine nell’ambito biblico della LXX e di quello della rimanente letteratura giudaica, quale matrice immediata del pensiero paolino e
neotestamentario in genere (p. 64); la makroqumiva nelle Lettere di Paolo (pp. 63114), sia quelle autentiche che quelle deutero-paoline o pseudoepigrafe, in cui il
706
RECENSIONI
pensiero sulla makroqumiva, pur rimanendo legato al pensiero della LXX, trova un
suo sviluppo significativo nel rapporto intimo che viene stabilito tra ajgavph e
makroqumiva e tra queste e le altre virtù connesse nei “cataloghi” con il concetto di
amore; in tal modo, attraverso la mediazione paolina si determina un “concetto
cristiano” della makroqumiva, come l’A. cerca di dimostrare nei seguenti capitoli:
la makroqumiva nei testi neotestamentari extrapaolini (pp. 115-141); il percorso
della makroqumiva (pp. 141-161), che funge anche da conclusione generale. A questi cinque capitoli si aggiungono la lista delle abbreviazioni (pp. 6-8), l’introduzione (pp. 9-12), la bibliografia (pp. 163-174) e l’indice generale (pp. 175-176).
L’opera merita certamente plauso, in quanto, se si escludono le ricerche di
U. Knocke (1935) e di R.-A. Gauthier (1951) sulla magnanimità nella filosofia
pagana e nella letteratura cristiana e gli studi molto ridotti di Horst, Spicq,
Riesenfeld, Falkenroth e qualche altro, viene a riempire un vuoto nella determinazione della makroqumiva, una virtù divina e umana così importante. Inoltre,
essendo una ricerca rivolta soprattutto al pensiero di Paolo, rende un buon servizio per una migliore comprensione non solo della virtù della makroqumiva, ma
soprattutto dell’ajgavph e dei cataloghi delle virtù ad essa connessi. In tal senso,
è molto rilevante ciò che afferma l’A.: “In questa prospettiva la makroqumiva
forse non ha un cammino indipendente da altri punti di riferimento, in quanto,
al pari di altri aspetti caratteristici dell’amore di dono, e contemporaneamente
in rapporto con essi, cammina di pari passo all’ajgavph. Così, che nello stesso
tempo tutti questi aspetti dell’ajgavph medesima vengono ad illuminarsi reciprocamente, e parimenti delineano la ricchezza di questo amore di dono” (p. 153).
Di più: essendo l’ajgavph il dono per eccellenza dell’amore di Cristo, “la
makroqumiva allora costituisce la caratteristica forse più illuminante dell’amore
agapico medesimo” e si mostra “come una nuova via che permette di raggiungere, indirettamente, il volto del Dio che nel suo amore buono e benevolo è pronto anche ad attendere, a ritardare la sua collera” (p. 153). Abbiamo apprezzato,
inoltre, l’ultimo capitolo dell’opera, in cui l’A. con chiarezza e sinteticità riassume le principali coordinate culturali e teologiche del concetto di makroqumiva.
Se, oltre ai pregi, esprimiamo anche qualche appunto critico, non è certamente per diminuire il valore dell’opera, ma per indicare all’A. qualche pista
di ulteriore riflessione in vista di un miglioramento della ricerca. Così, non ci
sembra molto rilevante, anzi ci sembra alquanto incolore e poco significativa
la ricerca sul senso della makroqumiva nel mondo greco: la trattazione sembra
una sintesi più o meno eclettica di quanto dicono gli autori; ci saremmo aspettati un approfondimento etimologico e lessicografico del termine, in vista di
una migliore determinazione del senso-base della makroqumiva, che potesse
servire come supporto al resto della trattazione. La scelta del termine makroqumiva, invece che altri termini ad esso vicini nel senso, da parte dei LXX non
è certamente causale, ma dipende dalla semantica propria del termine scelto.
Altrettanto, poco significativi ci sembrano le brevi analisi esegetiche del termine makroqumiva all’interno dell’epistolario paolino e nel resto del NT. Su que-
TAROCCHI
IL DIO LONGANIME
707
sto punto ci si permetta alcune osservazioni: (a) riportare il testo in esame dopo
avere illustrato il contesto largo di un brano, non ci sembra una buona scelta
metodologica: il lettore ha bisogno di leggere subito il testo che si deve commentare. (b) Riportare il testo greco inserito nel suo contesto è ancora un’altra
scelta poco felice: sarebbe stato più utile riportare in greco solo il testo in questione, mettendolo così in evidenza, e collocarlo brevemente nella struttura del
suo contesto immediato e anche all’interno della più ampia cornice del pensiero
generale della lettera a cui appartiene. Si sarebbero avuti diversi vantaggi: l’immediatezza della conoscenza del testo da esaminare, una migliore delimitazione
del contesto che lo sorregge ed evitare così le lunghe citazioni del testo greco e
delle traduzioni italiane, che più che aiutare il lettore lo distraggono dall’argomentazione principale. (c) Nel fare esegesi, c’è bisogno di maggiore autonomia
dalle “autorità”, meno parafrasi (cf. il commento a Mt 18,26.29) e più attenzione al testo: così, per esempio, l’A. commentando 1Tes 5,14 afferma: “La stessa
costruzione, su cui si fonda la microstruttura di 5,14, suggerisce quasi un climax
nella scelta dei verbi e della terminologia” (p. 68). Affermazione certamente
interessante, ma deve risultare non da un’impressione soggettiva o suggerita da
qualche autore, ma da un’esposizione lessicografica adeguata dei termini e da
un commento filologico che faccia vedere e gustare tale climax.
Più attenzione occorreva dare anche alla sintassi: in 2Cor 6,6 l’A. accenna
all’esistenza di una “prima coppia” di termini (p. 75), ma sintatticamente tutti
gli elementi dei vv. 6,4b-7a sono uniti asindeticamente al participio sunivstante",
così da non poter stabilire alcuna coppia di termini; in Lc 18,7 l’A. si limita a
riportare le opinioni degli autori sulla costruzione grammaticale della frase;
confesso che sarebbe stato meglio affrontare personalmente il problema e la
soluzione sarebbe stata più semplice e lineare: sia poihvsh/ che makroqumei'
dipendono dalle particelle interrogative negative ouj mhv e quindi il kaiv mantiene il suo senso normale di congiunzione. Ci si potrebbe chiedere se è possibile
che ouj mhv possa reggere sia il congiuntivo che il futuro; la cosa è sintatticamente
possibile (cf. Viteau, Étude, 60, pp. 26-27; Smyth, Greek Grammar, 1804;
2755; BDR, 365): “forse Dio non farà giustizia ai suoi eletti? ... e a causa loro
non sarà forse longanime?” (per questa ricostruzione sintattica cf. Zerwick,
Analysis, 188; per ejpiv + dat. in dipendenza di verbi di affetto e con senso
causale cf. BDR, 235,2) e il senso è molto buono.
Infine, non discuto la distinzione storico-esegetica tra lettere paoline autentiche e pseudoepigrafe (una divisione molto cara a Penna, Barbaglio, Fabris
e altri), ma almeno bisognava fare una più netta distinzione (l’A. vi accenna a
p. 106) tra Efesini e Colossesi e le Pastorali: non possono essere messe insieme
con la sola dicitura “le lettere della tradizione paolina” (p. 95), altrimenti in
tale categoria possono entrare comodamente anche la Lettera agli Ebrei e forse
anche le due Lettere di Pietro.
A. Marcello Buscemi, ofm
708
RECENSIONI
Padovese Luigi, Introduzione alla teologia patristica (Introduzione alle discipline teologiche 2), Piemme, Casale Monferrato (AL) 1992, 237 pp. + 1 tav.,
L. 35.000
Le opere, come quella del Padovese, vanno sempre ben accolte. Il maneggevole
volume che vogliamo presentare, è frutto di non poca esperienza didattica e
scientifica dell’A. L’opera propone una densa e concisa sintesi delle linee teologiche del pensiero patristico. Ciò viene fatto con l’intento di “non ignorare la
storia passata che, in certo modo, rappresenta una profezia” del futuro (p. 7). In
primo luogo però l’A. accoglie l’invito del Magistero della Chiesa di “ricuperare o tenere presente” e “in debito conto il principio e il senso della Tradizione” (p. 7). Il Padovese fa una rapida ma rigorosa panoramica sulla riflessione
della Chiesa dei primi secoli, rispettando l’evoluzione storica del pensiero teologico e la sua peculiarità nell’alveo dell’eredità dei principi della fede. Ha ben
presente che la riflessione patristica “costruita sulla parola di Dio e letta in
ordine della vita […], ha alimentato una spiritualità che nasce dalla fede, esprime la fede e conduce ad un approfondimento di essa” (p. 39).
Seguendo queste direttive l’Introduzione alla teologia patristica mette a
disposizione dei non specialisti interessati e degli studenti di scienze teologiche i punti più salienti e significativi di quel patrimonio che va letto in ottica di
fede e di prassi cristiana. L’opera sembra ancora più utile da un’altra prospettiva: oggi si avverte il bisogno delle sintesi stimolanti e del “ricorso alla eredità
del passato” che è “un modo per salvaguardare l’identità e la libertà dell’uomo” (p. 6). Un altro intento dell’A. è quello di “far nascere il desiderio di saperne di più” (p. 35).
Il Padovese ha impostato la sua trattazione alla maniera di un manuale, ma
senza troppi appesantimenti nei particolari. Il piano dell’Introduzione alla teologia patristica è ben orchestrato. Preceduta da una sintetica premessa e un’introduzione, l’opera si articola in quattro parti rispettivamente intitolate: “Disciplina”, “Dottrina”, “Vita” e “Annuncio”.
Nella sua trattazione l’A. parte dall’approfondimento delle nozioni generali sulla patrologia e sugli studi di questa disciplina teologica. Il Padovese non
solo si avvale di studi specialistici, ma rende la lettura più gradevole citando
opinioni diverse e introducendo degli spunti discorsivi. Ciò però non avviene a
scapito della documentazione bibliografica e della oggettività. Particolarmente
utili sono i riferimenti alle varie collane di testi patristici (pp. 33-34) che chiudono l’esposizione sulla trasmissione del patrimonio patristico (pp. 22-34). A
giusto giudizio dell’A., queste pubblicazioni “attestano il crescente interesse
per i Padri coltivato con acume critico e arricchito di sempre nuove edizioni”.
Tuttavia per l’utilità e la completezza, ma soprattutto per i “non iniziati”, sarebbero utili dei riferimenti ad altri sussidi e manuali.
Prima di sottolineare l’utilità degli studi patristici odierni secondo l’“ottica
del servizio” (pp. 34-42), l’A. lascia un po’ da parte i maestri medievali (pp.
PADOVESE
INTRODUZIONE ALLA TEOLOGIA PATRISTICA
709
31-32) che, a nostro avviso, avevano notato il valore della tradizione precedente, specie in teologia ed esegesi, che si distingueva per vigore e profondità speculativa e spirituale.
Il Padovese offre preziosi spunti attualizzanti della conoscenza dei Padri.
E ciò in sintonia con il Vaticano II che indicava la strada dell’impegno “di
comprendere i Padri più che per usarli in chiave dimostrativo-apologetica” (p.
36). Per il nostro A. l’opera dei Padri ha una “valenza ecumenica” e dimostra
“pluralismo teologico” (p. 37).
La seconda parte dell’opera mette a fuoco la dottrina teologica dei Padri. In
essa il Padovese analizza la cristologia dei primi secoli (pp. 45-62), la dottrina
trinitaria (pp. 63-80), la pneumatologia (pp. 81-93), l’escatologia (pp. 94-105),
l’ecclesiologia (pp. 106-120) e infine le questioni mariologiche (pp. 121-131).
La fede in Cristo, afferma giustamente il Padovese, “è il cuore dell’annuncio”, “il proprium, l’elemento specifico e differenziante” (p. 45) della
predicazione della fede cristiana. L’analisi del vasto campo della cristologia
sembra attestare però che le speculazioni sulla persona del Salvatore furono
cavallo di battaglia in varie fasi della storia della Chiesa. La consapevolezza
della speculazione cristologica degli eterodossi costrinse i Padri ad adeguarsi
alle esigenze di una polemica assai impegnativa, conclusasi al livello “ufficiale” con la formulazione dei dommi da parte dei primi concili. La stessa angolatura è presente quando si tratta delle questioni trinitarie e pneumatologiche.
L’A. però dà la prevalenza alle questioni trinitarie sorte nel periodo pre-niceno
(pp. 63-74) e tenta di evidenziare che la dottrina sulla Trinità “non sia frutto di
una speculazione su Dio, ma nasca piuttosto dal tentativo di rielaborare esperienze storiche” (p. 63). La questione dello Spirito Santo, a causa della sua
vastità, è trattata in modo “assai circoscritto” (p. 87).
La sensibilità dei Padri alla problematica escatologica è ben messa in rilievo dal nostro autore. Essi, “pur in contesti ed età differenti, hanno mantenuto
fede a questo dato [= la venuta del Regno] ricevuto dalla tradizione apostolica
e fondamentale nella predicazione di Gesù” (p. 94).
L’“excursus” sull’ecclesiologia di alcuni Padri mette in rilievo che “per gli
autori dei primi secoli la Chiesa è anzitutto il «noi» dei cristiani” (p. 119).
La questione che chiude la parte dottrinale riguarda la mariologia. Le
constatazioni teologiche concernenti la Madre di Dio “ebbero un cammino
travagliato che impegnò la riflessione teologica” (p. 139).
La terza parte, notevolmente più ridotta della precedente, è intitolata “Vita”.
Essa si compone di due capitoli che trattano le questioni riguardanti la morale
dei Padri e la spiritualità. I Padri erano preoccupati in prima linea dell’azione
pastorale diretta e della formazione cristiana dei fedeli. Perciò non meno che
dai problemi di teologia speculativa essi furono presi da questioni di ordine
pratico e spirituale che sviluppavano nel contesto catechetico/liturgico. Il
Padovese rileva la base scritturistica di questa attitudine dei Padri (pp. 138139) e la loro capacità di raccogliere gli elementi migliori delle scuole filoso-
710
RECENSIONI
fiche (stoica in particolare) ai quali danno una collocazione nettamente religiosa. Questo carattere della morale patristica “non contraddice né distrugge l’umano ma lo conserva, lo purifica, e gli dà un senso più profondo” (p. 156). In
fondo, osserva l’A., il cristianesimo predica “una condotta paradossale così
com’è paradossale la sua fede in un Dio fatto uomo” (ibid.).
I cenni riguardanti la spiritualità mettono l’accento su una visione storica.
Il Padovese fa un “excursus” sui Padri Apostolici, gli Apologeti, la letteratura
del martirio e lo sviluppo del movimento monastico, analizzandone i tratti più
salienti.
La quarta parte è consacrata all’annuncio della fede cristiana nell’epoca dei
Padri. Rifacendosi ad un suo lavoro precedente, il Padovese analizza la questione dell’inculturazione. Questo termine - fa notare l’A. - “prima di essere un programma, esprime un dato di fatto: la realtà di un cristianesimo che nel corso dei
secoli ha cercato di esprimersi in linguaggi diversi” […] tenendo presente il patrimonio della fede “tanto nel suo interno, che nel dialogo «ad extra»” (p. 175). Il
Padovese presenta una visione essenziale dello scontro/incontro tra le comunità
cristiane primitive e due “mondi” religiosi e culturali: giudaico ed ellenistico. Le
pagine che seguono trattano le “lingue dell’evangelizzazione” (pp. 193-206).
Rievocando l’opinione di C. Mohrmann, l’A. sottolinea che la “rivoluzione linguistica” compiuta dal cristianesimo (rinnovamento del vocabolario, mutamenti
di significato, introduzione delle varie tendenze, differenziazione sintattica) testimoniano il compiersi della “rivoluzione spirituale prodotta dal cristianesimo
nel mondo antico” (p. 206). Ne consegue il fatto della “missionarietà” della Chiesa accentuata fortemente già agli inizi. In realtà “la storia degli inizi cristiani” è
la “storia della missione” (p. 207) e l’accentuazione “del bisogno di distinguersi” (p. 220), per salvaguardare la propria autonomia.
La presentazione dei diversi aspetti del pensiero patristico fatta dal
Padovese non propone, neppure in modo sommario, alcuna panoramica
sull’esegesi dei primi secoli. Ciò è un segno che i rapporti dei Padri con la
Bibbia non hanno interessato l’A. in modo particolare, ma che egli si è concentrato piuttosto sui risultati della “centralità della «parola di Dio» che i primi
autori cristiani hanno assunto per «valutare» la vita cristiana” e “che essi hanno cercato altresì di «inculturare» e di sviluppare nell’applicazione alle cangianti situazioni dando così origine alla «scienza teologica»” (p. 18). Tuttavia
non bisogna dimenticare che la teologia dell’epoca patristica non era solo speculativa, ma anche positiva e biblica.
Il volume si chiude con le indicazioni bibliografiche di carattere generale e
l’utilissima “carta dei Padri della Chiesa”. L’insieme dell’opera è completato
dalla tavola sinottica della Chiesa antica dalle origini al V secolo secondo l’edizione di G. Doumeige. Per il completamento dell’opera e l’utilità dei lettori sarebbero molto utili alcuni indici (analitico, degli autori: antichi e moderni).
Mieczysław Celestyn Paczkowski, ofm
DI BERARDINO - STUDER
STORIA DELLA TEOLOGIA
711
Di Berardino Angelo - Studer Basil (dir. di), Storia della Teologia, I: Epoca
patristica, Istituto Patristico “Augustinianum” - Piemme, Casale Monferrato
(AL) 1993, XI-659 pp.
La casa editrice “Piemme” e l’Istituto Patristico “Augustinianum” hanno avuto
una felice idea di avviare la pubblicazione della collana Storia della Teologia.
Il suo primo volume abbraccia l’epoca patristica. Già questa “primizia” lascia
intuire che gli altri due volumi della serie (sulla teologia medioevale e sul periodo che va dal Concilio di Trento al secolo XX) dovranno avere la stessa
felice impostazione e l’estensione dei temi trattati. Questa iniziativa editoriale
e scientifica va considerata con attenzione, vista anche l’ampia fascia dei
destinatari e dei potenziali lettori. Essi non sono soltanto gli specialisti, ma
tutti coloro che, per un verso o per l’altro, si interessano allo studio del complesso delle dottrine e delle antichità cristiane.
Il volume è impostato su una lettura del pensiero patristico nell’equilibrio
dei vari aspetti complementari. Ciò testimonia che le ricerche patristiche non
mancano oggi di una solida impostazione storica al posto dello schematismo
dottrinale che dominava nel passato. Ciò fa evitare l’eterogeneità nella trattazione e nello stesso tempo il pregiudizio dell’“ancillarità” della patrologia nei
confronti della dommatica. Il piano dell’opera è nitido: dopo la parte
introduttiva seguono le tre parti principali: I - La teologia dei primi tre secoli;
II - La teologia della Chiesa imperiale (300-450) e III - La teologia patristica
posteriore. La Storia della Teologia è inoltre corredata di abbondanti citazioni,
notizie bibliografiche, tavole cronologiche e indice analitico.
Va apprezzato, inoltre, il fatto che il volume in esame non è un semplice e
rapido riassunto degli studi sull’argomento, ma contiene vari contributi, organizzati in modo sistematico e scritti appositamente dagli studiosi specialisti nella
materia trattata (P. Grech, E. Osborn, H. Crouzel, M. Simonetti, A. Di Berardino, B. Studer, L. Perrone). Il risultato è un’opera monumentale che si raccomanda da sé.
E’ un compito davvero difficile racchiudere nell’ambito di una recensione
l’immenso materiale contenuto nella Storia della Teologia che condensa in blocchi tematici l’ampio e multiforme profilo teologico della letteratura cristiana.
Si cercherà perciò di rilevare gli aspetti più interessanti e stimolanti dell’opera.
Gli autori in varie parti della Storia riservano spazi abbastanza considerevoli
all’orientamento biblico della riflessione teologica del periodo patristico. Ciò
rivela il rinnovato interesse degli studiosi per il ricupero delle fonti patristiche
e delle prospettive teologiche nella lettura della Scrittura proposte nei primi
secoli della cristianità.
L’inizio della prima parte cerca di fare il punto su due “mondi”: uno dal
quale proviene il cristianesimo (ebraico-biblico) e l’altro - quello al quale giunse
il Vangelo (greco-romano). P. Grech, descrivendo gli inizi della teologia cristiana, tenta di cogliere “quei fattori che hanno creato quella dinamica interna
712
RECENSIONI
che è responsabile per l’autonomia della teologia cristiana nel periodo
subapostolico” (p. 25). E. Osborn invece analizza il poderoso sforzo di traduzione del messaggio rivelato in categorie di pensiero e di linguaggio diverse da
quelle bibliche: quelle cioè del mondo greco e latino. I risultati di questo processo sfociano nella letteratura di carattere polemico, etico e narrativo (racconti del martirio).
La polemica con gli gnostici, presentata dallo stesso Osborn, ha portato i
Padri ad approfondire l’autorità di tutta la Bibbia come fondamento della Chiesa. Il discorso teologico delle prime generazioni cristiane, rappresentato soprattutto da Giustino, Ireneo e Ippolito, si basa sull’oggettività assoluta delle
Sacre Scritture e presenta una visione unificante di tutta la storia della salvezza
orientata verso la persona del Salvatore, che resta l’unica “chiave” del testo
ispirato.
La scuola di Alessandria viene presentata da H. Crouzel. Il noto studioso si
occupa specialmente delle figure di Clemente Alessandrino (pp. 181-188) e
Origene (pp. 188-214). Non mancano alcune considerazioni sulle discussioni
riguardanti il maestro alessandrino e l’origenismo (pp. 215-220). L’ambiente
alessandrino e il suo indirizzo evocato nelle sue linee fondamentali dal pensiero di Clemente, permettono una più profonda “conoscenza” del mistero di Cristo, ma è con Origene che siamo posti di fronte ad una svolta fondamentale
dell’esegesi e della teologia. In tutto il complesso della riflessione sulla Bibbia
il grande Alessandrino si muove in una prospettiva molto vasta dell’allegoria e
tenta una esposizione sistematica del dato cristiano.
Il Simonetti fa una panoramica riguardante la “teologia non erudita” (pp.
225-231) presente in Oriente dopo Origene (pp. 233-247) e gli inizi della riflessione teologica in Occidente (pp. 249-270).
La seconda parte, riguardante la teologia della “Chiesa imperiale”, è stata
elaborata esclusivamente da B. Studer. La cristianità di questo periodo, segnata
da aspre polemiche dottrinali nel suo interno, poté consegnare alle generazioni
successive un’eredità straordinariamente ricca. I lineamenti di quel grande periodo, li ritroviamo pure attraverso “gli ideali che guidavano e mantenevano
tutta la vita cristiana” (p. 312): unità, apostolicità e cattolicità. Ciò spesso conduceva ad “un certo trionfalismo” (p. 321), traducendosi, inoltre, nella volontà
di raggiungere anche un’unità di linguaggio, di cultura e di strutture.
In relazione ad alcuni temi cruciali, lo Studer introduce a questo complesso di dottrine teologiche. Facendo un’ampia panoramica sulla situazione ecclesiale (pp. 307-331) l’autore constata che l’epoca imperiale accoglie e utilizza
in larga misura la cultura greco-romana con diversi vantaggi sia sul piano della
vita civile che dello sviluppo dottrinale. L’A. parte dal presupposto che le tradizioni socio-politiche non potevano non influenzare la teologia cristiana di
quel periodo (p. 330).
La teologia della cosiddetta “epoca d’oro” dei Padri è intesa dallo Studer
in ordine al cammino di fede della comunità. In questo contesto alcuni punti
DI BERARDINO - STUDER
STORIA DELLA TEOLOGIA
713
nodali risultano particolarmente significativi, soprattutto nelle varie espressioni della Tradizione (Instituta Veterum; pp. 322-331). Da queste constatazioni
l’A. passa alla trattazione dell’Eruditio Veterum illuminando su tutto ciò che
costituiva la cultura dell’uomo dotto e dell’oratore in primo luogo (pp. 333371). Si rivela una continuità dell’eredità della tradizione culturale della quale
il cristianesimo assimila alcune forme.
L’esegesi dei primi secoli cristiani ha in questo quadro una posizione ben
radicata. Gli interpreti cristiani delle Scritture si sono inseriti nella tradizione
ermeneutica antica, usandone non solo la terminologia, ma anche i procedimenti esegetici ed i generi letterari recepiti (commento sistematico). L’esegesi
cristiana quindi fa parte del grande movimento culturale che “fa progredire le
scienze” sulla base “dell’interpretazione dei testi” (p. 371). La filosofia
(Sapientia Veterum) costituisce invece un altro quadro in cui la teologia della
Chiesa dell’epoca imperiale si è sviluppata. Lo Studer quindi analizza i rapporti fra la filosofia antica e la teologia cristiana (pp. 373-436).
La ricezione della Scrittura, considerata quale norma base del metodo teologico, si rivela molto complessa (cf. p. 437). La “biblicità” è una delle caratteristiche più importanti del lavoro teologico degli autori del IV e V s. (cf. pp. 413436). Lo Studer crea alcuni altri blocchi tematici legati alla Bibbia interpretata
dagli autori cristiani di questo tempo e li chiama rispettivamente: “la Bibbia letta nella chiesa” (pp. 437-463), “una conoscenza razionale della Bibbia” (pp.
465-481), “una ricerca di sintesi del pensiero biblico” (pp. 483-500). Questi
contributi presentano una visione d’insieme dell’esegesi dell’“epoca d’oro” dei
Padri. Pur abbracciando una vastità enorme di temi e di opere, l’A. non si limita
solo a dare alcune risposte scontate. Non enfatizza, ad esempio, la distinzione
netta, quasi confinante con l’incompatibilità, delle varie “scuole dell’esegesi” e
i loro differenti indirizzi ideologico-teologici, ma ne fa solo una doverosa menzione (cf. p. 485). La complessità dei dati riportati testimonia adeguatamente che
i Padri, in quanto teologi, polemisti e grandi spirituali, hanno avuto sommo rispetto per la Scrittura, studiandola nei suoi vari aspetti e servendosi di tutti i
mezzi disponibili per interpretarla nei suoi molteplici sensi. Gli sforzi interpretativi degli antichi autori cristiani sono finalizzati a creare la difficile sintonia
tra la fede e le esigenze dell’intelletto (“fides” e “ratio”; cf. pp. 465-481).
Invece una distinzione che va giudicata non solo necessaria ma importante, è quella che deriva dal diverso scopo della produzione patristica. Nelle opere teologico-polemiche, ad es., si crea una vera e propria teologia biblica su
argomenti dommatici messi in discussione o bisognosi di approfondimenti,
anche se certamente non si può “parlare di una teologia biblica in senso moderno” (p. 484). Un po’ nell’ombra restano nella trattazione dello Studer le finalità
di predicazione o di ascetica che favoriscono lo sviluppo di tendenze allegorizzanti e spirituali dell’esegesi.
Concludendo le sue riflessioni lo Studer giudica la teologia patristica del
IV-V s. abbastanza complessa perché diventò “teologia politica, poetica e natu-
714
RECENSIONI
rale”, però senza rischi troppo gravi per la fedeltà al messaggio biblico ed evangelico in particolare. Ciò grazie alla fedeltà alla “tradizione apostolica” continuamente viva e operante nelle comunità cristiane (p. 500).
La parte terza della Storia della Teologia presenta vari filoni della riflessione teologica del pensiero patristico posteriore, più precisamente dell’“Antichità tardiva”. La trattazione è impostata sul presupposto della retrospettività che regnava in tutte le discipline teologiche. Questo richiamo al passato non dovrebbe far dimenticare però che si trattava soprattutto di continuità
del pensiero dove non è assente anche la novità.
Gli autori (Studer e Perrone) partono da queste considerazioni nel seguire
lo schema di esposizione. Nel capitolo I L. Perrone presenta in che senso la
fede di Calcedonia abbia orientato la teologia patristica posteriore (cf. pp. 515581). In questa sezione della Storia della Teologia hanno trovato posto alcuni
suggerimenti riguardanti la Scrittura e la Tradizione dei Padri (pp. 526-530).
Lo spazio dato all’analisi del ruolo delle Scritture ispirate nello sviluppo del
pensiero teologico è quindi modesto. Tuttavia il Perrone offre qualche suggerimento stimolante. Innazittutto egli nota che in questo periodo l’approccio al
testo biblico è molto meno immediato e si basa sugli interpreti “autorevoli”.
Da qui lo sforzo degli esponenti delle correnti teologiche del V-VIII s. di raccogliere e conservare l’eredità precedente nelle compilazioni e opere di carattere
manualistico. L’A. non esita a segnalare che in realtà si tratta degli “inizi di
un’età di decadenza della cultura biblica” (p. 526) e dell’avvio verso una teologia “scolastica” (pp. 534-539). La teologia non soltanto influenza l’evolversi
della riflessione sui testi biblici, come succedeva nei periodi precedenti, ma
addirittura nasconde il messaggio biblico sotto “le cappe” d’interpretazione.
Nel capitolo II di questa parte della Storia della Teologia lo Studer mette in
evidenza i motivi e le modalità in cui l’autorità dei grandi Padri si è imposta nei
vari campi (cf. pp. 583-598). Lo stesso autore riserva nel capitolo III un’attenzione speciale alle ragioni che in campo trinitario e cristologico hanno condotto
i Padri-teologi a servirsi largamente della dialettica neoplatonica e aristotelica,
sviluppando una sorta di “teologia scolastica” (pp. 599-611). L’ultimo capitolo
delinea invece lo sviluppo della teologia postcalcedonese condizionato dalle
prospettive spirituali e pratiche del movimento monastico (pp. 613-622).
L’opera analizzata presenta alcune imperfezioni che non sminuiscono in
alcun modo il suo valore, ma che semplicemente disturbano nella lettura. Per
quanto è possibile ad uno la cui lingua materna non è quella di Dante, ho potuto constatare imperfezioni stilistiche o sviste (pp. 12, 38), alcuni casi di errori
tipografici nel testo italiano (pp. 30, 32), in quello greco (pp. 147; 242, nota
14) o nella traslitterazione (pp. 184, 390).
Non si segue un criterio uniforme e chiaro nelle traslitterazioni. Ad esse, in
alcuni casi si sostituiscono le trascrizioni in caratteri originali, creando nel lettore un senso di disorientamento (cf. soprattutto pp. 146-147: 227-228). Alcune volte le note risultano approssimative (ad es. nota 56 a p. 212) o confuse
JAMES - MCGOVERN
THE LB EGYPTIAN GARRISON AT BETH SHAN
715
(nota 112 a p. 389). A p. 210 ci vorrebbe una nota che discuta l’attribuzione
della Filocalia a Basilio di Cesarea e Gregorio di Nazianzo non sufficientemente testimoniata dalle fonti (cf. M. Harl, in SC 302, p. 33). Il volume possiede l’indice analitico, del resto ridotto all’osso, ma si sente la mancanza degli
altri indici (biblico, delle opere patristiche, degli autori antichi e moderni) che
accrescerebbero ancora di più il valore dell’opera.
Mieczysław Celestyn Paczkowski, ofm
James Frances - McGovern Patrick E., The Late Bronze Egyptian Garrison at
Beth Shan: A Study of Levels VII and VIII (University Museum Monographs
85), The University Museum, Philadelphia 1993. Vol I: XXIX-272 pp.; Vol II:
XV+ Figures 1-168 and Plates 1-63.
Beth Shan was excavated from 1921 to 1934 under the auspices of the University Museum of the University of Pennsylvania. The techniques of excavations,
recording, and interpretation used during those excavations were primitive by
contemporary standards. The collection of artifacts was haphazard; that of
ecofacts was neglected. Even the most rudimentary elements of record keeping
were not always maintained. Interpretation of data was based on assumptions
that later proved false. Of course, today’s sophisticated analytical techniques
had not been developed. Finally, publication was selective and uneven. That is
why professor Frances James of the University of Mississippi began a project
of reanalyzing the data from Beth Shan excavations. She completed work on
the Iron Age levels (The Iron Age at Beth Shan: A Study of Levels VI-IV. The
University Museum, Philadelphia 1966) and was working on Levels VII and
VIII (Late Bronze Age) when she died unexpectedly in December, 1983. Patrick
E. McGovern of the University of Pennsylvania, one of her former students
completed the project. With contributions by thirteen specialists, the two volumes are a product of a thorough reexamination of the data from the excavations that were completed almost sixty years earlier. Volume I contains the results of the reanalysis of data and Volume II contains figures and plates.
Volume I begins with a presentation the stratigraphic framework. It is clear
that certain sectors of both levels are more stratigraphically secure than others.
The more secure areas include the temple precinct, the Commandant’s House
and the migdol. In subsequent reanalysis, pottery from these contexts receives
the most attention. One chapter deals with pottery typology and technology.
Separate chapters are devoted to Mycenaean pottery and to Cypriot pottery.
The rest of volume I is devoted to other small objects. e.g., jewelry, lithic and
metal objects, scarabs, and cylinder seals. An appendix contains a bibliography
of Egyptian monuments, i.e. statuary and stelae, that relate to Levels VII and
VIII. There is also a general bibliography.
716
RECENSIONI
The eleventh and final chapter of volume I is entitled “Historical and Cultural Synthesis”. The heading given at the top of the odd numbered pages of this
chapter mistakenly reads “The Cylinder Seals”, the name of the previous chapter. A more serious problem with the chapter is its brevity. It probably reflects
the archaeologist’s predilection for description over interpretation. This is not to
denigrate what McGovern has done in Chapter XI: it is to ask for more.
The author underscores the importance of Beth Shan by noting that it is a
unique example of the transformation of “a Palestinian site into an Egyptian
military base at the end of the Late Bronze Age” (p. 235). The reanalysis has
led to a refinement of dating Levels VII and VIII. A. Rowe, who excavated
these levels from 1925-1928 dated them to the time of Amenhotep III.
McGovern suggests that their proper setting is the 19th Dynasty - specifically
the reigns of Seti I to Rameses III. The reanalysis has also made possibly intriguing suggestions regarding Egyptian and Palestinian relationships in terms
of cultic and technological interaction.
Excavation also has shown that the transition from Late Bronze to Early
Iron at Beth Shan was not marked by destruction or a conspicuously different
archaeological assemblage. There were only minor alterations and renovations
to mark the transition. This contrasts with the general picture usually given for
this period. The transition from Late Bronze to Early Iron is usually described
as a time of natural disasters, mass emigrations, and war throughout the Eastern Mediterranean region. The results of this study is a reminder that Palestine
cannot be treated as a single entity. The same cultural and environmental considerations do not come into play throughout the region. This is the greatest
contribution made by this reanalysis. Historians need to carefully examine the
archaeological record of Beth Shan as they try to understand and explain what
has become a crucial transition in the history of the region.
Leslie J. Hoppe, ofm
Gal Zvi, Lower Galilee During the Iron Age (ASOR Dissertation Series 8),
Eisenbrauns, Winona Lake, Ind. 1992, IX+118 pp.
La tesi pubblicata ora da Z. Gal è in gran parte il risultato del lavoro di ricerca
svolto negli anni ‘70 e ‘80. Al centro dell’esposizione vi sono i rapporti di
alcuni scavi e i risultati di un intenso survey effettuato nella regione. Si presenta come uno studio completamente aggiornato della Bassa Galilea, visto che a
questa regione sono state dedicate poche ricerche, e quasi tutte sono ormai lontane nel tempo (cf pp. VII-VIII). Gli studi che questo lavoro intende continuare
e nel caso sostituire, sono le ricerche galilaiche di S. Klein (1909), W.F. Albright
(1926), A. Alt (1927.1937.1939), A. Saarisalo (1929), Y. Aharoni (1957), A.
Kushke (1971).
GAL
LOWER GALILEE DURING THE IRON AGE
717
Il primo capitolo (pp. 1-11) descrive le caratteristiche geografiche e
morfologiche della regione esaminata. Bassa Galilea, ricordiamo brevemente, è
un termine coniato da G. Flavio, il quale ne dà anche una descrizione schematica.
La Bassa Galilea è delimitata a Ovest dalle colline che chiudono la piana di
Acco; a S/O dal torrente Qishon, le colline di Nazareth, la montagna Giv’at
Hammoreh; a S/E dal Tabor e dalla Valle tra ‘Ain Harod e Bet Shean; a Est dalla
Valle del Giordano fino al W. ‘Ammud; a Nord dalla strada Acco-Safed. L’autore propone una suddivisione tripartita della Bassa Galilea per meglio evidenziare
il modello di insediamento. 1) Nella sub-regione meridionale si trovano due direttrici ricche di insediamenti: a) tra Giv’at ‘Allonim e Shefar’am; b) tra
Nazareth e Bet Netofa. Il Nahal Sippori con una sorgente attiva, ne ha favorito
l’insediamento da sempre. I due tell più importanti sono T. Hannathon e T. GatHefer. La sub-regione è attraversata dalle strade che provengono dal Giordano
in direzione di Acco, e dal Lago di Tiberiade (via Q. Hattin) e da T. Hannathon
verso Megiddo. 2) La sub-regione settentrionale è povera di acque e quindi di
insediamenti. Comprende il Mt. Yotavata, la Valle di Sahnin, il Mt. Shazor e la
Valle di Bet Hakkerem. Gli insediamenti sono tardivi e sono concentrati nelle
Valli di Sahnin e di Bet Hakkerem. 3) La sub-regione orientale comprende la
Valle di Yabne’el, Ramat Issachar, Giv’at Haqoq, Mt. Tabor, N. ‘Ammud e
Salmon. Sono quasi tutte zone di basalto. La Valle di Yabne’el è la più favorita,
e a partire dal Ferro si incontrano T. Rekesh, T. ‘En Hadda, T. Adami-Hanneqeb,
T. Qarn Hattin. Solo T. Yn’am comincia nel BA, ed era occupato nel TB e F I-II.
Le strade di questa sub-regione sono la Via Maris, che toccava Qarn Hattin in
direzione del Lago, e la via carovaniera che transitava nella Valle del Giordano.
Nel capitolo secondo (pp. 12-35) sono presentati i risultati del survey condotto
negli anni 1980-82. Di ogni sito viene data la posizione, le misure di estensione,
la percentuale di ceramica secondo i vari periodi archeologici. I siti interessati
al survey sono moltissimi, e la visione dei vari periodi di insediamento della
Bassa Galilea risulta abbastanza chiara. Il terzo capitolo (pp. 36-53) presenta gli
scavi-sondaggi fatti da Z. Gal in alcuni tell di una certa importanza, cf T. Mador
(Kh. Abu Mudawer ‘I’blin), T. Qarnei Hittin (Qarn Hattin) e Kh. Ro’sh Zayit.
Di questi siti viene data la storia occupazionale e la ceramica. Il tell più interessante, perché si presta a fornire una nuova interpretazione di alcuni dati della
storia biblica, è certamente Q. Hattin. In questo sito, Z. Gal a messo in luce una
città fortificata del TB II, con ben due cerchia di mura difensive. Nel quarto capitolo (pp. 54-62) comincia la descrizione dei periodi archeologici dell’età del
Bronzo. La Bassa Galilea nel periodo del Bronzo presenta una storia occupazionale variegata: nel BA gli insediamenti sono abbastanza numerosi, diminuiscono nel MB, ritornano numerosi nel TB. Nel quinto capitolo (pp. 63-83) presenta
la tipologia ceramica e la relativa cronologia. I tipi ceramici del Ferro I-II analizzati sono 6: pithos, giara, brocca, cratere, coppa, pentola. Nel sesto capitolo
(pp. 84-93) l’Autore propone una nuova interpretazione della storia dell’insediamento delle tribù di Israele, relativamente al Ferro I. Nel settimo capitolo
718
RECENSIONI
(pp. 94-109) viene descritto il periodo del F II, o della Monarchia. La
Bibliografia (pp. 111-118) chiude la rassegna.
Dopo aver presentato velocemente il contenuto del volume, è utile segnalare alcune conclusioni riguardo a problemi di identificazione e di interpretazione della storia della Bassa Galilea. Ad esempio Z. Gal corregge Y. Aharoni
(1957) riguardo al “sistema di città-stato cananeo” del TB, perché l’Alta Galilea
a Nord di W. Kezib non era densamente popolata nel TB. Ancora, Z. Gal corregge Aharoni riguardo all’interpretazione dei nn. 80-102 della cosiddetta lista
“galilaica” di Tutmoses III, in questo aiutato dagli studi di Edel (1966), Tadmor
(1967) e di Ahituv (1981). I siti non si trovano in Galilea, ma in Libano e nel
Bashan (‘drei, grmn, hykrym, tpn/tbn, krr, iqr e yrt, ‘yn, ibr, n’mn). Un terzo
campo di novità, ed è forse l’aspetto più importante della ricerca di Z. Gal,
riguarda la lettura di due episodi di storia biblica, Gs 11,1-9 e Gdc 4-5. Gal
propone di abbandonare la vecchia tesi di Aharoni che identificava Me Merom
con T. el-Khirbe, vicino a Hazor, perché la guerra di Gs 11 non riguarda l’Alta,
ma la Bassa Galilea. Nel racconto biblico sono discernibili quattro elementi
geografici: a) una lista delle città cananee in Gs 11,1; b) una lista dei re cananei,
nei vv. 2-3; c) il luogo della battaglia, Me Merom, nel v. 5; d) la direzione della
ritirata dei re cananei, nel v. 8. Nel v.2 si incontrano i termini nord, montagne,
‘arabah sud di Kinnerot, collina di Dor, che sono termini determinati, al contrario di quanto pensa Aharoni. Gal identifica Madon / Maron con Qarne Hattin,
sito occupato nel TB da una grande città fortificata, e la Terra di Mizpe con la
valle di ‘Arbela. Da notare anche l’ordine di presentazione delle quattro città
cananee nel v.1, che sembra avere una certa importanza: Hazor, Madon / Maron
(= Qarne Hattin), Shimron (= T. Shimmunah, verso Ovest nella Valle di
Jizre’el), Acsaph (= vicino a Acco). È evidente che Madon / Maron si trova tra
Hazor e Shimron: anche per questo Qarne Hattin, situato sulla Via Maris, si
adatta bene all’identificazione di Madon / Maron. Di conseguenza, le “acque di
Merom” sono la sorgente di N. Shu’eib vicino a Q. Hattin. Il luogo della battaglia risulta strategico, perché gli israeliti insidiano le vie di comunicazione
tra Ovest e Nord dei Cananei (Acco, Acsaph, Shimron, Hazor). Il luogo si adatta
inoltre alla concentrazione di carri e cavalleria, per contro né Meron né
l’altopiano dell’Alta Galilea sono adatti per una tale operazione militare. Conseguenza per la storia dell’insediamento di Israele nella Bassa Galilea: le valli
principali erano occupate dai Cananei (Acco, Shimron, Hazor), e di conseguenza gli israeliti occupano le zone montagnose più centrali vicino a Nazareth e
nella Valle di Bet Hakkerem. Il secondo episodio biblico discusso da Z. Gal è
Gdc 4-5, la battaglia di Debora. Anche questa battaglia, come la precedente di
Gs 11,1-9 riguarda il controllo della Bassa Galilea. Infatti Baraq è di Qadesh
(4,6), Ya’el vive a ‘Alon Beza’annim (4,11), Sisera vive a Haroshet Haggoym
(4,2). La battaglia di Baraq avviene ai piedi del Mt. Tabor (4,12), oppure tra
Ta’anak e Megiddo (5,19). Aharoni aveva identificato Qadesh con T. Kadish,
vicino a Poryya nella Valle di Yabne’el. Gal propone di identificare ‘Alon
HOPPE
THE SYNAGOGUES AND CHURCHES OF ANCIENT PALESTINE
719
Beza’annim tra il Mt. Tabor e Qadesh (Gs 19), e lo identifica con la zona di
‘Arpad vicino a Khan el-Thujjar. Come luogo della battaglia di Gdc 5 suggerisce il Mt. Tabor (Gdc 4,12), perché si trova al limite dei territori israeliti verso
la terra dei cananei che è situata nella Valle di Jizre’el. Haroshet Haggoym non
va cercata a Ovest, ma nella regione di Nazareth e ‘Allonim, ricca di boschi e
querce nei periodi del MB e TB. Un ultimo pensiero riguardo alla storia dell’insediamento degli israeliti nella Bassa Galilea. Nel F I, attorno al 1200 a.C.,
si nota un incremento notevole di siti, rispetto al TB. Ad esempio sono registrati 25 siti tra Nazareth e Bet Netofa. Sono piccoli villaggi, uguali per posizione e misure ai siti registrati nei Survey di Efraim, Galaad, Giuda e Negev. Si
trovano vicino a piccole sorgenti (cf ‘Ein Zippori e il N. Yabne’el) o hanno
favorevoli condizioni di vita. Questi villaggi sono nati molto presto accanto ai
centri del TB distrutti (come Hazor e Q. Hattin), mentre sono nati molto tempo
dopo, solo nel 10º secolo a.C., se sono situati vicino ai grandi centri del TB
ancora in esistenza nel 12º secolo (come Bet Shean e Megiddo). Di particolare
interesse risulta la storia dell’insediamento della tribù di Issachar. In Ramat
Issachar, territorio tribale, solo T. Rekesh era cananeo (occupato nel TB). Nel
survey Gal non ha trovato alcun insediamento tra N. Harod e Ramat Sirin, e
questo mette in discussione la tesi di Alt e Aharoni sulla successione degli eventi
in Bassa Galilea. Ricordiamo che nelle lettere di el-Amarna (n. 250 e 365) si
parla di Shunem (Gs 19,18) distrutta da Labaya di Sichem, e di corvée imposte
dal re di Megiddo. Alt avvicina questa notizia alla descrizione di Issachar che
si trova in Gen 49,14-15: “Issachar è un asino robusto che ha piegato la schiena ai lavori forzati”. E pensa che Issachar sia insediato nel suo territorio già a
partire dal 14º secolo a.C. (così anche Aharoni, LOB: 192). Ma il survey di Z.
Gal mostra che il territorio di Issachar non è stato occupato dagli israeliti fino
al 10º secolo a.C., cioè fino al tempo di Davide. Infatti i cananei hanno tenuto
la Valle di Jizre’el certamente fino alla metà dell’11º secolo, e la hanno perduta
solo con la battaglia del Mt. Tabor (Gdc 5). Le conoscenze della Bassa Galilea
sono notevolmente aumentate con la pubblicazione di questa ricerca. Gli studiosi di archeologia biblica hanno a disposizione nuovo materiale e quindi la
possibilità di aprire nuove ipotesi e nuove interpretazioni della storia biblica.
Pietro Kaswalder, ofm
Hoppe Leslie J., The Synagogues and Churches of Ancient Palestine (The
Liturgical Press), Collegeville, Minnesota, 1994, V-145 pp., 39 ills.
L’Autore conosce bene le antiche sinagoghe e chiese di Palestina, e ha una preparazione archeologica specifica avendo partecipato agli scavi di alcune sinagoghe della Galilea. La competenza risalta proprio dal modo con cui L. Hoppe
ha scelto e presentato alcuni temi di grande attualità e di sempre vivo interes-
720
RECENSIONI
se. Lo scopo di questa agile e interessante pubblicazione è chiaramente illustrato nella introduzione. Le chiese e le sinagoghe di Palestina scavate fino ad
oggi, sono ormai centinaia. Questo libro non pretende di illustrare nei dettagli
tutta la ricerca archeologica, ma vuole dare una conoscenza di base mediante
la scelta di alcuni siti e delle loro strutture, per arrivare ad una buona comprensione del Giudaismo e del Cristianesimo dei primi secoli (cf p. 3). Alcuni
edifici cristiani sono tuttora in funzione, perché meta di pellegrinaggio fin dai
tempi antichi. Per contro, nessuna delle sinagoghe antiche è in uso, tuttavia,
dopo che lo scavo è stato completato, da parte delle autorità rabbiniche si tiene sempre una cerimonia religiosa di ri-dedicazione dell’edificio. In tal modo
viene operato un legame con il passato, e viene instaurato un dialogo tra le generazioni passate e quelle presenti. Il volume è composto di 10 capitoli, ciascuno dei quali rappresenta una piccola monografia su uno specifico argomento. Il capitolo 1 tratta il tema della sinagoga (origini, funzioni e architettura); il
capitolo 2 descrive le sinagoghe galilaiche di Nabratein e Cafarnao; il capitolo
3 alcune sinagoghe della Giudea (Engeddi, Eshtemoa, H. Rimmon, Kh.
Susiya); il capitolo 4 alcune sinagoghe decorate con mosaici e con il tema dello zodiaco (Bet Alfa, H. Tiberias, Husifah e Na’aran); il capitolo 5 introduce il
tema degli edifici sacri cristiani (origini delle chiese, strutture, funzioni, stile);
il capitolo 6 è dedicato alla chiesa della Natività di Betlemme; il capitolo 7
presenta le chiese di Nazareth e di Cafarnao; i capitoli 8-9-10 sono dedicati
rispettivamente alle chiese del Lago di Galilea, di Gerusalemme e del centrosud di Palestina (Pozzo di Giacobbe, Avdat). Un glossario dei termini tecnici e
una bibliografia essenziale completano il volume. I vari temi sono presentati
con chiarezza e semplicità, anche i più discussi come l’esistenza dei giudeocristiani, la cronologia della sinagoga di Cafarnao o la presenza di edifici
cultuali cristiani in epoca pre-costantiniana. L’utilità e il pregio della pubblicazione di L. Hoppe consiste nel presentare in forma accessibile al grande pubblico temi di solito riservati agli specialisti, quali le differenti forme dell’architettura sia degli edifici sinagogali, sia degli edifici ecclesiastici. “This book
has introduced the reader to some issues and problems that need to be faced
when one wishes to understand how the Jews and Christians of the Roman and
Byzantine periods understood, defined, and expressed themselves through their
religious architecture. The guiding assumption throughout this work has been
that these people are worth knowing. After all, Jews and Christians today
understand and define themselves, in part, within categories first developed by
these people - our predecessors in the faith” (p. 139).
Pietro Kaswalder, ofm
Tsafrir Yoram - Di Segni Lea - Green Judith. With Contributions by I. Roll
and T. Tsuk, Tabula Imperii Romani. Judaea - Palaestina. Eretz Israel in the
TSAFRIR ET AL.
TABULA IMPERII ROMANI. JUDAEA - PALAESTINA
721
Hellenistic, Roman and Byzantine Periods. Maps and Gazetteer, Publications
of the Israel Academy of Sciences and Humanities, Jerusalem 1994, X-263 pp.
In attesa che venga pubblicato l’annunciato Onomasticon of Eretz Israel in the
Greek and Latin Sources, gli Autori provvedono con quest’opera uno strumento valido e aggiornato di consultazione per quanti si interessano al periodo
ellenistico-romano e bizantino. Superati gli ostacoli burocratici generati dalla
situazione politica sempre confusa e instabile del Vicino Oriente, i curatori sono
giunti ad un accordo con i responsabili internazionali del TIR su una base
pragmatica territoriale: l’opera copre tutti i territori raggiunti dagli studiosi israeliani nella situazione de facto degli anni 1967-1992, senza perciò tener conto
dei confini storici delle province prese in esame. In pratica il vero titolo dell’opera è il sottotitolo aggiunto sulle carte geografiche: Eretz Israel during the
Hellenistic, Roman and Byzantine Periods. Il nome copre parte del territorio
delle province di Palaestina, Prima, Secunda e Tertia (perciò con esclusione dei
territori transgiordanici), della Phaenicia (con esclusione del territorio libanese),
dell’Arabia con parte del Golan, e dell’Arabia Augusta sulla costa settentrionale della penisola sinaitica fino al canale di Suez.
I siti recensiti sono 1250 dei quali 524 identificati storicamente con le fonti
a disposizione del periodo che va dal IV secolo a.C. al VII secolo d. C. (262
grazie all’Onomasticon di Eusebio, un’opera di cui non si loderà mai abbastanza l’utilità storico-geografica che una certa critica tende a sminuire).
L’opera sostituisce inglobandolo e aggiornandolo il Gazetteer di M. AviYonah pubblicato postumo nel 1976, che era stato preceduto nel 1936 dalla
Map of Roman Palestine (1949 edizione ebraica). La carta generale dei territori (1:1.000.000, con uno zero in più a p. 3!) viene ripresa nelle due Carte, Nord
e Sud (1:250.000) dove con le strade principali (testimoniate dalle iscrizioni
dei miliari romani a cominciare dal 69 d. C.) sono indicati anche i principali
acquedotti che rifornivano città, cittadine o palazzi-fortezze. Il testo esplicativo viene dato nell’introduzione con la bibliografia principale (I. Roll per Roman
Roads, e T. Tsuk per Water-Supply Systems).
Due altre carte (1:400.000) sono dedicate alle sinagoghe e alle chiese del
territorio esaminato. Ci permettiamo di dissentire dalle conclusioni un po’ standardizzate che Tsafrir ne ricava nell’introduzione (p. 19) confondendo documentazione archeologica (chiese ritrovate datate dal IV secolo in poi) con lo
sviluppo del cristianesimo nella regione palestinese. Lo studioso scrive: “The
rather small minority of Christians grew rapidly after the time of Constantine…”
dimenticando evidentemente le fonti scritte che pure sono tante e antiche e che
parlano, se non di un fenomeno di massa, certamente di un fenomeno geograficamente esteso, come si può ricavare anche solo dal luogo di origine dei martiri palestinesi delle persecuzioni romane e dalla sede episcopale dei vescovi
presenti al concilio di Nicea (J. Taylor, Christians and the Holy Places. The
Myth of Jewish-Christian origin, Oxford 1993, p. 57-64 ).
722
RECENSIONI
Le pagine introduttive sono arricchite di una List of Abbreviations che rimanda alla ricca bibliografia utilizzata nelle voci con rimando alle fonti greche, latine e siriache (tutte), ebraiche e samaritane (non tutte), a materiale epigrafico e numismatico oltre alla bibliografia moderna relativa a relazioni di
scavo. Nel testo, a parte qualche ‘ayn diventato alef (colpa del computer), è
entrata anche qualche trascrizione anomala come edj-Jureine (p. 93). L’opera
per la sua praticità e pragmatismo nella scelta dei nomi delle località elencate
(da trascrivere dall’ebraico, dal latino, dal greco, o dall’arabo?) sarà certamente presa come punto di riferimento e perciò mezzo di unificazione a tutto beneficio degli studiosi e dei lettori.
Trattandosi di un’opera pubblicata dalla Israel Academy of Sciences and
Humanities, credo che vada sottolineato non l’apertura degli Autori, studiosi
certamente superiori a tali problemi, ma il coraggio delle Autorità preposte al
finanziamento dell’opera che hanno accettato il titolo storicamente apolitico di
Judaea-Palaestina, che imposto e accettato per superare ostacoli contingenti,
non passerà inosservato e avrà un impatto benefico sia nella parte di popolazione (araba) che si riconosce nella Palestina sia nella maggioranza ebraica
troppo abituata a dover usare l’Eretz Israel, in sostituzione del pur normale
Palestina, almeno fino al 1948.
Michele Piccirillo, ofm
Tsafrir Yoram (ed.), Ancient Churches Revealed, (Israel Exploration Society,
Jerusalem - Biblical Archaeology Society, Washington), Jerusalem 1993, pp.
XI-358, molte illustrazioni, piante e figure nel testo.
Presento con interesse oltre che con piacere un volume che riguarda gli scavi di
chiese e altri edifici cristiani, effettuati recentemente in Israele. Il volume è uscito a nome di Y. Tsafrir, per conto della Israel Exploration Society e della Biblical
Archaeology Society, ma contiene i contributi di numerosi archeologi israeliani,
americani ed europei. Penso con ciò di fare una cosa gradita agli estimatori della
ricerca archeologica in Terra Santa. Il volume offre in lingua inglese articoli precedentemente pubblicati in lingua ebraica nella rivista Qadmoniot. Notiamo pure
che alcuni articoli sono apparsi, in forma leggermente diversa, nel volume
celebrativo dei 70 anni di p. V. Corbo, in: G.C. Bottini - L. di Segni - E. Alliata
(edd.), Christian Archaeology in the Holy Land. New Discoveries, Jerusalem
1990. L’articolo introduttorio (pp. 1-16) di Tsafrir è di notevole impegno, per il
contenuto e per le osservazioni acute riguardo alla formazione e allo sviluppo
dell’architettura degli edifici ecclesiastici. L’origine dell’architettura ecclesiastica viene inserita nel processo generale che ha visto l’affermazione del Cristianesimo, a partire dalla predicazione di Gesù fino alla completa vittoria della nuova
religione sul paganesimo greco-romano. C’è una data importante per gli sviluppi
TSAFRIR
ANCIENT CHURCHES REVEALED
723
dell’architettura cristiana in Palestina, cioè il pellegrinaggio che Elena, la regina
madre, effettuò nel 326. Diverse leggende sono fiorite a proposito dei prodigi che
accompagnarono la visita di S. Elena, prima tra tutte la scoperta della Croce di
Gesù. Alla visita imperiale seguì la costruzione delle prime chiese della regione:
la Basilica del S. Sepolcro a Gerusalemme, la chiesa dell’Eleona sul Monte degli
Olivi; la Basilica della Natività a Betlemme, il Santuario di Abramo a Mambre,
il memoriale di Mosè sul Monte Nebo. Tra le prime forme di architettura cristiana risalenti al quarto secolo va ricordata la Basilica di derivazione greco-romana. In essa, la parte principale è costituita dall’apside, in cui sono posti l’altare e
il presbiterio. Una seconda forma di edificio ecclesiale impiegata già nel 4º secolo è l’edificio a pianta centrale, che può essere rotonda oppure ottagonale. Esempio ancora visibile di questa forma è la Rotonda del S. Sepolcro, imitato nei secoli seguenti dalla Chiesa della Theotokos sul Monte Garizim, dell’Ascensione
sul Monte Oliveto e dalla Chiesa sulla Casa di S. Pietro a Cafarnao. Anteriore a
queste costruzioni pubbliche e solenni, bisogna rammentare la forma privata della Domus Ecclesia, o chiesa familiare. L’esempio più chiaro e significativo di
questo tipo di chiesa è la Casa di S. Pietro a Cafarnao. Il materiale è disposto seguendo un ordine geografico che inizia dal Nord: le chiese della Galilea, della
Samaria e del litorale Mediterraneo, di Gerusalemme, della Giudea, della
Shefelah e del Neghev, della penisola del Sinai.
I contributi sono in totale 40, cui si aggiungono un glossario dei termini
tecnici (pp. 351-352), un indice completo di nomi e luoghi (pp. 353), e una
Mappa con tutti i siti in cui sono stati trovati resti di edifici cristiani. E’ praticamente impossibile ricordare tutti i contributi, per cui mi limito a fare una selezione degli scavi più interessanti, cominciando dagli scavi di Galilea. M. Aviam
(pp. 54-65) e L. Di Segni (66-70) presentano la chiesa e le iscrizioni di Horvat
Heseq. E’ forse la chiesa meglio conservata dell’Alta Galilea. L’edificio presenta alcune particolarità notevoli. I muri si sono preservati per l’altezza di 1 m,
mentre le absidi raggiungono i 4,5 m. E’ l’esempio più chiaro di una chiesa con
gallerie. Il compianto p. V. Corbo presenta una sintesi degli scavi praticati
nell’Insula Sacra di Cafarnao a partire dal 1968 in cooperazione con il p. S.
Loffreda (pp. 71-76). Al centro dell’insula si trova la Casa di S. Pietro trasformata ben presto in luogo di culto. Le fasi di occupazione del sito, e quindi della
presenza cristiana a Cafarnao, risultano essere le seguenti: una Domus Ecclesia
di piccole dimensioni a partire dalla fine del 1º secolo, la grande Domus Ecclesia
costruita nel 4º secolo, la Chiesa ottagonale edificata nel corso del 5º secolo sulle strutture degli edifici precedenti. C. Dauphin offre un contributo sulla presenza cristiana a Dor, città costiera 10 km a nord di Caesarea Maritima (pp. 90-97).
Gli scavi degli anni 1979-1983 hanno rivelato che il porto di Dor era una stazione dei pellegrini cristiani in viaggio verso la Terra Santa. Dopo la distruzione
subita agli inizi del 7º secolo, Dor era stata ricostruita dai Crociati col nome francese di Le Merle. Nella città è stata scoperta la Basilica, sede del vescovo, collegata ad un centro per l’accoglienza dei pellegrini (mansio). Le strutture nor-
724
RECENSIONI
mali della chiesa, cioè le navate e l’abside, a Dor sono circondate da ambienti
esterni che dovevano avere uno scopo ben preciso. E’ probabile che gli ambienti annessi alla parte meridionale della Basilica, fossero adibiti proprio al ricovero degli ammalati in attesa delle cure.
Nella sezione dedicata alle chiese di Gerusalemme trovo uno studio impegnativo di J. Patrich sulla storia della Basilica del S. Sepolcro (pp. 101-117). I
lavori di scavo e restauro guidati da C. Coüasnon e V. Corbo negli anni 19641984 in vari settori dell’Anastasi, del Patriarchio, delle gallerie, nella Cappella
dell’Apparizione alla Vergine e nella Cappella dell’Invenzione della Croce, hanno portato delle conoscenze nuove che si possono consultare nelle pubblicazioni dei due studiosi. Novità interessanti sono venute poi dagli scavi effettuati nel
Katholikon dei Greci Ortodossi, dai quali si conosce l’ubicazione dell’abside del
Martyrion costantiniano, orientato verso la tomba venerata. Altri sondaggi sono
stati fatti nella parte orientale della roccia del Calvario, nel settore meridionale
dell’Anastasi, nella cappella di S. Vartan dietro alla Cappella di S. Elena (settore degli Armeni ortodossi) da vari archeologi. Dopo tutti questi esami
archeologici oggi si conosce meglio la topografia del sito chiamato Golgota nel
Nuovo Testamento, e la storia degli edifici costruiti sulla Tomba di Gesù a partire dal tempio pagano di Adriano con la triade capitolina (135 d.C.). Per gli scavi nella regione della Giudea vanno segnalati il contributo di Y. Hirschfeld sui
Monasteri del periodo bizantino (pp. 149-154), uno studio di G. Kühnel sulle
decorazioni crociate della Basilica della Natività di Betlemme (pp. 197-203), lo
scavo nella chiesa di Horvat Berachot che sta lungo strada per Hebron (pp. 207218), e i risultati dell’esame archeologico condotto da J. Patrich nel complesso
di S. Saba (pp. 233-243). A Rehovot del Negev (Kh. Ruheibeh), Y. Tsafrir ha
scavato due chiese (pp.294-302), una al centro e una nel quartiere settentrionale
della città. Nella città però ne sono state identificate altre due. Il fatto della presenza di numerose chiese si spiega sapendo che Rehovot era uno dei centri principali del Negev durante i periodi Nabateo, Romano e Bizantino. Tra gli elementi caratteristici della chiesa centrale si deve menzionare il synthronon, posto al
centro dell’abside, alle spalle dell’altare. In questo dettaglio la chiesa di Rehovot
è simile alla Basilica-Santuario di Haluza scavata da A. Negev che ha un trono
di 7 scalini (cf le pp. 286-293). Dall’iscrizione dedicatoria si ricava la data di
costruzione della chiesa centrale, cioè gli anni 550-554. Interessanti infine risultano i contributi dedicati alla presenza dei cristiani nella penisola sinaitica. E.
Doren presenta gli scavi nella città di Ostrakine sulla costa mediterranea, situata tra Rinocorura e Pelusio. Accanto a tre chiese che risalgono al 5º secolo, sono
da menzionare il monastero dotato di alcune cripte sepolcrali, e il cimitero da
cui provengono numerose iscrizioni tombali. Y. Tsafrir ricorda la presenza cristiana al Monte Sinai, rifacendo una breve storia del monachesimo legato al
Monastero di S. Caterina (pp. 315-333). Sembra che il Sinai abbia richiamato
ben presto l’attenzione dei cristiani che volevano dedicarsi alla contemplazione
e al silenzio. Non fa meraviglia dunque se già nel 4º secolo, come ci racconta la
GIBSON - TAYLOR
BENEATH THE CHURCH OF THE HOLY SEPULCHRE
725
pellegrina Egeria nel suo diario di viaggio, si era installata una comunità monastica ai piedi di quella che viene identificata come la Montagna di Dio, l’Horeb.
La storia della presenza cristiana al Sinai risale però al terzo secolo, quando i
cristiani dell’Egitto cercavano rifugio nel deserto dalle persecuzioni dei pagani.
Il Patriarca di Alessandria, Dionisio, ci informa che al tempo di Decio (250 d.C.)
numerosi cristiani fuggirono fino “in Arabia”, intendendo con questo la regione del Sinai. Restano da aggiungere, al termine della rassegna dei contributi, i
complimenti per una pubblicazione ben curata e ricca di foto e illustrazioni. Le
conoscenze della presenza cristiana in Terra Santa nei primi secoli della nostra
era, sono notevolmente aggiornate e accresciute da questo volume.
Pietro Kaswalder, ofm
Gibson Shimon - Taylor Joan E., Beneath the Church of the Holy Sepulchre –
Jerusalem. The Archaeology and Early History of Traditional Golgotha
(Palestine Exploration Fund Monograph. Series Maior 1), London 1994. XX102 pp., ill.
The work conducted during the sixties and seventies in the Church of the Holy
Sepulchre in Jerusalem, in the name of the three ecclesial communities who own
the building, have signaled a decisive turning point in awareness of the monument that covers the traditional place of the death and burial of Jesus. Incidentally, I would say that I am not ashamed to adopt the term “traditional” that appears in the title, recognizant of the positive value of an ancient, continuous and
undisputed tradition. I do not believe that some other non-traditional “Golgotha”
of Jerusalem could be even minimally capable of challenging the one which tradition attests (cf. pp. 57-59). Following the restorations desired by the three communities, therefore, they were able to obtain for the first time real information
about the ancient topography of the area, and the monuments buried below the
current basilica or masked by aged plaster in their elevated areas. However, it is
also true that much work was done according to criteria not strictly archaeological (p. 2) and under the pressure of potent disturbing influences. Fr. Corbo himself personally had to suffer much because of that situation, which was lamented
with the Custos of the Holy Land “also in the name of all archaeologists” (Padre
Virgilio C. Corbo. Una vita in Terra Santa, ed. by G. C. Bottini, Jerusalem, 1994,
p. 100). In view of this, I believe that we will never be grateful enough to those
who were involved in the work of saving as much of the data emerging from the
excavations as possible, overcoming the difficulties coming from different countries, schools or religious communities, leaving out discussion about the most
peculiar problems of the “Status quo.”
The Studium Biblicum Franciscanum of Jerusalem has always been on the
front line, stimulating the publication of articles about work done, not only on
the Latin (Roman Catholic) property by V. Corbo (LA 1962, pp. 221-316; 1964,
726
RECENSIONI
pp. 293-338; 1965, pp. 318-366; 1969, pp. 65-144; cf. 1979, pp. 278-292; 1988,
pp. 391-422), but also on the property of the other denominations by C. Katsimbinis and F. Díez (LA 1977, pp. 197-208). To these must be added the monograph of B. Bagatti and E. Testa, Il Golgota e la Croce, 1978, and above all the
three volumes of V. Corbo, Il Santo Sepolcro di Gerusalemme, 1981-82. These
present to the public the precious and ponderous documentation gathered by
the architects of the technical Commission directed for the Roman Catholics
(who would be mostly Franciscan) by the Dominican Charles Coüasnon, not
forgetting his first-hand documentation produced in 20 years of assiduous contact with the monument. In justice we have to acknowledge (and this applies
above all to those who might be aware of the difficulties of such work; see p.
1f) that the general plan serving as a base for Fr. Corbo was presented to him
by Fr. Bagatti, and was the work of Italian professionals (F. Vienna and E.
Sartorio) who accomplished it in 1940 on the basis of new triangulations obtained with precision instruments and integrated with detailed reliefs of Vincent
(LA 1971, pp. 149-157). Very few publications have been produced by other
people or institutions interested in the work and it is fortunate to have the
material at their disposition offered in its entirety, as quickly as possible, to the
academic world. We welcome, therefore, also the contribution of Gibson and
Taylor who sign their name to the volume, each boasting their own specific
interest: one in archaeology and the other in the history of early Christianity.
The work, of few pages but of large format, is composed of two parts: in
the first (pp. 7-47) examination is given to the excavation completed by the
Armenians behind the apse of the Chapel of St. Helena, beneath the floor of
the Constantinian Martyrium (which ended in a supplementary space under their
jurisdiction, called the Chapel of St. Vartan). The second part (pp. 51-85) attempts a historical-archaeological synthesis of the monument, divided by periods (the Herodian, Roman, and Byzantine are of primary interest).
In the first part the contribution of Gibson appears naturally preponderant,
having himself participated in the reliefs of the excavation to the time of the
“supervision” of M. Broshi (1975-76) and having already published something,
together with other authors, on this topic. We now have a treatment more complete and updated that takes account of the whole area excavated and the discussion in progress between archaeologists who are in some way occupied with
the excavation. The authors firmly maintain the conclusion (p. 16f) that the
exploitation of this part of the quarry was already abandoned in the Late Iron
Age (7th - 8th c. BC), since pottery of that age was discovered there in an area
of a beaten earth floor, which suggests a domestic use of the grotto. This conclusion still is not automatically applicable to all the other areas, as the authors
themselves admit (p. 51).
The second chapter (pp. 25-48) is dedicated to the famous figure of the
ship with the Latin inscription found in 1971. From the time of the discovery,
a notable quantity of studies have already been done on the subject and our
GIBSON - TAYLOR
BENEATH THE CHURCH OF THE HOLY SEPULCHRE
727
Studium has been interested in the find (E. Testa, “Il Golgota, porto della
quiete,” in Studia Hierosolymitana in onore di P. Bellarmino Bagatti. I Studi
archeologici, Jerusalem 1976, pp. 179-244). None of studies made until now,
however, are as comprehensive, extensive, and documented as the present work,
as regards the circumstances of the discovery, the successive events and the
material analysis of the subject. By means of numerous comparisons, the antiquity of the portrayal is particularly underlined, which “must date from preConstantinian times, probably from the 1st to 2nd centuries” (p. 42; p. 48 suggests “with some degree of confidence” the 2nd c.). As much as it concerns us,
we note that the authors (to Gibson is owed the figurative analysis, to Taylor
the epigraphic - p. XI) seem to have particularly taken aim at Fr. Emmanuele
Testa, whom they do not spare any form of fault-finding, renewing the old
accusations of having falsified the design. Yet, denying any credit to their adversary, and charging him with every disgrace, at the end of a long and detailed
analysis arrive at reading the inscription in the same way as he: DOMINE
IVIMUS. A certain effort is therefore made to deny Testa even the authorship
of the interpretation. We learn, in fact, that the first to suggest this reading,
instead of “Isis mirionimus” as originally proposed by S.C. Humphreys (cf.
The International Journal of Nautical Archaeology and Underwater Explorations, Notes and News 3.2, 1974, pp. 309-310), was the Dominican Fr. Benoit
in a private conversation with S.W. Helms, some time after the discovery (p.
42). Admitting freely that the ultimate meaning of the inscription is as elusive
as that of the mass of modern graffiti in our cities, the authors do not hide their
preference for a context which is not religious (whether pagan or Christian) but
profane, seeing in the term Domine a simple title, as might be used by a sailor
for the captain of his ship (p. 48).
The third chapter, first subsection of the second part, is dedicated to the
attempt to reconstruct the topography of Golgotha at the time of Christ. The
authors correctly put in relief the constant presence of signs of a quarry in all
of the trenches excavated and the extreme irregularity of the rock, elements
that mark unmistakably the countryside, of as much interest to Calvary as to
the Sepulchre, and must take the place of the smooth hills reproduced in all the
reconstructions published until now. Also the authors rightly warn the reader
about the tentative nature of their own topographic reconstruction, from the
moment that it is difficult to define which cuts belong to the original quarry
and which were made by successive Hadrianic or Constantinian building activities (p. 51 and fig. 36, p. 52). Whatever the case may be, the rock of Calvary (n. 19) is represented as isolated as it is today – but it is not at all proven
that it was so then. The reconstruction appears evidently aimed at underlining
the impossibility of access, which they make much of on p. 57, where Calvary
is presented as a site extremely improbable for a crucifixion. Is Calvary to be
found in some other place nearer to Mt. Zion (p. 60)? In a recent article, M.
Biddle judges Taylor’s suggestion a “whole new theory” relying “upon a mis-
728
RECENSIONI
reading of Eusebius’ entry on Golgotha in the Onomastikon” and betraying “a
profound misconception of the importance of traditional location in the
organisation of sacred space” (“The Tomb of Christ. Sources, Methods and a
New Approach”, in ‘Churches Built in Ancient Times’. Recent Studies in Early
Christian Archaeology, ed. by K. Painter, London 1994, 73-117; p. 99-100.103).
The fourth chapter deals with the Hadrianic buildings and the discussion
widens, in a somewhat necessary way, to understand the urban organization of
Aelia Capitolina’s complex. Diverse pre-Constantinian wall fragments found
in the trenches dug at various points in the basilica appear incoherent. Others,
on the other hand, truly seem to have belonged to a monumental building. The
authors propose to interpret the first as walls of consolidation for fill (and for
this, useless from the viewpoint of reconstruction, p. 65) while with the second
they reconstruct a minimalist whole, also in order to exclude (because of doubt,
p. 67) the corner of the sacred surrounding wall existing in the Russian hospice. The reconstructed complex would be dedicated only to Venus, whose cult
on top of Golgotha is well documented in historical sources, but not to Jupiter
also or to the Capitoline Triad, as held by others. The text of Jerome that speaks
explicitly about a statue of Jupiter venerated by pagans over the place of the
Resurrection is brutally minimized (p. 69). The platform of the Jewish Temple
is excluded for other reasons, and “the perfect location” for the temple of Jupiter would be located on the scarp of the Antonia fortress (p. 70). However, it
does not seem to me that there exist even the most minimal archaeological or
literary indications to sustain such a hypothesis.
The fifth and last chapter is dedicated to the Byzantine complex. The analyses take into consideration the literary and iconographic sources as well as the
archaeological remains. These have finally restored a precise look at the paleoChristian construction about which Vincent in 1914 could only try to imagine.
The authors also present their plan of the buildings (based on that of Corbo)
which consists unfortunately in a simple schematic reconstruction, without distinguishing between the visible parts and those restored (fig. 45). It is a deplorable method of restitution which has already done a lot of damage in the past
and is justly condemned in Coüasnon (p. 74). All those who are unable to verify
by themselves the truth about these things are easily misled by it. The critical
reader can do no less than have open in front of them at the same time the very
honest plan published by Fr. Corbo. Among the elements absolutely belonging
to fantasy, we assign the cupola above the apse of the Martyrium (n. 21) and
the baptistery with an apse in the south plaza (n. 9) which instead was occupied, as now is known, by the Church of St. Mary mentioned by the pilgrim
Arculf (cf. V. Corbo, “Il Santo Sepolcro di Gerusalemme: Nova et Vetera,: LA
1988, pp. 414f). Among the false information presented, we note that we are
asked to believe that the Constantinian walls of the Anastasis were preserved
only to a height of 1.5 m against the 11 m (eleven) which are found in reality
(p. 77, topic of the cupola of the mosaic of Madaba and interpreting very badly
GIBSON - TAYLOR
BENEATH THE CHURCH OF THE HOLY SEPULCHRE
729
the photo of the Latin gallery presented in Corbo, Il Santo Sepolcro, III, 132;
cf. II: Tables 14, 17,22, 27; I: Text, pp. 51-17; 75-79; 154f).
How can one put faith in such authors when they dwell on discussions
about architectural details, structural analyses of the monument, dating of the
walls (but have they ever seen them?) when they take lightly the opinions of
the other archaeologists (who have sweated over those stones), taking the
trouble to decide from time to time who is right or to fight? A typical example
of this way of proceeding is found in the pages dedicated to the excavation of
the eastern side of Calvary (pp. 81-83). The same presumptuous superficiality
seems to me to be confirmed in the treatment of non-archaeological sources.
Christian writings from Pre-constantinian times, and Apocryphal books (cf. F.
Manns, “Saint-Sépulchre. La tradition littéraire pré-costantinienne. Ir-IIIe s.”,
in Dictionnaire de la Bible. Supplément , Paris 1987, 11, 418-431) are almost
completely neglected. Is that just a kind of a reaction against the Bagatti-Testa
school? But, I intend to act as the advocate of neither the living nor of the dead.
The method of using absolute heights in all the drawings is praiseworthy and
appears very practical, making them thus more easily comparable with each other.
The corridor in front of the Sepulchre is taken as point zero (p. 88, note 27 and p.
2 fig. 2), and assigned the height of 753.52 m above sea level. Such measurement
of height is still to be considered little more than conventional, as much as it derives from the tables of Vincent (L.H. Vincent, “Le Saint-Sépulchre,” in L.H.
Vincent - F.M. Abel, Jérusalem. Recherches de topographie, d’archéologie et
d’histoire. II. Jérusalem nouvelle, Paris 1914, Pl XII,II and p. 98, n. 2). He chose
as a reference point a measurement from the Survey (C. Warren - C.R. Conder,
The Survey of Western Palestine. Jerusalem, London 1884, p. 283; point 194, by
the Russian hospice; 2470 feet). Unfortunately the presence of some evident errors appears immediately to anyone who tries to use the heights reported. As the
first of examples one can take fig. 43, where the Hadrianic wall identified in the
vicinity of the Sepulchre (no. 1 in the drawing) is assigned a height of [7]53.24 only a centimeter under the level of the floor of the Rotunda! (cf. Vincent). In fig.
45 the Constantinian stylobate of the Rotunda (no. 2 in the drawing) is given the
height of [7]53.52, a figure identical to the base height of fig. 2 and a good 27 cm
higher than the present floor of the Rotunda. In reality this wall is found 44 cm
below the floor level, as is only natural (V. Corbo, Il Santo Sepolcro, I, p. 62).
Correspondingly, in the text (p. 77) heights precise to the centimeter are given but
contrary to reality, even for the Constantinian floors. These errors are probably
due to different points of height zero used in the original drawings (e.g., Corbo, Il
Santo Sepolcro, II, table 19,1.3) and imperfectly recorded from them, errors due
possibly also to having little familiarity with the monument. Naturally the mistake
has repercussions on many other points taken from the same drawing, with notable damage to the progress of the discussion.
Eugenio Alliata, ofm
Translated from Italian by Fr. John Boettcher
730
RECENSIONI
Raby Lulian - Johns Jeremy (edd.), Bayt al-Maqdis. ‘Abd al-Malik’s Jerusalem,
Part One, Oxford University Press, Oxford 1992, 162 pp., numerose figure nel
testo
Il recente rifacimento della cupola esterna con lastre di rame dorato della Qubbat
al-Sakhrah che ha ridato splendore all’insigne monumento islamico di Gerusalemme rende di attualità la raccolta di studi dedicata all’attività edilizia del
califfo omayyade ‘Abd al-Malik.
Dai testi della primitiva tradizione islamica risulta che la dinastia di
Damasco, prima che iniziasse la costruzione della nuova capitale amministrativa di Ramlah nella pianura costiera palestinese, voleva fare della Città Santa
un centro politico-religioso, se non antagonista, certamente sullo stesso piano
della Mecca in mano all’antagonista Ibn Zubayr. La tradizione giudaica riguardante il tempio salomonico assicurava una base sicura ideologica al progetto di
cui certamente fecero parte la Qubbat al-Sakhrah, la moschea di al-Aqsa, il
Haram con le sue porte, gli edifici minori della spianata, i palazzi costruiti
all’esterno del Haram e la riparazione delle strade che giungevano a Gerusalemme. Rivale della Mecca, monumento alla vittoria dell’Islam sull’impero
Bizantino e su quello Sassanide, riflesso terrestre del paradiso, memoriale del
trono di Dio riprendendo e islamizzando la tradizione giudaica (Beit al-Maqdis
da Beit Hamiqdash)? Sono tutte spiegazioni riflesse nei testi ripresi e commentati nell’opera. I lavori iniziarono probabilmente nel 72 della Hijrah (692) al
ritorno di ‘Abd al-Malik dall’Iraq e perciò le costruzioni sono anche da vedere
come una specie di ex-voto per la vittoria su Ibn Zubayr e per la pace ridata
all’Ummah al-Islamiyyah.
Le fonti di origine islamica trattate in quest’opera sono precedute da due
articoli dedicati a ricordi cristiani meno noti riguardanti la spianata del Tempio. Ne risulta che forse la primitiva moschea di al-Aqsa (la moschea vista dal
pellegrino Arculfo e da lui descritta come un edificio piuttosto raffazzonato) fu
costruita sulle rovine del Capitolium da ubicare perciò nella spianata del Tempio e da distinguere dagli edifici templari costruiti da Adriano sull’area del
Calvario e della tomba di Cristo.
Tre studi in chiusura trattano delle porte del Haram, dei capitelli del Haram,
in particolare di quelli sotto la cupola dell’Al-Aqsa che originariamente recavano un’aquila scolpita soppressa e camuffata in un secondo tempo (Wilkinson),
più una rettifica di Hamilton sulla datazione delle colonne e dei capitelli che
originariamente sostenevano le arcate della navata centrale e delle navate della
stessa moschea rimosse nei lavori del 1938-42.
Michele Piccirillo, ofm
731
LIBRI RICEVUTI
Blau Joshua, A Grammar of Biblical Hebrew (Porta Linguarum Orientalium.
Neue Serie 12), Second amended Edition, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden
1993, XII-220 pp., DM 78
Boismard Marie-Émile, Un Évangile pré-johannique, Vol II: Jean 2,13-4,54,
Tome I-II (Études Bibliques. Nouvelle série 24-25), Librairie Lecoffre J.
Gabalda et Cie Editeurs, Paris 1994, 256 e 297 pp., 395 F i due volumi
Carbone Sandro - Rizzi Giovanni, Il libro di Amos. Lettura ebraica, greca e
aramaica (Testi e commenti A2- Sez. “La Parola e la sua tradizione” 2), Edizioni Dehoniane, Bologna 1994, 176 pp., L. 27.000
Carrón Julián, Jesús, el Mesías manifestado. Tradición literaria y trasfondo
judío de Hech 3,19-26 (Studia Semitica Novi Testamenti 2), Editorial Ciudad
Nueva - Fundación San Justino, Madrid 1993, 361 pp.
Chrupcała Lesław Daniel, Aspetti trinitari del regno nel vangelo di Luca. Studio esegetico-teologico di Lc 11,20; 12,32; 17,20-21 (Pontificiun Athenaeum
Antonianun - Pars dissertationis), Romae 1994, 123 pp.
Clifford Richard J., Creation Accounts in the Ancient Near East and in the
Bible (The Catholic Biblical Quarterly. Monograph Series 26), The Catholic
Biblical Association of America, Washington D.C. 1994, XIII-217 pp., $ 9.00
Commission Biblique Pontificale, L’interprétation de la Bible dans l’Eglise,
Les Editions du Cerf, Paris 1994, XXIII-129 pp., 45 F
Corona Raimondo (a cura di), Il Vangelo secondo Marco. Lettura esegeticoesistenziale (Atti della Seconda Settimana Biblica Abruzzese), Ristampa,
L’Aquila 1994, 206 pp.
Corona Raimondo (a cura di), I Salmi. Lettura esegetico-esistenziale (Atti
dell’Ottava Settimana Biblica Abruzzese), L’Aquila 1994, 256 pp.
Corona Raimondo (a cura di), Lettera agli Ebrei. Lettura esegetico-esistenziale (Atti della Nona Settimana Biblica Abruzzese), L’Aquila 1994, 259 pp.
732
LIBRI
RECENSIONI
RICEVUTI
Corona Raimondo (a cura di), Oggetti domestici di Terra Santa al tempo di
Cristo e nel periodo bizantino (Supplementi agli Atti della Nona Settimana
Biblica Abruzzese), L’Aquila 1994, 55 pp.
Course John E., Speech and Response. A Rethorical Analysis of the Introductions to the Speeches of the Book of Job (Chaps. 4-24) (The Catholic Biblical
Quarterly. Monograph Series 25), The Catholic Biblical Association of America, Washington D.C. 1994, VII-184 pp.
Frances W. James - McGovern Patrick E., The Late Bronze Egyptian Garrison
at Beth Shan: A Study of Levels VII and VIII, Vol. 1: Text, XXXII-272 pp.; Vol.
2: illus., 168 figs., 63 pls., The University Museum of Archaeology /
Anthropology, Philadelphia 1994, $ 115.00
García Araya Alfonso, Santiago, el profeta. La tradición profética en la Carta
de Santiago. Extracto de la Tesis Doctoral. Facultad de Teología. Universitad
Pontificia de Salamanca, Salamanca 1994, 57 pp.
García Martínez Florentino - Trebolle Barrera Julio, Los hombres de Qumrán. Literatura, estructura social y concepciones religiosas (Coleción Estructuras y Procesos Serie Religión), Editorial Trotta, Madrid 1993, 278 pp.
Gibson Shimon - Taylor Joan, Beneath the Church of the Holy Sepulchre: The
Archaeology and Early History of Traditional Golgotha (Palestine Exploration
Fund Monograph: Series Maior 1), Palestine Exploration Fund, London 1994,
XX-102 pp., 46 ills., £ 19.50
Giglioli Alberto, L’uomo o il creato? Ktisis in S. Paolo (Studi Biblici 21),
Edizioni Dehoniane, Bologna 1994, 139 pp., L. 15.000
Gill David W. J. - Gempf Conrad (eds.), The Book of Acts in Its Graeco-Roman
Setting (The Book of Acts in Its First Century Setting II), William B. Eerdmans
Publishing Company - The Paternoster Press, Grand Rapids - Carlisle 1994,
XIII-627 pp., $ 37.50
Goldenberg Gideon - Raz Shlomo (eds.), Semitic and Cushitic Studies, Harrassowitz Verlag, Wiesbaden 1994, X-287 pp., 128.00 DM
Grässer Erich, An die Hebräer. 2. Teilband Hebr 7,1-10,18 (EvangelishKatholischer Kommentar zum Neuen Testament XVII/2), Neukirchener Verlag,
Neukirchen-Vluyn 1993, 606 pp., 98.00 DM
Grasso Santi, Gesù e i suoi fratelli. Contributo allo studio della cristologia e dell’antropologia nel Vangelo di Matteo (Associazione Biblica Italiana. Supplementi alla Rivista Biblica 29), Edizioni Dehoniane, Bologna 1993, 307 pp., L. 33.000
LIBRI RICEVUTI
733
Groß Walter - Irsigler Hubert - Seidl Theodor (hrgb.), Text, Methode und
Grammatik. Richter Wolfgang zum 65. Geburtstag, EOS Verlag, St. Ottilien
1991, XII-606 pp., 98.00 DM
Gundry Robert H., Matthew. A Commentary on His Handbook for a Mixed
Church under Persecution, Second Edition, William B. Eerdmans Publishing
Company, Grand Rapids 1994, XLII-685 pp., $ 36.99
Hennessy Anne, The Galilee of Jesus, Editrice Pontificia Università Gregoriana,
Roma 1994, IX-77 pp.
Hoppe Leslie J., The Synagogues and Churches of Ancient Palestine (A Michael
Glazier Book), The Liturgical Press, Collegeville 1994, V-145 pp., $ 11.95
Klauck Hans-Joseph, Alte Welt und neuer Glaube. Beiträge zur Religionsgeschichte, Forschungsgeschichte und Theologie des Neuen Testaments (Novum
Testamentum et Orbis Antiquus 29), Universitätsverlag - Vandenhoeck &
Ruprecht, Freiburg Schweiz - Göttingen 1994, 315 pp.
Légasse Simon, Le procès de Jésus. L’histoire (Lectio Divina, 156), Les
Éditions du Cerf, Paris 1994, 196 pp., 125 F
Long V. Philips, The Art of Biblical History (Foundations of Contemporary
Interpretation 5), Zondervan Publishing House, Grand Rapids 1994, 247 pp.,
$ 17.99
Mitchel Larry A., Hellenistic and Roman Strata: A Study of the Stratigraphy of
Tell Hesban from the 2d Century B.C. to the 4th Century A.D. (Hesban 7),
Andrews University Press, Berrien Springs 1992, XV-189 pp.
Mommer Peter - Thiel Winfried (hrgb.), Altes Testament. Forschung und
Wirkung. Festschrift für H. G. Reventlow, Peter Lang, Bern - Frankfurt a. M. New York - Paris 1994, XII-407 pp.
Muñoz Alfonso Simón, El Mesías y la hija de Sión. Teología de la redención
en Lc 2,29-35 (Studia Semitica Novi Testamenti 3), Editorial Ciudad Nueva Fundación San Justino, Madrid 1994, 479 pp., 3.500 ptas
Paczkowski Miezcysław Celestyn, Gv 1,1-18 nelle’esegesi di S. Basilio
Magno (Pontificium Institutum Orientale - Pars dissertationis), Romae 1994,
336 pp.
Pesenti Graziano, Una vita per la “Parola”: Mons. Gioacchino Scattolon 19011986, Treviso 1993, 205 pp.
734
LIBRI
RECENSIONI
RICEVUTI
Puech Émile, La croyance des Esséniens en la vie future: immortalité,
résurrection, vie éternelle? Histoire d’une croyance dans le Judaïsme ancien,
I: La résurrection des morts et le contexte scripturaire; II: Les données
qumraniennes et classiques (Études Bibliques. Nouvelle série 22), Librairie
Lecoffre J. Gabalda et Cie Editeurs, Paris 1993, 956 pp., 560 F i due volumi
Richter Wolfgang, Biblia Hebraica transcripta, das ist das ganze Alte
Testament transkribiert, mit Satzeinleitungen versehen und durch die Version
tiberisch-masoretischer Autoritäten bereichert auf sie gründet. Jeremia
(Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament, 33.8), EOS Verlag, St.
Ottilien, 1993, 497 pp., DM 58
Richter Wolfgang, Biblia Hebraica transcripta, das ist das ganze Alte
Testament transkribiert, mit Satzeinleitungen versehen und durch die Version
tiberisch-masoretischer Autoritäten bereichert auf sie gründet. Ezechiel
(Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament, 33.9), EOS Verlag, St.
Ottilien, 1993, 433 pp., DM 48
Richter Wolfgang, Biblia Hebraica transcripta, das ist das ganze Alte
Testament transkribiert, mit Satzeinleitungen versehen und durch die Version
tiberisch-masoretischer Autoritäten bereichert auf sie gründet. Kleine
Propheten (Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament, 33.10), EOS
Verlag, St. Ottilien, 1993, 589 pp., DM 78
Richter Wolfgang, Biblia Hebraica transcripta, das ist das ganze Alte
Testament transkribiert, mit Satzeinleitungen versehen und durch die Version
tiberisch-masoretischer Autoritäten bereichert auf sie gründet. Psalmen
(Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament, 33.11), EOS Verlag, St.
Ottilien, 1993, 497 pp., DM 58
Richter Wolfgang, Biblia Hebraica transcripta, das ist das ganze Alte
Testament transkribiert, mit Satzeinleitungen versehen und durch die Version
tiberisch-masoretischer Autoritäten bereichert auf sie gründet. Ijob, Sprüche
(Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament, 33.12), EOS Verlag, St.
Ottilien, 1993; 389 pp., DM 48
Richter Wolfgang, Biblia Hebraica transcripta, das ist das ganze Alte
Testament transkribiert, mit Satzeinleitungen versehen und durch die Version
tiberisch-masoretischer Autoritäten bereichert auf sie gründet. Meghilloth
(Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament, 33.13), EOS Verlag, St.
Ottilien, 1993, 389 pp., DM 48
Richter Wolfgang, Biblia Hebraica transcripta, das ist das ganze Alte
Testament transkribiert, mit Satzeinleitungen versehen und durch die Version
tiberisch-masoretischer Autoritäten bereichert auf sie gründet. 1 und 2 Chronik
(Arbeiten zu Text und Sprache im Alten Testament, 33.15), EOS Verlag, St.
Ottilien, 1993, 491 pp., DM 68
LIBRI RICEVUTI
735
Sakala LaBianca Øystein, Sedentarization and Nomadization: Food System
Cycles at Hesban and Vicinity in Transjordan (Hesban 1), Andrews University
Press, Berrien Springs 1990, XX-353 pp.
Serra Aristide, Nato da donna… Ricerche bibliche su Maria di Nazaret (19891992) (Pubblicazioni a cura del Centro Studi Ecumenici Giovanni XXIII Priorato S. Egidio), Cernusco sul Naviglio 1992, V-405 pp., L. 50.000
Spreafico Ambrogio, I Profeti. Introduzione e saggi di lettura (Lettura pastorale della Bibbia, A 7), Edizioni Dehoniane, Bologna 1994, 139 pp., L. 16.000
Tafi Angelo, Un uomo di Dio. Una vita per la “Parola”: Mons. Gioacchino
Scattolon 1901-1986, Calosci, Treviso 1990, 103 pp.
Tarocchi Stefano, Il Dio longanime. La longanimità nell’epistolario paolino
(ABI Supplementi alla Rivista Biblica 28), Edizioni Dehoniane, Bologna 1993,
176 pp., L. 24.000
Taylor Justin, Les Actes des deux Apôtres avec un excursus par M.-É. Boismard,
V: Commentaire historique (Act. 9,1-18,22) (Études Bibliques. Nouvelle série 23),
Librairie Lecoffre J. Gabalda et Cie Editeurs, Paris 1994, XXII-397 pp., 210 F
Teani Maurizio, Corporeità e risurrezione. L’interpretazione di 1 Corinti 15,3549 nel Novecento (Aloisiana 24), Gregoriana University Press - Morcelliana,
Roma 1994, 335 pp., L. 50.000
Testa N. Emanuele, Nomi personali semitici biblici angelici profani. Studio
filologico e comparativo, Edizioni Porziuncola, S. Maria degli Angeli - Assisi
1994, XXIV-584 pp., L. 40.000
Tsafrir Yoram (ed.), Ancient Churches Revealed, Israel Exploration Society Biblical Archaeology Society, Jerusalem - Washington D.C. 1993, XI-358 pp.,
ill., 24 pls., 1 map
Tsafrir Yoram - Di Segni Leah, Green Judith with contribution by Roll Israel
and Tsuk Tsvika, Tabula Imperii Romani, Iudaea - Palestina. Eretz Israel in
the Hellenistic, Roman and Byzantine Periods. Maps and Gazetteer
(Publications of the Israel Academy of Sciences and Humanities. Section of
Humanities), Jerusalem 1994, X-264 pp., 5 maps
Weigl Michael, Zefanja und das “Israel der Armen”. Eine Untersuchung zur
Theologie des Buches Zefanja (Österreichisches Biblische Studien 13),
Österreichisches Katholisches Bibelwerk, Klosterneuburg 1994, 329 pp.
736
LIBRI
RECENSIONI
RICEVUTI
Winter Bruce W. - Clarke Andrew D. (eds.), The Book of Acts in Its Ancient
Literary Setting (The Book of Acts in Its First Century Setting I), William B.
Eerdmans Publishing Company - The Paternoster Press, Grand Rapids - Carlisle
1993, XII-479 pp., $ 37.50
Wolf George, Studies in the Hebrew Bible and Early Rabbinic Judaism, New
York 1994, VII-183 pp.
Zgaier Ali, Yerca Village and Its Surroundings. Druze, Archaeological and
Natural Sites in the Village and Its Surroundings, Nesher 1993, 330 pp.