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Ed iz io ni T​ ea se r
LA B
Edoardo Montolli
I PIÙ GRANDI
SCANDALI
DEI VIP
TRADIMENTI - ABUSI SESSUALI
SEX TAPE - DELITTI
E d izio ni ​Teaser LAB
I più grandi scandali dei vip
di Edoardo Montolli
© Edizioni ​Teaser LAB Srl 2015
Tutti i diritti riservati
Edizioni ​Teaser LAB Srl
Via Privata Martino Lutero 6
20126 Milano MI
Grafica: Davide Forleo
Stampa: Stampa Reggiani SpA
Edoardo Montolli
I PIÙ GRANDI
SCANDALI
DEI VIP
TRADIMENTI - ABUSI SESSUALI
SEX TAPE - DELITTI
Il potere è l’afrodisiaco supremo
Henry Kissinger
Quanto più grande è il potere, tanto più pericoloso è il suo
abuso.
Edmund Burke
IL CASO BILL COSBY
La maledizione delle sitcom
Quando il dottor Cliff Robinson mostrò la sua faccia di
pongo per la prima volta sui nostri teleschermi, l’Italia aveva
già fatto indigestione di sitcom. Sulle tv private da anni ne
imperversavano di ogni tipo. Da successi incredibili come
Happy Days e Il mio amico Arnold, a situation comedy
che non lasciarono mai il segno. All’epoca erano tutti
semplicemente qualificati come telefilm: da La famiglia
Bradford a I Jefferson, da Mork e Mindy a Vita da Strega,
fino a Love Boat, Fantasilandia, Sanford & Son. E tanti,
troppi altri. Alcuni nascevano come spin-off di sitcom
di grido per diventare serie autonome. Se funzionavano
andavano avanti, altrimenti si chiudeva bottega.
Ciò che però all’epoca nessuno poteva immaginare,
almeno in Italia, era che la stragrande maggioranza
dei protagonisti di quei telefilm tanto amati avrebbero
terminato la carriera da attori proprio con la chiusura
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della produzione: schiavi dei personaggi che ne avevano
“bruciato” i ruoli e financo le identità, non sarebbero più
riusciti a trovare altro. A parte qualche eccezione, certo.
Ron Howard, il Richie Cunningham di Happy Days,
divenne in effetti uno dei più grandi registi di Hollywood.
Tom Bosley, che nella serie ne interpretava il padre, ebbe
successivamente ruoli di rilievo televisivi ne La signora in
giallo e ne Le inchieste di Padre Dowling. Robin Williams,
lasciato il ruolo dell’alieno Mork, scalò le vette del cinema
fino a diventarne uno dei più celebrati.
Ma, a dirla tutta, furono decisamente di più quelli che si
persero. Specie chi aveva goduto del maggior successo. C’è
chi rimase ai margini del cinema e della tv, ritagliandosi
piccole parti in produzioni minori. Chi, la maggior parte,
cambiò radicalmente lavoro. Chi ancora, addirittura,
perse tutto e finì nei guai con la legge.
Ad alcuni, passato il periodo degli allori, andò peggio.
Bob Crane, ad esempio, nella serie Gli eroi di Hogan,
interpretava il colonnello Robert Hogan. Noi la vedemmo
tardi, nei primi anni 80, perché la CBS terminò di produrla
nel 1971, dopo sei anni ininterrotti. Trattava le vicende di
un gruppo di prigionieri di guerra nei campi tedeschi dello
Stalag 13 durante la seconda guerra mondiale. Un successo
planetario che non si ripeté.
Crane virò sul teatro. Ma soprattutto, scoperti i primi
videoregistratori che proprio un amico aveva importato in
America, coltivò la propria passione riprendendo donne
nude e i suoi rapporti sessuali, passione che diventò
presto ossessione da vera e propria sessodipendenza,
almeno così l’ha raccontata il regista Paul Schrader nel
film Auto Focus del 2002. Il figlio di primo letto, Robert,
di professione scrittore, ha pubblicato ad aprile 2015,
con la collaborazione di Christopher Fryer il libro Crane:
Sex, Celebrity, and My Father’s Unsolved Murder (Crane:
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Sesso, Celebrity, e mio Padre, un omicidio irrisolto), nel
quale ha squarciato il velo sulla doppia vita del padre.
«Non ci sono state le droghe – racconta al Daily Mail
- non c’era alcol. Non c’erano abusi fisici né pazzia, non ci
fu schizofrenia né tentativi di suicidio». C’era solo – fuori
di casa- un adultero impenitente ossessionato dal sesso,
che sedusse decine di donne, impegnandole in rapporti a
tre e in orge, tutto rigorosamente filmato in videocassetta
e ripreso in Polaroid.
Di queste stravaganze sessuali Robert venne a
conoscenza per caso, quando vide di persona il padre
impegnato in un rapporto con una donna. «Per quanto
avesse rifiutato di farlo nei film, quella donna fece davanti
ai miei occhi impassibili di adolescente quasi tutto.
Si penserà che sia imbarazzante che un padre parli di
queste cose con un figlio quasi maggiorenne, ma ciò che
mi colpisce, se torno indietro con la memoria, è ciò che
accadeva nel suo camerino».
Crane trascorreva infatti il tempo libero a sviluppare
centinaia di foto di attrici e ragazze di Playboy che
passavano sul set. Si diceva addirittura che il set di
Hogan fosse il luogo per mettersi sul mercato, specie se
una era giovane, formosa e con grandi capacità seduttive.
L’attore aveva pure allestito una camera oscura portatile
in una camera da letto nel suo appartamento in modo da
sviluppare in fretta e in maniera discreta le foto. Quando
si separò, nel 1970, da Anne Terzian, madre di Robert e
di altri tre figli, il suo stile di vita vizioso era già alle stelle.
Per Robert fu la fine di un sogno. Crane sposò Patti
Olson, nome d’arte Sigrid Valdis, che ne Gli eroi di Hogan
interpretava Fraulein Hilda. Ma non cambiò abitudini,
che nemmeno cessarono, anzi si moltiplicarono fino ad
assorbirlo completamente, mentre il declino artistico
proseguiva. Un declino probabilmente accentuato dal
fatto che le voci sulle sue passioni erotiche avevano fatto
il giro di tv e produttori.
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Il 29 giugno 1978 Victoria Berry, che con lui prendeva
parte al programma Beginner’s Luck uscì urlando
dall’alloggio di Crane, al 132A dei Winfield Apartments
a Scottsdale, Arizona. Il cadavere della star era disteso
sul fianco destro su un letto a baldacchino, con indosso
solo un paio di boxer e un orologio da polso. Aveva un
cavo elettrico stretto intorno al collo e un cuscino dietro la
testa, che presentava due ferite parallele. Sul soffitto, sulla
parete e sulla lampada del comodino c’erano schizzi di
sangue. Sulla coscia sinistra c’erano macchie che il medico
legale interpretò come sperma o lubrificante sessuale.
Non appena Robert fu avvertito del delitto, pensò subito
all’assassino come ad un fidanzato o ad un marito geloso.
Invece il sospettato numero uno fu John Henry Carpenter, il
venditore di impianti di videoregistrazione che aveva fatto
scoprire a Crane un nuovo mondo, diventandone grande
amico. Forse troppo. Ricorda Robert che il padre voleva
troncare i loro rapporti, perché Carpenter, bisessuale, si
era forse innamorato di lui. Secondo la polizia si sarebbe
così potuto comportare come un amante geloso.
Dalla scena del crimine mancavano un album di
polaroid di donne nude e un treppiede, che fu ipotizzato
fosse l’arma del delitto. Carpenter venne assolto. Ma
la sua vicenda personale ebbe ancora eco. Patti Olson,
rammenta Robert, ottenne da Crane di cambiare le
proprie volontà testamentarie, in modo che i figli della
donna ne diventassero gli unici eredi. Solo che Crane non
poteva esserne il padre: «Certo, lei era rimasta incinta.
Solo che papà – dice ancora al Daily Mail- aveva subito
una vasectomia nel 1968, quando ancora era sposato con
mamma. Questo perché non voleva più avere bambini
per potersi dedicare a tutte le sue donne» senza avere
problemi. Robert rammenta poi come Patti, per far soldi,
decise di mettere in vendita le foto della scena del crimine,
copia della relazione dell’autopsia e cinquanta tra foto
e video porno in cui Crane era il protagonista insieme a
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svariate donne. Avrebbe pure commercializzato t-shirt con
l’immagine dell’attore impegnato in un rapporto sessuale
con una ragazza.
Quando anche Patti morì, Robert mise all’asta la giacca
mitica che il padre indossava ne Gli eroi di Hogan. Fu
venduta a 32mila euro. L’omicidio di Crane è tuttora
irrisolto.
Ma la sua parabola discendente non costituisce
un’eccezione.
Il mio amico Arnold, giunto da noi inizialmente
come Harlem contro Manhattan, rappresentò il più
clamoroso exploit internazionale di una serie anni 7080. E anche in questo caso il declino dei protagonisti
principali fu inesorabile. La sitcom raccontava la storia
di Arnold e Willis, due bimbi neri di Harlem adottati
da un ricco vedovo bianco di Manhattan, padre già di
una bella e docile ragazza, Kimberly. Tra risate finte e
trame divertenti, non mancavano richiami al senso della
famiglia, all’uguaglianza, alla parità di sessi e razza. Un
sottofondo morale che, sostanzialmente, caratterizzava
tutte queste produzioni.
Arnold, protagonista assoluto, era al secolo Gary Wayne
Coleman. Arrivò a guadagnare fino a 100mila dollari ad
episodio. Quando la serie chiuse, la sua vita cambiò. E per
la seconda volta. Adottato da un operaio e da un’infermiera,
da piccolo aveva subito due trapianti di reni, si sottoponeva
a dialisi quotidiana. A causa della malattia di cui soffriva
la sua crescita si fermò a un metro e 42 centimetri. Solo
molti anni più tardi si sarebbe scoperto che, nonostante la
patologia e la giovane età, era costretto a stare lunghe ore
sul set a sopportare i dolori. Tanto che, non appena poté,
non ne volle più sapere. Solo che per il mondo Gary era
semplicemente Arnold, quello del tormentone «Che cavolo
stai dicendo Willis?».
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Impossibile vederlo in qualche altro ruolo impegnativo.
Trovò poco, qualche cameo. Nel frattempo la vita privata
lo tormentava: nel 1989 citò in giudizio – e vinse la causa
- i genitori adottivi per avergli portato via gran parte dei
suoi soldi. L’epoca del successo era così distante. Nel 1993
ammise in un’intervista televisiva di aver tentato due volte
il suicidio ingoiando pasticche. Cinque anni più tardi
lavorava ormai come guardia in un centro commerciale
della California. Tracy Fields, autista di pullman di Los
Angeles, lo riconobbe e gli chiese un autografo. Scocciato,
Gary rifiutò. E l’uomo, vedendolo a lavorare lì, cominciò
a deriderlo. Gary reagì. Lo colpì e fu arrestato. Le manette
lo raggiunsero ancora con l’accusa di violenza domestiche.
Morì il 28 maggio 2010 a 42 anni per via di un incidente
casalingo in cui aveva battuto la testa. Ci fu chi ipotizzò
l’omicidio, come il tabloid The Globe, ma l’ospedale in
cui era morto rilasciò una nota in cui sostenne la caduta
accidentale dell’ex divo.
Una fine malinconica. E non l’unica.
Prima di lui se n’era andata Kimberly, al secolo Dana
Plato, anche lei troppo famosa per trovare altri ruoli
importanti. Alla chiusura della serie ebbe spazio solo in
b-movie e pellicole softcore. Posò nuda per Playboy, ma
fu rovinata dal suo commercialista, che, forte di procure
fattele firmare, scappò portandole via ogni avere. Si separò
e perse la custodia del figlio. Ebbe problemi di alcol e
droga e la fama la distrusse letteralmente. Non poteva
neppure delinquere per mantenersi. Il 28 febbraio 1991
con una pistola giocattolo tentò infatti una rapina in una
videoteca. E l’impiegato chiamò la polizia: «Sono stato
appena rapinato da Kimberly de Il mio amico Arnold».
Morì per un’overdose da farmaci l’8 maggio 1999. Il
giorno prima era stata al programma The Howard Stern
Show, raccontando dei suoi problemi con la legge e la
droga, e assicurando di esserne uscita da dieci anni, tanto
da poterlo dimostrare con un test in diretta.
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Undici anni più tardi il figlio Tyler Lambert si sarebbe
suicidato sparandosi un colpo di fucile.
Come Arnold e Kimberly, pure Willis, ossia l’attore Todd
Bridges, pagò caro il successo della sitcom. Rimase presto
disoccupato. Divenne cocainomane e rischiò un’overdose
da crack. Nel 1988 fu processato e assolto con l’accusa di
tentato omicidio nei confronti di uno spacciatore. Fu allora
che il suo avvocato ne narrò l’infanzia, caratterizzata dagli
abusi sessuali subiti e l’arrivo alla droga dall’industria
dell’intrattenimento tesa a sfruttare i ragazzi.
Sembrava destinato al peggio, quando il nuovo
matrimonio lo vide riprendersi, anche come attore, grazie
soprattutto ai reality show, sempre in cerca di vecchie
glorie da rilanciare.
Con Charlotte Rae, ossia la governante Edna Garrett
della serie tv, è rimasto l’ultimo superstite della sitcom, i
cui fasti e il cui declino ebbe modo di raccontare in un film
verità insieme a Gary Coleman prima che questi morisse.
Scrisse anche un libro dal titolo emblematico: Uccidere
Willis. Ossia quell’identità fittizia che l’aveva reso celebre
per poi gettarlo nella polvere.
Come loro, altri, per via del troppo successo e
dell’improvviso declino, persero la testa e finirono nel
baratro. Ma, appunto, quando arrivò il dottor Cliff
Robinson sugli schermi televisivi italiani, nonostante
l’indigestione di sitcom che avevamo fatto, tutti
presentarono la serie come qualcosa di rivoluzionario.
Dissero che l’attore che lo interpretava, Bill Cosby, era
il più pagato delle tv americane. Il più simpatico, il più
divertente.
Nessuno ci aveva detto che, in effetti, a differenza di tutti
gli altri, lui la testa non l’aveva persa dopo un improvviso
successo seguito dal declino. Ma molti, molti anni prima.
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Quando, esattamente non si sa. Ma i racconti delle donne
che ora lo accusano di averle stuprate risalgono addirittura
ai primi anni 60.
Il potere
Era il 1986 e I Robinson facevano il loro ingresso di
prepotenza sui teleschermi italiani, a due anni dall’esordio
negli Stati Uniti. La produzione sarebbe proseguita
fino al 1992, le repliche fino ad oggi. La sitcom virava
sui prodromi del politically correct: le avventure di
una famiglia di colore borghese non già perché si fosse
arricchita col tempo in una sorta di scalata sociale - tipo
I Jefferson - ma perché già economicamente e socialmente
stabile da più di una generazione. I protagonisti erano
tanti, ma, come nelle precedenti serie, a parte qualche
eccezione, anche loro al termine della produzione smisero
di riscuotere popolarità internazionale in altri ruoli. C’era
Phylicia Rashad nei panni di Claire, avvocato e moglie di
Cliff Robinson, ginecologo, che avrebbe lavorato ancora
in altre sitcom con Bill Cosby. C’era Lisa Bonet, presto
interprete a fianco di un memorabile Mickey Rourke in
Angel Heart- Ascensore per l’inferno, con cui si scatena in
una scena di sesso molto, ma molto hot, tanto da essere
tagliata nel montaggio finale. Avrà altre parti in qualche
film, come in Nemico Pubblico, con Will Smith. E poi
c’era, in quattro episodi, l’esordio di un giovanissimo
Adam Sandler, uno dei migliori amici di Theo Robinson,
figlio del dottor Cliff.
I Robinson risulterà per cinque anni la più seguita
d’America. Ed è soprattutto William Henry “Bill” Cosby,
che la produce, la scrive e la interpreta, a emergere, tanto
da diventare il personaggio televisivo più pagato a cavallo
tra gli anni 80 e 90. Per noi era un volto più o meno
nuovo, ma in America era già piuttosto noto anche prima.
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Figlio di una cameriera e di un marinaio, comincia a
recitare da ragazzino. Fa l’infermiere in marina e ottiene
un diploma per corrispondenza. Agli inizi degli anni 60
si esibisce come cabarettista e ottiene i primi successi.
Gira i palcoscenici di New York, Las Vegas, Chicago, San
Francisco, Washington. Nel 1963 la fama è tale che lo
chiamano alla NBC per il The Tonight Show. La Warner
Bros gli produce il primo disco comico. Con Robert Culp
interpreta la serie Le spie ed è il primo coprotagonista
afroamericano che recita in una serie tv drammatica.
Grazie a questa vince quattro Emmy Awards come miglior
attore protagonista. Nel 1968 si può permette di rifiutare
un contratto di cinque anni della Warner Bros, perché
vuol farsi una sua casa di produzione. Il The Bill Cosby
Show va in scena sulla NBC. Poi tocca al cartone animato
Fat Albert and the Cosby Kids, arrivato in Italia come
Albertone. Produce film insieme a Sidney Poitier. Prima
ancora del The Cosby Show, ossia I Robinson, Bill Cosby
è dunque negli Stati Uniti un uomo di enorme successo,
ricco, addirittura simbolo della lotta al razzismo. E di
cultura, dato che nel 1976 ha ottenuto un dottorato
all’università del Massachussetts. Appassionato di jazz,
diventa amico di Hugh Hefner, creatore dell’impero di
Playboy. Dal 1979 presiede il Playboy Jazz Festival e lo si
vede suonare il basso con Jerry Lewis e Sammy Davis Jr.
Sarà certo I Robinson a dargli notorietà planetaria, e
non a caso nel 2002 lo scrittore Molefi Kete Asante lo
inserirà nel suo libro sui cento più importanti personaggi
afroamericani. Ma la fama c’era già eccome. Così come
i soldi, a pioggia, il rispetto, la considerazione sociale. Il
che, di riflesso, significa anche altro: il potere.
Un potere che durava dai primi anni sessanta. Un potere
“simpatico”, che godeva dei consensi unanimi della platea
americana, che lo vide impegnato in sitcom fino al 2000,
a fianco, ancora, di Phylicia Rashad. E pure impegnato
per qualche tempo nella sostituzione di David Letterman,
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un monumento della tv americana, nello show omonimo,
quando il conduttore fu sottoposto ad un’operazione di
bypass coronarico.
E si sa che il potere affascina. Ma c’è anche un altro
lato della medaglia. Nel luglio del 1997 l’attore testimoniò
infatti di essere stato costretto a pagare centomila dollari
ad una sua amante, Shawn Upshaw, con cui aveva avuto
una breve relazione a Las Vegas negli anni 70. Il tutto
per non far emergere la storia. La donna disse poi di aver
avuto anche una figlia da lui, Autumn Jackson. Ma il
comico negò. La Jackson fu successivamente condannata
a 26 mesi di carcere per tentata estorsione verso Cosby:
un ricatto per qualcosa come 40 milioni di dollari.
L’America era tutta con lui, figuriamoci dopo che, ad
un’icona del genere, era stato ammazzato un figlio, Ennis,
proprio nel 1997, in seguito ad una rapina.
Solo che la medaglia, in questo caso, ha anche una terza
faccia, più oscura.
«La gente spesso ora mi dice: “Beh, perché non lo
avevi denunciato alla polizia?” Perché nel 2005, quando
lo denunciò Andrea Constand, Bill Cosby aveva ancora
il controllo dei media. Nel 2015, abbiamo i mezzi di
comunicazione sociale. Non possiamo sparire. È tutto
online e non potrà mai essere cancellato».
Sono le parole di Tamara Verde, una delle 35 donne che
oggi accusano Bill Cosby di averle violentate.
La confessione
La deposizione è rimasta segreta per dieci anni. Si
trattava della denuncia per un episodio di violenza sessuale
avvenuto quasi trent’anni prima, nel 1976. A denunciarlo
fu certa Andrea Constand, ex direttrice della squadra di
basket della Temple University di Philadelphia, che spiegò
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come fosse stata costretta a far sesso con l’attore dopo
che questi le aveva fatto prendere una pillola che le aveva
annebbiato la mente. La vicenda si sarebbe poi conclusa
con un patteggiamento e una clausola di riservatezza sulle
deposizione di Cosby. Ma oggi, anche sulla scia delle
continue e simili querele presentate contro il papà dei
Robinson, quelle carte sono diventate di dominio pubblico.
Ovviamente contro il parere fortemente contrario dei suoi
legali.
L’anno è il 2005 e il colloquio si svolge al Rittenhouse
Hotel a Philadelphia.
Presenti Cosby e Dolores Troiani, avvocato di Andrea
Constand. Ed è allora che l’uomo ammette di essersi fatto
prescrivere sette ricette di Quaalude per il mal di schiena.
Ma di volerlo usare con una donna. Il Quaalude, per
intendersi, è il nome di un farmaco a base di metaqualone,
i cui effetti erano simili ad un barbiturico: con una
forte azione sedativo-ipnotica per l’insonnia e come
miorilassante. Presto venne però anche usato come droga
per sballare e negli anni 80 fu ritirato dal commercio.
Per capirne la potenza basti pensare che Anthony Kiedis,
cantante dei Red Hot Chili Peppers, scrisse nella sua
autobiografia di averlo usato quando si trovava senza
eroina.
Quando l’avvocato Troiani chiede all’attore se abbia
mai dato il Quaalude ad altre persone, lui risponde di sì.
E aggiunge: «Incontrai Ms T (sul verbale viene preservato
l’anonimato) a Las Vegas. Lei poi venne da me nel camerino.
Le diedi il Quaalude. E facemmo sesso».
Nella sua deposizione parla del rapporto sessuale avuto
con Andrea Constand e ripete di averlo vissuto come
consensuale: «L’ho accompagnata fuori. Non sembrava
arrabbiata. Non mi disse di non farlo mai più. Non
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camminava con l’atteggiamento di una vittima. E lo dico
perché penso di essere un lettore abbastanza preparato
delle persone e delle loro emozioni in queste dinamiche
sessuali, romantiche, o come volete chiamarle».
Il legale chiede allora se abbia mai parlato con qualcuno
del rapporto con Andrea.
La risposta è secca: «Io sono un uomo, l’unico modo
per sapere con chi ho fatto sesso è chiederlo alla persona
alla persona con cui l’ho fatto».
D. Cosa vuol dire?
R. Quando ero ragazzo era una frase che le ragazze
ripetevano: ti prego di non dirlo a nessuno. Ma, quando sono
cresciuto ho imparato che quelle ragazze sono le prime ad
andare a dire in giro ciò che hanno fatto.
C’è altro. L’avvocato domanda di Beth Ferrier, altra
donna che lo ha accusato di averla drogata a metà degli
anni 80. La Ferrier sosteneva che, dopo aver avuto una
breve relazione con l’attore, quando la storia tra loro era
ormai finita, lo incontrò a Denver, durante uno spettacolo.
Lui le diede un caffè. Lei si sentì stordita. E si risvegliò in
macchina coi vestiti stropicciati e il reggiseno slacciato.
D. Qual è stato il suo rapporto con lei?
R. Abbiamo fatto sesso e abbiamo fatto cene e rendezvous.
D. Cosa intende per rendez-vous?
A. Rendez-vous è quando chiami qualcuno e gli dici: vuoi
fare così e così, loro accettano e si sta insieme.
D. C’è qualche contatto sessuale associato al rendezvous?
R. Con Beth c’era ogni volta.
D. Dove si è verificato questo rendez-vous?
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R. Non ricordo.
D. Lei conosce le città?
A. Certamente a Denver.
D. Lei sa se uno dei rendez-vous ci sia stato a New York
City?
R. Non ricordo.
D. Come è andata a finire con lei?
A. Ho smesso di chiamarla per i rendez-vous.
D. Ha smesso?
R. Sì.
D. Perché?
R. Ho lasciato perdere.
D. Che cosa vuol dire?
A. Che non volevo più vederla.
Cosby risponde scocciato. C’è anche qualche discussione
col suo legale. Poi si riprende. E l’avvocato Troiani insiste.
D. Lei ha detto solo che ha “lasciato perdere”. Che cosa
significa?
A. Che volevo cambiare.
D. Aveva deciso di smettere di avere relazioni
extraconiugali?
R. No.
L’avvocato va oltre. E chiede conto di un episodio: di
quando, dopo una cena a Manhattan, Beth Ferrier andò
a cena da Cosby con molte altre persone. Per poi restare
da sola con lui.
D. La signora sostiene che rimase con lei. E che lei
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cominciò a parlarle della sua carriera, per poi chiederle
notizie del padre morto di cancro. Ricorda qualcosa?
R. Sì.
D. Si ricorda che parlò di questo argomento?
R. Sì.
D. Si ricorda di cos’altro avete parlato?
R. Questo può bastare.
D. Le fece quelle domande perché voleva avere rapporti
sessuali con lei?
R. Sì.
Si passa al capitolo Quaalude. Cosby ammette di aver
chiesto sette prescrizioni al medico nell’arco di due o tre
anni, a partire dal 1970. Ricorda che disse al medico che
voleva curare il mal di schiena, ma immaginava che il
dottore avesse capito che non lo avrebbe usato per quello.
D. Ha testimoniato che il medico sapeva che questi
medicinali non li prendeva lei. Vorrei che spiegasse. Come
faceva a saperlo o perché dice che lui lo sapeva?
A. Perché all’epoca accadeva questo: il Quaalude era la
droga che i ragazzi usavano nelle feste. E c’erano momenti
in cui avrei voluto averlo per ogni evenienza.
Ma lui, racconta, il Quaalude non lo ha mai preso
perché gli faceva venir sonno. Lo usava solo nei rapporti
con le donne. Aggiunge che, con l’eccezione di qualche
birra, non beve alcolici dall’età di 16 anni.
D. Perché non hai mai preso il Quaalude?
R. Lo usavo.
D. Per cosa?
A. Per lo stesso motivo per il quale una persona direbbe
“facciamoci un drink”.
Cosby sembra voler giocare. Ma è irritato. L’avvocato
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Troiani passa a chiedergli di Teresa Serignese, che ha
parlato di un rapporto sessuale avvenuto dopo che Cosby
le ha propinato il Quaalude a Las Vegas. Interviene anche
Patrick O’Connor, legale del comico.
D. Ora, siete d’accordo con me se dico che l’incontro
avvenne quando Teresa aveva 19 anni e lei più di 30 e
quasi 40?
O’CONNOR: Beh, era il ​1976.
R. Sono nato nel 1937.
D. È d’accordo con me che lei aveva intorno ai 39, 40
anni?
R. Faccia un po’ i conti.
Quando si torna a parlare di Andrea Constand, Cosby
sbotta. Dice di essere stanco di rispondere. Poi spiega che
non voleva che la moglie Camille ne scoprisse le relazioni
extraconiugali. Per questo aveva deciso di pagare gli
studi di Andrea con un assegno e non attraverso una sua
fondazione che elargiva borse di studio.
R. È la famiglia. Mia moglie non sapeva che le pagavo gli
studi perché con Andrea avevo avuto rapporti sessuali e che
Andrea era molto, molto arrabbiata...
D. Come avrebbe spiegato a sua moglie che ne pagava
personalmente gli studi invece di usare la fondazione?
R. Dicendo che c’era una persona che volevo aiutare.
Ancora su Teresa Serignese. La donna sostenne di
essere stata pagata dal suo agente William Morris Agency,
che sarebbe poi stato rimborsato da Cosby. Il tutto dopo
l’episodio di Las Vegas.
D. I soldi provenivano dal suo conto personale o dalla
sua attività professionale?
R. Dal mio conto personale.
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D. Allora, lo scopo era di quello di mascherare…
R. Sì.
D. Devo finire la mia domanda. Lo scopo era quello di
mascherare che quel denaro era per Teresa?
R. Sì.
D. E la ragione stava nel fatto che non voleva che lo
venisse a sapere…
A. …la signora Cosby.
La deposizione del 2005 è stata infine ottenuta dal
New York Times. L’immagine di Cosby è letteralmente
offuscata, con una ventina di denunce che gli piovono
sulle spalle. Poi ecco la copertina il New York Magazine.
E davvero, per il 78enne papà dei Robinson, il peggiore
dei declini sembra essere giunto.
La copertina del New York Magazine
Sei mesi di lavoro. Poi le presunte vittime di Cosby
posano tutte insieme sulla cover del New York Magazine.
Un’accusa a mezzo stampa senza precedenti. Una serie di
racconti agghiaccianti anche a cinquant’anni di distanza
dai fatti. Come dire: il dottor Cliff Robinson è sempre
stato così, molto prima che il suo viso sempre allegro
facesse il giro del mondo.
Trentacinque donne hanno deciso di uscire allo scoperto
e di mettersi in gioco, storie raccolte meticolosamente dai
cronisti del magazine, capaci anche di convincerle a farsi
fotografare, vestite tutte di scuro. Come fossero a lutto. E
vestite tutte di bianco quando intervistate singolarmente:
a indicare, evidentemente, come la loro purezza sia
stata stroncata dalla violenza. Messaggi forti, anche
cromaticamente, che non danno da pensare ad altro. I
giornalisti spiegano che è stato proprio il numero alto
delle prime aderenti a convincere le successive, confortate
dal non essere sole a voler parlare di ciò che accadde loro.
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«Non ho più paura» afferma Chelan Lasha, fattasi avanti
alla fine del 2014 per rammentare come Cosby l’avesse
drogata quando lei aveva 17 anni. «Ora mi sento più forte
di lui». Il gruppo ha un’età che varia dai 20 agli 80 anni.
Sembra davvero incredibile.
Non basta. Sulla copertina compare anche una sedia
vuota: segno che, va da sé, che ci sono in giro vittime
che ancora non hanno avuto il coraggio di esporsi. Lo
raccontano proprio alcune di loro.
Sei rilasciano anche dichiarazioni in video. Ed è
probabilmente la mazzata finale.
Fino ad allora, infatti, le voci che si inseguivano da
qualche mese sulle denunce a pioggia sull’attore, non
avevano influito più di tanto sull’opinione pubblica:
durante gli spettacoli Cosby veniva accolto da standing
ovation. E in pochi protestavano. Giusto qualcuno con
un cartello davanti al teatro e la scritta: “Lo stupro non è
uno scherzo”.
Noi, drogate e violentate
La prima si chiama Sunnita Welles, oggi ha 66 anni,
ex attrice e cantante. La violenza l’avrebbe subita a metà
degli anni 60. Conosceva Cosby fin da bimba e a 17 anni
andò a vederlo sul set de Le spie. Ricorda che l’attore
la invitò in un jazz club, ordinò da bere, ma poco dopo
lei cominciò a sentirsi male e a vedere tutto sfuocato. Si
svegliò in un appartamento, nuda e sola. Cosby le disse
poi che aveva bevuto troppo champagne e che per questo
l’aveva portata in quella casa per farla dormire. Strano,
perché Sunnita rammentava di aver bevuto solo una Coca
Cola, ma lo prese in parola. Tempo più tardi fu invitata
dall’attore ad uno spettacolo di magia. Stessa scena:
ricordi della serata scomparsi, risveglio nuda in un letto.
Non lo rivide mai più. Si è fatta avanti nel marzo 2015:
25
«A casa nemmeno mia madre, all’inizio, mi credette».
Come lei, altre. Carla Green è un’ex coniglietta di
Playboy, oggi moglie di Lou Ferrigno, in Italia noto
soprattutto per il telefilm in cui interpretava L’incredibile
Hulk. Anche il suo episodio è datato: 1967. Ricorda che
un amico aveva organizzato un’uscita di coppia e, dopo
cena, andarono a casa dell’attore per giocare al biliardo
nel seminterrato. «Ad un certo punto mi ritrovai sola con
lui. Mi afferrò e mi strinse a sé baciandomi in bocca, ma
in modo molto brusco. Riuscii a svincolarmi e scappai.
Non ne avevo mai parlato con nessuno prima d’ora». A
novembre 2014 ha sporto denuncia.
Cindra Ladd di anni ne ha 67 e la sua storia è datata
1969. Lavorava allora come dirigente per un produttore
cinematografico a New York. Fu lì che incontrò Cosby.
Divennero amici. Un giorno dovevano andare al cinema,
ma Cosby le disse che dovevano passare prima a casa di
un amico. Cindra aveva mal di testa. E lui le offrì delle
pillole: «Una cura miracolosa, fidati». Si risvegliò nuda
nel letto. C’era uno specchio attaccato al soffitto e Cosby
in accappatoio. Non ricordava nulla della notte. Prese le
sue cose e se ne andò. Solo a gennaio 2015 ha deciso di
parlare.
Stesso anno, diversa presunta vittima: Joan Tarshis, 67
anni. All’epoca ne aveva 19. Ambiva a scrivere commedie
quando incontrò tramite amici comuni Cosby a Los
Angeles. L’attore le chiese se volesse lavorare a delle
sceneggiature con lui. Le propose un Bloody Mary ed una
birra nel suo bungalow. Joan bevve. E poi ricorda solo
l’attore che la spogliava sul divano. Le sue parole per
tentare di respingerlo dicendogli che aveva un’infezione. E
Cosby che, per tutta risposta, la costringeva ad un rapporto
orale. Tornata a New York ricevette una telefonata: il
comico la invitava allo spettacolo. Lei ci andò. Finì allo
stesso modo, col risveglio nel letto e Cosby nudo. «Non
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mi rendevo conto che ero stata violentata. A quei tempi
lo stupro era inteso come qualcosa che avveniva in un
vicolo con uno sconosciuto che ti puntava un coltello
alla gola. Non c’erano altri tipi di stupro, allora. E io
sapevo solo che qualcosa di orribile mi era successo. Ma
non riuscivo a dargli un nome. La differenza tra ciò che
avevo subito e una violenza sessuale in un vicolo buio
è che il volto di chi mi aveva fatto questo sarebbe stato
davanti a me ogni settimana in tv. Non ho mai più scritto
commedie. Ricordo solo che, ogni tanto, i miei genitori
mi chiamavano: “Oh, vieni qui, guardare e vedere il Bill
Cosby Show, oppure i Robinson”. Citavano le sue battute:
“non sono divertenti?” E per tutto il tempo il mio stomaco
andava in subbuglio. Avrei voluto solo rispondere: “Voi
non lo conoscete”».
Anche Linda Joy Traitz, 64 anni, sarebbe stata aggredita
nel 1969. Lavorava come cameriera al Cafè Figaro di Los
Angeles. Cosby si fece avanti per accompagnarla a casa.
Invece la portò su una spiaggia. Tirò fuori una valigetta
piena di pillole e gliene offrì una. Rifiutò. Fu allora che
il comico si infuriò e, sostiene, provò a saltarle addosso.
Ma riuscì a respingerlo: «Sono stata aggredita, non
violentata». Si è fatta avanti a novembre 2014, quando su
Facebook vide i commenti degli utenti che non credevano
alle denunce delle altre donne. «Accadde quando avevo
18 anni. Mi ci è voluto tanto, tanto tempo per capire che
era lui ad aver sbagliato, non io. La vita non è stata facile
per me. Mi ha dato filo da torcere. Ho avuto problemi di
dipendenza da grande».
Non c’è da meravigliarsi se tante all’epoca non abbiano
denunciato. Anche in Italia, fino ad epoche piuttosto
recenti, lo stupro era considerato un reato contro la morale
e punito assai blandamente. In compenso la vittima veniva
sottoposta ad un terzo grado, umiliata anche nelle aule
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dei tribunali, costretta a rispondere a domande su quanto
un rapporto orale potesse avvenire con costrizione o
sul reale dolore patito durante l’atto. La vittima veniva
sostanzialmente colpevolizzata. Figurarsi nel caso in cui
avesse denunciato un uomo ricco, potente e famoso. Di
più, un simbolo della lotta al razzismo.
Il tempo è ciò che consente di metabolizzare. Ed è
probabilmente per questo che la maggior parte delle
denunce riguardano episodi avvenuti diversi decenni fa.
Anche quanto narrato da Victoria Valentino, 72 anni, risale
al 1969. Ex coniglietta di Playboy, musicista ed attrice, fu
invitata da Cosby a cena insieme alla sua compagna di
stanza in un ristorante alla moda. A Valentina era appena
morto un figlio di 6 anni, si sentiva triste. Vide il comico
corteggiare l’amica. Poi lui si girò e le mise una pillola di
fianco al bicchiere: «Ecco, questa ti farà sentire meglio».
Be’, pensò, se poteva sentirsi davvero meglio, l’avrebbe
presa subito. La ingoiò con del vino rosso. Cosby gliene
diede un’altra. La prese anche l’amica. Valentina cominciò
a star male e disse di voler tornare a casa. L’attore non ci
pensò due volte: «Vi accompagno io».
Ma Victoria svenne. Quando riaprì gli occhi notò Cosby
su un divano con l’amica, completamente incosciente. «Si
alzò e si avvicinò. Si sedette e aprì la patta. Mi costrinse
ad un rapporto orale, mi girò e abusò di me. Quando si
avvicinò alla porta gli dissi: “Come facciamo a tornare a
casa?” E lui rispose: “Chiamate un taxi”».
Linda Brown è un’ex modella, 67 anni. Nel 1969 doveva
andare ad una cena con Cosby organizzata da un’agenzia.
Il divo si mostrò gentile, la passò a prendere e, prima di
andare a recuperare una terza persona, le disse di voler
fare una deviazione per il suo albergo, perché aveva un
regalo per lei. Le servì una soda e fece una telefonata. Linda
bevve. E si risvegliò nel letto nuda. Ricorda che Cosby
l’aggredì: «Mi sentivo come una bambola gonfiabile. Ho
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mantenuto il segreto perché provavo troppa vergogna e
imbarazzo per aver permesso che una cosa così orribile
potesse accadermi. Inizialmente pensavo di essere stata
l’unica a cadere in questa trappola. Quando ho capito che
non ero la sola, ma che lui aveva fatto la stessa cosa a
molte donne, ho sentito il bisogno di farmi avanti».
Ma le violenze non sarebbero avvenute solo con ragazze
che Cosby non conosceva. È il caso di Kathy McKee, 66
anni, che colloca l’episodio tra il 1973 e il 1974. Attrice
e showgirl, in tour con Sammy Davis Jr aveva avuto di
conoscere Cosby per otto anni. Dopo uno show a Detroit,
il comico la invitò nella sua stanza d’albergo. Disse che
come aprì la porta, lui l’afferrò, la fece girare e la penetrò:
«Riuscii a entrare nel bagno degli ospiti. Cercavo di capire
cosa stesse succedendo, che cosa fosse accaduto. Ero
davvero confusa e scioccata. Era successo tutto così in
fretta. Bill era un amico. Avevo lavorato con lui. Avevo
cenato con la moglie in una o due occasioni. Lo conoscevo
da molti, molti anni e non ci aveva nemmeno mai provato.
Non riuscivo a capire cosa ci fosse di sbagliato in lui. Se
fosse impazzito, se fosse drogato, cosa diavolo gli era
accaduto. Quando uscii dal bagno, mi disse “Okay, dai,
andiamo. Ci stanno aspettando”. Si comportò come una
persona che non avevo mai incontrato in vita mia». Kathy si è decisa a parlare nel 2014.
Sempre nei primi anni 70 tocca a Tamara Verde,
avvocato che all’epoca aspirava a diventare cantante.
Cosby glielo presentò un amico comune. Le chiese di
dargli una mano per un nuovo club che voleva aprire. La
convinse a pranzare al Cafè Figaro. Al ristorante Tamara
non si sentiva bene. E lui tirò fuori alcune pillole rosse e
grigie. Medicine, assicurò. Poi furono le vertigini. L’attore
la portò nel suo appartamento e la spogliò. Lei provò a
dibattersi. La penetrò con le mani mentre si masturbava.
29
Poi lasciò duecento dollari sul tavolo. E se ne andò.
Autumn Burns, 68 anni, nel 1970 lavorava al casinò di
Las Vegas. Cosby assicurò di volerla aiutare a sfondare nel
mondo della moda. Scattò l’invito ad un suo show. Una
sera le chiese di raggiungerlo in camera dopo il lavoro.
Le diede uno scotch. E lei perse il controllo. Lo vide nudo
nel letto. Poi ricorda un rapporto orale e la penetrazione.
L’inquietante giro di presunte vittime non si ferma. Anno
1971: lei è Louisa Moritz, oggi 69enne, attrice. Doveva
apparire al The Tonight Show, quando Cosby entrò nel
suo camerino. Si slacciò i pantaloni e la costrinse ad un
rapporto orale: «Non potevo spingerlo via. Era il signor
Cosby. Si muoveva avanti e indietro, e la mia testa era
continuamente sul suo pene. Mi chiamarono sul palco, ma
non mi avrebbe lasciato andare. Si precipitò fuori ed uscì
lui dicendo: “Sono Louisa Moritz”. Ottenne una risata
enorme. Non ricordo se mi chiamarono ancora. Ero uno
zombie. Mi sedetti e lo spettacolo andò avanti. Io non lo
guardai. Lui neppure».
Helen Hayes, 80 anni, ricorda quando nel 1973
partecipò al torneo di tennis per celebrità organizzato da
Clint Eastwood a Pebble Beach, in California. Incontrò lì
Cosby che, dopo averla seguita tutto il giorno, la raggiunse
al ristorante dove le afferrò un seno. Finì lì.
Nel 1975 è la volta di Margie Shapiro, 58 anni.
Lavorava in un negozio di ciambelle. L’attore arrivò
con una macchina di lusso per ordinarne a decine. Fece
quattro chiacchiere. Poi la invitò sul set. Qualche giorno
più tardi le propose una cena da lui. Ma subito dopo
ebbe un’idea migliore: andare alla villa di Hugh Hefner, il
patron di Playboy amico suo. Margie, incuriosita, accettò.
Giocarono a flipper e Cosby le propose una sfida: chi
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avesse perso avrebbe dovuto ingoiare una pillola. Margie
perse. Ingoiò. Svenne. Si ritrovò nel letto nuda, con Cosby
dentro di lei. Lo ha denunciato a marzo 2015.
Più o meno quanto sarebbe accaduto lo stesso anno
all’ex modella Marcella Tate, oggi 67enne. Aveva
conosciuto l’attore in un nightclub di Chicago, poco
prima. Fu lui a chiamarla e a chiederle di passare a
prenderlo all’aeroporto. Una volta in auto la invitò ad un
giro alla Playboy Mansion. Un bicchiere di vino. Un drink.
Poi i ricordi scompaiono fino al risveglio, con lei nuda a
letto con lui: «Capivo che c’era qualcosa di sbagliato, ma
non sapevo cosa». Ad aprile 2015 ha sporto querela.
Il 1976 è l’anno del caso di Teresa Serignese. E dodici
mesi più tardi presunta vittima è ancora una coniglietta
di Playboy, Sarita Butterfield, 22 anni. Cosby la chiamò
dopo averla vista sul giornale. Le pagò il biglietto aereo
per raggiungerlo la vigilia di Natale a cena nella sua
casa nel Massachusetts. C’erano altri ospiti, ma quando
rimasero soli tentò di afferrarne i seni e di baciarla. La
ragazza riuscì a respingerlo.
Andò meno bene, stando al suo racconto, ad un’altra
ex coniglietta della rivista maschile, Pj Masten, che oggi
ha 65 anni. Era il 1979 e la scusa per il cocktail drogato
fu una cena al Whitehall Hotel di Chicago. Anche lei
si svegliò nuda nel letto di Cosby. Il giorno successivo
ricevette un ficus con un biglietto: “Le amicizie devono
essere curate come questo albero”.
Racconta Pj: «La cosa più difficile da accettare è che
non avevo avuto il controllo di me stessa. Non avrei mai
permesso che accadesse, mai. Sono dovuta andare al
lavoro il giorno successivo. Lui continuava a chiamarmi.
Quando dissi al mio capo ciò che mi aveva fatto, rispose:
“Lo sai che è il migliore amico di Hefner, giusto?” Dissi di
sì. E lui: “Nessuno ti crederà. Ti suggerisco di chiudere la
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bocca”. I sopravvissuti di stupro hanno a lungo difficoltà
nelle relazioni intime. Avevo vent’anni. Fino ad oggi è
stato come avere un nero, disgustoso tumore. Un tumore
segreto».
Il tempo corre. E mentre i presunti stupri proseguono,
la fama di Cosby continua a crescere. Tra il 1979 e il 1980,
l’attore incontra Joyce Emmons, attualmente 70enne.
Joyce gestiva un comedy club, ed era amica del comico
da un paio d’anni. Il giorno in cui accusò un mal di testa
e gli chiese un Tylenol, lui rispose di aver qualcosa di più
forte. Temeva fosse droga, ma il comico la rassicurò: «Sei
una delle mie migliori amiche, potrei mai farti del male?»
Poi la scena è la stessa di sempre, o quasi, con Joyce che
si sveglia a letto nuda. Ma con un amico di Cosby. «Tutto
quello che ricordo è che stavo prendendo la pillola. Non
mi ricordo di essere andata a letto. Mi sono svegliata come
in una nebbia. Ho aperto gli occhi e non indossavo vestiti,
eppure li avevo quando avevo preso la pillola. Ero senza
abiti e c’era l’amico di Bill, completamente nudo a letto
con me. Non so dire cosa fosse accaduto. Lo guardai, e
lui mi guardò e iniziò a ridere dicendo: “Oh, stai bene?”.
Ho risposto: “Che cazzo è successo? Ti scopi sempre una
persona morta?” Perché questo è ciò che ero. Ero una
persona morta in quel momento. Non ha detto niente, ho
afferrato la mia coperta e me ne sono andata a fare una
doccia. Ho preso i vestiti. E Bill mi ha chiamato: “Dove
stai andando?” “Me ne vado – ho sbottato- Che cazzo
mi hai dato?” E lui: “Eh, hai avuto un forte mal di testa.
Soffrivi tanto. Ti ho dato un Quaalude”».
Linda Kirkpatrick non faceva parte del mondo dello
spettacolo. Imprenditrice, ora che ha 58 anni ricorda
quanto successe nel 1981 in un torneo di tennis doppio
misto a Las Vegas contro Cosby. L’attore lanciò la sfida: se
lei e il suo partner fossero riusciti a batterlo, lui avrebbe
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regalato loro dei biglietti per lo show. Vinsero, ma il
partner non poté partecipare allo spettacolo. Ci andò sola
e al termine fu accompagnata nel camerino del comico.
Saltò fuori un cocktail, stavolta alla frutta. Ne bevve
metà. Quindi i ricordi sfocano: Cosby su di lei che cerca di
baciarla, il braccialetto d’argento con inciso il nome della
moglie dell’attore. Tuttora non rammenta come tornò a
casa. Successivamente Cosby la contattò al tennis club per
scusarsi. Scattò un nuovo invito allo spettacolo. Ma anche
allora provò a saltarle addosso. Riuscì a respingerlo. A
gennaio 2015 si è decisa a raccontare tutto: «Non mi sono
mai fatta avanti prima per paura. Avevo 25 anni e temevo
che se avessi rivelato cosa mi aveva fatto una grande
celebrità che apparentemente portava avanti i valori della
famiglia, sarei stata presa per una bugiarda, così come è
poi accaduto a molte vittime».
Vittime, o presunte tali, dai lavori più svariati: attrici,
impiegate, dirigenti, soubrette. Janice Baker-Kinney, oggi
57enne, era ad esempio direttore di scena in tv nel 1982.
Spesso accadeva che i divi dei programmi invitassero il
personale alle feste. Così non ci trovò nulla di strano
quando arrivò la proposta di Cosby. Arrivò con un’amica,
ma non vide nessun altro. Cosby le diede una pastiglia,
poi iniziarono a giocare a backgammon. Improvvisamente
tutto girò. Ricorda di essersi trovata su un divano con la
camicetta sbottonata. La mattina si svegliò nuda di fianco
all’attore nel letto. «Resta tra me e te» le disse lui. Prima di
denunciarlo, ad aprile 2015, Janice si è consultata con la
famiglia: «Perché mio figlio non ne sapeva nulla. Hanno
detto che se poteva servire ad aiutare altre donne, era
giusto che lo facessi».
Janice Dickinson era invece una modella e nel 1982
aveva 28 anni. L’attore voleva darle l’opportunità di
recitare con lui, almeno l’avvicinò così. Andarono a cena.
E ancora una volta saltò fuori la pillola. Janice si svegliò
la mattina successiva, con Cosby addosso. «Tutta la mia
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vita cambiò per sempre. Avevo compreso che Bill Cosby
mi aveva violentata la sera prima. Ho tenuto questi ricordi
nell’anima per anni e anni».
Lo stesso destino di Heidi Thomas, che nel 1984
faceva l’insegnante di musica. Aveva 24 anni. Fu il suo
agente a dirle che “Mr. C.” voleva incontrarla. Si videro
in un ranch. Cosby le chiese di leggere una sceneggiatura.
Doveva interpretare una persona ubriaca. Per farla
entrare nella parte le offrì da bere. Heidi si risvegliò con
l’attore che tentava di costringerla ad un rapporto orale.
«Il mio primo pensiero fu: “come sono arrivata qui? Che
cosa ho detto? Cosa ho fatto? Non mi sto comportando
in maniera professionale. E spero di non vomitare sul suo
letto perché sarebbe davvero disdicevole”. Nel secondo
flash rammento che pensavo: “questo non è il motivo per
cui sono venuta qui”. Ero annebbiata. E ora so perché.
Ricordo che quando chiusi la porta feci un gran rumore.
E pensai: “Oh mio Dio, ho appena sbattuto la porta in
faccia Bill Cosby”. L’idea che mi avesse appena aggredito
non mi sfiorò nemmeno. All’epoca nessuno aveva mai
sentito parlare di una droga da stupro, nessuno aveva mai
sentito parlare di una cosa del genere».
Già, nemmeno Beth Ferrier, la cui presunta aggressione
è del 1984.
Un anno più tardi, la giovane modella diciassettenne
Barbara Bowman fu presentata dal suo agente a Cosby, che
volle subito farle da mentore nel mondo dello spettacolo.
E qui la questione si complica.
Dopo averla conosciuta a Denver, il comico la portò
infatti con sé a moltissimi show e ad eventi in tutto il
Paese. Barbara si trasferì a New York prima e a Long
Island poi, dove prese lezioni di recitazione.
Durò due anni. Due anni nei quali, secondo il suo
racconto, Cosby la drogò e violentò ripetutamente. «Ci
sono stati momenti in cui ero completamente confusa –
34
ha dichiarato al New York Magazine - e altri momenti
in cui ero più lucida». La manipolazione psicologica fu
molto sottile. «Era il papà preferito d’America». Ed era
come se fosse anche il suo, con lui che le diceva di amarla
come una figlia. Ma, si domandò quando tutto finì, come
poteva amarla come una figlia un uomo che la violentava?
Nel 2005 si associò alla denuncia di Andrea Constand.
Ricorda che la rottura della relazione avvenne ad Atlantic
City, dove si era diretta per vederne lo show. Un’altra
notte offuscata dalla droga, nella camera dell’attore.
Si accorse ad un certo punto di non avere il bagaglio e
chiamò il concierge per sapere dove fosse. Fu allora che
Cosby andò su tutte le furie, perché non voleva che si
sapesse che nella sua suite c’era una ragazza di 19 anni.
«La mattina successiva mi svegliai nuda. Non sapevo
che fosse successo. Mi chiamò al telefono e mi intimò di
raggiungerlo nella stanza. Gridò che lo avevo messo in
imbarazzo e che lui aveva bisogno di discrezione. Mi buttò
giù dal letto e mi strinse un braccio sotto la gola. Si mise
a cavalcioni su di me e tirò fuori la fibbia della cintura.
Il rumore della fibbia non lo dimenticherò mai». Poi, il
ragionamento fu quello di tutte: «Violentata e drogata da
Bill Cosby…ma chi diavolo mi avrebbe creduto?»
A cavallo della vicenda di Barbara c’è l’episodio che
riguarda Rebecca Lynn Neal, oggi 60enne, nel 1986
massaggiatrice in un centro benessere in cui l’attore si
recava spesso. Scattò un invito allo spettacolo e poi a
cena. Quindi Cosby lamentò un dolore alla schiena e
alla spalla e le chiese se potesse fargli un massaggio dopo
aver mangiato. Era il suo lavoro e non ebbe problemi ad
accettare. Finì la cena con un bicchiere di Stolichnaya.
Fu allora che si sentì improvvisamente disorientata:
non riusciva a camminare. Cosby la portò dal ristorante
al camerino. Si sedette e tirò giù i pantaloni. Poi la prese.
Lei gli chiedeva di smettere, ma si sentiva incapace di
fermarlo. «Mi disse calmarmi, che non aveva intenzione
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di farmi del male…». Quando tutto finì, Cosby si precipitò
fuori proponendole di chiamarlo la prossima volta che si
fosse trovata in città. «Non l’ho mai più visto di nuovo in
palestra né in qualsiasi altro luogo».
La catena di accuse è impressionante. Chelan Lasha ha
46 anni e oggi fa la dietista. Nel 1986 era un’aspirante
modella. Giovanissima, 17 anni, la madre adottiva inviò
una lettera a Cosby con una foto della figlia, spiegandone
i sogni. L’attore si fece vivo e con grande galanteria invitò
Chelan ad un suo show a Las Vegas. Ci andò accompagnata
dalla nonna. Terminato lo spettacolo, l’attore le chiese
di raggiungerlo nella suite dove l’avrebbe presentata ad
un agente della Ford Modeling Agency. Chelan arrivò di
corsa. Ma aveva freddo e lui le diede una pillola blu e un
sorso di Amaretto. Le disse di mettersi in accappatoio e
di bagnare i capelli per un set di fotografie. Qualcuno in
effetti si presentò. Scattò delle foto e se ne andò.
Ma i ricordi sono confusi. Rammenta di essere stata
messa sul letto e di essersi svegliata 13 ore più tardi
quando Cosby, sopra di lei, batté le mani gridando: «Papà
dice: svegliati».
Le lasciò 1500 dollari, con cui, spiegò, avrebbe potuto
prendere qualcosa di bello per sé e per la nonna. Ne ha
parlato solo a dicembre 2014: «Temevo per la mia vita,
per via dell’influenza che lui aveva. Ho sempre voglia
di piangere e incubi. Dopo quel fatto non sapevo più di
chi fidarmi e di chi no. Non vorrei mai che i miei figli
guardassero il The Cosby Show, perché so che comincerei
a piangere».
A differenza di tante, Helen Gumpel reagì. Oggi ha
59 anni, è stata modella e successivamente ufficiale delle
forze dell’ordine. Nel 1987 ebbe un piccolo ruolo in un
episodio del The Cosby Show. Quando la chiamarono
una seconda volta sul set, pensava la volessero scritturare
per una nuova puntata, invece fu portata direttamente
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nel camerino dell’attore, che le offrì da bere. Ma lei lo
respinse. Denunciò nel febbraio 2015. E oggi racconta
«non è mai stato un segreto. Ne ho parlato alla gente. Ne
parlai pure ad un grande cronista, un cronista mondano.
Solo che, a dire la verità, allora, nessuno voleva attaccare
Bill Cosby. Era il comico numero 1 al mondo, un’enorme
macchina da soldi. E chi avrebbe creduto a qualcuno ad
una donna senza alcun potere?»
Ancora il 1987. Sammie Mays, oggi scrittrice di 57
anni, era all’epoca una giovane giornalista. Provò ad
avvicinarlo per un’intervista. Lui accettò: ne avrebbero
parlato nella sua stanza d’albergo. Le servì un drink. E lei
bevve due grandi sorsi. Poi tutto divenne scuro e quando
riaprì gli occhi Cosby la sovrastava. Aveva il reggiseno
slacciato. Uscì di corsa scusandosi dell’accaduto, confusa,
non capendo bene che fosse successo. Il suo racconto è del
maggio 2015. «Siamo sopravvissute. Ma eravamo donne
che volevano fare carriera. Ecco come Bill Cosby è potuto
arrivare a noi».
Già, come Kaya Thompson. Alla fine degli anni 80
faceva la modella. Ma molto giovane: a 17 anni era partita
dal Maryland verso New York in cerca di un’agenzia. La
mandarono agli Astoria Studios per incontrare l’attore sul
set di The Cosby Show. Lui la prese in simpatia, tanto da
voler parlare ai suoi genitori assicurando loro che si sarebbe
occupato personalmente della carriera della figlia. «Lo
vedevo come una figura paterna» ha detto Kaya al New
York Magazine. Fu però quando provò a interrompere la
relazione, ricorda, che il comico approfittò di lei. «Sapeva
che ero giù…» rammenta.
Lui le indicò una bottiglia di lubrificante.
E si fece masturbare. Poi, per quanto lei giuri di non aver
chiesto nulla, le lasciò 700 dollari. La sua storia è emersa a
marzo del 2015, ma la raccontò, in forma anonima, anche
37
allo studio legale Troiani che nel 2005 assisteva Andrea
Constand.
Lise-Lotte Lublin avrebbe fatto in seguito l’insegnante.
Nel 1989 era invece una modella di 23 anni chiamata per
un provino nella suite di Cosby a Las Vegas. Un drink non
si rifiuta mai. Ne sorseggiò due. E il suo ultimo ricordo è
di lei seduta sopra un tavolino a cavallo dell’attore che le
accarezza i capelli. Il resto sono flash. Non sa come arrivò
a casa. «Capii cosa mi aveva fatto venticinque anni più
tardi. Se un medico ti lascia una spugna nel corpo durante
un intervento chirurgico e per venticinque anni soffri, e
poi un altro medico ti riapre e ritrova quella spugna, tu
non sapevi che fosse quella la causa. È ciò che è successo
a me». Si è fatta avanti a febbraio 2015. Ha combattuto
per inasprire le pene sullo stupro in Nevada. La legge è
cambiata il primo ottobre 2014.
Anche Jewel Allison, professione scrittrice, intorno al
1990 faceva la modella. Fu il suo agente a dirle di una
cena di lavoro a New York da Cosby. Quando arrivò si
accorse di essere l’unica ospite. «Mi chiese se volessi un
bicchiere di vino. Diedi qualche sorso. Aveva un gusto
orribile. Poi cominciai a non sentirmi bene. Mi afferrò per
le ascelle e mi portò nella stanza accanto, davanti ad uno
specchio. Mi disse di guardare. C’era qualcosa di sbagliato
in me. Mi prese la mano destra e la portò dietro la schiena.
Ricordo che sul pavimento vidi dello sperma. Sentii
del liquido nella mano. E capii così che qualcosa era
accaduto». Cosby chiamò un taxi. «Mi confidai con la
mia migliore amica. Ne ho parlato in famiglia e ad altri
conoscenti. Dopo più o meno una decina d’anni incontrai
un’ex modella dell’agenzia e confrontammo i nostri
racconti. Anche a lei era capitato. Le consigliai di non
parlarne a nessuno. Ma volevo proteggerla. Un paio di
volte avrei voluto farmi avanti, prima che tutte le altre
donne venissero allo scoperto. Ma ero spaventata. In più
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non volevo far crollare l’immagine di un afro-americano.
Sono sempre stata molto coinvolta nella comunità nera. E
per me denunciare e fondamentalmente distruggere
l’immagine fortissima di uno dei pochi afroamericani
importanti degli Stati Uniti, era allora troppo difficile».
Lili Bernard, attrice dei primi anni 90, come già
accaduto ad altre vedeva in Cosby una figura paterna.
«Me lo diceva spesso: “Tu sei come una figlia, Bernard”».
Apparve nell’ultima stagione de I Robinson. Andò tutto
bene fino all’ormai famigerato drink. Cui seguì lo stupro.
Al loro ultimo incontro, nel 1992, l’attore le disse: «Per
quanto mi riguarda, Bernard, tu sei morta. Mi senti? Sei
morta. Non esisti». Lili tentò il suicidio. «Negli ultimi
23 anni ho vissuto con un tremendo senso di paura».
Ha raccontato tutto a maggio 2015. «E l’unica ragione
per cui sono riuscita a parlarne è che tante altre donne lo
avevano fatto prima di me. E mi sono sentita al sicuro».
Nel 1996 è infine la volta di “Kacey”. Manager, divenne
amica di Cosby fino a quando l’attore non le chiese di
lavorare con lui ad un nuovo progetto di show. La invitò
a cena e finì con il comico che tentava di baciarla, respinto
duramente. Quindi le scuse, il nuovo incontro al Bel
Air Hotel, Cosby che apriva la porta in accappatoio e
pantofole. Il pranzo e l’immancabile pillola. Stavolta di
colore bianco. Kacey si risvegliò a letto, accanto a lui. «Per
tanti anni pensai di essere la sola. Quando ho visto tutte
le altre donne farsi avanti, ho pensato che era arrivato
il momento giusto. Va bene, mi sono detta, posso uscire
dalla porta dietro la quale sono rimasta intrappolata».
Certo, si tratta delle loro versioni. Ma tutte queste
donne hanno deciso di metterci la faccia ben sapendo che
per la stragrande maggioranza dei casi, quand’anche uno
stupro ci sia stato, è ormai intervenuta la prescrizione.
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Cosby, d’altronde, ha ammesso di aver usato almeno in
qualche occasione il Quaalude, e non per sé.
E la cosa stupefacente, se si sta ai racconti, è che si ha
addirittura l’impressione che se alcune di loro l’attore
le avesse corteggiate, be’ probabilmente sarebbe potuto
nascere qualcosa. Senza ricorrere a droghe e violenze.
Invece è come se Cosby traesse piacere proprio dal fatto
che fossero inermi, quasi delle bambole inanimate.
Nel 2002 il comico ricevette una medaglia per la
libertà dall’allora Presidente degli Stati Uniti George W.
Bush. Un’onorificenza che oggi un’associazione contro
gli abusi sessuali vorrebbe fosse revocata. Ma non si può
fare, perché non c’è una legge che lo preveda né esistono
precedenti. Lo ha dichiarato direttamente Barack Obama,
che è comunque voluto entrare nel merito della questione:
«Credo che questo Paese non debba tollerare lo stupro.
Se dai della droga di nascosto a qualcuno e poi abusi
sessualmente di lui o lei senza il suo consenso, questo
è stupro. Penso che in America e in nessun altro Paese
civilizzato si può tollerare la violenza sessuale».
Di certo, per vedere quanto ci sia di concreto nella
perversione del papà de I Robinson non si deve attendere
molto. Il 9 ottobre 2015 è chiamato a testimoniare sotto
giuramento su una presunta violenza sessuale ai danni
di Judith Huth, avvenuta nella Playboy Mansion nel
1974. Judith aveva allora 15 anni. È la prima volta che
Cosby depone davanti ad un giudice. Stavolta non può
mostrarsi scocciato. Non può eludere le domande. Non
può cavarsela con una battuta.
Anche se l’idea che nella sitcom di maggior successo
americana proprio lui interpretasse un ginecologo appare
ora come la peggiore delle sue beffe.
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STUPRI, PRESUNTI STUPRI
E STUPRI MAI COMMESSI
Il lato oscuro di Jimmy Savile
Jimmy Savile è stato il più noto dj e conduttore
radiofonico e televisivo e inglese. L’idolo della BBC, in
cui esordì a 38 anni nell’edizione britannica di Top of the
Pops. Sarebbe stata poi la volta, dal 1975 al 1994, di Jim’ll
fix it, il programma, sempre sulla BBC, in cui realizzava i
desideri degli spettatori.
Tipo eccentrico e sportivo, riconosciuto gran
benefattore, già nel 1971 venne insignito del titolo di Sir.
Una carriera di allori infinita, culminata nel 1990, quando,
in virtù delle opere di bene compiute, Papa Giovanni
Paolo II lo nominò Cavaliere dell’Ordine di San Gregorio
Magno.
Onore e gloria, un vanto dell’Inghilterra fino alla morte,
avvenuta nel 2011, a due giorni dal suo 85mo compleanno.
Seppellito in una bara d’oro, un anno più tardi ne emerge
clamorosamente il lato oscuro di stupratore seriale.
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Uno ad uno emergono infatti numerosissimi racconti di
sue violenze sessuali, che sarebbero state anche coperte
nei decenni da altre persone dell’emittente. Presto 81
dipendenti della BBC finiscono sotto accusa per presunti
abusi perpetrati tra il 1967 e il 1985. Le denunce arrivano
a 152. Sulla scia dello scandalo, un ex volto dell’emittente,
Stuart Hall, classe 1929 – presentatore prima dei
telegiornali, poi di programmi come Giochi Senza
Frontiere e infine di calcio - ammette di aver stuprato
13 ragazze tra il 1967 e il 1986, tra cui una bimba di
nove anni. Se la caverà con 30 mesi di carcere, più altri
30 quando gli saranno contestati, nel 2014, altri due reati.
Intanto lo scandalo di Savile cresce. Non si parla più
solo di violenza avvenute in ambito professionale, ma
addirittura in ben 28 ospedali, dove il dj avrebbe abusato
di malati incapaci di reagire. In particolare all’ospedale
psichiatrico di Broadmoor e al Leeds General Infirmary,
l’enorme centro con 15mila dipendenti e un milione
e mezzo di pazienti l’anno, nel quale Savile, oltre ad
esserne un benefattore, operò come volontario per circa
quarant’anni.
E non è finita. Scrive il Corriere della Sera il 26 giugno
2014:
Sesso con cadaveri e occhi di vetro per gioielli: i nuovi
orrori su Savile
Jimmy Savile ha molestato e stuprato in 50 anni oltre 200
persone, il 73% delle quali aveva meno di 18 anni. Adesso,
a un anno e mezzo dallo scoppio dello scandalo pedofilia
che ha choccato la Gran Bretagna, saltano fuori nuovi
agghiaccianti particolari sulla condotta del dj-presentatore
della Bbc, morto da impunito nel 2011 a 84 anni. Savile,
che per decenni ha avuto libero accesso a diversi ospedali
britannici per portare avanti la sua attività di volontariato, ha
molestato e abusato sessualmente senza sosta di pazienti,
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personale infermieristico e perfino cadaveri. Secondo un
testimone, il dj-maniaco sessuale si sarebbe anche vantato
di aver trasformato in gioielli (degli anelli in particolare)
occhi di vetro rubati da alcuni corpi in un obitorio. È quanto
emerge da un rapporto presentato oggi al Parlamento di
Westminster dal ministro della Sanità, Jeremy Hunt, che si
è scusato con le vittime degli abusi e ha affermato che le
azioni di Savile hanno sconvolto il Paese in profondità.
Vittime dai 5 ai 75 anni
Secondo il rapporto, tra le vittime di Savile ci sono almeno
60 persone dai 5 ai 75 anni. Uomini e donne, bambini e
bambine: non importava di che sesso fossero le sue prede.
L’ex dj viene anche accusato di aver compiuto atti sessuali
su corpi senza vita in un obitorio di un ospedale. I casi
finora accertati di violenze sono avvenuti in 28 ospedali.
Un predatore senza freni, che forse ha una lista di vittime
ancora più lunga di quanto già si sappia. C’è infatti il timore
che il più grande maniaco del Regno abbia colpito anche in
oltre 20 strutture per l’infanzia e scuole. Al momento le carte
del «caso Savile» - con l’elenco di denunce che risalgono
agli anni Sessanta - sono state passate al Dipartimento
per l’Istruzione (il Dfe) e le indagini sono in corso. Intanto
il patrimonio della star della tv britannica sarà usato dalle
autorità per risarcire le vittime. E se non dovesse bastare, ci
penserà il Governo.
Da allora lo scandalo non si è fermato. Sembra che le
vittime possano essere più di 300.
Quarant’anni in fuga: lo strano caso
di Roman Polanski
Il caso di Roman Polanski fa ancora discutere. Tra i
più noti registi del mondo, ha avuto una delle infanzie
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più tragiche. Padre polacco di origini ebraiche, madre
russa di famiglia ebraica convertitasi al cristianesimo,
Roman nasce nel 1933 a Parigi, città da cui è costretto a
fuggire coi genitori a Cracovia quando in Francia inizia a
diffondersi l’antisemitismo. Ma lì non va meglio, perché
Hitler invade la Polonia. Rinchiusi nel ghetto della città,
la mamma finisce deportata ad Auschwitz, dove morirà.
Il papà viene invece spedito a Mauthausen, riuscendo a
sopravvivere. Prima di finire al lager, organizza però la
fuga del figlio, pagando una forte cifra ad una famiglia
cattolica perché lo tenga nascosto. Ma che lo “cede” a dei
contadini, presso i quali Roman resta fino alla fine della
guerra.
Superato l’inferno, il giovane ha una gran voglia di
riscatto. Si diploma alla Scuola Nazionale di Cinema di
Lodz nel 1959. Poi è tutta una scalata al vertice del cinema.
Quando nel 1968 approda negli Stati Uniti è già un regista
affermatissimo, tanto da aver ottenuto una candidatura
all’Oscar come miglior film straniero per 1962: Il coltello
nell’acqua.
Da due anni sta con l’attrice Sharon Tate. L’ha conosciuta
sul set di Per favore, non mordermi sul collo!, e l’avrebbe
voluta anche come protagonista di Rosemary’s Baby, uno
dei suoi film più inquietanti e successivamente candidato
all’Oscar: la storia di una ragazza che resta incinta del
diavolo e in balìa di una setta. Ma poi i produttori hanno
optato per Mia Farrow.
Roman e Sharon sono una coppia sempre al centro del
gossip, la loro casa è frequentata dai più grandi divi di
Hollywood. Sharon è apparsa nuda su Playboy: le foto
gliele ha scattate Roman. E per l’epoca è decisamente
anticonformista. Sostiene che tutte le coppie debbano
convivere prima di sposarsi. È amata e fa discutere.
Il loro matrimonio lo celebrano a Londra il 20 gennaio
1968. Roman dice che la vuole hippie e non casalinga.
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Sharon diventa “l’attrice rivelazione dell’anno” per La
valle delle bambole. Incinta di otto mesi, a luglio 1969
rientra a casa, in attesa del ritorno del marito, previsto per
il 12 agosto.
Ma il 9 agosto succede l’imprevedibile.
Sharon è nella villa di Beverly Hills di Terry Melcher,
produttore musicale figlio di Doris Day. Con lei ci sono
alcuni amici: Jay Sebring - il suo parrucchiere - , Abigail
Folger – figlia dell’imprenditore del caffè Folger - e
Wojciech Frykowski, fidanzato di quest’ultima. Ciò che
accade quella sera, dopo le 22,30, di ritorno dal ristorante
El Coyote, lo scopre la cameriera Winfred Chapman la
mattina successiva. Il corpo di Steven Parent, un giovane
che era andato alla villa per tentare di vendere un orologio
al custode della villa William Garretson, è in auto,
crivellato da una calibro 22. Sul prato ci sono i cadaveri
di Frykowski e Folger. Nel salotto di casa, uniti da una
lunga corda stretta intorno al collo, le ultime due vittime:
Jay Sebring e Sharon Tate. A parte Parent, sono stati tutti
pugnalati. Sharon l’hanno accoltellata 16 volte. Prima di
andarsene, gli assassini hanno scritto con uno straccio
intriso nel sangue la parola “Pig”, maiale, sulla porta.
Sono i membri di The Family, la setta fondata da
Charles Manson, musicista fallito, un tipo che si considera
la reincarnazione di Gesù e di Satana. Un nome che da
allora evocherà il male e la paura, influenzando scrittori,
artisti e cantanti, come Brian Hugh Warner, che ne ha
preso il cognome per fonderlo insieme a quello della
più grande diva di Hollywood nel proprio nome d’arte:
Marilyn Manson.
Prima di essere presi il giorno successivo i seguaci di
Manson uccidono altre due persone a colpi di forchetta.
Il guru non ha preso parte agli eccidi e li nega. Ma ad
incastrarlo come mandante ci pensa Susan Atkins,
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membro della setta, che racconta come Manson avesse in
programma di uccidere anche Steve McQueen, Richard
Burton, Frank Sinatra e Liz Taylor.
Moventi reali non ne sono mai stati trovati, se non nel
delirio di The Family. Basti pensare che in seguito Manson
dirà di essere stato ispirato dal brano Helter Skelter dei
Beatles, attraverso il quale aveva ricevuto l’ordine divino
di diffondere il caos.
Un fatto di sangue del genere non ha precedenti a
Hollywood.
E diventa quasi impossibile trovare una figura simile
a quella di Polanski, cui il destino sembra aver voluto
dare tutto e togliere tutto, in un frenetico balletto tragico:
l’infanzia più orrenda prima nel ghetto e poi passato di
mano in mano mentre i genitori venivano deportati, poi
fama, ricchezza, potere e amore. E ancora l’ennesima
parabola mortale, una morte atroce per la moglie e il figlio
che di lì a qualche settimana sarebbe nato.
Passano però otto anni. E stavolta le ombre su allungano
su di lui. Nel 1977 viene infatti accusato di
“violenza sessuale con l’ausilio di sostanze stupefacenti”
ai danni di una ragazzina non ancora quattordicenne,
Samantha Geimer, figlia di una conduttrice televisiva, fatto
avvenuto nella villa di Jack Nicholson. Il caso esplode
sui media e l’avvocato della giovane, per proteggerla,
propone un patteggiamento, in modo da non farla deporre
pubblicamente. Le accuse si riducono così a “rapporto
sessuale con persona minorenne” del quale il regista si
dichiara colpevole.
Viene disposta una perizia psichiatrica e lo mandano
alla prigione di Chino, California. Quando lo liberano
anticipatamente in attesa delle decisioni del giudice e si
viene a sapere che il magistrato non è affatto d’accordo
con una detenzione domiciliare, fugge a Londra.
E da lì a Parigi. Gli Stati Uniti nel 1978 spiccano un
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mandato di cattura internazionale, ma Polanski, che gode
di cittadinanza francese, non sarà mai estradato.
Nel 2009, all’aeroporto di Zurigo, dove si è diretto per
un premio alla carriera, viene però arrestato per effetto di
un nuovo mandato di cattura internazionale statunitense
del 2005. A 32 anni dai fatti il caso torna a galla. Si
scopre che a gennaio 2009 Polanski aveva chiesto invano
l’archiviazione delle accuse. E che Samantha Geimer aveva
depositato una sua memoria per chiudere definitivamente
la vicenda:
Ho chiesto che il caso venga chiuso, che le accuse siano
ritirate. Sono diventata vittima delle azioni del procuratore…
Polanski si dichiarò colpevole, in parte, per salvarmi da
un processo pubblico, in cambio, le altre accuse nei suoi
confronti vennero fatte cadere. Sono arrabbiata con il
procuratore distrettuale che ha rifiutato di chiudere il caso,
dando ancora pubblicità ai luridi dettagli di questi eventi. Che
siano vere o no, la pubblicazione di queste cose causa danno
a me, al mio amato marito, ai miei tre figli, e mia madre. Sono
diventata vittima delle azioni del procuratore… Non sono più
una bambina di 13 anni... Sono sopravvissuta, sono riuscita
a prevalere su ogni eventuale danno che il signor Polanski mi
abbia causato… Non credo che sia un soggetto pericoloso
per la società. Non credo che debba essere rinchiuso per
sempre. Credo volessimo metterci questa storia alle spalle,
vedere Roman Polanski in una prigione non ci avrebbe
aiutato a raggiungere questo obiettivo.
Il regista trascorre due mesi in prigione. Dopo una
lunga serie di polemiche pro e contro che coinvolgono
anche le più importanti star di Hollywood, la Svizzera
respinge la richiesta di estradizione per un vizio di forma.
Nel 2011, tornato al Zurigo Film Festival, Polanski chiede
per la prima volta scusa a Samantha.
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Nel 2013 Samantha, che oggi ha tre figli adulti, scrive un
libro, The Girl: A life in the Shadow of Roman Polanski,
in cui ricorda ciò che accadde quella notte del 1977:
Polanski aveva chiesto una prima volta a sua madre di
fotografarla, anche se non le aveva parlato di foto di nudo.
E quando lui ad un certo punto le domandò di posare
a seno scoperto, lei rifletté un minuto: «Pensai a Brooke
Shields e Jodie Foster e accettai». Al secondo invitò, nella
villa di Muloholland Drive di Nicholson, Roman stappò
lo champagne. Poi tirò fuori una pastiglia…: se la scena vi
ricorda qualcosa, non sbagliate.
Si tratta proprio del Quaalude, la pillola incriminata
dei presunti stupri di Bill Cosby.
Dalla deposizione del 24 marzo 1977 di Samantha
davanti al Gran giurì della Contea di Los Angeles, di
fronte alle domande del procuratore distrettuale Roger J.
Gunson:
Il signor Polanski le aveva mai espresso il desiderio
di fotografarla?
«Sì».
E quando?
«Il 13 febbraio».
Che cosa le disse per indicarle il suo interesse
a fotografarla?
«Mi mostrò un numero di Vogue che aveva fatto e mi chiese:
“Ti piacerebbe che ti facessi delle fotografie?”. E io: “Sì”».
Lei rispose «Sì»?
«Ah-ah».
Risponda sì o no, per favore.
«Sì».
Il 20 febbraio lei è uscita con il signor Polanski per
farsi fotografare?
«Sì». [...]
Il regista e Samantha si ritrovano per nuove fotografie
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il 10 marzo. Il regista, dopo averla portata in una casa,
l’accompagna nella villa dell’amico Jack Nicholson.
Il signor Polanski le ha mai offerto qualcosa da bere?
«Sì. Credo di aver detto che avevo sete. Lui è andato in
cucina, e c’era questo frigorifero pieno di succhi, vino, bibite
e tutta questa roba. E quando è tornato aveva una bottiglia
di champagne». [...]
Nella villa è presente anche una donna, che Samantha
sostiene di non conoscere. Bevono insieme dello
champagne. Il regista scatta fotografie a Samantha nel
patio, vicino alla piscina. L’altra donna, a quel punto, se
ne va.
Che lei sappia, c’erano altre persone nella villa
di Nicholson dopo che lei se ne andò?
«No».
Dopo le foto nella zona del patio, che è successo?
«Rientrammo, e lui si mise di nuovo ad armeggiare con
la macchina fotografica. Penso per cambiare gli obiettivi,
o qualcosa del genere. Poi riprendemmo a fare fotografie
sotto il patio».
Indossava gli stessi abiti che aveva quando è entrata
nella villa, jeans e maglietta?
«No».
Come?
«No».
Si era cambiata?
«No. Avevo tolto la maglietta e posavo davanti a una
lampada».
La maglietta se l’era tolta da sola o gliel’aveva tolta
Polanski?
«Da sola».
Era una sua richiesta o l’ha fatto di sua volontà?
«Era una sua richiesta». […]
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Cosa le diceva di fare?
«Diceva cose tipo “Prendi il bicchiere di champagne così”,
“Guardami in questo modo”…».
Dopo queste foto che è successo?
«Mi ha fatto vedere la Jacuzzi di Jack Nicholson». […]
Che cosa è successo dopo che le disse che voleva
fotografarla nella Jacuzzi?
«Abbiamo telefonato a mia madre. […] Lui le ha detto che
saremmo tornati a casa un po’ più tardi […] Prima eravamo
entrati in bagno e lui aveva tirato fuori una piccola cosa
gialla, una specie di scatoletta. […] Dentro c’era una pillola
divisa in tre parti. Mi ha detto: “Questo è quaalude (un
barbiturico, ndr)?”.
E io: “Sì”. E lui: “Pensi che sarei capace di guidare se lo
prendo?”. E io: “Non lo so”. E lui: “Devo prenderlo?”. E io:
“Non lo so”. E lui: “Scommetto che lo farò”, e ha preso la
pasticca. Poi mi ha detto: “Ne vuoi un pezzetto?”. E io: “No”.
Poi ho detto “Okay”, perché… Non so perché» […]
Come ha preso la sua parte di Quaalude?
«L’ho mandata giù con un sorso di champagne». […]
Che cosa è successo dopo che ha preso la pasticca?
«Sono andata in cucina […] Mi resi conto che avevo bevuto
e mi arrabbiai con me stessa. E cominciai a mangiare. […]
Dopo aver mangiato cosa ha fatto?
«Lui mi ha chiamata e io sono entrata nella Jacuzzi».
Che cosa indossava quando è entrata nella Jacuzzi?
«Le mutandine, ma lui mi disse di togliermele». […]
Che è successo nella Jacuzzi?
«Mi ha fatto delle foto».
In quel momento aveva un bicchiere in mano?
C’era champagne nel bicchiere?
«Sì».
Ha bevuto champagne mentre era nella Jacuzzi?
«Non so».
Ricorda, più o meno, quante foto le ha fatto il signor
Polanski mentre era nella Jacuzzi?
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«Non molte».
Le diceva come mettersi in posa mentre le scattava
le fotografie?
«No».
Che cosa faceva nella Jacuzzi?
«Stavo in piedi e lo guardavo. Ha fatto poche foto. Diceva
che non c’era abbastanza luce».
Che ha fatto lui, dopo?
«È entrato nella Jacuzzi».
Quando è uscito dalla Jacuzzi indossava qualcosa?
«No».
E prima di entrarci?
«Sì»
Che cosa indossava?
«I pantaloni». […]
Che cosa ha fatto il signor Polanski quando è entrato
nella Jacuzzi?
«È andato nella parte più profonda».
E lei?
«Stavo dal lato opposto».
Poi che cosa è successo?
«Mi diceva: “Vieni qui”. E io: “No, no, voglio uscire”. Poi gli ho
detto che avevo l’asma e non potevo… Dovevo uscire. […]
E lui: “Vieni un attimo”. Alla fine mi sono avvicinata. C’era
l’idromassaggio, e lui mi ha detto: “Non si sta meglio qui?”.
E mi teneva, perché l’acqua era quasi sopra la mia testa. Poi
gli ho detto: “Meglio uscire”. E sono uscita».
Che intende quando dice che la teneva?
«Le sue mani erano intorno ai miei fianchi, più o meno
qui…».
Intorno alla vita?
«Sì. Poi ha cominciato a toccarmi e sono uscita».
Ha l’asma?
«No».
Ha mai avuto l’asma?
«No».
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E allora perché gli disse che aveva l’asma?
«Volevo uscire». […]
Che cosa ha fatto quando è uscita dalla Jacuzzi?
«Ho preso un telo da bagno».
E poi?
«Lui mi ha detto: “Vieni qui”. E io. “No, fa troppo freddo”. E
lui: “No, fa caldo”. Ho messo un piede nell’acqua. E gli ho
detto: “No, non voglio entrare”. […] Sono andata in bagno e
ho cominciato ad asciugarmi».
Vedeva il signor Polanski in quel momento?
«Sì, era entrato in bagno».
Poi che è successo?
«Mi ha chiesto se andava tutto bene, se il mio asma era
grave».
Che gli hai risposto?
«Che dovevo andare a casa perché avevo bisogno di
prendere le mie medicine».
E lui che ha detto?
«“Bene, ti ci porto tra poco”».
Che cosa ha fatto lei?
«Gli ho detto: “No, devo andare a casa subito”».
E lui?
«Mi disse di andare a sdraiarmi nell’altra stanza».
Com’era quella stanza?
«Non sono sicura. Non c’era luce. Sembrava una camera da
letto. C’era un letto, il divano, la tv».
Che ha fatto quando le ha chiesto di andare nell’altra
stanza?
«Gli ho risposto: “No, è meglio che vada a casa”. Ma avevo
paura. Perciò sono entrata e mi sono seduta sul divano».
Di che cosa aveva paura?
«Di lui».
E così è andata nella stanza e si è seduta sul divano?
«Sì».
Che indossava in quel momento?
«La biancheria intima e il telo da bagno».
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Aveva rimesso le mutandine?
«Sì, le avevo messe appena ero andata in bagno».
Che cosa è successo quando si è seduta sul divano?
«Mi si è seduto vicino e mi ha chiesto se era tutto ok».
Che cosa gli rispose?
«Gli risposi: “No”».
E lui?
«“Ok, starai meglio”. E io: “No, non starò meglio. Devo
andare a casa”».
Poi che è successo?
«Si è avvicinato e mi ha baciato. Io gli dicevo: “No,
allontanati”. Ma avevo paura di lui, perché in casa non c’era
nessun altro. […] Poi si è sdraiato e mi ha messo la bocca
sulla vagina».
Che cosa faceva quando ti ha messo la bocca sulla
vagina?
«Faceva una cosa tipo leccarla, non saprei. Stavo per
scoppiare a piangere. Volevo dirgli “No, basta”. Ma avevo
paura».
E lui diceva qualcosa?
«Nulla che io ricordi». […]
Per quanto tempo il signor Polanski ha tenuto la
bocca sulla sua vagina?
«Qualche minuto».
E poi cos’è successo?
«Ha cercato di avere un rapporto con me».
Che intende per rapporto?
«Ha messo il suo pene nella mia vagina».
Che cosa gli ha detto mentre lo faceva?
«Gli dicevo “basta, fermo”, ma non lottavo davvero, perché
in casa non c’era nessuno e non sapevo dove andare».
E lui diceva qualcosa?
«Forse qualcosa l’ha detta, ma non lo stavo ascoltando, non
ricordo».
In quel momento aveva le mutandine?
«No».
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Come mai non le aveva?
«Me le aveva tolte lui».
Quando?
«Me le aveva tolte mentre mi baciava».
Lui le chiese quando le doveva arrivare il ciclo?
«Sì».
Quando glielo chiese?
«Mentre mi penetrava».
E le chiese se prendeva la pillola?
«Sì».
Quando?
«Nello stesso momento».
Che cosa le disse?
«Mi ha chiesto: “Prendi la pillola?”. E io: “No”. E poi: “Quando
hai avuto l’ultimo ciclo?” E io: “Non ricordo, una o due
settimane fa. Non ne sono sicura”».
E lui che ha detto?
«“Ma dai, devi ricordarlo”. Gli ho ripetuto che non
ricordavo».
Le ha detto qualcosa dopo?
«Sì, mi ha detto: “Vuoi che ti prendo da dietro?” E io: “No”».
Ha detto qualcos’altro?
«No».
Quanto a lungo ha tenuto il pene nella sua vagina?
«Non ricordo per quanto, ma non è stato a lungo».
Aveva avuto rapporti sessuali prima del 10 marzo?
«Sì».
Quante volte, più o meno?
«Due».
Come fa a dire che il signor Polanski aveva il pene
nella sua vagina?
«Lo sentivo».
Cosa è successo quando lui ha detto “Vuoi che ti
prenda da dietro?”… L’ha davvero presa da dietro?
«Sì. […] Quando gli ho detto che non prendevo la pillola, mi
ha risposto: “Oh, allora non ti verrò dentro”. Poi mi ha tirato
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su le gambe ed è entrato nel mio ano.
Che cosa intende quando dice che le è entrato nell’ano?
«Mi ha messo il pene nel sedere».
Lui ha detto qualcosa in quel momento?
«No».
Ha provato a fare resistenza?
«Un po’, ma non tanto, perché… (pausa)
Perché?
«Perché avevo paura di lui».
Quando si è accorta che nella casa c’era qualcun
altro?
«Una donna ha bussato alla porta dicendo: “Roman, sei
qui?”.
E lui: “Sì, esco dalla Jacuzzi e mi vesto”».
E poi che è successo?
«È andato alla porta, ha aperto, ha parlato con lei. Io mi
sono rimessa la biancheria e mi sono avviata verso la
porta».
E poi?
«Lui mi ha presa di nuovo, sempre da dietro. Ha cominciato
a penetrarmi e poi si è fermato».
Sa cos’è un orgasmo?
«Sì».
Sa se lui ha avuto un orgasmo?
«Sì».
Come fa a dirlo?
«Perché potevo quasi sentirlo, ed era sulla mia biancheria.
Era sulla mia biancheria. Era sul mio sedere, sulla mia
roba».
Crede che abbia eiaculato nel suo ano?
«Sì».
Che vuol dire orgasmo?
«Che lo sperma esce fuori».
Sa cos’è lo sperma?
«Sì».
Ha visto o sentito dello sperma?
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«Sì, l’ho sentito».
Dove l’ha sentito?
«Sul mio sedere e sulla mia biancheria».
Quando ha sentito bussare alla porta non ha detto
niente?
«Avevo paura di lui. Non sapevo che dire». […]
Che cosa fece quando lui la lasciò andare?
«Sono andata in bagno, mi sono rimessa i vestiti, mi sono
sistemata i capelli. Lui mi ha detto: Aspettami. Ma io non
l’ho fatto. Sono uscita. Quella donna era seduta e parlava
al telefono. L’ho salutata, sono uscita, e mi sono seduta
in macchina. […] Ho cominciato a piangere. Dopo cinque
minuti lui è uscito e mi ha detto: sarò da te tra un paio di
minuti. Devo parlare con quella donna». E io, Oh, okay. […]
Poi è entrato in macchina e siamo andati a casa.
(deposizione riportata da Roberta Mercuri su gazzetta.
it e ripresa dal sito thesmokinggun.com )
Se ne potrebbe quasi dedurre, stante ciò che ha
raccontato Samantha, che quello fu l’errore di un uomo in
balìa del destino. Un uomo dalla personalità enigmatica.
Nel 1979 Roman Polanski parlò infatti con lo scrittore
Martin Amis del caso di Samantha. Ciò che gli disse è
riportato nel libro Visiting Mrs Nabokov. Michael Deacon,
nel suo blog sul The Telegraph, all’indomani dell’arresto
del regista nel settembre 2009, ha ripreso la parte saliente
delle frasi di Polanski in quel colloquio: «Neanche se
avessi ucciso qualcuno sarei stato così interessante per la
stampa. Ma una storia di scopate e di ragazzine, voglio
dire...I giudici vogliono scoparsi le ragazzine. La giuria
vuole scoparsi le ragazzine. Tutti vogliono farlo!».
La furia di Mike Tyson
Sabato 27 luglio 1991 l’Ansa diffonde una clamorosa
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notizia che arriva da Indianapolis. La procura locale ha
ufficialmente aperto un’inchiesta nei confronti di Mike
Tyson, accusato da una modella di averla violentata:
…La presunta vittima, che ha chiesto l’ anonimato, ha detto
alla polizia che Tyson, dopo averla portata in una limousine
al Canterbury Hotel di Indianapolis, l’ ha costretta a salire nel
suo appartamento e a subire un rapporto sessuale violento.
La prima ricostruzione è surreale, ma i giornali
americani ribattezzano subito l’intera storia come quella
della “Bella e la Bestia”.
Tyson, ai microfoni della CNN nega ogni addebito,
ritenendosi indignato per l’accusa patita. Ma il suo passato,
la sua vita smodata, il suo sregolato modo di passare le notti
non giocano certo dalla sua parte.
Tutto sarebbe successo il 19 luglio, al termine del
concorso americano di Miss America Nera.
La ragazza presenta querela piangendo il giorno
successivo al tenente Tim Horty del commissariato di
Washington, accompagnata da un medico che conferma
lo stupro.
Lì per lì c’è chi la giudica come una delle solite faccende
che Tyson chiude risarcendo il malcapitato di turno: chi
per percosse, chi per insulti, chi per averla palpeggiata.
Ma qui le cose vanno diversamente.
L’11 febbraio 1990 l’epopea di Tyson nella boxe è
sostanzialmente finita in un incontro incredibile: Iron
Mike, apparso assolutamente sottotono, è andato giù
alla decima ripresa con James “Buster” Douglas. Nessuno
ci credeva: lo sfidante che gli ha portato via il titolo era
dato 42 a 1. Ci sono state polemiche e sospetti, come da
sempre accade nel pugilato. Poi il campione è sembrato
riprendersi. Ha vinto un match e si stava allenando per
giocarsela con Evander Holyfield: l’incontro è previsto per
59
l’8 novembre dello stesso anno.
Ancora non lo sa, ma dovrà rinviarlo di molto, molto
tempo.
L’inchiesta per stupro prosegue infatti a ritmo serrato.
Poco prima è stato rinviato a giudizio il nipote del
senatore Ted Kennedy per un reato identico.
E l’America puritana insorge e accusa prima ancora
che inizi il processo del pugile: Tyson ha commesso un
“date rape”, lo stupro che segue all’appuntamento, uno
dei crimini più in voga del momento nei college e tra le
giovani miss.
Presto la situazione del pugile si complica. Dietro la
forte pressione dell’opinione pubblica, Mike Tyson viene
rinviato a giudizio per il febbraio successivo.
È l’inizio della fine. Suo e della boxe, su cui c’è grande
subbuglio: tre pugili avevano perso la vita nel 1991, uno,
Michael Watson, è rimasto menomato subendo ben tre
operazioni al cervello. Il CIO è intenzionato a togliere il
pugilato dalle Olimpiadi, si cerca di imporre il caschetto
anche ai professionisti. A questa pubblicità negativa
contribuisce il caso Tyson, per il quale l’accusa chiede 65
anni di carcere.
Il 27 gennaio del 1992 comincia il processo. A New
York sono presenti centodieci reporter provenienti da
tutto il mondo.
Per la difesa Don King, il suo storico manager, ha scelto
l’avvocato Vincent Fuller, uno decisamente in gamba, che
ha salvato lo stesso Don King dall’accusa di evasione
fiscale.
I pronostici fanno ben pensare al team di Iron Mike. Da
poco si è infatti concluso a favore degli imputati eccellenti
William Kennedy Smith e il giudice Clearence il processo
per due stupri commessi in Florida: il caso di Kennedy in
60
particolare ha suscitato grosso scalpore.
Tutta l’America morbosa, quella che ora si appresta a
fare la medesima cosa con Tyson, ha guardato in tv il
dibattimento.
Il tribunale viene mandato in mondovisione e
assume, come in tutti i casi americani, l’aspetto di un set
hollywoodiano. Intanto l’accusatrice viene allo scoperto.
Si chiama Desiree Washington.
In aula due modelle, compagne di Desiree, l’accusano
di essere una “gold digger”, una cacciatrice d’oro, in cerca
di notorietà e di denari facili.
Sotto giuramento raccontano che, poco prima
dell’episodio incriminato, Desiree scambiò con loro vivaci
impressioni sul pugile statunitense, dettasi certa di poter
mettere le mani sull’immenso patrimonio finanziario del
ragazzo di Brooklyn.
La prima testimone si chiama Madelyn Wittington, ha
20 anni, e racconta: «Eravamo nel camerino e Desiree mi
disse che Tyson le aveva chiesto di uscire. Quando le chiesi
se si fidasse mi rispose testualmente: perché no? Quello è
stupido ed ha un casino di soldi. Guarda tutto quello che
gli ha portato via la moglie, Robin Givens, dopo soli otto
mesi di matrimonio».
Non appena la dichiarazione diviene di dominio
pubblico, gli allibratori si scatenano e danno Tyson assolto
per cinque a uno. Non solo.
Nello stesso giorno, il 7 di febbraio, un’altra modella,
Cecilia Alexander, 22 anni, conferma: «C’ero anch’io
nel camerino. Desiree disse che Tyson era un ignorante
che non sapeva nemmeno parlare. Ma disse anche che
accanto a lei non ne aveva bisogno. Con tutti quei soldi
lui avrebbe pensato a combattere facendo i miliardi e lei a
fare le chiacchiere».
Quando il procuratore Harrison cerca di cogliere
le testimoni in castagna facendole contraddire, e in
parte riuscendoci, Tyson si è però già conquistato parte
61
dell’opinione pubblica. Almeno quella internazionale, poco
propensa a credere nell’assoluta ingenuità della vittima.
La terza testimone della difesa, Aleta Anderson, 19
anni, sembra chiudere i conti quando afferma che il
giorno successivo al presunto stupro Desiree si comportò
come tutti gli altri giorni, guardando per strada gli uomini
col solito interesse. Il pubblico in aula fa scrosciare gli
applausi.
Tyson impassibile, ascolta le testimonianze una dietro
l’altra.
Tonya Taylor, altra modella del gruppo, sta con lui: «È
anche un gentiluomo. È vero, a me ha chiesto un bacio o
del sesso. “Del sesso sarebbe meglio” mi ha detto “ma va
bene anche un bacio”. Lo ha fatto scherzando e sorridendo
e quando ci siamo lasciati mi ha stretto affettuosamente.
Niente di scabroso».
Harrison si gioca le sue carte sentendo altre ragazze: chi
si lamenta di essere stata palpata sul sedere, chi afferma
che Tyson cambierebbe in fretta umore e personalità.
Intanto la faccenda si fa più chiara: Desiree ha accettato
l’invito di Tyson nella sua stanza, pur avendogli negato il
consenso ad un rapporto sessuale.
Gli ha fatto compagnia in camera, poi è andata in bagno
e quando ne è uscita si è trovata davanti il campione in
mutande. Nemmeno allora, però, si aspettava che le
saltasse addosso.
I fan di Iron Mike non ci stanno più e incendiano
l’albergo dove sono ospitati i membri della giuria, all’urlo
«Proscioglietelo! Proscioglietelo!». Si scontrano anche
con un gruppo di persone che si definisce “Uomini contro
lo stupro”. È una vera e propria bagarre che infiamma
l’America. Un giurato si ritira, affermando di non poter
più giudicare con serenità.
Harrison prosegue nella sua tesi: «Un no è un no,
anche quando la ragazza ti segue nella stanza e ti vede in
mutande senza scappare».
62
Tyson rilascia una testimonianza cruda, rispondendo
con stirati sorrisi alle domande della Procura. «Lei era
molto disponibile - dichiara in aula- altroché. Quando le
telefonai per uscire le dissi di mettersi qualcosa di comodo.
Una gonna ampia, per esempio, che si sfila molto prima
dei jeans. Così potevamo fare l’amore in macchina senza
troppe complicazioni».
La sua versione è confermata dal cantante Johnny
Gills, che era con lui al momento della telefonata: «Fu
una telefonata esplicita e lei mi sembrò d’accordo sulla
proposta di Tyson».
Il pugile non era riuscito ad avere rapporti in auto con
Desiree, ma l’aveva convinta ad andare con lui in albergo,
nella sua stanza.
«Mi ha seguito - ribadisce - sapeva bene quello che
avevo in mente di fare. E non ci fu violenza. Fuori dalla
porta stazionava la mia guardia del corpo».
Quando il procuratore Harrison fa notare alcune
contraddizioni, come il colore dei calzoni diverso, il fatto
che le aveva inizialmente offerto una cena e che poi le
offrì solo del sesso, lui non si scompone: «Ci sono tante
ragazze che mi corrono dietro. Mi sarò confuso».
La deposizione di Desiree Washington è piuttosto
convincente. La ragazza riesce a tenere testa alle
imbarazzanti domande dell’avvocato Vincent Fuller,
rispondendo colpo su colpo nonostante la sua giovane
età. Voce flebile, da ragazzina, ma dotata di un carattere
molto forte, non cede nemmeno di fronte al secondo
interrogatorio. È istruita, ha vissuto per diciotto anni nel
Rhode Island, ha vinto quattro borse di studio per andare
al college. Passa le domeniche ad insegnare in una scuola
religiosa e prima del fattaccio non è mai stata protagonista
di vicende scabrose.
Un curriculum insomma che le dà molti punti
63
di vantaggio su Tyson. Nell’aula 4 del tribunale di
Indianapolis, Fuller sostiene che Desiree ci sarebbe stata
per poi ricattare il pugile e portargli via un sacco di soldi.
Lei smentisce categoricamente: «Ero nel mio letto il 18
luglio alla una di notte. Quando Tyson mi ha chiamata al
telefono ero in pigiama e non avevo voglia di uscire. Ci sono
andata soltanto perché mi ero fatta convincere dalle mie
amiche. Sono scesa e ho trovato in macchina l’accusato. Era
una limousine color oro. Lui mi ha invitato a salire. Poi mi
ha subito abbracciata, ha tentato di baciarmi. Aveva un alito
che puzzava tantissimo. Ha voluto che lo accompagnassi
in albergo perché aveva dimenticato qualcosa. Lo aspettai,
fuori dalla sua stanza, la 606, fino a quando non mi invitò
ad entrare per un attimo. Una volta dentro lui accese la
televisione e iniziò a farmi delle domande. Gli risposi che
non ero come le altre donne. Poi andai in bagno. Quando
uscii lo vidi in mutande e mi spaventai. Mi cacciò la lingua
in bocca saltandomi addosso. Cercai di allontanarmi, di
dimenarmi. Ma sembrava di picchiare contro un muro.
Lui continuava a dirmi di stare ferma, di non resistere.
Mi tolse la camicetta, il reggiseno, poi mi infilò due dita
nella vagina. Lo supplicai di fermarsi, dissi che non avevo
bisogno di avere un figlio, che dovevo andare all’Università.
Lui scherzò sul figlio che avremmo potuto avere insieme.
E mi violentò. Urlavo che mi faceva male, ma lui non si è
fermato. È stato terribile».
La testimonianza, un po’ commossa, davanti ai giurati,
quattro donne e otto uomini, di una ragazza di 50 chili
tutta casa e chiesa contro un energumeno campione di
ferocia e con un passato nelle patrie galere, fa il suo effetto.
Questi, che potrebbero sembrare meri dettagli, inutili in
un processo, costituiscono in realtà l’ossatura dei processi
americani, in cui tutto si trasforma in show e dove l’essere
convincenti risulta più utile di una prova.
Fuller fa notare alla giovane che aspettò due giorni per
denunciare il suo assistito.
64
«Avevo paura, pensavo di non essere creduta».
E Desiree fa effetto: bella, giovane ingenua e colpita
nel fiore delle sue speranze da un uomo violento. Per di
più un nero della periferia di Brooklyn, già noto alle forze
dell’ordine per i suoi vizi.
Eppure le prove di questo presunto stupro stanno tutte
nelle parole della deposizione della stessa Washington:
possibile che una ragazza scenda dal letto alla una
di notte, si cambi, salga in macchina di un uomo (uno
qualsiasi, il fatto che sia Tyson rende ancora più stramba la
situazione), veda che questo è ubriaco e tenta di baciarla,
nonostante questo salga in camera sua e vada in bagno
fino a trovarselo in mutande all’uscita; possibile tutto
questo senza un filo di malizia? Perché andò in bagno se
aveva paura? Possibile che non abbia gridato? Perché mai
una ragazza dovrebbe alzarsi dal letto alla una di notte
e seguire una persona della quale ha paura convinta di
andare ad un ristorante? All’una di notte? Possibile che
veramente avesse fatto tutto questo senza avere intenzione
di starci?
Sono le domande che infiammano l’opinione pubblica
americana. Ma Desiree, vincitrice di quattro borse di
studio, convince anche il giudice Patricia Gifford a
rifiutare tre testimoni a sorpresa a favore del pugile, una
in particolare: una ragazza di colore che sosteneva di aver
visto la coppia avvinghiata in macchina in atteggiamenti
inequivocabili.
Il giudice accetta al contrario la registrazione della
telefonata alla polizia della ragazza subito dopo la presunta
violenza carnale. Quando poi a testimoniare arriva la
madre della giovane, il dramma raggiunge l’apice: «La
mia ragazza che avevo mandato al concorso di bellezza
era diversa. Pallida in volto - spiega la madre in lacrime
- l’ho abbracciata e continuava a tremare, a piangere. Era
un automa, aveva un sorriso falso e il trucco nascondeva il
trucco degli occhi. Ridatemi mia figlia, la rivoglio!»
65
Arriva infine Stacy Murphy, la prima delle altre miss a
vedere Desiree il giorno dopo l’aggressione: «Sembrava
una zombie. Mi disse che Tyson l’aveva stuprata e le
consigliai di denunciarlo subito».
Il processo, come sempre accade in America, sfocia
decisamente nel morboso.
Accusa e difesa si ribattono colpo su colpo le dimensioni
del pene di Tyson, le caratteristiche delle mutande della
vittima, le parolacce, il linguaggio usato dai due.
Fuller sostiene che Tyson, alla ragazza, disse: «ti voglio
scopare»; l’accusa risponde che disse invece soltanto
«ti voglio». Argomenti che da fuori possono sembrare
improbabili, come quando Desiree dice di essere entrata
nella 606 solo perché Tyson era l’idolo di papà.
Su ciò che successe nella stanza c’è grande divergenza,
un po’ su tutto: «La ragazza indossava i calzoncini del
pigiama perché non aveva evidentemente intenzione di
avere rapporti, altrimenti avrebbe messo gonna e slip»
sostiene il procuratore.
Fuller risponde: «Perché la ragazza andò in bagno
gettando l’assorbente, come da lei stessa dichiarata, senza
cambiarlo con uno nuovo? Perché se non per prepararsi
ad un rapporto sessuale con il mio assistito?»
Tyson viene infine ritenuto colpevole.
E si sprecano le interviste, i retroscena, i servizi
fotografici alla miss di colore.
Il giorno successivo il pugile prende l’aereo per
Cleveland, in attesa di sapere a quanto sarà condannato.
Si ritira nella sua villa di tremila metri quadri dell’Ohio
tenendo per tutto il tempo del viaggio una cuffia del
walkman sulle orecchie per non sentire le domande di
giornalisti e curiosi. Deve affrontare l’ennesima grana: tra
spese legali, spese folli, regalie varie è rimasto al verde.
Nella sua carriera pugilistica pare abbia guadagnato
circa 60 milioni di dollari. Con una borsa sempre in
66
crescendo dai primi 300 dollari dall’esordio del 1985.
Nel 1989 la rivista Forbes lo aveva indicato come il più
ricco atleta del mondo, con guadagni pari a 28,6 milioni
di dollari. Ora, dopo tutto quello che è successo e che ha
combinato, è rimasto con meno di quindici milioni di
dollari.
Ha riempito la casa di auto, ciondoli d’oro, oggetti
inutili di valore immenso. Sembra che il giorno del
presunto stupro avesse in tasca circa 30.000 dollari in
contanti, quanto, per ironia della sorte, deve versare alle
casse erariali di Indianapolis per pagarsi la cauzione.
Allo studio legale William & Connoly deve due milioni
di dollari. Cinquemila dollari al mese vanno alle madri
dei suoi due figli. Il suo mago personale John Haplin si
prende una parcella di 40.000 dollari per ogni servizio.
Senza contare il vecchio Don King, che dalla macchina da
soldi ha sempre ricavato un terzo dei guadagni.
Gli danno 10 anni di prigione. Sta dentro 1095 giorni,
dal 1992 al 1995. Al suo rientro, la sua stella sul ring non
brillerà più.
La serata calda di Cristiano Ronaldo
Accuse di stupro hanno colpito anche diverse star del
mondo del calcio. Molte di queste si sono poi rivelate false.
Fu il caso, ad esempio, di Patrick Kluivert, attaccante della
nazionale olandese, Ajax, Milan e Barcellona. A metterlo
nei guai fu una giovane conterranea nel 1997, Marielle
Boon. Disse di averlo incontrato insieme a tre amici in
una discoteca di Amsterdam e di averli accompagnati
a casa del calciatore. Nei giorni successivi li denunciò
tutti per violenza sessuale. Un anno più tardi i giudici
ritennero infondata la querela, sostenendo che non era
stato affatto costretta ad avere rapporti sessuali. Dovette
rimborsare il calciatore con 42mila fiorini per le spese
67
legali, l’equivalente all’epoca di 35 milioni di lire. Ci
provò allora in sede civile, ma nell’aprile del 2000 perse
anche quel ricorso.
Ma certo lo scandalo più grande, se avesse avuto un
seguito, si sarebbe potuto rivelare l’episodio che vide
coinvolto Cristiano Ronaldo. Allora aveva 20 anni ed era
già uno dei più promettenti fuoriclasse del Manchester
United, ma ancora lontano dall’essere il numero uno (o
due, fate voi) al mondo. Dal Corriere della Sera del 20
ottobre 2005:
Scandalo Manchester Cristiano Ronaldo arrestato
per stupro
LONDRA - (f.m.r.) Ci risiamo. Un giocatore della Premier
League è accusato di stupro. Cristiano Ronaldo martedì sera
ha giocato in Champions League a Manchester, ieri ha preso la
macchina e con il suo avvocato è andato a un appuntamento
già programmato con Scotland Yard che voleva ascoltare
la sua versione dei fatti. Il portoghese è stato trattenuto
in stato di fermo, in attesa di chiarire la propria posizione.
Cristiano Ronaldo, 20 anni, si è volontariamente presentato
di fronte agli inquirenti che lo hanno convocato insieme a
un amico trentenne, che è stato rilasciato. Il calciatore no.
Ad accusarlo due ragazze che hanno raccontato di essere
state abbordate in un club del centro di Londra la sera del 1°
ottobre (il Manchester United aveva vinto 3-1 con il Fulham
nella capitale), di aver acconsentito a proseguire la serata
in una suite da 1.500 euro dell’ hotel Sanderson, vicino a
Oxford Street, ma di essere state poi violentate da Ronaldo e
dal suo amico. Gli agenti dell’ Operazione Saffiro, la squadra
dedicata alle violenze sessuali nella capitale inglese, hanno
sigillato la stanza incriminata alla ricerca di prove, e ieri
hanno interrogato e trattenuto il portoghese, che non è stato
però ancora formalmente incriminato. Quello di Ronaldo è
68
l’ottavo caso di stupro che ha visto coinvolti giocatori dei
campionati inglesi negli ultimi due anni.
Ronaldo disse di essere vittima di una montatura. E,
a dire il vero, fin da subito gli inquirenti definirono le
sue dichiarazioni “corrette”. Passò un mese e mezzo e
infatti Scotland Yard archiviò le accuse. Peggio era andata
all’attaccante olandese Robin Van Persie: sempre nel 2005
anche lui patì le medesime accuse, da parte di una modella
nigeriana, Sandra Krijgsman, accuse che poi si rivelarono
infondate. Tuttavia passò due settimane in un carcere
olandese in attesa che i fatti fossero chiariti: trattavasi di
rapporto consensuale.
D’altra parte, quando di mezzo c’è una star ricca e
famosa, il rischio di incappare in vicende del genere è
sempre molto alto.
Il campione di basket Kobe Bryant
e la giovane cameriera
Kobe Bryant, cresciuto cestisticamente in Italia, è il
terzo tiratore più prolifico dell’NBA, alle spalle del mitico
Kareem Abdul-Jabbar e di Karl Malone. Lo scandalo lo
colpisce nel pieno della carriera, il 4 luglio 2003: l’accusa
è di aver stuprato una ragazza di 19 anni dipendente
dell’Hotel Cordillera di Edwards, Colorado. Il cestista
ammette il rapporto, ma dice che è stato consensuale.
Uscito grazie ad una cauzione di 25mila dollari, la sua
immagine ne risente subito: Nutella, Adidas e altri marchi
rescindono i loro contratti di sponsorizzazione. Ma la
vicenda appare complessa da subito, quando la ragazza
dice di averlo baciato e di avergli successivamente e invano
chiesto di smettere.
La difesa di Kobe gioca in attacco. Scrive Riccardo
Romani sul Corriere della Sera l’11 ottobre 2003:
69
La difesa di Kobe Bryant attacca e gioca pesante
«In tre giorni la ragazza ebbe rapporti con più uomini».
L’avvocato della stella Nba ribalta la situazione e mette in
cattiva luce l’ impiegata dell’ hotel che ha sporto denuncia
EAGLE (Colorado) - Tutto accade per un motivo: il 30
giugno scorso, alla 19enne biondina del Colorado che vuole
spedire all’ergastolo Kobe Bryant con l’accusa di stupro, si
fermò l’automobile. Uno stupido inconveniente. La ragazza
dovette cambiare il turno di lavoro come receptionist al
Cordillera Hotel e si presentò in ritardo; solo così alle 22
di quella giornata poté registrare il signor Rodriguez nella
stanza numero 35, la stessa dove circa un’ora dopo sostiene
di essere stata violentata. Javier Rodriguez è il nome in codice
per Kobe Bean Bryant. Dopo le prime cinque ore di udienza
preliminare presso il piccolo tribunale di Eagle intasato
di vecchiette, algide studentesse di legge ammaliate dal
campione e reporter avidi di dettagli truculenti, è evidente
che quanto accaduto nella stanza numero 35, non ha più
troppa importanza.
A decidere se l’asso dei Lakers meriti la galera o meno
saranno altri fattori: la reputazione da ragazzo d’oro della
Nba, la capacità di confondere la scena da parte del team di
favolosi avvocati al proprio servizio, i mass-media, la tenacia
degli spauriti legali dell’accusa trovatisi di colpo dentro ad
un gioco più grande di loro; ed infine la credibilità di questa
biondina procace il cui passato (ma anche la sua versione
dei fatti), presenterebbe qualche buco nero.
Il tutto mescolato in un’atroce salsa di mutandine
macchiate di sangue, erezioni, cavilli legali, immagini di
organi genitali ingrandite a dismisura e bollori malcontrollati.
A gestire il traffico in questo caotico crocevia di emozioni e
informazioni, il giudice Frederick Gannett, un placido 50enne
70
con un passato da sceriffo di montagna che pare divertirsi
un sacco («Mai vista tanta gente per un mio caso...»). A lui
tocca stabilire se le prove presentate meritano un processo.
Le cose si erano messe al brutto per Kobe: l’accusa ha
utilizzato come testimone Doug Winters, 200 chili di
detective che sembra uscito da un film dei fratelli Cohen.
È lui che ha raccolto la testimonianza della vittima. L’uomo
racconta: la ragazza, dopo averlo registrato, fa amicizia con
Kobe, di cui era una fan, fino ad accettare un invito in camera
di lui e baciarlo. Con la scusa di un tatuaggio sulla schiena
da mostrare, finisce in trappola. Kobe le stringe il collo con
violenza immobilizzandola ed abusando di lei, ignorando le
suppliche, e minacciandola di non dire niente a nessuno. Poi
le chiede di baciarlo sui genitali prima di lasciarla andare.
Lo zelante Winters dice di aver visto le mutandine di lei,
macchiate di sangue così come la magliettina di lui. Alcune
foto transitano davanti agli occhi del giudice. La sala del
tribunale è raggelata. Kobe, abito blu impeccabile e catenona
di diamanti con crocifisso, non mostra alcuna emozione.
E qui entra in scena la difesa. Pamela Mackey, anni 46,
fa paura solo il nome dello studio per cui lavora: Haddon,
Morgan, Mueller, Jordan, Mackey and Foreman. È un asso,
una donna capace di feroce accanimento: attacca subito
il detective Winter: «La ragazza è stata quasi strozzata
da Kobe: lei ha visto segni sul collo di lei?». No, nessuno.
Il tatuaggio? Sulla schiena o sulla caviglia? Non sa, non si
capisce. Poi il colpo di scena della Mackey, dopo aver detto
per sei volte il nome della vittima (contravvenendo l’ordine
del giudice): la tesi per cui le escoriazioni vaginali siano
frutto di tre rapporti, con tre uomini diversi in tre giorni.
La Mackey ha in mano i testimoni del caso? Possibile.
Il giudice Gannett interrompe le ostilità e rimanda tutto
a mercoledì. Kobe Bryant respira. Forse non scamperà al
processo, ma l’ obiettivo era di far sapere al mondo che chi
71
l’accusa non è senza macchia. E di seminare dubbi anche tra
chi lo vedeva già dietro le sbarre.
La legge in Colorado è molto severa sugli stupri.
Ma, contrariamente alla regola per la quale le presunte
vittime sono tutelate e si vieta la pubblicazione sui loro
comportamenti sessuali, stavolta i giudici autorizzano la
difesa a usarli.
Il tempo intanto passa, in attesa che venga fissata la data
del processo. E il 20 aprile 2004 si fa viva la madre della
ragazza: «Sono orgogliosa di mia figlia – dice apparendo
per la prima volta in pubblico insieme al marito al
convegno annuale di Denver che riunisce le vittime del
crimine - Mia figlia mi ha insegnato molto sul significato
del coraggio». Ma il 27 agosto dello stesso anno le accuse
vengono infine ritirate. Come scrive Repubblica:
Caso Bryant, archiviate le accuse. Si chiude il processo
per stupro
EAGLE (Colorado) - Il caso di Kobe Bryant, il campione
Nba accusato di stupro da una ragazza, è chiuso. Il giudice
del Colorado che per oltre un anno si è occupato della
vicenda ha annullato le accuse contro il giocatore dei Los
Angeles Lakers su richiesta dei procuratori dell’accusa,
che si sono arresi di fronte all’impossibilità di vincere
il processo. Nessuna accusa criminale potrà essere
di nuovo sollevata in questa vicenda contro Bryant. L’accordo è arrivato al termine di un’udienza drammatica
a Eagle, in Colorado, di fronte al giudice Terry Ruckriegle.
Tra i motivi che hanno spinto la procura ad alzare
bandiera bianca ci sarebbe la consapevolezza che
quasi tutti i giurati interrogati nella fase preliminare
sembravano innocentisti. Per la procura è apparsa evidente
72
l’impossibilità di ottenere una condanna che poteva
superare i 20 anni di reclusione sulla base di elementi che
sancissero la colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Bryant era accusato da una ragazza di 20 anni, che
sosteneva di essere stata violentata dal campione
di basket in una camera d’albergo in Colorado il 30
giugno 2003. Il procuratore Mark Hurlbert ha spiegato
che “la vittima a questo punto non si sente in grado
di andare avanti” e di testimoniare contro Bryant. La ragazza ha fatto sapere, attraverso i suoi avvocati, di
essere rimasta sconvolta dalla pubblicità del caso e di aver
perso fiducia nella giustizia. Ma una serie di perizie hanno
dimostrato che, con ogni probabilità, la giovane ha fatto
sesso con un altro uomo poche ore dopo il presunto stupro
di Bryant, nonostante abbia descritto come traumatico
il rapporto con il giocatore. Questo dato ha minato più
di ogni altro l’impianto accusatorio. Il processo a Bryant
era pronto a entrare nel vivo la settimana prossima, dopo
aver completato la scelta dei giurati. Il campione dell’Nba
si è sempre difeso ammettendo di aver avuto un rapporto
sessuale con la ragazza, ma descrivendolo come sesso tra
consenzienti. I legali della ragazza hanno ora la possibilità di
continuare a perseguire Bryant in sede civile, ma il crollo del
processo penale sembra costituire un serio pregiudizio e le
parti potrebbero decidere di chiudere tutta la vicenda con un
accordo extragiudiziale. E in effetti la storia si concluderà proprio così: con un
accordo stragiudiziale i cui contenuti non verranno resi
noti. E con una lettera pubblica di scuse del campione di
basket.
73
Come distruggere la star:
l’annientamento di Michael Jackson
È stata la più grande rockstar di tutti i tempi. Divo fin da
bimbo, quando si esibiva coi fratelli. Ancora giovanissimo
quando l’album Thriller scardinava ogni classifica della
storia della musica. Ha venduto più di chiunque, oltre un
miliardo di dischi. E in epoca digitale, ad un anno dalla
sua morte, è diventato l’artista più scaricato di sempre.
Il Guiness dei Primati ha sancito un altro suo record:
donazioni in beneficenza per 400 milioni di dollari. A
Neverland Ranch ospitava bambini malati, molti dei
quali sono guariti grazie alle spese sostenute da lui. Ed
è questa sua generosità ad averlo portato allo scandalo,
questo suo essere la più fenomenale macchina da soldi
dello spettacolo ad aver attratto avvoltoi e gentaglia
senza il minimo scrupolo. Anche se la cosa sarà chiara
definitivamente al mondo soltanto dopo la sua morte.
Le prime accuse sono del 1993. A farle è certo Evan
Chandler, dentista di Beverly Hills radiato dall’albo.
Chandler cita Jackson in sede civile sostenendo che il
cantante ha abusato sessualmente del figlio minorenne
Jordan. Michael si professa innocente, ma intorno a
lui nessuno sembra rendersi conto della gravità della
vicenda. Il 25 gennaio 1994 a Chandler viene versata
dall’assicurazione una cifra non precisata per volontà
dei soci in affari del cantante, che temono di perdere le
enormi somme dei tour di Michael qualora sia costretto
a subire un processo. La scelta si rivela un boomerang:
la Pepsi scioglie il contratto pubblicitario e il Dangerous
Tour viene presto sospeso non appena i giornali scrivono
che i soldi sono stati versati per far ritirare le accuse di
molestie.
Michael denuncia allora Chandler per estorsione e
pretende che l’ex dentista scriva su un documento ufficiale,
successivamente depositato in tribunale, che lui non ne ha
74
mai molestato il figlio. Che Chandler sia un mero ricattatore
lo si saprà più avanti, quando si verrà a sapere delle telefonate
nelle quali diceva al suo avvocato che voleva distruggere il
cantante perché non gli aveva prestato del denaro per aprire
un’attività. Ma non è sufficiente.
Il 3 febbraio 2003 la Granada Television manda in
onda il documentario del giornalista inglese Martin
Bashir dal titolo Living with Michael Jackson, trasmesso
negli Stati Uniti il 6 febbraio. Il giornalista è rimasto con
la star per 8 mesi. E all’interno spiega di essere rimasto
turbato dai rapporti di Michael coi bambini. Tra questi
c’è Gavin Arvizo, 13 anni, ammalato di cancro e curato
con successo proprio grazie alle cure pagate dal cantante.
Nel video si racconta anche di una notte in cui Gavin
dormì nel letto di Michael, mentre Michael si era coricato
per terra. Niente di speciale, diceva la star: tanti altri lo
avevano fatto.
Solo che il documentario è stato sapientemente tagliato.
Mancano i complimenti che lo stesso Bashir faceva a
Michael per il rapporto instaurato coi figli e coi bambini
disagiati. Come e perché Michael, la cui infanzia era stata
terribile, avesse deciso di occuparsi di tanti di loro.
Sarà così il cantante a diffondere un secondo
documentario, Take Two, con le riprese del suo cameraman
personale.
Intanto, però, la famiglia Arvizo denuncia Michael
per abusi sessuali su Gavin. Sarebbero avvenuti tra il
20 febbraio e il 12 marzo 2003, nientemeno che dopo
la messa in onda negli Usa del documentario di Bashir,
che metteva in croce la star proprio nel rapporto con il
tredicenne. Possibile mai?
Di fatto, viene anche spiccato un mandato di arresto.
Portato al carcere di Santa Barbara County, Michael
75
appare in manette. Esce pagando una cauzione di 3
milioni di dollari.
Per il mondo, specie chi, fuori dagli Stati Uniti, non
conosce gli atti nel dettaglio, Michael è un pedofilo. E
chissà quella volta con Jordan Chandler...
Il meccanismo mediatico non lo si ferma più.
Resta una domanda da porsi: chi sono gli Arvizo, che
tanto avevano chiesto l’aiuto del cantante per aiutare il
figlio a guarire dal cancro? Lo si scopre durante il processo
del 2005, quando si raccontano una serie di tentativi di
estorsione che la famiglia ha messo in atto con personaggi
famosi, dal presentatore Jay Leno al comico Chris
Tucker all’attore George Lopez. Vantano pure arresti per
taccheggio. E alla madre di Gavin, Janet, arriverà anche
una condanna nel febbraio 2006.
Tutto era accaduto quando Gavin aveva rubato un abito
nel grande magazzino JC Penney, West Covina, California.
Le guardie fermarono la famiglia nel parcheggio. Star
Arvizo, fratello di Gavin, giurò che le guardie avevano
molestato la madre. E lei ammise: era stata molestata e
pure picchiata. Al processo portò le foto dei lividi e la JC
Corporation pagò 152mila dollari di danni. Solo che, più
tardi, si scoprì che a pestare Janet era stato il marito. E,
al processo per Michael, Star dichiara finalmente di aver
mentito: nessuno molestò mai la madre.
Non c’è bisogno di aggiungere molto sulle testimonianze:
rinviato a giudizio per 14 capi d’accusa, il 13 giugno 2005
Michael Jackson è dichiarato non colpevole. Soltanto
dopo la sua morte Jordan Chandler, ormai adulto, il primo
che aveva allungato ombre di pedofilia sulla rockstar
nel lontanissimo 1993, ammette: «Non avrei voluto
distruggere l’immagine di Michael Jackson, ma mio padre
mi fece raccontare un sacco di bugie. Ora non posso più
76
mentire e chissà se Michael potrà mai perdonarmi, lui non
mi ha fatto mai nulla, è stato mio padre, lo ha fatto per
uscire dalla povertà».
Nel giugno 2013 il britannico Sunday People, dopo
aver letto alcuni documenti dell’Fbi, definisce Michael una
specie “predatore di bambini”. Secondo il racconto i suoi
abusi sarebbero cominciati a Neverland nel 1989. E per
nasconderli la rockstar avrebbe pagato con ben 35 milioni
di dollari «due dozzine di teenager». L’Fbi sarebbe venuta
a conoscenza della verità già nel 2002, quando iniziò
ad indagare su Anthony Pellicano, il detective delle star
coinvolto in diversi casi di spionaggio privato e assunto
da Michael. Fu a lui che sequestrarono diversi fascicoli
sul cantante che lo indicavano come pedofilo. Di certo tali
documenti non furono mai trasmessi ai magistrati che lo
processavano.
Forse perché l’Fbi sapeva che di famiglie Chandler e
Arvizo l’America è piena.
Le notti di Dominique Strauss-Kahn
Dominique Gaston André Strauss-Khan, per i francesi
semplicemente DSK, è un economista membro del Partito
Socialista d’Oltralpe che il primo novembre 2007 diventa
direttore generale del Fondo Monetario Internazionale.
Conosciuto in tutto il mondo, la sua candidatura è stata
appoggiata da Nicolas Sarkozy con il consenso degli Stati
Uniti, contro l’antagonista Josef Tosovsky, che invece era
sostenuto da Vladimir Putin.
Le donne, innegabilmente, gli piacciono molto: quando
scoppia il primo scandalo è sposato in terze nozze con
Anne Sinclair, giornalista e conduttrice televisiva di TF1.
Un matrimonio che dura da sedici anni.
Il 18 ottobre 2008 il Wall Street Journal lancia la
notizia: un’inchiesta interna al FMI è stata aperta per
77
verificare se DSK abbia favorito all’interno della struttura
una sua amante, Piroska Nagy, economista ungherese,
ex dipendente poi passata alla Banca Europa per la
Ricostruzione e lo Sviluppo. L’inchiesta deve accertare se
l’abbia prima portata avanti e poi penalizzata una volta
terminata la relazione.
Scrive l’Ansa: «Che DSK sia un seduttore, lo si sa dai
tempi in cui era ministro dell’economia e delle finanze
francese alla fine degli anni novanta. E in Francia una
storia come quella con la Piroska non avrebbe avuto
probabilmente nessuna conseguenza. Ma nel caso dell’Fmi,
la situazione è diversa, visti i precedenti, ed il fatto che
la Piroska è sposata ad un famoso economista argentino,
Mario Blejer». Una storia di tradimenti reciproci e
un’accusa di abuso di potere. Cuore dell’indagine è anche
la liquidazione della donna e l’ipotesi che sia stata spinta
a lasciare il Fondo. Lui si difende: «In nessun momento ho
abusato della mia posizione al Fondo monetario».
E trova dalla sua il Paese. I politici ci vanno cauti coi
commenti. E poi sanno che DSK è un possibile candidato
all’Eliseo nelle elezioni del 2012. Anzi, i socialisti sentono
puzza di complotto. Dice ad esempio Jean Christophe
Cambadelis: «È un incidente di vita di una sbalorditiva
banalità e ne vogliamo fare un grande scandalo politico.
Credo che ci sia qualcosa di sospetto». E Jean-Marie Le
Guen gli fa eco: «Potrebbe anche esserci una certa volontà
di destabilizzare Strauss-Kahn».
Anche il presidente della Bce Jean-Claude Trichet, è però
ottimista: «Ne sono convinto, l’inchiesta dimostrerà che
Dominique Strauss-Kahn non ha abusato del suo potere».
Quanto alla moglie Anne, lo scandalo sessuale non fa
crollare le sue certezze. E scrive nel suo blog: «Per quanto
mi riguarda quell’avventura di una sola notte è alle nostre
spalle. Abbiamo girato pagina, e posso dire che ci amiamo
come il primo giorno».
78
Il freddo rapporto del team legale indipendente
chiamato a decidere del caso ricostruisce la storia
spiegando che fu DSK a fare il primo passo verso Piroska,
inizialmente per “legittime questioni di lavoro”. Poi,
per almeno due settimane, era scattato “uno scambio di
messaggi consensuali e molti personali” che portò, per
comune volontà “ad una relazione fisica consensuale tra
le due parti per un breve periodo nel gennaio 2008…
subito dopo la fine delle relazione sessuale il marito della
ex-dirigente scoprì l’accaduto e sottolineò al direttore a
alla moglie la potenziale pubblicità negativa che poteva
derivarne”.
Il 26 ottobre 2008 la vicenda si chiude: secondo il Board
dell’FMI, DSK non ha commesso né atti di favoritismo
né abusi di potere. La breve relazione tra il direttore e
Piroska è stata semplicemente “consensuale”. Certo, DSK
ha commesso “un grave errore di giudizio”, ma lo “ha
riconosciuto e si è scusato”. Dice infatti il direttore: «Sono
spiacente per l’incidente e accetto la responsabilità. Ho
presentato le mie scuse al Board, allo staff dell’FMI e alla
mia famiglia».
E Piroska? La sua versione, sensibilmente diversa, la
pubblica il sito del magazine L’Express il 19 febbraio 2009.
Si tratta di una lettera risalente al 20 ottobre, sei giorni
prima della decisione del Board dell’FMI, inviata al team
di legali indipendenti: «Strauss-Kahn ha abusato della sua
posizione per entrare in relazione con me…Io non ero
preparata alle avances del direttore generale del FMI…Ebbi
la sensazione che sarei stata perdente se avessi accettato e
perdente se avessi rifiutato…Io temo che quest’uomo abbia
un problema, forse, che lo renda poco idoneo a dirigere
un’organizzazione ove lavorano delle donne».
Passa un anno e a maggio 2010 esce il libro di un’autrice
anonima DSK. I segreti di un Presidenziabile, di cui il
79
quotidiano Times anticipa i contenuti: DSK viene dipinto
come un uomo ossessionato dal sesso, alla continua
ricerca di donne. L’autrice, che si firma Cassandra, sarebbe
stata, secondo l’editore, una collaboratrice del direttore
e non vuol rivelarsi perché teme per la sua carriera. Ma
scrive che quando DSK entra in un locale, valuta in
pochi secondi tutte le donne presenti, per poi scegliere la
“preda” e partire all’attacco. Alla prescelta arriverebbero
poi sms espliciti, del tipo “ti voglio”. Un’attrice, Danielle
Evenou, racconta: «Chi non è stata chiusa nell’angolo
da Dominique Strauss Kahn?». Il volume accenna anche
a foto che ritrarrebbero DSK all’uscita di un locale per
scambisti. La notizia fa ovviamente il giro del mondo.
Dodici mesi più tardi, con DSK ormai lanciatissimo
- nonostante i rumors sui suoi appetiti sessuali - verso
l’Eliseo, scattano le manette: il 14 maggio 2011 è arrestato
a New York per tentato stupro ai danni di una cameriera
d’albergo di Times Square, in cui il direttore alloggiava.
Di lui, il giorno successivo, scrive Marcello Foa su Il
Giornale:
Ebreo, nel 1995 ha sposato in sinagoga la giornalista
Anne Sinclair, assieme formavano una delle coppie più
glamour di Parigi e ora anche di New York. Ricco di famiglia,
nominalmente di sinistra ma di fatto liberista e dunque ben
accetto nella grande industria e nell’alta finanza, aveva tutti
i numeri per riuscire. Con un solo, grande handicap: la vita
privata.
Nella Parigi che conta tutti sapevano che Dominique
Strauss-Kahn era sessualmente molto disinvolto.
Anzi, ossessionato dal sesso. Nei salotti si sussurrava,
ammiccando, della sua assidua frequentazione di club
scambisti e orgiastici, anche estremi. Tutti sapevano che,
anche di giorno nell’esercizio delle sue funzioni, non sapeva
resistere di fronte a una bella donna: allungava le mani e
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faceva, su due piedi, proteste oscene. Al Fondo monetario
internazionale ha portato a letto la moglie di uno suo
dipendente, la cosa si venne a sapere e Dominique la fece
franca per un soffio.
La prima a non dare il minimo credito ad un fatto del
genere è Anne Sinclair, stoicamente ancora accanto al
marito: «Non credo neppure un secondo a queste accuse».
Passa 36 ore al telefono con gli avvocati dall’altra parte
dell’oceano. Poi prende il primo volo per gli Stati Uniti.
DSK si dimette dalla prestigiosa carica e trascorre sei
giorni nel carcere di massima sicurezza di Rikers Island,
poi esce dietro il pagamento di una cauzione milionaria.
L’accusatrice si chiama Nafissatou Diallo, anche
se, all’inizio, per proteggerne l’identità, gli inquirenti
le affibbiano lo pseudonimo di Ophelia o Ofelia. Lo
scandalo è molto più grosso del precedente. Ma un mese e
mezzo più tardi succede qualcosa di inaspettato: secondo
il procuratore Ophelia avrebbe mentito davanti al Gran
Jury.
Scrive Guido Olimpio, sul Corriere della Sera, il primo
luglio 2011:
WASHINGTON – Dominique Strauss-Kahn, torna
libero. La procura di New York ha accettato di rilasciare l’ex
direttore del Fondo monetario internazionale, dopo i dubbi
circolati sull’autenticità delle accuse rivolte all’economista
francese dalla cameriera del Sofitel di New York Ophelia.
Sarà restituita anche la cauzione di un milione di dollari,
versata subito dopo la prima udienza per ottenere gli arresti
domiciliari. L’ex direttore del Fmi potrà anche viaggiare
all’interno degli Stati Uniti. Una decisione in merito è attesa
attorno alle 18 di oggi (ora italiana, ndr). Le misure in favore
del politico francese accusato di stupro sono legate a
quanto hanno scoperto gli investigatori in queste settimane.
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Il procuratore Vance – secondo il New York Times – ha
scoperto incongruenze e bugie che avrebbero minato la
credibilità di Ofelia, la cameriera africana che ha denunciato
lo stupro. “Buchi” che non riguardano l’aggressione ma
piuttosto la sua vita privata.
Gli inquirenti, dopo il presunto episodio di violenza
all’Hotel Sofitel, hanno passato al setaccio il passato e il
comportamento della donna. Tenendo sotto controllo il
suo telefono hanno intercettato un colloquio tra Ophelia
e un detenuto avvenuto alla vigilia di una importante
deposizione. I due avrebbero discusso dei possibili vantaggi
nel denunciare l’ex direttore del Fondo monetario. Lo stesso
uomo, legato a traffici di droga, a partire dal 2009, avrebbe
fatto insieme ad altri dei versamenti in favore della donna
per un totale di 100 mila dollari. Soldi sparpagliati tra conti
in Arizona, Georgia, New York e Pennsylvania. C’è il sospetto
che si tratti di un’operazione di riciclaggio di denaro.
Altra scoperta: l’accusatrice di Strauss-Kahn ha sempre
sostenuto di aver un solo telefono ma la polizia ha accertato
che pagava ogni mese bollette per centinaia di dollari a
cinque differenti compagnie.
La procura ha poi confrontato la versione di Ofelia con le
carte presentate per ottenere asilo negli Usa. E sono saltate
fuori delle incongruenze. La ragazza aveva raccontato di
aver subito in passato violenze ma non lo ha riportato nei
documenti presentati alle autorità. Così come non c’è
alcun riferimento alla mutilazione genitale che la cameriera
ha sostenuto di aver subito in Africa. «È una bugiarda
patentata», avrebbe affermato una fonte vicina all’indagine.
Le scoperte degli investigatori si sono intrecciate con quelle
dei legali di DSK. La difesa aveva assunto un esercito di
investigatori privati per scavare nel passato dell’accusatrice.
E soprattutto cercare di minare la sua credibilità anche su
aspetti non collegati al caso specifico. Gli 007 hanno lavorato
82
in Guinea – paese d’origine della donna – e poi nel Bronx,
dove lei viveva da alcuni mesi. E di recente, gli avvocati del
politico francese avevano lasciato trapelare indiscrezioni
sulla scarsa credibilità della ragazza. Giovedì i due sentieri
si sono “incontrati”.
La procura – secondo il New York Times – ha convocato i
legali dell’economista francese per comunicare loro le novità.
A loro volta i difensori avrebbero mostrate alcune delle loro
carte. Resta da chiarire quanto è davvero avvenuto nella
camera del Sofitel il 14 maggio. Ophelia ha sostenuto di aver
subito un’aggressione e la polizia ha raccolto tracce di Dna che
hanno provato la tesi di un rapporto sessuale. Strauss-Kahn ha
negato di aver assalito la donna. Ma le bugie della cameriera sul
suo passato potrebbero inficiare anche il procedimento sulla
violenza sessuale. Non la pensa così il suo avvocato: «Per noi
non cambia nulla». E il fratello della ragazza, dalla Guinea, ha
parlato di una «campagna di diffamazione».
L’avvocato della presunta vittima di DSK ammette gli
errori della propria cliente. Ma ciò «non significa che non
sia stata vittima di una violenza sessuale», spiega Kenneth
Thompson che ha definito tutte «bugie» le accuse sulla sua
cliente. «La mia cliente – ha affermato – è stata vittima di
un’aggressione sessuale violenta che ha descritto davanti a
me e ai giudici e nessun elemento delle sue dichiarazioni è
cambiato». In particolare la cameriera avrebbe ammesso di
aver dato una falsa testimonianza al Grand Jury omettendo
il fatto che dopo la presunta aggressione nella camera 2806
dell’albergo avrebbe pulito un’altra camera. «La donna – ha
detto l’avvocato – ha fatto una ricostruzione errata dei fatti
ma ha poi ammesso che la sua testimonianza era falsa e
che ha subito dopo pulito un’altra camera per poi ritornare
nella suite 2806 per metterla a posto e solo allora riferire
l’incidente al supervisore dell’albergo».
DSK è libero, in attesa delle decisioni dei giudici. A
83
luglio inoltrato Ophelia, rivelatasi infine come Nafissatou
Diallo, va in tv e dagli schermi di Abc News rompe il
silenzio. Piange e giura: «Non sono una prostituta. E non
lo sono mai stata. Dio mi è testimone, sa che sto dicendo
la verità. Non avrei mai voluto uscire in pubblico, ma
non avevo altra scelta. Lo dovevo fare, lo dovevo per me
stessa e per dire la verità. Voglio giustizia, voglio che vada
in galera...Voglio che lui sappia che ci sono posti dove
non puoi usare i tuoi soldi, il tuo potere, quando fai cose
come queste». Dice che non aveva idea di chi fosse DSK e
di averlo scoperto solo sui giornali: «Quando ho saputo
che stava diventando il prossimo presidente francese ho
pensato, “oh mio Dio!”, mi ammazzeranno...». Quanto
allo stupro che avrebbe subito rammenta: «Ero girata
e quando mi sono voltata ho visto le sue mani sul mio
seno. Allora ho detto: “Fermo, fermo, non voglio perdere
il mio lavoro”. Ma lui è andato avanti, mi spingeva, mi
spingeva...».
Ma i legali di DSK, William Taylor e Benjamin Brafman,
attaccano: «Si tratta di un circo inverosimile, che ha
l’evidente obiettivo di eccitare l’opinione pubblica contro
un imputato in attesa di essere giudicato».
A metà agosto si parla di possibile archiviazione.
I giudici sarebbero convinti dell’inattendibilità della
cameriera. Il New York Post riporta che la sera prima
della presunta violenza Nafissatou avrebbe avuto un
rapporto sessuale, che giustificherebbe il “rossore” usato
come prova dai legali della donna per incastrare DSK.
Il 23 agosto 2011 il caso è archiviato. Poche ore prima
del verdetto, Douglas Wigdor, legale della donna, aveva
dichiarato in conferenza stampa: «Siamo stati contattati
da numerose donne in diverse parti del mondo che
testimonierebbero contro DSK. Non diremo il numero
di queste donne perché la vicenda è ancora oggetto di
84
un’inchiesta». Aveva anche aggiunto che la sua cliente
era stata «trattata più come un sospetto che come una
vittima».
Il procedimento proseguirà tuttavia in sede civile,
chiuso con un accordo stragiudiziale i cui non saranno
resi noti. Nel 2014 Nafissatou investirà parte del denaro
ricevuto da DSK in un ristorante nel Bronx: «Cerco di
fare del mio meglio per offrire a mia figlia la migliore vita
possibile – dirà ai cronisti - E voglio offrire alla città di
New York un buon ristorante afro-americano».
Quanto al protagonista, DSK dice: «Sono impaziente di
tornare a casa e a una vita normale».
Ma il suo desiderio di “normalità” deve ancora
attendere. Perché a settembre il tribunale di Parigi lo
interroga in merito alle accuse di un tentativo di stupro
nei confronti della giornalista e scrittrice trentaduenne
Tristane Banon. Un vecchio episodio, avvenuto nel 2003,
in un appartamento di Parigi, quando Tristane era ancora
una giovane cronista. Quando esce dal palazzo di giustizia
non rilascia dichiarazioni, ma resta accanto, sorridente,
alla sua Anne, che non smette di credergli.
Quattro giorni più tardi L’Express cita la testimonianza
di DSK agli inquirenti: l’uomo avrebbe ammesso di aver
tentato di baciare la cronista, ritenendola consenziente, ma
si sarebbe fermato subito dopo, non appena Tristane rifiutò.
Si tratta di una versione un bel po’ diversa da quella
rilasciata a Michel Taubmann nel libro biografico Il vero
romanzo di Dominique Strauss-Kahn. Allora aveva detto,
a proposito delle accuse: «È completamente falso! La scena
che racconta è immaginaria. Ma mi vedete voi gettare a
terra una giovane donna e usare la violenza contro di lei
come racconta? … L’intervista si è svolta normalmente ...
Quando ho saputo che mi accusava di aggressione, ero
stupefatto».
Già, si dirà, cos’ha denunciato esattamente Tristane?
85
Dopo averne parlato in tv nel 2007 – ma allora il nome di
DSK era sovrastato da un beep – ha ribadito che «quando
me ne sono voluta andare, mi ha acchiappato la mano e
poi il braccio, gli ho chiesto di lasciarmi, a quel punto è
scoppiata la rissa. Mi ha tirato verso di lui, siamo caduti
a terra e ci siamo picchiati». Ricorda che mentre lei gli
tirava calci, lui «mi ha sganciato il reggiseno e ha cercato
di aprirmi i jeans».
Ma perché Tristane attese tanto per denunciarlo?
Forse la risposta, più che lei, la fornisce sua madre, Anne
Mansouret, che riferisce agli investigatori di aver rivelato
alla figlia che, tanti anni prima, aveva avuto una relazione
sessuale con l’ex direttore dell’FMI.
Il 29 settembre Tristane e DSK vengono messi a
confronto al commissariato. Al termine la donna si sfoga
coi cronisti di TF1: «Lui ripete solo menzogne. C’è stato
un tentativo di violenza. Strauss-Kahn è un arrogante, non
ha osato guardarmi in faccia, aveva soltanto quel sorriso
stampato in faccia».
Ritiene di essere entrata nel mirino della “cricca
mediatica” che sosterrebbe DSK «sullo stile di quella
subita da Nafissatou Diallo. Stanno tirando fuori la mia
infanzia movimentata, dicono che sono instabile, che ho
detto di non aver conosciuto mio padre e invece non è
vero, o che ho una storia con il mio avvocato. Se si è certi
della verità non c’è bisogno di fare questo, io non mi
immischio nel rapporto fra Strauss-Kahn ed Anne Sinclair
e delle chiacchiere che ci sono intorno».
I giudici stabiliscono che non ci sono prove dello stupro,
mentre il tentativo di bacio di DSK può essere configurato
come “aggressione sessuale”, che tuttavia in Francia si
prescrive in tre anni. Siamo a ottobre 2011 e anche questo
caso è chiuso.
Ma un mese più tardi, da un’indagine sullo sfruttamento
86
della prostituzione a Lille trapela la possibile partecipazione
di DSK ad alcuni festini a luci rosse in compagnia di escort.
Gli inquirenti, secondo Libération e Le Figaro, vorrebbero
vederci chiaro sui viaggi di alcuni protagonisti coinvolti
nella vicenda a Washington, quando DSK era direttore
del FMI. L’ultimo volo di alcune giovani donne legate
al magnaccia Dominique Alederweireld, in particolare,
sarebbe avvenuto tra l’11 e il 13 maggio 2011, alla vigilia
dell’arresto di DSK per la vicenda di Nafissatou Diallo.
Racconta Libération che David Roquet, ai vertici di
un grande gruppo edilizio e accusato di sfruttamento
della prostituzione, avrebbe dichiarato di essere andato
a Washington su invito di DSK, in compagnia del capo
della polizia di Lille, fermato dai colleghi: «Sono stato io
a pagare i biglietti, con l’accordo del mio capo. Mi sono
costati tra i 3.000 e i 4.000 euro».
Sempre lui e un altro imprenditore, precisa Libération,
avrebbero pagato un conto tra i 12mila e i 15mila euro per
festini a luci rosse in un albergo cui avrebbero partecipato
il capo della polizia di Lille, DSK e diverse prostitute.
L’ex direttore del FMI parla di «maligne insinuazioni».
Pochi giorni più tardi un uomo del suo entourage, che
vuol restare anonimo, confida a Le Journal du Dimanche:
«Per la prima volta, negli ultimi giorni, mi ha detto
che bisogna che si faccia curare. Ha ammesso di essere
malato…» Ricorda che un tempo amava dire: «Provaci
con tutte, una cadrà», ma che ora «è l’ombra di se stesso».
Barba lunga e sguardo assente «si morde le unghie fino a
sanguinare, divora la pelle delle dita, e passa le giornate
a non fare niente, incapace di concentrarsi su un libro,
rifiutando di accendere la televisione o di leggere i giornali.
L’unica cosa che lo calma sono le equazioni matematiche,
ma la sua agenda è vuota».
L’inchiesta presto si allarga. La stampa francese si
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concentra sui festini all’Hotel Carlton di Lille. Il settimanale
Voici riporta che due giudici francesi vogliono andare a
fondo sulle testimonianza di alcune donne che parlano di
rapporti violenti e a volte pure non consenzienti con DSK.
Anne-Marie S., si legge sul settimanale Le Point,
ricorda di averlo incontrato in un hotel di Washington nel
2010 insieme a David Roquet, che aveva il compito di
trattenerne i polsi: «Fu una relazione brutale. Sono stata
pagata per andare lì, non per subire questo trattamento.
Per me l’escorting non è questo. Ho sempre avuto a
che fare con dei gentlemen». Dice pure che non era
consenziente. Anche Mounia, escort francese, sostiene di
aver avuto nel 2010 rapporti violenti con DSK all’Hotel
Murano di Parigi: «Non mi ha violentata, ma si intuiva
che amava i rapporti forzati». Beatrice Legrain si sarebbe
invece lamentata col compagno – anch’egli coinvolto
nello scandalo – di un “rapporto brutale” avuto con DSK
nel bagno di un ristorante di lusso di Parigi.
Le testimoni sono sempre di più. I fatti sempre più
dettagliati. Alla fine Anne Sinclair sbotta: «Il lavoro della
stampa è stato legittimo per rendere conto di un evento
di cui non minimizzo l’importanza politica. Ma trovo
che i limiti del voyeurismo e dell’inquisizione siano stati
superati».
Ripete che «non sono una santa, non sono una vittima,
ma una donna libera» e alle femministe che criticano la
sua scelta di difendere ad ogni costo il marito, risponde
per le rime: «Il significato stesso della parola femminismo
è stato ribaltato. Il femminismo è la lotta per la libertà
delle donne, invece delle autoproclamate femministe si
sono messe ad insegnare a ciascuno come portare avanti
la propria vita accusando la società francese di essere una
società “moralista e in crisi”».
Tre mesi più tardi, agosto 2012, si separa ufficialmente
dal marito.
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Il procedimento coinvolge DSK anche in veste di
indagato. E si trascina per tre anni. Due prostitute si
ritirano dalla parte civile. Roquet ammette che DSK non
sapeva che le donne dei festini fossero escort, dato che le
pagava lui di nascosto e le presentava ora come ristoratrici,
ora come segretarie. Donne colte ed eleganti. Insieme ad
un altro imprenditore finanziava trasporti, ristoranti,
prostitute: un investimento da 46mila euro: «Mi ero detto
che al di là del lato piacevole, se avessi stretto contatto con
monsieur Strauss-Kahn, una volta giunto alla presidenza
della Repubblica... il mio obiettivo professionale era
quello: organizzare un pranzo con lui e i miei super
capi…Passare il pomeriggio con uno che è il numero due
al mondo, futuro presidente della Repubblica. Certo che
mi faceva piacere». Il 12 giugno 2015 DSK è prosciolto
da tutte le accuse. Unico condannato per sfruttamento
della prostituzione, su 14 imputati, è Renè Kojfer, ex
responsabile per le pubbliche relazioni dell’Hotel Carlton.
«Sono il capro espiatorio dell’intero processo» dirà
sconsolato.
Passa qualche giorno e DSK, 65 anni, twitta: «Jack is
back». Vuol tornare in pista.
Secondo un sondaggio di Libération del luglio 2015, il
37% dei francesi lo ritiene il miglior candidato all’Eliseo
per le elezioni del 2017.
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QUESTIONI DI FAMIGLIA
Guerra dei Roses in casa Allen
Woody Allen è uno degli artisti più eclettici dell’era
contemporanea: regista, attore, scrittore, commediografo,
compositore, clarinettista. Tra i più fini umoristi, le sue
gag filosofico-esistenziali ne hanno caratterizzato l’intera
produzione di film.
Ma per buona parte della sua carriera un altro dettaglio
accompagna le pellicole che dirige e interpreta: la
protagonista è spesso la sua reale compagna del momento.
Succede con Louise Lasser e con Diane Keaton. Succede
infine con Mia Farrow.
I due non si sposano e non convivono per lunghi periodi.
Hanno un figlio, Ronan Satchel (un figlio che poi Mia
dirà forse essere il frutto dell’amore con l’ex marito Frank
Sinatra). E lei ne adotta altri due: Dylan Farrow e Moses
Farrow. Una terza, Soon-Yi Farrow Previn, orfana coreana,
l’aveva adottata insieme all’ex marito André Previn.
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Lo scandalo scoppia nel 1992, quando Mia scopre
alcune foto hard che Allen ha scattato a Soon-Yi, che
all’epoca ha 19 anni. La coppia si separa e Allen inizia
una lunga battaglia legale per la custodia dei tre minori.
Prima che il procedimento inizi il pediatra della piccola
Dylan, 7 anni, contatta le autorità sostenendo che Allen
abbia abusato di lei.
Scoppia una vera e propria Guerra dei Roses
versione Allen-Farrow, che Alessandra Farkas sintetizza
perfettamente in un articolo sul Corriere della Sera del 22
agosto 1992:
Per gli amici di Woody, Mia è pazza nevrotica
NEW YORK - «Ti credevo diversa, saggia e forte. Invece ho
scoperto che, dietro la tua aria tranquilla, sei pazza come gli
altri». La folle in questione è Judy (Mia Farrow). Ad accusarla è
Woody Allen (tramite la finzione del personaggio Gabe Roth)
in uno dei film più autobiografici della sua illustre carriera.
Husbands and Wives, mariti e mogli, esplora i meandri
del bizzarro triangolo Mia-Woody-SoonYi che continua a
infiammare la morbosità degli americani. Con l’effetto di
aver congelato, per ora, tutte le attività promozionali legate
all’uscita del film, in USA dal 9 ottobre. In questa guerra ogni
giorno più sordida, arte e realtà sono ormai indistinguibili.
«Mia Farrow è pazza come una cavalla - dichiara un intimo
del regista - Woody lo sa e lo dice apertamente in Husbands
and Wives».
Dopo una settimana di incondizionato tifo pro-Mia, per la
prima volta da quando è esploso lo scandalo anche il partito
pro-Woody è finalmente sceso in campo. L’identico campo
dei tabloid scandalistici. «Mia è un’egocentrica che pensa
solo a sé - sbotta Letty Aronson, sorella di Allen -. Non ha
mai dato sostegno emotivo ai suoi figli e ora li ha messi tutti
contro mio fratello».
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«Tratta gli adottivi come servi - assicura a Newsday una
fonte anonima - . Lo scorso anno ha rispedito in Vietnam
un bimbo perché il medico di famiglia sospettava fosse
ritardato». E anche la presunta molestia sessuale subita dalla
piccola Dylan da parte del padre sarebbe una mostruosa
sceneggiata della vendicativa Mia. «Due settimane fa Woody
visitò Dylan e Satchel nella villa in Connecticut - incalza la
Aronson -. L’ indomani, al telefono, Mia lo accusò d’averli
molestati. L’aveva invitato con l’idea precisa d’incastrarlo».
Eppure, giurano in molti, Woody non si era mai appartato
con i figli e aveva giocato in giardino sotto l’occhio vigile
delle baby-sitter. Proprio la testimonianza oculare di una
baby-sitter, che l’avrebbe colto in flagrante nella soffitta
di casa, sarà la prova schiacciante usata dai legali della
Farrow, insieme alla videocassetta dove la bimba descrive il
“fattaccio”.
«Balle - replica Brian Hamill, amico stretto del regista con
cui ha lavorato in ben 17 film - . Chiunque conosce Woody sa
benissimo che soffre di claustrofobia cronica. Non andrebbe
in una soffitta neppure se lo pagassero».
Incalza Jeff Kurland, suo costumista dal ‘79: «Come
si può credere a una donna che ha buttato i propri figli in
pasto alla stampa e alla Tv per tirare l’America dalla sua
parte?». Negli ultimi giorni i piccoli hanno dato centinaia di
infuocate interviste anti-Woody. Altroché mammona tenera
ed equilibrata, gridano ora i tabloid. Mia sarebbe invece un
animale accecato dagli impulsi irrazionali della gelosia.
«Quando scoprì le foto, mi picchiò a sangue con una sedia
e uno stivale, fino a riempirmi di lividi» ha confidato SoonYi a un’amica. Poi, dopo averle fatto a pezzi il guardaroba,
l’avrebbe messa alla porta, togliendole gli alimenti. E se non
93
bastasse ha tolto il suo nome dal testamento e ha ritagliato
il suo volto da tutte le foto dell’ album. «Tutto ciò la dice
lunga su chi è Mia - commenta Jane Martin, produttrice e
amica della coppia -, fino all’ultimo ha cercato di tenersi il
suo Woody, riversando tutta la colpa sulla figlia». Dopo la
scoperta delle famigerate foto la Farrow avrebbe preso a
tempestare l’ex compagno di telefonate, minacciandolo di
suicidarsi.
«Era ossessionata soprattutto da una cosa: voleva sapere
se a letto era meglio lei o la figlia». Infine il produttore Jean
Douminian, amico di Allen da 25 anni, lo assolve dall’accusa
di incesto: «Woody non s’è mai posto come figura paterna.
I ragazzi non si sedevano mai sulle sue ginocchia né lo
chiamavano papà».
Il procuratore Frank Maco ordina una perizia che dopo
sei mesi esclude gli abusi di Allen su Dylan. Ma gli esperti
ravvisano comunque qualcosa che non va nel rapporto tra
genitori e figli. Scrive Arturo Zampaglione su Repubblica
il 20 marzo 1993:
CARO WOODY, ORA CURATI
NEW YORK - Assolto da un team medico dall’accusa di aver
abusato della figlia, ma “condannato” a frequentare con più
assiduità il suo psicanalista, Woody Allen ha chiesto ieri alla
corte suprema di Manhattan di poter riabbracciare la piccola
Dylan dopo sette mesi di lontananza. La magistratura glielo
aveva vietato in attesa di una decisione sull’affidamento dei
tre figli del regista e di Mia Farrow, e soprattutto dell’esito
dell’inchiesta sulle presunte molestie sessuali da parte di
Allen. Questa inchiesta non si è ancora conclusa: spetterà
alla procura dello stato del Connecticut, dove si trova la
villa di Mia, dire l’ultima parola. Ma è probabile che l’intera
94
questione sia archiviata, come suggerito giovedì dagli
psicologi dello Yale-New Heaven Medical Center, guidati
da John Leventhal, che per quattro mesi hanno studiato la
strana famiglia Allen-Farrow.
«Hanno concluso che non c’è stato alcun abuso o
molestia» ha riferito il regista ai giornalisti, uscendo l’altro
ieri dalla clinica del Connecticut, dopo due ore di colloqui a
cui ha partecipato anche la sua ex-compagna. In teoria, le
valutazioni degli esperti dovevano rimanere riservate, ma
ieri Newsday, il quotidiano del gruppo del Los Angeles Times
che tenta di scalfire il predominio del New York Times nella
Grande Mela, ha pubblicato ampi stralci del documento
elaborato dai medici. Sia per Woody che per Mia è un
“j’accuse” da brivido.
Ne escono fuori come due genitori degeneri,
profondamente instabili, incapaci di un approccio equilibrato
con i figli. “Allen - scrivono gli psicologi - ha un problema
di confini nei suoi rapporti con la figlia Dylan. Tende ad
avere con lei un comportamento con marcate implicazioni
sessuali. Nella mente della bimba, l’amore ragazzo-ragazza
equivale a baciarsi e abbracciarsi. Il padre, con lei, ha fatto
esattamente questo, a volte con grande intensità. Ed è pure
diventato l’amante di sua sorella Soon-Yi”.
Di qui, la confusione nella mente della bambina che,
in una situazione emotivamente molto tesa - per via della
separazione tra la madre e il padre, e della relazione del
padre con la sorella – l’avrebbe portata, nel videotape
registrato da Mia Farrow, ad accusare Allen di molestie
sessuali, che invece non ci sarebbero state. “D’altra parte
- continua il rapporto degli esperti di Yale - Mister Allen ha
un rapporto squilibrato con Dylan e Satchel (il figlio naturale
di cinque anni, ndr). E perché riesca a stabilire confini più
giusti tra sé e i bambini, deve continuare a sottoporsi a una
psicoterapia”. Stesso invito anche per Mia Farrow, per dodici
95
anni compagna di Allen e, dallo scorso agosto, in guerra con
lui per l’affidamento dei figli.
“È indispensabile per la salute mentale dei bambini continuano gli esperti - che la signora Farrow segua una cura
psicologica intensiva”. Mia Farrow continua a criticare i risultati
del team di Yale. «Starò sempre dalla parte dei miei figli»
aveva detto lapidaria giovedì, uscendo dalla clinica. Ieri il suo
avvocato, Eleanor Alter, ha di nuovo attaccato il lavoro degli
psicologi. «Si sono rifiutati di parlare con molte persone che
erano al corrente dei rapporti edipici tra Woody e Dylan» ha
detto la Alter. Come la babysitter Alison: la prima ad avere visto
la bimba sulle ginocchia del padre in posizione “inquietante”. Allen sostiene che Mia abbia plagiato la figlia per
accusarlo, ma il giudice Elliot Wilk - incaricato di decidere
dell’affidamento e della presunta molestia fatta a Dylan
il 4 agosto 1992 - ritiene che non vi siano prove credibili
della sua tesi e assegna la custodia dei minori alla donna.
Scrive in proposito: «probabilmente non sapremo mai
cosa successe il 4 agosto 1992. Le dichiarazioni credibili
di Ms. Farrow, del Dr. Coates, del Dr. Leventhal e di Mr.
Allen provano comunque che l’atteggiamento di Mr. Allen
verso Dylan è stato scandalosamente inappropriato e che
misure devono essere prese per proteggerla». Ossia divieto
di vedere Dylan da una parte e incontrare Ronan Satchel
solo sotto supervisione dall’altra. Moses, che all’epoca ha
14 anni, decide di non frequentare Allen.
Il regista prosegue la relazione con Soon-Yi, che sposa a
Venezia il 22 dicembre 1997. Adottano anche due bimbe
coreane.
Ma la diatriba famigliare non cessa. Ronan Satchel,
diventato avvocato e attivista per i diritti umani, quando,
durante i Golden Globe, viene assegnato il premio alla
carriera al padre, scrive su Twitter: «Mi sono perso il
96
tributo a Woody Allen: hanno messo la parte in cui una
donna ha confermato pubblicamente che l’ha molestata
all’età di 7 anni, prima o dopo Io e Annie?».
Siamo a gennaio 2014. E anche Dylan, che oggi ha
cambiato nome, invia una lettera al New York Times,
ricordando come Allen abusò di lei quando aveva 7
anni. La lettera è pubblicata sul blog del giornale: «Mi
condusse in un attico buio della casa in Connecticut,
mi disse di stendermi pancia a terra e di giocare con il
trenino elettrico di mio fratello… Ricordo che mi parlava
mentre abusava di me, sussurrandomi che ero uno brava
ragazza, che quello era il nostro segreto, e promettendomi
di portarmi a Parigi e di farmi recitare nei suoi film... Per
quanto mi ricordo mio padre mi ha sempre fatto cose che
non mi piacevano, spesso mi faceva giacere a letto con lui
e mi metteva la testa sul ventre e queste cose accadevano
regolarmente ed erano abilmente nascoste a mia madre,
al punto che pensavo fossero normali. Il fatto che l’abbia
sempre fatta franca mi ha perseguitato durante tutta la
mia giovinezza, anche per il senso di colpa di avergli
lasciato avvicinare alte bambine».
La portavoce del regista, Leslee Dart, risponde con
una nota che definisce «false e vergognose» le accuse:
«All’epoca un’indagine minuziosa era stata condotta
da esperti indipendenti incaricati dal tribunale».
Le conclusioni, prosegue il comunicato, furono
che «non vi erano prove credibili dell’aggressione;
che Dylan Farrow era incapace di distinguere tra
immaginazione e realtà; che Dylan Farrow era stata
probabilmente manipolata dalla madre Mia Farrow». La sorellastra di Sylvester Stallone
Più spigoloso il caso di Sylvester Stallone. Il New York
Post, nel gennaio 2013 scrisse che l’attore, 26 anni prima,
97
aveva pagato 2 milioni di dollari alla sorellastra Toni-Ann
Filiti, più un mensile di 16mila dollari e un trust di 50mila
dollari l’anno per spese mediche, per mettere a tacere le
accuse che lei gli muoveva di abusi sessuali nei propri
confronti. Filiti era morta di cancro nel 2012, a 48 anni. E
si trattava del secondo scandalo che riguardava il passato
della star.
Il primo, molto più leggero, era inerente l’interpretazione
che l’attore fece in Italian Stallion, un softcore del 1970
per il quale Stallone, agli albori della carriera, percepì 200
dollari.
Avrebbe poi ricordato come, una volta giunto al
successo, i produttori gli chiesero 100mila dollari per
bloccarne la diffusione, cosa che non fece perché a corto di
denaro. D’altra parte, rammentava, all’epoca del film era
un senzatetto e senza un dollaro in tasca: « O facevo quel
film o derubavo qualcuno, perché ero alla fine - veramente
alla fine - della mia capacità di resistenza. Invece di fare
qualcosa di disperato, lavorai due giorni per 200 dollari,
levandomi dalle stazioni degli autobus».
Il secondo scandalo ha ovviamente un sapore diverso.
Secondo il New York Times Toni-Ann aveva denunciato
di aver patito “danni personali, anche psicologici”. Edd,
figlio della donna, aggiunse: «Mia madre per colpa loro è
diventata la pecora nera della famiglia». Edd le era stato
accanto negli ultimi momenti di vita, in un ospedale della
Florida: «Mi ha raccontato tutto quello che aveva dovuto
subire per colpa loro».
La madre di Stallone, Jacqueline, rilasciò allora delle
dichiarazioni molto precise: «Si trattò di un’estorsione
in piena regola, di questo si è trattato. Toni-Ann era
dipendente da una droga chiamata Oxycontin, ne assumeva
ogni giorno, e arrivò a minacciare Sylvester. Una drogata
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farebbe qualsiasi cosa. Quando lui diventò famoso, non
ebbe nemmeno bisogno di prenderlo all’amo. Lui voleva
aiutarla, e alla fine ha ceduto. C’erano stati così tanti
episodi conflittuali. A quel tempo, parliamo del 1987, lui
era all’apice del successo. Gli avvocati gli consigliarono di
accontentarla, per farla stare zitta».
L’attore negò ogni addebito. E un suo portavoce si
limitò a dichiarare: «Sfortunatamente, i personaggi
famosi, i politici, gli atleti diventano molto spesso oggetto
di ricatti da parte di membri della loro stessa famiglia o di
persone a loro vicine, in grado di costruire un castello di
accuse infondate pur di riuscire ad estorcere loro denaro».
Il caso non ebbe seguito e il presunto scandalo si
sgonfiò.
L’inquietante Klaus Kinski
Di scandali famigliari di ogni tipo Hollywood è piena.
Ma anche l’Europa. Quando Klaus Kinski morì fu
ricordato come l’attore capace di mostrare l’inquietudine
più sinistra dell’animo umano, dai ghigni mefistofelici
di Nosferatu il vampiro di Werner Herzog fino al suo
Paganini.
Solo che Kinski inquietante pare lo fosse davvero.
Molti anni più tardi Der Spiegel ne avrebbe ricordato
l’ego smisurato, di quando a teatro insultava gli spettatori,
delle sfuriate nelle quali spaccava tutti i mobili, di quando
spegneva le sigarette nelle zuppe al ristorante.
Nel 1989 scrisse il libro di memorie Tutto ciò di cui ho
bisogno è amore. Riportò in proposito l’agenzia Ansa il
21 gennaio dello stesso anno:
Il famoso attore dai perenni occhi spiritati confessa un
appetito insaziabile per le donne e adombra rapporti sul filo
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dell’incesto con la figlia Nastassja.
Il libro è appena uscito negli Stati Uniti, dove Kinski
è molto apprezzato per le sue interpretazioni nei film di
Werner Herzog (Aguirre, Fitzcarraldo, Nosferatu, Woyzeck).
L’attore tedesco usa le tinte forti per raccontare della
sua squallida infanzia in una famiglia d’origine polacca
trasferitasi nella Berlino di Hitler: il padre farmacista quasi
sempre disoccupato, altri due fratelli e una sorella che
dormivano nel suo stesso letto, una madre che per tirare
avanti dovette impegnare anche la fede nuziale e arrivò sull’
orlo della prostituzione. «In confronto i bassifondi descritti
da Gorky sono d’un lusso sfrenato» ha commentato il
Washington Post in una recensione alle memorie. Ecco il
piccolo Klaus che a sei anni ruba cibo per la famiglia, eccolo
quasi alla stessa età che incomincia “giochi proibiti” con la
madre e con la sorella.
Scoppia la seconda guerra mondiale ed il nostro
eroe ancora bambino viene arruolato a forza nella
Wehrmacht, fatto prigioniero dagli inglesi e ha una prima
tremenda crisi quando gli dicono della mamma uccisa
in un bombardamento aereo americano. Nella Germania
dell’immediato dopoguerra, Klaus Kinski fa quasi per caso le
prime esperienze di teatro e cabaret. In quegli anni difficili e
di disorientamento
collettivo si impone per l’originalità e bravura con cui
legge le poesie di Villon o mette in scena monologhi tratti da
Shakespeare.
È un irrequieto, gira per l’Europa senza quasi mai un
soldo. Nel 1948 incomincia in modo sommesso una carriera
cinematografica che solo negli anni settanta darà tutti i suoi
frutti (materiali e artistici). In Tutto ciò di cui ho bisogno è
amore Kinski racconta senza apparenti peli sulla lingua dei
suoi tre matrimoni (finiti male) e si dilunga in particolare sul
terzo - il più traumatico - con una giovane vietnamita, Minhoi,
100
da cui ha avuto un figlio, Nanhoi, a cui si lega in modo ancora
più ossessivo dopo il divorzio.
Compaiono nelle memorie anche decine e decine di amanti
più o meno fugaci e non mancano episodi piuttosto bizzarri.
A dargli credito, il nostro eroe una volta era addirittura in fin
di vita per un tumore alla gola che si è tagliato via da solo
con un coltello da cucina. Un’altra volta Kinski si sarebbe
ritrovato in un manicomio dove l’avrebbe rinchiuso una
dottoressa a cui stava facendo una corte troppo spietata...
del suo insaziabile desiderio di donne scrive con febbricitante
spacconeria: «Rimorchio ogni donna che posso portarmi a
letto...commesse, cameriere, donne sposate, madri, negre,
donne francesi, turiste americane,
studentesse...una donna beduina...le sette mannequins
negre di Saint Laurent...».
L’elenco potrebbe continuare e tra gli oscuri oggetti del
desiderio sembra esserci anche la figlia Nastassja, ora attrice
di enorme successo, nata dal suo secondo matrimonio. Fin
troppo esplicito per quanto riguarda i “giochi proibiti” con
mamma e sorella, il protagonista di Fitzcarraldo rievoca con
voluta ambiguità una settimana passata assieme alla figlia
già adulta: «Nastassja è stupefacente. Ma per quanto desideri
Nastassja non posso essere felice fino a che non so dove
sono Minhoi e Nanhoi...di notte non posso addormentarmi
con Nastassja...lei si afferra a me singhiozzando e mi dice
che non le voglio bene».
Senza mai smettere i panni del “mostro innocente” in
rivolta contro la società conformista, Kinski scrive con
stupore che la gente e le istituzioni lo prendono sempre più
sul serio: l’Università del Michigan l’ha invitato a parlare sulla
crocefissione di Cristo, l’orchestra sinfonica di Baltimora
gli ha proposto una conferenza su Beethoven, il ministero
francese della cultura l’ha fatto commendatore. «Perché
101
io?» si chiede l’attore e se lo chiedono anche i lettori di un
libro il cui titolo più appropriato sarebbe “Tutto ciò di cui ho
bisogno è sesso”.
Sembra che questa tendenza all’eccesso potesse far
parte del personaggio. Eppure le cronache raccontano che
passò davvero un periodo in manicomio. La famiglia non
prese bene il libro. Restò sconcertata. A proposito delle
tendenze incestuose verso Nastassja, parlò di “infame
rappresentazione” e “volgari menzogne” appartenenti “al
mondo della sua immaginazione deviata”.
Due anni più tardi Klaus morì. Aveva rotto i ponti con
tutti: con Nastassja («Vive circondata dai cretini»), con
Herzog («Scemo superidiota») e col mondo del cinema
e dei festival, attaccando buona parte dei migliori registi
internazionali, da Stanley Kubrick a Steven Spielberg.
Riteneva che molti di loro lo avrebbero voluto come
attore, ma disse di aver sempre rifiutato ritenendoli dei
gran rompiscatole.
Nastassja non partecipò ai funerali. Nel 2009 raccontò:
«È stato un padre assente, instabile. Quando giovanissima
ho cominciato a fare cinema, incontrando Wim Wenders
in Falso Movimento nel ‘74, mi si è aperto un mondo: era
il contrario di mio padre, sensibile, dolce. Il mio amore
per il cinema lo devo a lui, anche se ho cominciato troppo
presto, ho perso l’infanzia e avrei dovuto dire qualche no
in più». Aveva 15 anni Nastassja quando conobbe Roman
Polanski, 42, nel 1976. I due ebbero poi una relazione e il
regista la lanciò in Tess, nel 1979, che le valse un Golden
Globe. Del padre non parlò mai volentieri.
Nel 2013, a ventidue anni dalla morte di Klaus, Pola
Kinski, sorella di Nastassja – stesso papà, madre diversarilascia un’intervista a Stern in cui anticipa il contenuto del
102
suo libro, in cui racconta gli stupri sistematicamente subiti
dal padre da quando aveva 5 anni fino a quando ne compì
19: «Era semplicemente un violentatore di bambini. Io non
ne potevo più di sentirmi dire: “Tuo padre! Fantastico! Un
genio! Mi è sempre piaciuto!”. Dalla sua morte in poi,
questa mitizzazione non è che aumentata». Ricorda come
Klaus le dicesse che «dappertutto nel mondo i padri lo
fanno con le loro figlie». Dice che la chiamava “bambola”
e che la definiva il suo “angelo”. E che la implorava di non
parlarne con nessuno, altrimenti sarebbe finito in prigione:
«Lo faceva anche se mi difendevo, come succedeva spesso,
o dicevo di non volere: per lui era uguale».
Il libro, Kindermund, viene editato in Italia come
L’amore di papà da Newton Compton.
All’indomani delle rivelazioni, Nastassja piange: «Sì, è
un momento difficile per me. Io però sono con mia sorella,
la sostengo. Sono profondamente sconvolta. Ma sono
anche orgogliosa della forza che ha avuto nello scrivere
un libro del genere. Conosco il contenuto. Ho letto le
sue parole. E ho pianto a lungo... Bambini e adolescenti
devono essere protetti: devono sapere che ci può essere
subito aiuto per loro, quando succede qualcosa di così
raccapricciante. Un libro come quello di Pola aiuta tutti
i bambini, i giovani, e le mamme che hanno paura del
padre, e che mandano giù questa paura e la nascondono
nell’anima. Mia sorella è un’eroina, ha liberato dal peso
della segretezza il suo cuore, la sua anima e il suo futuro.
Queste cose succedono a bambini di tutto il mondo ogni
giorno. Più se ne sa, più si può essere di aiuto. Soltanto
perché uno si chiama padre, non vuol dire che sia davvero
un padre. L’Orrore è successo, anche i padri fanno cose
orribili».
Il tabloid Bild ricorda un vecchio volume di memorie
pubblicato da Klaus Kinski nel 1975, poi scomparso dal
mercato nella sua edizione originale: Sono così pazzo
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della tua bocca di fragola.
All’interno l’attore ricordava di come avesse portato
Pola, quando questi aveva 3 anni, in un bordello. «Se la
madre non vuole darmi mia figlia, io gliela strappo dalle
braccia» scriveva Klaus. E scriveva pure di aver violentato
una quindicenne, alzando il volume della tv per non
farne sentire le urla. E ancora di essere stato a letto, da
adolescente, con la sorella più piccola Inge.
Nel 1985, ci si rammenta infine, alla tv pubblica aveva
affermato: «Qui si finisce in prigione se vai a letto con
ragazze giovani. In altri Paesi le sposi». No, la follia non faceva parte del personaggio. Faceva
parte della persona.
Le star vittime di abusi sessuali
Ma a volte anche i divi si sono trovati nella parte delle
vittime. Episodi che qualcuno di loro ha deciso di rendere
pubblici a mezzo stampa. Le loro confessioni hanno fatto
il giro del mondo. E alcune, negli ultimi anni, hanno
destato davvero scalpore.
A partire da quella della più grande star femminile
del pop, Madonna. Lo rivelò in un articolo della rivista
americana Harper’s Bazaar. Fu in quell’occasione che
ricordò come, al suo arrivo a New York, quando ancora
non era famosa, fu violentata dietro minaccia di un coltello:
«Il primo anno mi hanno rapinato con una pistola. Sono
stata violentata sul tetto di un edificio, dove mi avevano
spinto con un coltello alla schiena, e il mio appartamento
è stato svaligiato tre volte. Non so perché, visto che non
avevo più niente di valore dopo che mi avevano rubato la
radio la prima volta».
Nel dicembre 2014, nel corso dello show radiofonico
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di Edward Stern, Lady Gaga spiegò al conduttore il
significato di una sua canzone, Swine. Stern le chiese se
alludesse ad uno stupro e se fosse mai stata violentata da
un produttore discografico. E la star rispose: «Ho passato
cose orribili di cui oggi posso ridere, ma solo perché
sono stata sottoposta a terapia mentale e fisica per poter
guarire durante gli anni… Ero in un guscio. Non ero me
stessa. Per essere onesti, avevo 19 anni. Frequentavo la
scuola cattolica e poi è successo una cosa folle ed io ho
pensato: “Sono così gli adulti?”. Ero molto ingenua».
L’uomo che la violentò era di vent’anni più grande. Non
ebbe mai il coraggio, più avanti, di affrontarlo. «Penso che
mi avrebbe terrorizzato. Una volta lo vidi in un negozio
e rimasi paralizzata dalla paura. Perché è stato solo
anni dopo che mi sono resa conto di quello che mi era
capitato». La canzone è stato un modo per uscirne: «Non
lo dissi a nessuno, neanche a me stessa per lungo tempo.
E poi mi sono detta: Sai cosa? Tutto questo bere e queste
sciocchezze, devi andare alla fonte, altrimenti non andrà
via. Non andrà mai via».
E ancora Ozzy Osbourne, nel 2003 parlò al Daily
Mirror delle molestie sessuali subite da altri ragazzi
quando di anni ne aveva appena 11, pur senza essere mai
stato violentato: «mi obbligavano a tirarmi giù i pantaloni,
mi toccavano... era terribile. La prima volta che è successo
ero di fronte a mia sorella e mi ha fatto ancora più male».
Nel 1998 fecero scandalo le rivelazioni dell’attrice
e cantante francese Marie Laforet al settimanale Paris
Match: «A tre anni sono stata violentata ripetutamente da
un vicino di casa. Mio padre era prigioniero e mia madre
era spesso assente perché lavorava come infermiera». Si
trattava di episodi che aveva rimosso fino a quando, a
quindici anni, affiorarono di colpo nella memoria i flash
delle violenze patite: «Ho pianto per tre giorni e per
105
tre notti ininterrottamente. Poi per sei mesi non ho più
parlato con nessuno. La mia vita è stata segnata da quel
trauma, soprattutto i rapporti sentimentali che sono stati
una catastrofe. Mi sono sposata quattro volte e sono stati
quattro funerali, ovviamente i miei».
Infine Gabriel Byrne, il protagonista de I soliti sospetti,
nel corso di una trasmissione televisiva, si lasciò andare ad
un tremendo racconto, di quando aveva 11 anni: vittima
delle violenze di un sacerdote. La cosa, ammise, lo segnò
nel profondo, tanto da portarlo alla depressione e ad anni
di alcolismo.
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SESSO ALL’ECCESSO
Secondo alcuni ricercatori anche l’eccesso di sesso può
diventare una malattia. Lo sostengono ad esempio gli
studiosi dell’università britannica di Cambridge, i quali
sostengono che la dipendenza dal sesso riesca a scatenare
nel cervello gli stessi meccanismi che si attivano nei casi
di tossicodipendenza. Di più: la reazione agli stimoli
sessuali della pornografia ricalcherebbe quella di un
tossicodipendente alla vista della droga.
Per dimostrarlo, gli scienziati hanno utilizzato la
risonanza magnetica, analizzando le reazioni cerebrali di
due gruppi di soggetti.
Il primo, con una vita sessuale normale. Il secondo,
con comportamenti sessuali compulsivi. Entrambi sono
stati piazzati di fronte a video pornografici e a video
sessualmente neutri, tipo competizioni sportive. Il risultato
è che i video pornografici attivavano nel secondo gruppo
le stesse aree cerebrali – ossia il corpo striato ventrale e
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l’amigdala - dei tossici messi di fronte alla droga.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Plos One e
condotto dagli psichiatri dell’ateneo coordinati da Valerie
Voon.
Quale valenza abbiano questi studi su quel che è di
fatto un istinto, non è chiaro. Uno può avere più o meno
fame. Uno può avere più o meno necessità di dormire.
Così come uno può avere più o meno voglia di far sesso.
O no? E come si quantifica una “vita sessuale normale”?
E come fanno a sapere gli scienziati che la persona che
dichiara di avere “una vita sessuale normale” non stia
mentendo?
Di ricerche come queste sono piene le cronache. Spesso
dai risultati contraddittori e dalle premesse molto, ma
molto incerte, provano a catalogare l’istinto sessuale
per individuarne un disturbo. La dipendenza sessuale,
o ipersessualità, ha oggi infatti un nome specifico: sex
addiction.
Il primo a confessare di soffrirne fu l’attore Michael
Douglas, che diede scandalo in tutto il mondo. Era la metà
degli anni 90 è il protagonista di Basic Instinct e Rivelazioni
disse ai fan che andava in clinica a disintossicarsi da una
sessuomania che nessuno sapeva che fosse.
Finì alla Mary Poppins di Hollywood, clinica dei
vip americana dove già era stata Alison, figlia di Clint
Eastwood, ma per disintossicarsi dall’alcol. E dove
sarebbe presto andata, raccontò il Daily News nel 1999,
Julie Andrews, depressa per la perdita della voce e per la
morte della zia che le aveva fatto da madre.
Nell’estate del 1998 la sessodipendenza tornò in auge.
Lo psicoterapeuta Jerome Levin annunciò l’uscita di un
libro, nel pieno del sexgate americano: La Sindrome
Clinton: il presidente e il carattere autodistruttivo della
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dipendenza dal sesso, edito da Prima Publishing. L’autore
sosteneva che Clinton manifestasse i sintomi tipici di
«una persona in preda a un’assuefazione non curata».
E disse «La sessodipendenza non riguarda tanto il sesso
quanto la insicurezza, la mancanza di amor proprio e
l’esigenza di riconferme e rassicurazioni. In ultima analisi,
il sessodipendente non si sente amato né amabile, quindi
cerca in modo ossessivo di smentire questa sensazione».
Passarono due anni e fu la volta di Robbie Williams
che, dopo essersi liberato da alcol e droga, secondo il
Daily Star si stava curando dalla dipendenza dal sesso
attraverso l’aiuto di uno psicanalista, chiamato a frenare la
sua voglia di portare a letto tutte le donne che incontrava.
La neonata sex addiction finì per colpire diverse star
dello spettacolo, dell’industria e dello sport, come il
celeberrimo Tiger Woods che, dopo gli ultimi successi
golfistici della fine del 2009, finì travolto dallo scandalo
per i continui tradimenti nei confronti della moglie svedese
Elin Nordegren, da cui divorziò. Poco più tardi decise di
sottoporsi ad una terapia riabilitativa dalla dipendenza
dal sesso durata diversi mesi. E tornò a vincere sul prato
verde.
Alla fine del 2011 arrivò così il primo studio, americano.
In base ai dati forniti dalla Society for the Advancement of
Sexual Health, negli Stati Uniti erano oltre nove milioni le
persone affette da sessodipendenza. E, dettaglio per nulla
trascurabile, davano lavoro a millecinquecento terapisti
specializzati, un esercito se si pensa che dieci anni prima
erano meno di cento.
Di più: le persone che volevano sottoporsi ad una cura
per uscirne dovevano essere monitorate costantemente
per non cadere nel tunnel della droga o della depressione.
Almeno raccontarono così i giornali americani, citando
un istituto medico di Los Angeles.
109
Sarà.
Tuttavia, se si spulciano bene le cronache, si scopre
che già nel 1997 Michael Douglas ammise che il suo
vero problema era stato l’alcol, mica il sesso. Disse ai
cronisti giunti a Londra, durante la presentazione del film
The Ghost and the Darkness: «Sono stato in segreto un
alcolizzato per vent’anni. È questa la cosa che ha portato
alla rottura del mio rapporto con Diandra». Rammentò
di aver cominciato quattro anni prima a disintossicarsi in
una clinica di Tucson in Arizona dopo aver messo in giro
«come paravento» la falsa notizia di una sua incontenibile
sessuomania: «Parlai di dipendenza dal sesso, ma tutti
sanno che una cosa simile non esiste».
Ma un conto è dire che il protagonista di Basic Instinct
va in clinica a curarsi per l’alcol. Un altro è sostenere che ci
va perché troppo dipendente dal sesso: nell’immaginario
popolare la differenza è abissale. Nel primo caso c’è
commiserazione, nel secondo addirittura meraviglia, tanto
da farne argomento di discussione – per anni – nei bar, in
casa, tra amici, in tv, sui giornali.
E ancora: una cosa è essere definito un adultero
impenitente, incapace di mantenere un legame
sentimentale. Un altro è affibbiarne la responsabilità ad
una vorace voglia di sesso, alla stregua di una malattia che
ci impedisce di controllarci. Una questione, se vogliamo,
di marketing.
In fondo, lo stesso psicoterapeuta Jerome Levin, aveva
spiegato tra le righe che il problema di Clinton non era
la sessodipendenza, ma un’insicurezza di carattere. Ma
certo, focalizzare sul primo aspetto fa molta più notizia.
Una notizia da prima pagina.
D’altra parte raccontare o esibire ciò che un divo fa
sotto le lenzuola rende parecchio in termini di popolarità.
Ce ne si accorge quando scoppia il primo clamoroso
110
scandalo del web: il 19 febbraio 1995 la “bagnina” di
Baywatch Pamela Anderson sposa il batterista dei Motley
Crue Tommy Lee, conosciuto appena quattro giorni
prima. Qualche tempo dopo qualcuno ruba loro un video
privato amatoriale a luci rosse girato durante la luna
di miele. Il filmato, 39 minuti davvero hot, comincia a
circolare sul web. Succede il finimondo e fermarlo appare
presto impossibile. Dopo aver portato in tribunale la
società che lo ha diffuso, i Lee rinunciano nel dicembre
1997 a bloccarlo e raggiungono un accordo transattivo: il
video che fino a quel momento girava clandestinamente,
finisce addirittura in vhs e dvd nei sexyshop e milioni di
persone lo scaricano su internet. È il 1998.
Ma i tempi della censura e del moralismo sono
ormai terminati da un pezzo: ciò che arriva a Pamela
Anderson è una popolarità decuplicata. E non in maniera
negativa. In quasi tutti i sondaggi diventa la numero
uno nell’immaginario sexy, ma conquista anche grande
simpatia nelle donne. Presto la sezione Internet del
Guiness sancisce che è la donna più menzionata nel web,
con collegamento a 1 milione e 540mila siti. E non siamo
ancora all’anno 2000. Nel 1999 spunta un altro suo video
privato, girato ai tempi in cui era fidanzata col cantante
Bret Michaels, che riuscirà parzialmente a fermarne la
diffusione.
Il web sembra come impazzito.
D’altronde siamo nei momenti in cui, al cinema, il sesso
esplicito nei film impegnati viene sdoganato. Diventa, anzi,
quasi una costante. Succede, ad esempio, col professore di
filosofia diventato regista Bruno Dumont, che dirige una
serie di pellicole d’autore piuttosto scabrose: con L’età
inquieta, nel 1997, che mostra un rapporto sessuale reale,
vince il Premio Jean Vigo.
Due anni più tardi la scrittrice Catherine Breillat porta
111
sugli schermi Romance, in cui arruola anche Rocco
Siffredi e nel quale l’attrice Caroline Ducey non nasconde
proprio nulla: il film è candidato al British Independent
Film Awards come miglior film straniero. Pare quasi
che più le dive osino sfondare nel realismo sessuale, più
riscuotano consensi.
Kerry Fox, attrice già affermata, partecipa allo scandalo
interpretando Intimacy, in cui le scene di sesso sono
palesi: conquista l’Orso d’Argento come miglior attrice al
Festival di Berlino.
Lo scandalo, insomma, porta successo.
Da allora alcuni registi e star già ben noti si
cimenteranno in pellicole, d’autore s’intende, con scene di
fellatio e rapporti completi, fino ad arrivare ai limiti di
Nymphomaniac del 2013, dove le scene di vero sesso non
si contano più: e il film viene salutato come il capolavoro
di Lars Von Trier.
Nasceranno presto anche serie tv dove il sesso reale
la fa da padrona, come X Femmes su Canal Plus, che in
un episodio recluterà come protagonista nientemeno che
Victoria Abril.
In molti casi registi, le stesse attrici o perfino i titoli
di coda dei film tendono a precisare che le scene di sesso
esplicito non sono state interpretate dai protagonisti,
ma da attori hard professionisti. Vero o meno che sia, il
punto non è questo: il nodo centrale è che si capisce come
l’esibizione delle sessualità possa andare di pari passo con
la celebrità, aumentandola in maniera esponenziale. E non
solo al cinema.
Nel 2003 finisce in Rete un video hot privato di Paris
Hilton. Ventidue anni, modella, ha partecipato ad un paio
di film non esattamente da botteghino. Il nonno Barron
è il proprietario dell’immensa catena alberghiera degli
112
Hilton e proprietario della squadra di football americano
dei San Diego Chargers. Il video hard, dal titolo 1 Night
in Paris, buttato fuori alla vigilia della partecipazione di
Paris Hilton al reality per miliardarie The Simple Life
viene visto e scaricato da mezzo mondo, per quando la
bella ereditiera non sia nota come Pamela Anderson, anzi.
Narrano le cronache che il filmato sia stato diffuso dall’ex
fidanzato, Rick Salomon, coprotagonista della notte
d’amore. Lei ha tentato causa, poi, nel 2005, si sono messi
d’accordo. Nello stesso anno, finito pure in dvd, il video
amatoriale riceve diversi AVN Awards, l’Oscar del porno,
come film più venduto dell’anno, film più noleggiato
dell’anno e miglior campagna di marketing-progetto
individuale.
Quel che è sicuro è che da allora Paris ha inciso dischi,
partecipato a numerosi film, aperto una linea di profumi.
Sulla carriera artistica, i media sono impietosi: sul Guiness
dei Primati, sempre nel 2007, appare come la “celebrità
più sottovalutata”. In alcuni sondaggi – firmati Associated
Press e AOL- è votata come “peggior celebrità nel ruolo di
modella del 2006”.
Ma Paris diventa imprenditrice di grido, tanto che la
rivista Variety la decreterà nel 2011 come “imprenditrice
dal miliardo di dollari”. E questo nonostante nel 2007 il
nonno abbia donato il 97% del patrimonio destinato alla
nipote alla fondazione benefica messa in piedi dal padre,
stanco che Paris facesse parlare di sé per la vita mondana,
il gossip, gli arresti per guida in stato di ebbrezza, eccesso
di velocità e guida senza patente.
Sarà un caso, ma dopo il caso del video hot dell’ereditiera,
si entra nell’era dei sextape: filmati amatoriali a luci rosse
i cui protagonisti sono divi e dive del cinema, della musica
e dello sport. Sempre diffusi da ex gelosi. E casi sempre
chiusi con accordi. Diventano in breve così tanti – in
113
Rete moltissimi siti vivono ormai soltanto di sextape di
celebrità - da non destare più nemmeno scandalo. Perché,
è evidente, nella stragrande maggioranza degli episodi, si
tratta di mere operazioni di marketing.
Anche se, ovviamente, qualche eccezione c’è. Perché
l’ultima cosa che Max Rufus Mosley avrebbe voluto è che
un suo video hot privato diventasse di dominio pubblico.
Il festino del capo della Formula Uno
Classe 1940, Max è il figlio di Sir Oswald Mosley,
l’ex ministro laburista inglese poi diventato antisemita
e fondatore della British Union of Fascists, e di Diana
Mitford, scrittrice inglese sostenitrice dell’estrema destra.
I due si sposarono segretamente nella casa del gerarca
nazista Joseph Goebbels e Adolf Hitler fu l’ospite d’onore.
Ma questo non ha mai inciso negativamente sulla
carriera di Max, che diventato avvocato, si affaccia presto
sul mondo dei motori. Prima come modesto corridore,
poi aprendo una propria scuderia, la March Engineering.
Con Ken Tyrell, Frank Williams e Bernie Ecclestone dà
il via alla Formula One Constructors Association. È una
corsa al vertice continua che lo porta nel 1993 a diventare
inamovibile presidente della FIA, organo di governo della
Formula 1, per ben tre mandati: 1997, 2001 e 2005.
Sicché, quando lo scandalo esplode, succede davvero il
finimondo.
È il 30 marzo 2008 e il settimanale inglese News of the
World pubblica alcuni fotogrammi di un video amatoriale
di 5 ore in cui Max Mosley partecipa ad un’orgia
sadomaso con alcune squillo. Secondo il tabloid, che con
quel numero vende nientemeno che due milioni di copie,
si tratterebbe di un’orgia in abiti nazisti e con divise che
ricordano quelle indossate dagli internati nei lager.
114
Dal Corriere della Sera:
«Mosley, orgia nazista con prostitute»
Il presidente della Formula Uno messo alla gogna da un
video di 5 ore: dà ordini in tedesco, frusta e si fa frustare
LONDRA - «Orgia nazista con cinque prostitute». Con
questa pesante accusa il presidente della Formula Uno Max
Mosley è stato messo alla gogna da News of the World. «In
segreto è un pervertito sessuale sadomasochista» scrive
senza mezzi termini il tabloid domenicale londinese. La
prova? Un video di cinque ore dove si vede Mosley - figlio
di un famigerato leader fascista britannico - che si atteggia
a comandante di un lager nazista durante una «depravata
orgia in stile nazista», dà ordini in tedesco alle prostitute
nude o seminude, le frusta e poi a sua volta «gode a farsi
frustare a sangue» scrive il tabloid inglese. «In pubblico il
boss della Formula Uno respinge il malefico passato del
padre ma in segreto fa giochi nazisti in un’orgia da 2.500
sterline» sibila il News of the World.
Sessantasette anni, enormemente ricco, figlio di quel
Oswald Mosley che tra le due guerre mondiali fondò
l’Unione Britannica dei Fascisti e manifestò una sperticata
ammirazione per Hitler e Mussolini, il presidente della
Formula Uno avrebbe dato sfogo ai suoi istinti venerdì in un
lussuoso appartamento nel quartiere londinese di Chelsea.
Pagando in anticipo alla “dominatrice” (la prostituta-leader)
2.500 sterline in contanti, circa 3.100 euro. Il tabloid non
spiega come i suoi “segugi” siano riusciti a mettere mano sul
video hard ma fa un dettagliatissimo resoconto dell’orgia,
con Mosley che alterna i ruoli dell’aguzzino e della vittima
immaginando di trovarsi in un campo di concentramento.
Per accentuare lo «stile nazista» due delle cinque prostitute
erano vestite come le donne recluse ad Auschwitz. Sposato
115
da 48 anni con Jean, padre di due figli già grandi, Mosley ha
lasciato l’appartamento di Chelsea dopo quasi cinque ore. Il
tabloid fornisce persino l’ora esatta in cui è uscito dalla porta:
le 17.05. «Si tratta di una questione fra Mosley e il giornale»
fa sapere una fonte della Federazione internazionale
dell’automobilismo.
La risposta di Max Mosley arriva il giorno successivo
con una lettera aperta in cui spiega che, per quanto il video
lo abbia messo in imbarazzo, esclude di dimettersi e che il
filmato avesse una “connotazione nazista”: «Ho ricevuto
un gran numero di messaggi di simpatia e sostegno
provenienti dalla FIA e dal mondo dell’automobilismo
sportivo in generale, e tutti mi dicono che la vita privata
non c’entra con il lavoro, e non deve influire, e che quindi
devo rimanere al mio posto. Ho deciso di seguire il
consiglio».
E per prima cosa fa causa a News of the World.
Bmw e Mercedes-Benz esprimono perplessità sul suo
futuro alla guida della FIA. E Mosley risponde anche
con un certo sarcasmo, affidando le sue parole alla
Reuters: «Considerata la storia di BMW e MercedesBenz, soprattutto prima e durante la seconda guerra
mondiale, capisco pienamente perché vogliano prendere
le distanze con decisione da questa storia di cui descrivono
correttamente come “vergognoso” il contenuto delle
pubblicazioni» alludendo evidentemente ai rapporti tra le
due case automobilistiche e il Reich.
E manda, ancora, una lettera al presidente
dell’Automobilclub tedesco Peter Meyer, che gli aveva
chiesto di tornare sui suoi passi: «Non vedo perché dovrei
farlo. Io non ho fatto nulla di sbagliato, l’errore è del
giornale. E per questo l’ho querelato. Se avessi guidato a
velocità folle su una strada pubblica, o ubriaco, allora sì che
mi sarei dimesso il giorno stesso». E riparla del sadomaso:
116
«Molti possono trovare che certi comportamenti siano
inaccettabili, ma sono inoffensivi e completamente legali.
Molta gente fa cose in camera da letto o ha abitudini
personali che altri trovano ripugnanti. Ma finché restano
riservate nessuno ha nulla da obiettare. L’offesa non è
quello che ho fatto io, ma il fatto stesso che sia stata resa
pubblica». E ancora, quanto «all’elemento nazista, è un
montaggio puro».
Di nuovo, in un’intervista al Sunday Telegraph si
difende sostenendo che sia uno suo «diritto avere una
vita sessuale eccentrica». Quanto alle critiche sul video «si
fondano sull’idea che non si può avere una vita sessuale
un po’ eccentrica. Ma la maggior parte della gente dice se
qualcuno ama questo genere di cose, finché non offende
nessuno e resta nel privato, la cosa non la riguarda».
Ma lo scandalo presto si allarga. Siamo alla metà di
maggio del 2008 e, mentre il destino di Mosley a capo della
FIA pare ora incerto (ma la FIA si pronuncerà poi a larga
maggioranza per la sua permanenza in carica), escono
nuovi dettagli, altrettanto clamorosi, perché coinvolgono
esponenti istituzionali piuttosto delicati. Scrive ancora il
Corriere della Sera:
«All’orgia con Mosley moglie di uno 007»
LONDRA - I servizi segreti britannici e lo scandalo
sessuale che ha coinvolto Max Mosley. Secondo la stampa
britannica un legame c’è. A fine marzo ha sollevato un vero
e proprio polverone il video di un’orgia nazista, che aveva
come protagonisti il presidente della FIA e cinque prostitute,
diffuso dal sito del tabloid britannico News of the world. Ora
i giornali inglesi scrivono che una delle cinque ragazze con
Mosley è la moglie di un agente dell’MI5, l’agenzia per la
sicurezza e il controspionaggio del Regno Unito. Secondo
il Sunday Times, il mese scorso, sarebbe stato lo stesso
agente a dare la notizia, costretto in un secondo momento
117
a dare le dimissioni.
Grande imbarazzo per Jonathan Evans, direttore generale
dell’MI5, che ha subito informato della cosa il premier
Gordon Brown affermando come l’agenzia non abbia alcun
ruolo nella vicenda. «Tutte le supposizioni- ha fatto sapere
un portavoce della MI5- secondo le quali l’agenzia abbia
contribuito alla “preparazione” dello scandalo Mosley non
hanno totalmente senso». L’agente sarebbe stato spinto a
dimettersi perché il comportamento della moglie avrebbe
potuto avere conseguenze sulla sicurezza. «Non posso
parlare di casi individuali - ha detto ancora il portavoce- ma
noi ci aspettiamo regole dure per il comportamento dei
membri del nostro personale, sia sul piano professionale che
privato. In ogni caso dove un membro non abbia rispettato
queste norme, dei provvedimenti saranno presi». Il 3 giugno
un’assemblea straordinaria della FIA voterà la fiducia di
Mosley.
Il 24 luglio 2008 - dopo una prima pronuncia in senso
contrario dato che autorizzava la diffusione di una miniclip
del video - il tribunale gli dà ragione, condannando il
tabloid a risarcirlo con 60mila sterline. L’Alta Corte di
Londra ritiene infatti che l’orgia non avesse connotati
nazisti e giudica il servizio una grave violazione della
privacy.
E a parlare è ora Michelle, la prostituta moglie
dell’agente segreto britannico, che in un’intervista a
Sky News presenta le sue scuse a Mosley: «Mi dispiace
moltissimo per sua moglie e per la sua famiglia. Sono stata
ingenua e stupida». È lei ad essersi infatti prestata a girare
il video per il tabloid. Due figli, professione dominatrix
in gonna di pelle, calze a rete e frustino in mano nei suoi
servizi pubblicitari circolanti in Rete, dice ancora sulla
moglie di Mosley: «Deve essere stata una cosa devastante.
Non se lo meritava. Vorrei soltanto inginocchiarmi e
chiedere scusa. Vorrei non averlo mai fatto».
118
Mosley va all’attacco. Parla alla Gazzetta dello Sport:
«L’orgia? Tutto vero, tranne la storia del nazismo. Chi mi
critica pensa che il sesso sia solo quello classico, ma non è
così. Mia moglie si è arrabbiata, ma non divorzieremo».
E alla domanda se non fosse stato più dignitoso lasciare
appena scoppiato lo scandalo, risponde senza esitazioni:
«Non l’ho mai considerato. Visto la falsità della
colorazione nazista ho pensato a contrattaccare. La FIA
mi ha appoggiato: non avessi avuto il voto favorevole, me
ne sarei andato».
Il 5 maggio 2009 il figlio di Max Mosley, Alexander,
viene trovato morto in un appartamento di Notting Hill,
Londra, per overdose da eroina. Un mese e mezzo più
tardi Max annuncia di non volersi ricandidare alla guida
della FIA.
Passano due anni. E si scopre che l’intrusione nella
privacy sarebbe il problema minore del News of the
World, il più venduto giornale in lingua inglese del
mondo: il tabloid viene infatti costretto alla chiusura
dato che emerge che alcuni suoi giornalisti effettuavano
intercettazioni telefoniche abusive e corrompevano agenti
di polizia per ottenere notizie riservate su politici e vip.
Nel 2014 Mosley fa causa a Google per la diffusione
delle immagini del party erotico attraverso il motore
di ricerca. I giudici prima in Francia e poi ad Amburgo
stabiliscono che i frame dell’orgia non vadano diffusi.
Google presenta appello. Ma un anno più tardi, maggio
2015, viene raggiunto un accordo riservato tra le parti:
«L’accordo è confidenziale – dichiara Mosley - sono felice
e non voglio metterlo a repentaglio».
119
Morire di sesso: David Carradine
e Kristian Digby
Un conto è la sessodipendenza. E un altro cercare di
moltiplicarne i piaceri mettendo a repentaglio la propria
vita: il 3 giugno 2009 fa il giro del mondo la notizia
della morte di David Carradine, 73 anni, in una stanza
d’albergo di Bangkok, città in cui stava girando un film.
Figlio d’arte, per intere generazioni il suo volto più noto
è stato quello del placido ma implacabile monaco Kwai
Chang Caine della serie televisiva Kung Fu, 63 episodi
diventati vero e proprio cult e nel cui ruolo principale
fu preferito al giovanissimo Bruce Lee. Ai più giovani è
invece stampato nei ricordi come uno dei protagonisti di
Kill Bill di Quentin Tarantino.
Inevitabile che il caso appassioni più di due generazioni.
Un caso che appare subito strano. Com’è morto l’attore?
All’inizio si parla di un suicidio per impiccagione. Poi la
polizia thailandese rivela che David è stato trovato nudo
con i genitali legati ad una corda. E non solo. Spiega ai
giornalisti Worapong Siewpreecha, uno degli ispettori
di polizia intervenuti sul posto: «Aveva una fune legata
attorno al collo e un’altra intorno all’organo sessuale,
ed entrambe le corde erano legate insieme e appese
nell’armadio. Considerate le circostanze non possiamo
essere sicuri che si sia suicidato, ma potrebbe essere morto
per un folle gioco legato alla masturbazione». La versione
è confortata dal fatto che le telecamere a circuito chiuso
dell’hotel non hanno visto né uscire né entrare qualcuno
in camera. Ma la famiglia non accetta la versione ufficiale.
Pochi giorni dopo Mark Geragos, uno dei loro legali,
racconta a Larry King della CNN che l’attore voleva
indagare su alcune società segrete di arti marziali. Il
fratello di David, Keith, chiede una nuova autopsia a Los
120
Angeles e l’intervento dell’FBI.
La stampa internazionale riporta tuttavia le
dichiarazioni delle sue ex mogli secondo cui Carradine
aveva una forte passione per il bondage. In particolare,
secondo alcuni siti scandalistici americani, l’ex quarta
coniuge Marina Anderson, separatasi nel 2001, nelle
sue denunce presentate per il divorzio, sottolineò che il
marito aveva «un comportamento sessuale ripugnante
e anormale, potenzialmente letale». Caso chiuso? Forse.
Proprio Marina pubblica successivamente il libro David
Carradine: The Eye of My Tornado nel quale racconta di
aver svolto indagini private sulla morte dell’ex marito. E
di essere convinta che non fu accidentale.
Ma David Carradine non è l’unica star che si ritiene
morta con pratiche del genere. Kristian Digby, 32 anni,
notissimo volto della BBC, tv sulla quale conduceva
programmi televisivi sul mercato immobiliare, lo ritrova
la proprietaria di casa, Asiya Rasheed, allertata da Jason,
il suo compagno, un ex poliziotto che non riusciva a
trovarlo al telefono, nella sua casa di Stratford, est di
Londra. Il cadavere è sul letto con indosso solo i boxer.
Scotland Yard esce poco più tardi dall’abitazione con
una cintura e un sacco. È il primo marzo 2010. Secondo
le autorità Kristian è morto per asfissia. Come, non è
ancora chiaro. Amato dal pubblico fin dal 2003, quando
aveva iniziato a condurre il programma To buy or not
to buy, Kristian ha condotto anche diversi programmi
sull’omosessualità, battendosi contro le discriminazioni. Il
caso fa discutere molto.
Sette mesi più tardi il referto autoptico fornisce qualche
spiegazione in più su come si sia arrivati all’asfissia. E
sono spiegazioni scioccanti: Kristian si è soffocato con
una busta di plastica legata alla testa con una cintura. Ma
non si tratta di suicidio. Si tratta, ancora una volta, di
un gioco autoerotico, secondo cui in apnea il piacere si
121
moltiplica: ipossifilia.
Di più: nel corpo non sono state trovate tracce di alcol
o stupefacenti. In compenso, di fianco al cadavere, è stata
rinvenuta una bomboletta spray di anestetico locale,
il cloruro di etile, che se inalato, sarebbe in grado di
aumentare il piacere quasi come il popper.
122
SEXGATE
L’Europa politica degli scandali
L’ultimo è il caso del lord britannico John Buttifant
Sewel, del quale il tabloid The Sun ha diffuso un video
mentre, mezzo nudo, sniffa polvere bianca con una
banconota sul seno di una donna durante un festino.
Secondo il giornale le donne che lo accompagnavano
erano due escort. Sewel si è dimesso subito dopo.
Per quanto quasi sempre vogliano decidere non solo
delle leggi, ma anche dell’aspetto etico-morale dei cittadini
che rappresentano, politici e scandali sessuali vanno a
braccetto un po’ovunque. In Italia, terra per antonomasia
della famiglia tradizionale cattolica, scandali del genere
non si contano nemmeno più. Il primo e, per i tempi, più
clamoroso, fu certamente quello che esplose nel 1953,
quando fu trovato sulla spiaggia di Capocotta il cadavere
di una giovane, Wilma Montesi. Qualche mese più tardi
123
una donna raccontò che Wilma era morta forse per
overdose nel corso di un’orgia a casa del marchese Ugo
Montagna, alla quale aveva partecipato il musicista Piero
Piccioni. E cioè il figlio del potente ministro degli Esteri
Attilio, destinato ad ereditare la guida di De Gasperi alla
Dc. La vicenda si trasformò in un clamoroso tritacarne
mediatico e coinvolse dodici imputati, tra cui il questore
di Roma, accusato di voler insabbiare le carte. Ma vide
tutti assolti con formula piena.
Il più noto scandalo è rappresentato invece dalla vicenda
del bunga bunga, ossia le cene eleganti organizzate a casa
di Silvio Berlusconi, di cui, per anni, ha parlato il mondo
intero.
Eppure, se soltanto si valicano le Alpi, si scopre che sotto
le lenzuola ognuno nasconde segreti. Sette anni prima di
diventare Presidente della Repubblica francese, ossia
nel 1974, François Mitterand ebbe una figlia, Mazarine
Pingeot – oggi scrittrice- da una relazione extraconiugale
con Anne Pingeot. La riconobbe durante il suo primo
mandato presidenziale, nel 1984, ma ci vollero altre dieci
anni prima che l’opinione pubblica venisse a saperlo.
Nicolas Sarkozy è stato sposato tre volte. Cécilia
Ciganer-Albéniz, la seconda delle sue mogli, lasciò il
marito nel 1988 per andare a vivere con lui. Ottenuti i
rispettivi divorzi, si sposarono nel 1996. Ma nell’ottobre
2007, quando Sarkozy è già da mesi all’Eliseo, la fine del
rapporto si consuma davanti agli occhi dei francesi, tanto
che il presidente perde le staffe nel corso dell’intervista
alla trasmissione americana 60 Minutes. Due mesi più
tardi Sarkozy ufficializza la sua relazione con l’ex modella
Carla Bruni, che sposerà dopo una cinquantina di giorni.
Non da meno gli scandali che hanno coinvolto François
Hollande che, mentre era convivente con Ségolène Royal,
dalla quale ebbe quattro figli, coltivò una relazione per
diversi anni con la giornalista di Paris Match Valérie
124
Trierweiler, reduce da due divorzi, il cui rapporto fu
reso pubblico solo nel 2010. Ma il 9 gennaio 2014 il
settimanale Closer rivelò che Hollande aveva un’amante,
confermando voci che giravano da quasi un anno: l’attrice
francese Julie Gayet. Quando lo scandalo emerse, Valérie
fu ricoverata in ospedale per un malore.
Sulle vicende che coinvolsero Carlo e Diana
d’Inghilterra, coi rispettivi amanti, si sono scritti libri su
libri. Per la morte della principessa nell’incidente nella
galleria del Pont de l’Alma a Parigi il 31 agosto 1997 si
parla ancora di un complotto nonostante le indagini sia
francesi che inglesi lo abbiano più volte escluso. E a far
riparlare del caso è un articolo del Daily Mail nell’agosto
2015, che racconta come, non appena giunse la notizia
della morte di Diana e del suo ultimo compagno Dodi AlFayed, la Regina Elisabetta commentò: «Qualcuno deve
aver ingrassato i freni». Il Daily Mail ha ripreso la frase
dal libro The Queen’s Speech di Ingrid Seward, che riapre
così un giallo infinito.
Tra le nuove rivelazioni su Diana, quelle di Selina
Scott, volto noto della tv britannica, secondo cui Lady D
fu anche vittima di stalking. Lo scrive sul Sunday Times,
sostenendo che l’autore della corte spietata sarebbe
nientemeno che Donald Trump, il magnate in corsa per la
Casa Bianca: «La bombardò con enormi bouquets di fiori,
ciascuno del valore di centinaia di sterline. Trump vedeva
Diana come l’ultima moglie trofeo da esibire». Anche se
prove di questo stalking non ce ne sono.
D’altra parte l’Inghilterra è da sempre la patria europea
degli scandali sessuali. E non solo riguardo i Reali. Decenni
prima del bunga bunga, esplose infatti il clamoroso caso
del ministro John Profumo. Erano gli anni della guerra
fredda. Esattamente il 1961 e Profumo allacciò una
breve relazione con la showgirl e prostituta d’alto bordo
125
diciannovenne Christine Keeler, che nello stesso periodo
era legata a Eugenij Ivanov, presunto agente del Kgb sotto
copertura. Profumo era un conservatore, apparentemente
felicemente sposato con la bella attrice Valerie Hobson.
Quando la storia emerse, un anno più tardi, lui all’iniziò
negò. Poi, dietro la spinta mediatica, ammise e lasciò la
politica attiva.
Un antesignano dei sexgate avvenuti in mezzo mondo.
Di una carrellata di vicende del genere ho già avuto
modo di scriverne nel secondo volume dell’Enciclopedia
del Sesso (GVP editore), per documentare la differenza tra
vizi privati e pubbliche virtù che caratterizza buona parte
degli esponenti istituzionali a qualsiasi latitudine.
Solo per attenersi agli ultimi scandali, nel 2007 il
presidente israeliano Moshe Katsav si dimise perché
accusato di abusi sessuali e in un caso di stupro – oltre
che a intercettazioni illegali e frodi- nei confronti di
quattro donne che avevano lavorato alle sue dipendenze
sia quando era ministro del turismo sia quando era già
diventato presidente.
Sei mesi più tardi toccava a Ilkka Kanerva, ministro
degli esteri finlandese, che, nel marzo 2008, si dimise
perché scoperto di aver mandato circa 200 sms piccanti
ad una spogliarellista.
Seguiva John Della Bosca, settembre 2009, ministro
della sanità del Nuovo Galles del Sud, che si dimise
anticipando le rivelazioni del Daily Telegraph su una sua
storia di sei mesi con una donna di 26 anni. E nel gennaio
2010, il primo ministro dell’Irlanda del Nord Peter
Robinson, si autosospese dall’incarico per sei settimane,
in seguito alle voci sulla relazione di sua moglie Iris con
un ragazzo di 19 anni al quale aveva fatto anche avere
un prestito non dichiarato. La donna, pure lei deputata
al parlamento dell’Ulster, aveva ammesso l’infedeltà e
lui l’aveva perdonata pubblicamente. Ma la vicenda
126
divenne presto un caso politico impossibile da reggere.
Dall’Irlanda del Nord alla Gran Bretagna il passo è breve:
nel 2013, un altro tradimento suscitò clamore. Ma ebbe
l’effetto di un boomerang. Protagonista Vicky Price, 60
anni, ex moglie del liberaldemocratico Chris Huhne. La
donna, nel 2003, si era fatta carico di una multa presa
dal marito per eccesso di velocità con tanto di rischio
di ritiro della patente. Lo amava al punto di diventarne
complice. Finché Chris non la tradì. Infuriata, svelò tutto:
disse che era stato lui a guidare quel giorno e che l’aveva
manipolata per farsi addossare le colpe. E in effetti Huhne
ha ammesso. Si è dimesso da ministro e da deputato.
Non sapeva però Vicky Price che ogni vendetta può avere
dei costi da patire: e infatti a marzo 2013, proprio per
l’inganno protratto per difendere il marito nel 2003, la
donna è stata riconosciuta colpevole di malversazione
della giustizia.
Gli scandali sessuali americani
Ma chi prese più in giro l’Italia per la vicenda bunga
bunga furono gli americani. I quali, com’è noto, sono
pubblicamente piuttosto puritani. E forse, proprio
per questo, in materia di scandali sessuali, risultano
inarrivabili maestri.
Il più bizzarro riguarda Anthony Weiner, deputato
democratico al centro non di uno, ma di due scandali
sessuali. Il primo avvenne per i suoi selfie in mutande (e
in erezione) postati su Twitter ad alcune ragazze, seguiti
da chat a luci rosse con la pornostar Ginger Lee. La quale
raccontò come l’approccio del politico fosse stato di
natura ben diversa. Le aveva parlato di aborto e riforma
sanitaria. Poi era passato a cose più pratiche e decisamente
più spinte. Quelle che davvero lo interessavano. «Dopo
l’esplosione dello scandalo - rammentò la donna - Weiner
mi ha chiesto di mentire sulle nostre comunicazioni». Foto
127
e chat porno costarono a Weiner – che inizialmente gridò
come sempre accade al complotto- le dimissioni dalla
Camera dei Rappresentanti, il 17 giugno 2011. Pianse,
mostrandosi sinceramente pentito.
E la moglie, Huma Abedin, ex collaboratrice di Hillary
Clinton, lo perdonò. Passarono due anni e mentre era in
corsa per la poltrona di sindaco di New York, spuntarono
nuove immagini di Weiner, che in chat si faceva chiamare
Carlos Danger. Foto decisamente più esplicite rispetto
a quelle del passato. Le tirò fuori il sito di gossip The
Dirty. Ed emersero pure nuovi messaggi erotici, inviati
alla giovane Sidney Leathers. «Avevo detto che altri
messaggi e foto sarebbero probabilmente venuti fuori e
oggi è successo - si difese Weiner-. Come ho già detto
in passato queste cose che ho fatto erano sbagliate e
dannose per mia moglie. Hanno posto sfide al nostro
matrimonio, sfide che sono andate oltre le mie dimissioni
dal Congresso. Mentre alcune cose postate oggi possono
essere vere e altre no, questo comportamento è ormai alle
mie spalle. Mi sono scusato e voglio di nuovo dire che
mi dispiace». Invece, secondo il New York Post non solo
quelle foto erano nuove, ma Weiner aveva continuato
a postarle pure dopo lo scoppio dello scandalo.
E se Weiner è il caso più bizzarro, non è certo l’ultimo,
che risponde invece al nome di Adam Kuhn, a capo dello
staff del repubblicano Steve Stevers, Ohio, costretto alle
dimissioni nel giugno 2014 a causa di una relazione
piuttosto particolare con Jennifer Roubenes Allbaugh,
in arte Ruby, ex pornostar americana. L’attrice, duecento
film hard alle spalle, ritiratasi per crescere i propri figli,
ha postato sul profilo twitter di Stivers la foto del pene di
Khun. «Ti odio stronzo, ora siamo pari». Poi ha cancellato
il post, ma forse era un po’ tardi.
D’altra parte, se si vuole trovare uno scandalo sessuale
128
negli Stati Uniti, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Tra i
primi, nel 1974, si fece notare Wilbur Mills, 65 anni, il
deputato più influente del Congresso, presidente della
commissione sulle tasse: una spogliarellista piuttosto
formosa sbucò dalla sua auto per tuffarsi nel laghetto
artificiale di fronte al maestoso monumento a Thomas
Jefferson. Tale Annabell Battistella, in arte Fanne
Foxe, nota nel mondo dello striptease come il “petardo
d’Argentina”. Mills, dopo aver invano negato, frenò la
sua corsa alla presidenza della commissione, che non
raggiunse mai.
Due anni dopo, 1976, toccò a Wayne Hays, potente
leader democratico alla Camera, costretto alle dimissioni
quando si scoprì che aveva assunto come segretaria la sua
giovane amante.
Il deputato repubblicano e conservatore Robert Bauman,
finì trombato alle elezioni dopo essere stato accusato di
averci esplicitamente provato con un sedicenne.
John Jenrette, democratico della Carolina del Sud, già
dimessosi per una vicenda di mazzette nel 1980, vide
compromessa definitivamente la propria carriera quando
l’ex moglie Rita posò nuda per Playboy, raccontando di
un loro vecchio amplesso sulla scalinata del Congresso.
Nel 1983 i deputati Gerry Studds, democratico del
Massachusetts, e Daniel Crane, repubblicano, furono
“censurati” per aver avuto rapporti sessuali con stagisti
minorenni, rispettivamente con un fattorino di 17 anni e
con una ragazzina, sempre diciassettenne.
Quattro anni più tardi Gary Hart, il primo tra gli
aspiranti tra i democratici alla Casa Bianca, venne
fotografato su uno yacht insieme all’amante Donna Rice,
seduta sulle sue ginocchia. Gli fu chiesto in una conferenza
stampa se avesse mai commesso adulterio. Lui non rispose.
E la sua carriera politica finì lì.
Più avanti nel tempo si andò oltre: nel 1989 il
repubblicano dell’Ohio Donald Lukens venne condannato
129
per aver avuto rapporti sessuali con una sedicenne.
Stessa accusa e condanna per Mel Reynolds, nel 1995,
democratico dell’Illinois. Nel medesimo anno, Robert
Packwood, repubblicano assai noto dell’Oregon, si dimise
dalla carica dopo le accuse di molestie sessuali. E nel 2007
il notissimo Larry Craig, senatore repubblicano dell’Idaho,
lasciò in seguito ad un arresto, per aver tentato di far sesso
con un poliziotto in borghese in un bagno pubblico.
Gli affari sessuali del Presidente
I presidenti degli Stati Uniti d’America sono stati
travolti da scandali a ripetizione, fin dai tempi di Thomas
Jefferson, tra i padri fondatori della patria e terzo
presidente: ebbe due figli da due delle sue schiave. Andrew
Jackson, settimo presidente, finì travolto dallo scandalo in
quanto sua moglie Rachel Donelson era bigama.
Grover Cleveland, presidente per due mandati, ebbe un
figlio illegittimo. Su Dwight Eisenhower, presidente tra il
1952 e il 1960, si accesero i riflettori rosa per la relazione
con Kay Somerville, sua autista personale durante la
guerra.
E i rumors su tradimenti e scappatelle d’amore non
hanno risparmiato neppure Warren Harding, Franklin
Delano Roosevelt, Dwight Eisenhower e Lyndon Johnson.
L’epopea dei Kennedy
Ma certamente nulla è paragonabile all’epopea dei
Kennedy. Solo che le voci sulla vita sessuale disinibita
che riguardarono John Fitzgerald Kennedy furono tutte
successive alla sua morte. Una volta ucciso nell’attentato di
Dallas del 22 novembre 1963, queste voci si moltiplicarono
a dismisura. La relazione più nota rimase certo quella
con Marilyn Monroe. Ma tra le infinite scappatelle che
gli vennero riconosciute si contarono anche quelle con
130
Jean Simmons, Lee Remick, Mary Pinchot Meyer, Pamela
Turnure, Betty Grable. Christoper Andersen, nel suo
libro del 1996 Jack e Jackie, ritratto di un matrimonio
americano, gli attribuì anche un flirt con Sophia Loren
(relazione che l’attrice ha smentito).
E scrisse che «La frenesia sessuale di Kennedy era
provocata da una potente droga antidolorifica che
ne esasperava l’erotismo, un cocktail di anfetamina e
steroidi».
Secondo alcune rivelazioni gli ultimi anni, pare pure
che JFK amasse sguazzare tutto nudo nella piscina della
residenza di Pennsylvania Avenue con accanto un paio
di “fidate collaboratrici” molto formose soprannominate
Fiddle e Faddle.
Di fatto, quando emerse il mare di donne che lo aveva
accompagnato, l’allora First Lady, Jacqueline “Jackie”
Kennedy, finì per essere considerata un esempio di stile
e fedeltà, capace di stare vicino ad un uomo che l’aveva
tradita così tanto.
Forse.
Ma un libro uscito a giugno 2014, Jacqueline Kennedy
Onassis: a Life Beyond Her Wildest Dreams, scritto da
Darwin Porter e Danforth Prince, racconta tutt’altra storia
e Jackie appare decisamente diversa. Si sa ad esempio che,
dopo la morte di John, ebbe una relazione con il fratello
Bob.
Il volume narra tuttavia che Jackie amò anche il terzo
fratello Kennedy, Ted. Avrebbe detto quest’ultimo a David
Powers, assistente di JFK: «Sapevo che Jackie frequentava
anche Bobby, ma questo non mi ha fermato. Mi sono
innamorato di lei dal momento in cui l’ho vista».
E l’elenco non si ferma qui. Anzi, intera famiglia Kennedy
a parte, tra gli amanti di Jackie gli autori ricordano: Peter
Lawford, Paul Newman, Gregory Peck, Frank Sinatra,
Warren Beatty, William Holden e Marlon Brando. Brando,
131
d’altronde, scrisse nella sua autobiografia, a proposito
della prima loro notte: «Aspettava che le chiedessi di
andare a letto insieme, alla fine me lo ha chiesto lei». Con
John P. Marquand, figlio di un premio Pulitzer Prize, ebbe
un rapporto in ascensore.
A Truman Capote raccontò del fastidio che le dava la
verginità e che prima di JFK aveva fatto sesso con altri
cinque uomini. Uno, Ormande de Kay, doveva sposarlo
al suo ritorno dalla guerra in Corea. Ma poi era arrivato
John. Gli amanti arrivarono dopo. William Holden,
dicono gli autori, sostenne di averle insegnato a far bene
sesso orale: «Suo marito non insisteva a chiederlo, così
le ho detto io come fare. All’inizio era riluttante, ma una
volta preso il ritmo, non si fermava più».
Seguì la relazione con Gianni Agnelli sulla costa
amalfitana.
Ma c’è altro.
Secondo Porter e Prince, Jackie poco prima dell’attentato
di Dallas era pronta a chiedere il divorzio. Anzi, lo era
pronta fin dal 1956, quando lo avrebbe confessato alla
madre: «Non riesco a pensare di passare il resto della mia
vita con lui. Non succederà» avrebbe detto. I problemi
sarebbero iniziati poco dopo le nozze, tre anni prima,
quando JFK era ancora senatore del Massachusetts: Jackie
lo scoprì in ufficio a far sesso con una dipendente.
È a quel punto che, a farla desistere dall’intenzione
di separarsi sarebbe intervenuto nientemeno che Joe
Kennedy, il patriarca della famiglia, nel timore che il figlio
perdesse la corsa alla Casa Bianca: per calmarla le avrebbe
offerto un milione di dollari sentendosi rispondere che ne
sarebbero serviti venti se il marito avesse «portato a casa
una qualsiasi malattia venerea presa dalle sue prostitute».
Disse agli autori del libro Paul Mathias, ex
corrispondente di Paris Match: «Fin dall’inizio della
relazione Jacqueline sapeva delle altre donne e questo la
addolorava molto». Anche perché, come le aveva spiegato
132
Lem Billings, amico di JFK, John era un “donnaiolo
compulsivo” e «non ci sarà mai una sola donna in grado
di soddisfarlo».
La spietata biografia racconta come, durante la luna di
miele, in Messico, JFK avesse confessato alla neoconsorte
di soffrire di prostatite, infezioni urinarie e di clamidia,
un’infezione trasmissibile per via sessuale. La ragione per
la quale, secondo gli autori, Jackie sarebbe stata contenta
che le prestazioni del marito a letto fossero veloci.
Poi JFK fu ucciso. E dopo la sua morte, mentre stava
con Bob ma confidava a Capote di essere innamorata
di Ted, fece un salto a letto con Paul Newman. Per poi
svelare agli amici: «Paul e John hanno il pene identico. È
stato inquietante, sembrava di essere sedotta di nuovo da
mio marito». Successivamente sposò Aristotele Onassis e
alla morte di quest’ultimo, la vita con gli amanti proseguì
alla grande con scrittori, poeti, attori, deputati, medici e
un fumettista.
Intanto, a cinque anni dalla morte di JFK, anche Bob,
candidato alle presidenziali del 1968, era stato ucciso in
un attentato a colpi di pistola. E si era iniziato a parlare
di maledizione dei Kennedy, i cui scandali non avrebbero
interessato solo i tre fratelli.
Ma pure il loro padre Joe. Nel 1996 usciva infatti il
libro I peccati del Padre di Ron Kessler, che rivelava come
Joe avesse speso una fortuna in bustarelle per aprire la
strada a JFK verso la Presidenza, tipo pagare 75mila
dollari per una copertina a lui favorevole di Life.
Di più. Si narrava come anche il patriarca fosse
ossessionato dal sesso, tanto da usare i suoi affari nel
cinema per stringere relazioni con numerose attrici, tra cui
Gloria Swanson. Si ricordava l’episodio in cui offrì denaro
ad un’attrice minore per accusare di stupro il proprietario
di una catena di sale cinematografiche: l’uomo fu assolto,
133
ma nel frattempo, devastato dallo scandalo, aveva
svenduto le sue attività proprio a Joe. Quanto all’attrice,
che avrebbe minacciato Joe di rivelare il complotto, fu
trovata morta, avvelenata col cianuro.
Kessler pescò anche l’amante segreta di Joe, la fedele
segretaria Janet Des Rosiers: «Viaggiavamo sempre
insieme, sulle navi e sugli aerei, dormendo negli stessi
alberghi e, spesso, nello stesso letto. Ricordo un viaggio
stupendo a Parigi, solo noi due. Sono stati scritti molti
libri sui Kennedy, ma nessuno era mai riuscito a provare
la nostra relazione». Janet disse a Kessler che la moglie lo
lasciava sempre solo, anche in viaggio: «La sera, in viaggio,
era sempre solo. Aveva bisogno di una compagnia. Se non
ci fossi stata io, nel suo letto sarebbe scivolata qualche
modella di New York».
E aggiunse che Joe si faceva dare dai figli i numeri
telefonici di possibili “amichette”.
Si tratta di fatti impossibili da verificare tanti anni più
tardi, ma che allungavano ombre oscure sul capofamiglia
dei Kennedy.
Non bastasse, un anno più tardi, aprile 1997, scoppiava
un nuovo scandalo: venne fuori che Michael Kennedy,
figlio di Bob, aveva avuto una relazione con la baby-sitter
dei suoi figli, quando la ragazza era ancora quattordicenne.
Se ne interessò il procuratore Jeffrey Locke. Data l’età,
rischiava un processo per stupro, ma la famiglia della
giovane, legatissima ai Kennedy, non era intenzionata a
denunciarlo.
La moglie di Michael, Victoria Gifford, chiese clemenza
per il marito. Fu lei stessa a sorprenderli a letto e
successivamente a separarsi. Un mese più tardi, il rampollo
chiese scusa a tutti: «Mi rendo contro che sarà difficile,
ma spero che col tempo la famiglia della bambinaia possa
perdonarmi. Per quanto riguarda mia moglie e i miei figli
spero che anche loro mi perdoneranno e che un giorno io
134
possa riguadagnare e meritare la loro fiducia. Intendo fare
tutto il possibile per rimediare ai gravi errori commessi e
continuare a cercare un aiuto professionale».
Il procuratore, stante l’assenza di querela, archiviò il
caso.
Michael morì cinque mesi più tardi, a 39 anni, in un
incidente sciistico sulle piste di Alpen, in Colorado.
Nel 2002 sulla famiglia cadde una nuova tegola:
Michael Skakel, nipote di Ethel, vedova di Bob Kennedy,
veniva condannato per l’omicidio della quindicenne
Martha Moxley. Ma nel 2013 il caso è stato riaperto
e l’uomo è uscito di prigione con una cauzione di 1,2
milioni di dollari.
Nel frattempo altri hanno passato guai. Dopo lo
scandalo Skakel, nel 2005 toccò a William Kennedy Smith,
nipote di Ted Kennedy, essere scagionato dall’accusa di
aver violentato un’ex stretta collaboratrice, Audra Soulias,
nel 1999: «Mi ha trascinata a casa sua – disse la donnami ha trascinato sulle scale fin nella sua camera da letto e
mi ha stuprato».
Audra chiedeva un risarcimento di 3,3 milioni di dollari.
Un caso in effetti strano, dato che lei aveva continuato a
lavorare per William dopo il presunto stupro. E ad avere
col medesimo rapporti sessuali, stavolta tutti consensuali.
Solo che quattordici anni prima, nel 1991, William era
già stato al centro di un processo per stupro e percosse
ai danni di una giovane su una spiaggia di Palm Beach,
Florida. Un caso clamoroso che tenne incollata alla tv
l’opinione pubblica americana e in cui si giocò tutto sulla
parola dell’uno contro l’altra: “he said” e “she said” fu il
leitmotiv in tribunale, dove William ammise il rapporto,
ma disse che era consensuale. Anche allora fu assolto, tra
mille polemiche. Fu il processo che precedette quello di
Tyson, ricordate?
135
Nel 2014 William è entrato in politica, come consigliere
di quartiere nel Distretto di Columbia.
Tra scandali minori e altri morti tragiche i Kennedy
sono rappresentano tuttora una delle famiglie più potenti
d’America.
Il rapporto orale di Bill Clinton
Inutile dire che, in tutte queste vicende, l’opinione
pubblica americana si è scatenata. Ma mai come per ciò
che accadde con il caso di Bill Clinton, il sexgate planetario.
Lo scandalo esplose nel gennaio del 1998. Il presidente
americano fu accusato di aver avuto una relazione con una
giovane «stagista» della Casa Bianca, Monica Lewinsky,
all’epoca 24enne impiegata presso il Pentagono e oggi
psicologa. Com’è noto, Clinton pose la questione in una
maniera che lasciò di stucco: disse che si era trattato di un
“mero rapporto orale”, non un vero e proprio tradimento
secondo la religione battista cui apparteneva. Il resto del
mondo rise per anni sulla questione, con mariti di ogni
parte del pianeta che presero a scherzare su quanto potesse
rivelarsi interessante convertirsi alla religione di Clinton.
Mentre lui, per aver negato rapporti sessuali, subì l’accusa
per impeachment, da cui finì assolto.
Un decennio più tardi uscì un libro firmato dal generale
Hugh Shelton, ex-capo di stato maggiore delle forze
armate americane. Il militare raccontò che la mattina
dopo lo scoppio dello scandalo Lewinsky, Clinton non
trovò più un piccolo cartellino. Conteneva i codici segreti
per ordinare attacchi nucleari. È stato allora che abbiamo
smesso di ridere.
136
ODIO, VIOLENZA E DELITTI
Un complotto nel pattinaggio
Tonya Harding era una pattinatrice di ottimo livello.
La seconda ad aver eseguito il difficilissimo salto detto
“axel”, seconda ai mondiali del 1991. Quando nei due
anni successivi la sua carriera iniziò a conoscere una fase
calante e la sua vita sentimentale andò a pezzi, con il
divorzio da Jeff Gillooly, fu coinvolta in un “complotto”:
il 6 gennaio 1994 la favorita per i campionati nazionali,
Nancy Kerrigan, fu infatti aggredita, colpita da una sbarra
al ginocchio destro e si ritirò dalla competizione. E il titolo
andò a lei, Tonya. Le indagini scoprirono però che era
stato proprio il suo ex marito a pagare l’aggressore. Tonya
negò. E partecipò comunque alle Olimpiadi invernali,
finendo ottava: la Kerrigan vinse invece la medaglia
d’argento. Per evitare il processo sull’aggressione, Tonya
pagò una multa di 160mila dollari. E la federazione la
137
bandì a vita, revocandole il titolo nazionale. Più avanti
tornò alle cronache per un video hard amatoriale girato
con Gilloly e diffuso online. Nel 2002 entrò infine nella
boxe professionistica, sport forse più adatto al suo
carattere.
La violenza di Mel Gibson
Succede, a volte, che le star perdano la testa. Inebriate
da potere e voglia di arrivare sempre più su perdono il
senso della misura. Ci sono vicende di arresti per guida
in stato di ebbrezza o droga, o ancora per liti se non risse.
Ma episodi come quello della Harding sono decisamente
più rari.
Così come altre vicende che invece fanno davvero
scandalo, rischiando di oscurare la fama del protagonista.
È stato il caso, ad esempio, di Mel Gibson, uno degli attori
più amati del mondo. Sposato per oltre venticinque anni con
Robyn Moore, da cui ha avuto sette figli, la sua separazione
è stata tra le più care nella storia di Hollywood, con un
mantenimento da oltre 400 milioni di dollari.
Nel 2011 Gibson dirà che Robyn volle interrompere
il loro rapporto il giorno dopo il suo arresto per guida
in stato di ebbrezza a Malibù. Quel giorno capitò altro.
Fermato dalla polizia, si rivolse ad uno degli agenti,
rimproverandolo di essere ebreo e sostenendo che erano
stati gli ebrei a causare le guerre mondiali.
Si trattava dell’ultima bufera in cui era incorso. Cattolico
integralista, figlio di un uomo che negava l’esistenza
dell’Olocausto, Mel era stato in passato accusato prima
di omofobia e successivamente di antisemitismo per il film
La Passione di Cristo.
Ma un conto sono le interpretazioni delle opere, un
altro la vita reale. Per le frasi al poliziotto, tacque a lungo,
finché a Diane Sawyer di Abc, ammise: «Voglio chiedere
138
scusa per quel che ho detto. È stata la farneticazione idiota
di un ubriaco. L’ultima cosa che vorrei è essere quel tipo
di mostro». Confessò di essere stato dipendente dall’alcol,
la sua rovina.
Incidente chiuso? Non proprio.
Dopo Robyn Moore, Gibson ha avuto una bimba
dalla musicista russa Oksana Grigorieva. Ma quando
lei lo ha lasciato, lo ha anche denunciato per percosse,
maltrattamenti, insulti a sfondo razzista e minacce di morte
via telefono. Gli audio, messi in Rete da Radaronline,
facevano sentire l’attore che rispondeva così alla
compagna che si lamentava di essere stata picchiata: «Te
lo meritavi». E ancora: «Ti mando al cimitero, lo sai che
ne sono capace». E infine: «Sembri una scrofa in calore. Se
un gruppo di negri ti violenta, sarà solo colpa tua. Come
osi comportarti come una stronza quando io sono stato
così carino con te? Un giorno vengo e ti brucio casa. Ma
prima me lo devi succhiare». Dopo aver patteggiato 36
mesi di libertà vigilata e un programma di riabilitazione
psichica, è stato abbandonato da Hollywood e licenziato
dall’agenzia William Morris Endeavor Entertainment.
Ancora nel 2011 giura di non aver mai maltrattato
nessuno e che quei nastri registrati furono modificati, così
come avevano messo in luce alcuni esperti forensi. Chiude
la vicenda con la Grigorieva risarcendola con 750mila
dollari e rinunciando all’affidamento della figlia.
«Perdonatelo» chiede a Hollywood Robert Downey Jr,
l’Iron Man del cinema, che dal 1996 al 2001 era stato
arrestato numerose volte per droga, finendo in galera e
arrivando a dire ad un giudice: «Mi sento come se avessi
una pistola carica nella mia bocca e il dito nel grilletto, e
io adoro toccare il metallo della pistola».
E Mel torna in effetti a lavorare, anche se con meno
successo di prima. A marzo 2014 viene ancora accusato
di insulti antisemiti ad un poliziotto. E finisce ancora in
clinica per farsi curare dall’alcolismo.
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Se un telefilm ti cambia la vita
A volte un telefilm può cambiare letteralmente la vita.
Ma non sempre in meglio. Il caso di Douglas Brian Irvin
Jr, reso famoso dalla parte che recitava come poliziotto in
CSI, è addirittura grottesco. Nel giugno 2011 si diffonde la
notizia secondo la quale a Douglas piace pure farsi passare
da poliziotto nella vita, ma solo in particolari contesti:
una massaggiatrice lo ha infatti denunciato dopo che lui
le avrebbe intimato di far sesso (e gratis) mostrandole
un tesserino della polizia e dicendole che se non avesse
accettato avrebbe passato seri guai. Quando sono andati
da lui, gli inquirenti gli hanno in effetti trovato addosso il
tesserino falso e diverse foto sul cellulare in cui appariva
in divisa. E lui, negando il ricatto, si è difeso: «Mi servono
per entrare nella parte».
Il transfert dal film alla vita colpì anche un altro
giovanissimo, l’attore di 17 anni Robert Iler che nel 2001,
dopo aver interpretato il figlio del mafioso Tony Soprano
nella nota serie televisiva, ammise davanti al giudice di
New York di avere aggredito, insieme alla sua banda, due
giovani su un marciapiede per farsi consegnare 40 dollari.
Andò peggio a Lillo Brancato Jr., che nei Sopranos era
il giovane mafioso Matthew Bevilacqua, attore scoperto
in Bronx da Robert De Niro. Fu proprio nel Bronx che,
secondo le accuse, Brancato fece irruzione con un complice
in un appartamento. Il complice Steven Armento – padre
della sua fidanzata- uccise nella rapina un poliziotto e finì
all’ergastolo, lui fu condannato per sola rapina a 10 anni
e assolto per il delitto. Lo hanno rilasciato il 31 dicembre
2013, dopo quasi nove anni di prigione.
Altri personaggi minori diventano più noti per lo
scandalo suscitato che per le loro interpretazioni. Succede
con Michael Brea, 31 anni, che sul set non aveva avuto
grande fortuna. Era riuscito ad apparire nella famosa serie
140
Ugly Betty, e poco altro. Quando i poliziotti entrarono in
casa sua dissero di avergli sentito affermare frasi deliranti
sul fatto che sua madre, a terra, in una pozza di sangue e
piena di tagli, era posseduta. Lui teneva tra le mani una
Bibbia. E una katana da samurai. Chissà, forse pensava
che anche la vita fosse un film.
E forse lo pensava anche Ricardo Medina Jr, 36 anni.
Lo arrestano il primo febbraio 2015. Per anni Ricardo è
stato un eroe dei bambini e un pupazzo rosso immancabile
tra i giocattoli dell’infanzia.
Origini portoricane e figlio dell’omonimo pugile, non
era forse molto noto ai più grandi come attore. Nemmeno
se si dice che interpretava il ruolo di Cole Evans. Ma se
subito dopo si aggiunge che Medina-Cole Evans era il
Power Ranger rosso, il Red Ranger, tutti immediatamente
capiscono. Protagonista di Power Rangers: Wild Force,
la serie in cui i supereroi mascherati combattono contro
i cattivissimi Org – demoni che vogliono conquistare
la terra per inquinarla-, un giorno ha forse pensato
di essere ancora sul set ad interpretare scende finte di
combattimento.
Dato che quel giorno, secondo le ricostruzioni degli
inquirenti, è come se si fosse trovato davanti uno degli Org:
ha litigato con il coinquilino Joshua Sutter, a Los Angeles.
Poi è andato nella sua stanza insieme alla fidanzata. E
quando Joshua è entrato di forza, Medina ha agito. Si
vede che il destino di alcuni, buono o cattivo, è legato
al ruolo che hanno sempre rivestito nella vita. Perché il
Power Ranger lo avrebbe ucciso non a mani nude, non
con una pistola, non con un coltello. Le cronache dicono
che lo abbia fatto con una spada, tenuta rigorosamente
accanto alla porta. Quindi, ha chiamato i soccorsi. Ma le
luci, a quel punto, non si sono spente. E sono scattate le
manette.
141
Ascesa e declino di Oscar Pistorius
Ma certo lo scalpore aumenta quanto più è un divo a
macchiarsi di reati di sangue. Oscar Pistorius, sudafricano,
per quasi un decennio è stato un eroe. Capace, senza
nemmeno una gamba, di correre come il vento, campione
paralimpico nel 2004 sui 200 metri piani e quattro anni
più tardi nei 100, 200 e 400. Per poi vincere un argento ai
mondiali nella staffetta 4x400 contro atleti che le gambe
le avevano tutte e due. Il mondo è rimasto stupito. E lo ha
guardato con la bocca aperta quando ha partecipato alle
Olimpiadi.
Perché la carriera del sudafricano Oscar Pistorius è valsa
più di migliaia di convegni. È la dimostrazione a chiunque
che “diversamente abili” non è una frase “politicamente
corretta”, ma qualcosa che può fotografare davvero una
realtà spesso sfuggevole alle apparenze. Come per altri
eroi dello sport, però, la parabola di Pistorius ha preso
all’improvviso una piega verticale, con gli sponsor in fuga
e lui chiuso in una cella, accusato di omicidio premeditato.
Il destino cambia corso il 14 febbraio 2013, quando
in casa sua, alle 4 di mattina, muore la sua fidanzata, la
bellissima modella Reeva Steenkamp, uccisa da quattro
colpi di pistola. A sparare è stato lui: e lui dice che sì, in
effetti ha fatto fuoco, ma pensava fosse un ladro, mentre
lei, in realtà, gli stava preparando una sorpresa di San
Valentino. Gli elementi raccolti dall’accusa inizialmente
sembrano inchiodarlo: secondo la polizia Pistorius avrebbe
sparato in camera da letto ferendo la ragazza all’anca.
Quindi, quando lei si è rifugiata in bagno, ha esploso altri
tre colpi, di cui due alla testa. Poi, ha chiamato i genitori,
il suo miglior amico Justin Divaris, gridando alla disgrazia
ed è infine sceso tenendone il corpo tra le braccia. Non
bastasse, viene trovata in casa una mazza da cricket
142
insanguinata, che verrà analizzata: si vuol capire se l’abbia
usata contro di lei o se lei l’abbia utilizzata per difendersi.
Anche il movente pare chiaro agli inquirenti: passionale.
Sembra che Pistorius fosse tremendamente geloso del
rapporto di Reeva con l’attore e cantante Mario Ogle,
con il quale aveva partecipato ad un reality: un reality che
proprio ora viene messo in onda dalla tv sudafricana. Lo
sport è sotto choc.
Ci vuol tempo. Un processo mediatico. Poi il giudice
di Pretoria Thokozile Masipa prova a riportare tutti alla
ragione evitando tesi complottiste. E dice: «Come avrebbe
potuto l’accusato prevedere ragionevolmente che il colpo
sparato avrebbe ucciso la vittima? Chiaramente non
poteva prevedere che avrebbe ucciso la persona dietro la
porta».
Tuttavia il suo fu un comportamento negligente: è stato
condannato in primo grado a cinque anni per omicidio
colposo e a tre anni (con pena sospesa) per possesso di
arma da fuoco.
La rabbia fuori dal ring
La parabola discendente di Pistorius riporta a quanto
successo esattamente lo stesso giorno di 25 anni prima.
All’epoca finiva all’inferno l’epica carriera di uno dei più
grandi pugili di ogni tempo: quella dell’argentino Carlos
Monzon, l’uomo che aveva privato del titolo mondiale
dei pesi medi Nino Benvenuti. Per poi imporsi come
incontrastato re della categoria, ritiratosi nel 1977 senza
mai perdere lo scettro. Aveva tentato di fare l’attore, ma
da allora era stata soprattutto la sua vita privata a farne
parlare. Storie d’amore tormentate, la sua prima moglie
che gli aveva sparato. Fino alla sera del 14 febbraio
1988. Fu allora che la modella Alicia Muniz, madre del
suo quarto figlio, volò dal balcone di casa. L’autopsia
rivelò che non era morta per la caduta, ma che era stata
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prima strangolata. Monzon venne condannato a 18 anni.
Quarantotto mesi più tardi, 1995, ottenne la semilibertà.
Ma durò poco: si schiantò in un disastroso incidente
automobilistico, durante una manovra di sorpasso,
morendo a soli 52 anni.
L’errore del secolo
Da contraltare a Monzon, fece scalpore l’inferno, durato
quasi un ventennio, di Rubin Carter, alias “Hurricane”,
tra i migliori pesi medi della sua generazione, capace di
mandare due volte Emile Griffith al tappeto e di vedersi
sfuggire il titolo mondiale per una decisione che destò
molte polemiche. Quando la sua vita agonistica era ormai
sul viale del tramonto, nel giugno 1966, due uomini di
colore spararono in un grill del New Jersey, uccidendo
tre persone. I sospetti, grazie ad alcune testimonianze,
arrivarono su di lui: passò in galera, come assassino, 19
anni. Finché, grazie alle indagini di alcuni ragazzi, la verità
venne a galla, e la Corte Federale riconobbe che l’accusa
contro Carter era stata dovuta a “motivi razziali”. Assolto
e uscito di prigione, otto anni più tardi gli fu conferita
la cintura “ad honorem” di campione del mondo WBC.
Denzel Washington lo interpretò in un film. Hurricane,
da mero eroe della boxe, è diventò da quel momento il
simbolo delle vittime di errori giudiziari.
La fuga del campione davanti a 100 milioni
di persone
Ad altri è andata meglio. O quasi. Orenthal James
Simpson, meglio noto come OJ Simpson, tra i più forti
giocatori di sempre nel football americano, in grado di
incantare l’America tra il 1969 e il 1979, fu accusato di aver
ucciso la moglie Nicole Brown e l’amico Ronald Goldman
nel 1994. Li ritrovarono nel giardino dell’appartamento
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di lei. La donna uccisa con 12 coltellate, l’uomo con 20.
Simpson, convocato dalla polizia, scappò in auto, dando
vita ad un inseguimento guardato in diretta tv da 100
milioni di telespettatori. Ma al processo penale, ne uscì
assolto. Il giudizio civile ribaltò la sentenza, condannandolo
a risarcire le famiglie delle vittime con oltre 33 milioni di
dollari.
Nel 2012 nel documentario My Brother the serial
killer dedicato al pluriassassino detenuto nel braccio della
morte Glen Edward Rogers, il fratello Clay raccontò che
Glen aveva confessato a lui e ad un criminologo di essere
il vero autore del duplice delitto, avvenuto nell’occasione
in cui OJ Simpson gli aveva chiesto di rubare dei gioielli
in casa della donna.
Le cose non cambiarono. E i guai dell’ex stella, assolto
nel penale e condannato nel civile come solo in America
può avvenire in merito ad un omicidio, non finirono
comunque: fu denunciato più volte per altri reati, tra cui
una rapina a mano armata con sequestro di persona, per
aver portato via da una camera d’albergo oggetti che, a
suo avviso, gli erano stati sottratti tempo prima: cimeli
della sua attività sportiva.
Al processo non andò benissimo. Un complice raccontò
che erano entrati là portandosi una pistola. E in una
registrazione si sentiva la voce di OJ dire «nessuno si
muova o si farà male».
Oggi l’ex giocatore di football è nella prigione di
Lovelock Correctional Center. La condanna, durissima,
da scontare, è di 33 anni, dei quali 9 senza possibilità di
libertà vigilata.
La follia di Chris Benoit
Per le stelle dello sport i declini sono tanti. Ma il
peggiore di tutti fu forse quello di Chris Benoit, un vero
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divo del wrestling, uno degli atleti più amati, oltre che
decorati. Lo ritrovano nel giugno 2007, morto in casa
insieme alla moglie e al figlio: lei legata a polsi e piedi. Le
indagini rivelano che è la prima ad essere morta. Il giorno
successivo è toccato al figlio. Li ha uccisi Chris, che il
mattino successivo si è impiccato.
La conferma arriva anche dalla cronologia di alcuni
messaggi. Poco prima che, secondo il referto autoptico,
Benoit si suicidasse, due colleghi del wrestler avevano
ricevuto cinque sms: due dal cellulare di Benoit, tre dai
telefoni della moglie. Quattro indicano semplicemente
l’indirizzo di casa di Benoit. Nel quinto si avverte che i
cani sono stati chiusi nella zona piscina e che il garage è
rimasto aperto.
Tre mesi più tardi Michael Benoit, il padre di Chris,
dichiara al programma Good Morning America, in onda
sulla ABC, che un’analisi sui tessuti cerebrali del figlio ha
evidenziato come il suo cervello risultasse ammalato tanto
quanto quello di un malato di Alzheimer di 85 anni. Dice
pure di averne trovato un diario, nel quale Chris appariva
«estremamente disturbato».
Il portiere e la fidanzata sbranata dai cani
Ha dell’incredibile anche la vicenda che ha portato
in prigione l’ex portiere e capitano del Flamengo Bruno
Fernandes das Dores de Souza, più noto come Bruno,
celebre per aver segnato un gol su punizione nella Coppa
Libertadores del 2008 contro i peruviani del Coronel
Bolognesi. A processo è finito con le accuse di sequestro
di persona, omicidio e occultamento di cadavere. Vittima,
la sua amante, la modella Eliza Samudio, scomparsa nel
nulla nel 2010. Secondo l’accusa la ragazza era incinta
del portiere, ma si era rifiutata di abortire. E per questo,
quattro mesi dopo la nascita del figlio, Bruno l’avrebbe
uccisa. Di più, una testimonianza di un parente del
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calciatore, ha rivelato dettagli mostruosi: Eliza sarebbe
stata torturata e fatta a pezzi. Parte di lei sarebbe finita
nel cemento: i resti, dati in pasto ai rottweiler di Bruno.
Nel 2013 Bruno ammette di essere stato a conoscenza del
delitto di Eliza, uccisa da un amico e data in pasto ai cani,
ma di non aver partecipato all’omicidio. Il 7 marzo 2013
viene condannato a 22 anni di prigione.
La star dei Sex Pistols
Ma ci sono casi che, per il peso delle star coinvolte, sono
destinati a far parlare per decenni, forse per sempre. Come
per l’ex bassista appena ventunenne di uno dei gruppi più
noti della musica, appena separatosi. Si chiamava John
Simon Ritchie ed era il più eccentrico e anticonformista
del complesso. Tutti lo conoscevano come Sid Vicious,
star dei Sex Pistols. Il 12 ottobre del 1978, in una camera
del Chelsea Hotel di New York fu trovata morta la sua
fidanzata Nancy Spungen, ventenne, accoltellata allo
stomaco. Sid, poche ore dopo, venne arrestato. La notizia
fece il giro del mondo. Il ragazzo tornò in libertà sotto
cauzione, pagata dalla EMI. E sfogò la sua rabbia: tentò il
suicidio con un rasoio. Aggredì, e fu nuovamente arrestato,
il fratello di Patti Smith, Todd, rompendogli un bicchiere
in faccia. Ma meno di quattro mesi dopo la morte di
Nancy, il 2 febbraio 1979, fu stroncato dall’eroina in casa
della nuova compagna Michelle Robinson.
La saga tragica dei Brando
Questa lunga carrellata di star che hanno finito la loro
carriera nella violenza e nel sangue non può che chiudersi
con la tragica vicenda che ha visto per protagonista la
famiglia del più grande divo di Hollywood: Marlon
Brando.
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Anche se i protagonisti della tragedia sono essenzialmente
i suoi figli Christian e Cheyenne. Christian è il figlio di
primo letto dell’attore, avuto da Anna Kashfi. Ma nel 1959,
ad un anno dalle nozze, Marlon ed Anna si separano e se ne
contendono l’affidamento, che - al termine di una infinita
battaglia legale - nel 1971 viene infine deciso in favore
del padre, dopo che si è scoperta la lunga dipendenza
dall’alcol e dalla droga della donna. Una dipendenza che
segnerà Christian per sempre. Un anno più tardi, uscito da
scuola, la madre lo rapisce e lo affida a due hippie perché
lo portino in Messico: promette loro 10mila dollari purché
lo tengano per un po’, cercando così vendetta verso l’ex
marito. Ma non ha soldi. Per liberare il figlio Marlon
assolda due detective privati, che riescono a salvarlo. Anna
viene arrestata, ancora ubriaca, e Christian affidato in
via esclusiva all’attore. Che però non lo vede spesso. Lo
porta con sé all’isola di Tetiaroa, nella Polinesia francese,
tra servitù e baby sitter. Nuove compagne e altri fratelli.
Dirà Christian in un’intervista diversi anni più tardi: «La
famiglia continuava a cambiare di numero. Mi sedevo al
tavolo della colazione e chiedevo alla prima persona che
incontravo lì: “Chi sei?”».
La maledizione prende vita la sera del 16 maggio
1990, nel salotto della villa di Marlon di Mulholland
Drive, Los Angeles. Ci sono Cheyenne Brando - quinta
figlia dell’attore avuta in terze nozze – e il fidanzato di lei
Dag Drollet. Cheyenne è incinta di otto mesi. Christian
è andato a trovarla ed è uscita con lei a cena. È così che
apprende dalla ragazza che Dag l’avrebbe picchiata.
Quando rientrano in casa Christian lo uccide con una
calibro 45.
Alla polizia dirà che era ubriaco e stavano litigando,
quando un colpo della pistola è partito accidentalmente.
Al processo la versione non regge. Cheyenne non si
presenta, finisce in un ospedale psichiatrico dove le viene
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diagnosticata la schizofrenia.
Christian se la cava con dieci anni nonostante l’accusa
di omicidio premeditato e ne sconterà solo cinque.
Cheyenne non regge il dolore e, al terzo tentativo, riesce
a suicidarsi in casa della madre poco prima che il fratello
esca di galera. È il 1995. Marlon non partecipa ai funerali.
Quanto a Christian, succede altro. Il suo destino incrocia
stavolta l’ex star di un telefilm di enorme successo: Robert
Blake, protagonista di Baretta.
E il destino ha un nome e un cognome: Bonnie Lee
Bakley. La donna è un tipo particolare: ex modella ed
attrice, si è sposata a 21 anni con un cugino, da cui ha
avuto due figli. Ha qualche precedente per possesso di
droga e spaccio di soldi falsi. Soprattutto, dopo essersi
separata, ha messo in fila altri otto matrimoni, quasi tutti
con persone più anziane e benestanti. Verrà fuori che
le piaceva stare intorno alle celebrità perché «ti fanno
sembrare migliore delle altre persone».
Nel 1993 ha dichiarato di essere la figlia di Jerry Lee
Lewis, ma il dna l’ha smentita.
Nel 1999 frequenta anche Christian. Ma alla festa di
compleanno dell’attore Chuck McCann conosce Robert
Blake e inizia una relazione con lui. Resta incinta. Per
capire chi sia il padre, ci si deve affidare al test genetico.
Christian, che aveva già deciso il nome come Christian
Shannon Brando, deve arrendersi alla scienza: il bimbo è
di Blake.
L’ex Baretta sposa così in seconde nozze Bonnie Lee
il 19 novembre 2000. Ma poco più di cinque dopo, il 4
maggio 2001, in un parcheggio di Los Angeles, accade
l’imprevedibile. Robert e Bonnie escono da un ristorante
italiano, il Vitello’s. Poi l’attore torna un attimo dentro.
Quando torna trova la moglie morta: qualcuno le ha
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sparato alla testa. Interrogato per cinque ore come
testimone, Robert racconta l’accaduto. E assume un
detective per far luce sul giallo.
Il 18 aprile 2002 lo arrestano in diretta televisiva, mentre
si trova a casa della sorella. Con lui fermano anche una
sua guardia del corpo, accusato di complicità. Il movente:
essere stato costretto ad un matrimonio che non voleva.
Il processo è uno dei più seguiti d’America. Ad incastrare
Robert è un ex stuntman, Ronald “Duffy” Hambleton,
che confessa che l’attore aveva provato ad ingaggiarlo
per uccidere Bonnie. La difesa scopre però che a Duffy è
stata promessa l’assoluzione per alcuni suoi precedenti in
cambio della testimonianza. Blake viene assolto.
Al processo civile, come già accaduto per OJ Simpson,
la sentenza verrà ribaltata. La difesa di Robert prova a
spostare il mirino proprio su Christian Brando, che poteva
avere motivi di rivalsa verso la donna che lo aveva tradito.
E si fa forza dell’assoluzione penale.
Christian si rifiuta di testimoniare. E Robert viene
condannato a risarcire i figli di Bonnie con diversi
milioni di dollari, per omicidio colposo. Due mesi dopo
Robert dichiara bancarotta. Nell’estate del 2015 il Daily
Mail lo scova, a 81 anni, a passare in macchina davanti
al Vitello’s, dedicandogli ampio spazio. Segno che la
vicenda appassiona ancora molto l’opinione pubblica
internazionale.
Christian è morto all’età di 49 anni, nel 2008, stroncato
da una polmonite. Il padre, ormai quasi del tutto assente
dal mondo del cinema, era mancato quattro anni prima.
Nel gennaio 2005, usciva il libro di Tarita Teriipaia,
la mamma di Cheyenne. La donna descriveva Marlon
come un uomo lunatico e crudele, geniale e violento. Che
tuttavia amava moltissimo. In
Marlon - Il mio amore, la mia ferita, uscito in
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esclusiva mondiale in Francia, Tarita ricordava di come
Marlon l’avesse istigata più volte all’aborto. E come, in
un’occasione, l’avesse picchiata, frustata con la cinghia
dei pantaloni e poi lasciata sanguinante a terra.
Affermò che Marlon non era in grado di capire le
sbandate di Cheyenne, che si rifugiava nella droga e
rammentò di quando, addirittura, aveva «tentato di
ucciderla con il fucile».
Nel 1999 il Time aveva inserito Marlon Brando tra
i 100 personaggi più influenti del secolo. Insieme a lui
c’erano solo altri due attori: Charlie Chaplin e Marilyn
Monroe.
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IL PIÙ GRANDE SCANDALO
DI HOLLYWOOD
Per tutti rappresenta l’icona stessa della diva. Ha
ispirato arte, cinema, letteratura, fotografia, perfino
architettura e arredi urbani. È stata considerata la donna
più bella e sensuale del mondo. Di lei si diceva che «aveva
curve in posti dove le altre donne non hanno nemmeno i
posti».
È morta da più di mezzo secolo. Eppure è forse l’unico
mito contemporaneo che non tramonta. Ancora oggi se si
deve identificare Hollywood con una star non si può che
pensare a lei. Che scandali ne diede per le sue relazioni, i
suoi matrimoni. Ma soprattutto con la sua fine. Avvenuta
troppo presto e in maniera troppo strana perché, ancora
cinquant’anni più tardi, scrittori di tutto il pianeta non
continuassero a scriverne. Ipotizzando complotti di ogni
genere. Forse perché non ci si riesce a immaginare che
la più grande delle stelle sia scomparsa in maniera così
banale. O forse perché l’ipotesi di un complotto è davvero
possibile.
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Il fatto
È la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962. In una casa di
Brentwood, Los Angeles, la cameriera trova la porta della
stanza della padrona di casa chiusa dall’interno. Chiama i
medici, che sono però così costretti a passare dalla finestra
per capire cosa sia accaduto. Sul letto, nuda, a pancia in
giù, con la coperta che le sale fin quasi sul collo, c’è il
cadavere di Norma Jeane Baker, 36 anni compiuti da due
mesi. Meglio nota nel mondo come Marilyn Monroe.
Poco prima delle 16 in Italia arriva la notizia che l’attrice
si è probabilmente suicidata e che avrebbe confidato ad un
giornalista, nei giorni precedenti, di essere molto depressa.
Secondo quanto si apprende da Oltreoceano, Marilyn ha
ingerito una dose eccessiva di barbiturici. Ma è possibile
che la donna dei sogni, la diva più desiderata che aveva
tutto, possa essersi uccisa?
In analisi
Di sicuro Marilyn era in analisi. Prima di essere sulla
cima del mondo, quando era ancora la sconosciuta
Norma Jeane, molto di prima dei successi de Gli uomini
preferiscono le bionde, Quando la moglie è in vacanza e A
qualcuno piace caldo, la sua vita era stata infatti un inferno.
Non sapeva chi fosse suo padre. E con la madre,
instabile mentalmente e ricoverata in clinica psichiatrica,
aveva passato l’infanzia tra orfanatrofi e diverse coppie
affidatarie. Pare avesse subito anche uno stupro a nove
anni. La famiglia le era sempre mancata. Era insicura,
abusava di alcol e psicofarmaci. Resta una domanda sulla
sua tragica fine: perché il medico legale certifica subito
un suicidio anziché un’overdose accidentale? Ci vorrà una
seconda inchiesta per mettere in luce anche questa ipotesi.
Ma oggi sappiamo che tra tutte le voci possibili, il suicidio
è forse quella con la probabilità più bassa.
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L’autopsia psicologica
Per escluderlo definitivamente, facciamo un salto avanti
di mezzo secolo, anno 2012, esattamente a Beverly Hills,
dove l’Heritage Foundation mette all’asta una quindicina
di oggetti della diva. Tra questi c’è un comunissimo
cassettone. Roba normale, da poco. È stato comprato
da Marilyn con un assegno di 228,80 dollari intestato al
Pilgrim, negozio di arredamento di Los Angeles. L’aspetto
interessante, però, è la data dell’assegno: 4 agosto 1962, il
giorno prima di morire. La notizia è eclatante. Tanto che il
dottor David Bernstein, esimio psicologo forense, prende
carta e penna e si esercita in un’ “autopsia psicologica”
sull’Huffington Post, seguendo una logica di ferro. E cioè:
com’ è possibile che una donna che si voglia suicidare
quella stessa notte, stacchi un assegno per comperarsi
un cassettone utile nella vita quotidiana? Per Bernstein,
evidentemente, Marilyn non voleva uccidersi. Ritiene così
più plausibile un incidente.
Va bene, ma ci sono ancora alcuni dettagli che non
tornano.
La scena del delitto
E allora torniamo indietro. Alla notte del 5 agosto 1962.
Se l’incidente sembra la cosa a questo punto più plausibile,
ci sono comunque diverse altre cose quantomeno strane.
Non verrà mai chiarito, ad esempio, a che ora è stato
ritrovato il cadavere e a che ora il medico ha constatato
la morte. Ed è curioso per un banale incidente. Non si
sa nemmeno con esattezza quante persone si siano
alternate in casa poco prima e poco dopo il decesso: c’è
infatti una finestra temporale di 3-4 ore, dove tra verbali
e testimonianze contraddittori, molti hanno trovato lo
spazio per costruire ipotesi complottiste. Perché 3-4 ore
sono lunghe. Ma soprattutto è strano che la polizia sia sta
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chiamata solo alle 4.25: certamente, per quanto gli orari
siano sballati, almeno 35 minuti dopo la constatazione del
decesso. Perché?
Il giallo comincia qui. E prosegue con il referto
dell’autopsia: rileva tracce di barbiturici nel sangue, ma
pare non ce ne fossero nello stomaco. Il dato può significare
due cose: o i farmaci sono stati assunti lentamente e digeriti
prima della morte. Oppure l’assunzione non è arrivata
per bocca. E visto che non sarebbe arrivata per iniezione
(non vi sono segni di ago sul corpo), c’è chi sostiene che
sia giunta per via anale: con una supposta o un clistere.
Improbabile a quel punto che si sia trattato di incidente.
Tantomeno di suicidio. Più probabile, per chi sospetta un
complotto, diventa l’omicidio.
Il movente? Di sicuro, verrà documentato decenni
più tardi, Marilyn era spiata da Cia e Fbi. Sia per le sue
amicizie. Sia, soprattutto, per la frequentazione, all’epoca
ignota, di due ben precise persone: John Fitzgerald
Kennedy, presidente degli Stati Uniti, che verrà assassinato
un anno più tardi. E Bob Kennedy, suo fratello, ucciso nel
1968.
E allora, chissà.
Narra Andrea Carlo Cappi, autore del libro La donna
più bella del mondo - Vita, morte e segreti di Marilyn
Monroe: «Le persone presenti a casa di Marilyn durante o
poco dopo la sua morte – la cameriera Murray, lo psichiatra
Greenson e il medico curante Engeleberg – raccontarono
versioni discordanti quanto a orari e circostanze. Lo
scenario più probabile – indipendentemente da qualsiasi
complotto – è che quella notte varie persone siano entrate
in casa di Marilyn per cancellare ogni traccia delle sue
relazioni segrete con il Presidente John Kennedy e il
Ministro della Giustizia Robert “Bob” Kennedy, suo
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fratello. Ci sono state manovre per evitare lo scandalo e
pressioni sulle autorità per chiudere al più presto il caso.
E già nel 1964 una fonte dell’Fbi sospettava di Greenson
e della Murray».
La cameriera?
«Sì. È possibile che i due abbiano commesso un tragico
errore con i medicinali e abbiano cercato di coprirlo. Ma
forse non fu un errore. In un’intervista del 1992 l’ormai
anziano Frank Sinatra parlò chiaramente di delitto e
disse che Fbi e Cia sapevano sulle morti di Marilyn e dei
Kennedy più di quanto avessero rivelato. Quindi forse
psichiatra e cameriera potrebbero essere stati costretti a
uccidere».
Da chi, probabilmente, resterà per sempre un segreto
sepolto con lei al Westwood Village Memorial Park
Cemetery.
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Stampato nell’agosto del 2015
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Edoardo Montolli è autore di diversi libri inchiesta molto discussi.
Due li ha dedicati alla strage di Erba: Il grande abbaglio e L’enigma
di Erba. Ne Il caso Genchi ha raccontato diversi retroscena su casi politici e giudiziari degli ultimi trent’anni. Ha pubblicato tre thriller considerati
tra i più neri dalla critica; Il Boia; La ferocia del coniglio e L’illusionista.
Dirige il mensile Crimen. Il suo sito è www.frontedelblog.it
grafica e artwork cover: davide forleo