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Ed iz io ni T ea se r LA B Edoardo Montolli I PIÙ GRANDI SCANDALI DEI VIP TRADIMENTI - ABUSI SESSUALI SEX TAPE - DELITTI E d izio ni Teaser LAB I più grandi scandali dei vip di Edoardo Montolli © Edizioni Teaser LAB Srl 2015 Tutti i diritti riservati Edizioni Teaser LAB Srl Via Privata Martino Lutero 6 20126 Milano MI Grafica: Davide Forleo Stampa: Stampa Reggiani SpA Edoardo Montolli I PIÙ GRANDI SCANDALI DEI VIP TRADIMENTI - ABUSI SESSUALI SEX TAPE - DELITTI Il potere è l’afrodisiaco supremo Henry Kissinger Quanto più grande è il potere, tanto più pericoloso è il suo abuso. Edmund Burke IL CASO BILL COSBY La maledizione delle sitcom Quando il dottor Cliff Robinson mostrò la sua faccia di pongo per la prima volta sui nostri teleschermi, l’Italia aveva già fatto indigestione di sitcom. Sulle tv private da anni ne imperversavano di ogni tipo. Da successi incredibili come Happy Days e Il mio amico Arnold, a situation comedy che non lasciarono mai il segno. All’epoca erano tutti semplicemente qualificati come telefilm: da La famiglia Bradford a I Jefferson, da Mork e Mindy a Vita da Strega, fino a Love Boat, Fantasilandia, Sanford & Son. E tanti, troppi altri. Alcuni nascevano come spin-off di sitcom di grido per diventare serie autonome. Se funzionavano andavano avanti, altrimenti si chiudeva bottega. Ciò che però all’epoca nessuno poteva immaginare, almeno in Italia, era che la stragrande maggioranza dei protagonisti di quei telefilm tanto amati avrebbero terminato la carriera da attori proprio con la chiusura 9 della produzione: schiavi dei personaggi che ne avevano “bruciato” i ruoli e financo le identità, non sarebbero più riusciti a trovare altro. A parte qualche eccezione, certo. Ron Howard, il Richie Cunningham di Happy Days, divenne in effetti uno dei più grandi registi di Hollywood. Tom Bosley, che nella serie ne interpretava il padre, ebbe successivamente ruoli di rilievo televisivi ne La signora in giallo e ne Le inchieste di Padre Dowling. Robin Williams, lasciato il ruolo dell’alieno Mork, scalò le vette del cinema fino a diventarne uno dei più celebrati. Ma, a dirla tutta, furono decisamente di più quelli che si persero. Specie chi aveva goduto del maggior successo. C’è chi rimase ai margini del cinema e della tv, ritagliandosi piccole parti in produzioni minori. Chi, la maggior parte, cambiò radicalmente lavoro. Chi ancora, addirittura, perse tutto e finì nei guai con la legge. Ad alcuni, passato il periodo degli allori, andò peggio. Bob Crane, ad esempio, nella serie Gli eroi di Hogan, interpretava il colonnello Robert Hogan. Noi la vedemmo tardi, nei primi anni 80, perché la CBS terminò di produrla nel 1971, dopo sei anni ininterrotti. Trattava le vicende di un gruppo di prigionieri di guerra nei campi tedeschi dello Stalag 13 durante la seconda guerra mondiale. Un successo planetario che non si ripeté. Crane virò sul teatro. Ma soprattutto, scoperti i primi videoregistratori che proprio un amico aveva importato in America, coltivò la propria passione riprendendo donne nude e i suoi rapporti sessuali, passione che diventò presto ossessione da vera e propria sessodipendenza, almeno così l’ha raccontata il regista Paul Schrader nel film Auto Focus del 2002. Il figlio di primo letto, Robert, di professione scrittore, ha pubblicato ad aprile 2015, con la collaborazione di Christopher Fryer il libro Crane: Sex, Celebrity, and My Father’s Unsolved Murder (Crane: 10 Sesso, Celebrity, e mio Padre, un omicidio irrisolto), nel quale ha squarciato il velo sulla doppia vita del padre. «Non ci sono state le droghe – racconta al Daily Mail - non c’era alcol. Non c’erano abusi fisici né pazzia, non ci fu schizofrenia né tentativi di suicidio». C’era solo – fuori di casa- un adultero impenitente ossessionato dal sesso, che sedusse decine di donne, impegnandole in rapporti a tre e in orge, tutto rigorosamente filmato in videocassetta e ripreso in Polaroid. Di queste stravaganze sessuali Robert venne a conoscenza per caso, quando vide di persona il padre impegnato in un rapporto con una donna. «Per quanto avesse rifiutato di farlo nei film, quella donna fece davanti ai miei occhi impassibili di adolescente quasi tutto. Si penserà che sia imbarazzante che un padre parli di queste cose con un figlio quasi maggiorenne, ma ciò che mi colpisce, se torno indietro con la memoria, è ciò che accadeva nel suo camerino». Crane trascorreva infatti il tempo libero a sviluppare centinaia di foto di attrici e ragazze di Playboy che passavano sul set. Si diceva addirittura che il set di Hogan fosse il luogo per mettersi sul mercato, specie se una era giovane, formosa e con grandi capacità seduttive. L’attore aveva pure allestito una camera oscura portatile in una camera da letto nel suo appartamento in modo da sviluppare in fretta e in maniera discreta le foto. Quando si separò, nel 1970, da Anne Terzian, madre di Robert e di altri tre figli, il suo stile di vita vizioso era già alle stelle. Per Robert fu la fine di un sogno. Crane sposò Patti Olson, nome d’arte Sigrid Valdis, che ne Gli eroi di Hogan interpretava Fraulein Hilda. Ma non cambiò abitudini, che nemmeno cessarono, anzi si moltiplicarono fino ad assorbirlo completamente, mentre il declino artistico proseguiva. Un declino probabilmente accentuato dal fatto che le voci sulle sue passioni erotiche avevano fatto il giro di tv e produttori. 11 Il 29 giugno 1978 Victoria Berry, che con lui prendeva parte al programma Beginner’s Luck uscì urlando dall’alloggio di Crane, al 132A dei Winfield Apartments a Scottsdale, Arizona. Il cadavere della star era disteso sul fianco destro su un letto a baldacchino, con indosso solo un paio di boxer e un orologio da polso. Aveva un cavo elettrico stretto intorno al collo e un cuscino dietro la testa, che presentava due ferite parallele. Sul soffitto, sulla parete e sulla lampada del comodino c’erano schizzi di sangue. Sulla coscia sinistra c’erano macchie che il medico legale interpretò come sperma o lubrificante sessuale. Non appena Robert fu avvertito del delitto, pensò subito all’assassino come ad un fidanzato o ad un marito geloso. Invece il sospettato numero uno fu John Henry Carpenter, il venditore di impianti di videoregistrazione che aveva fatto scoprire a Crane un nuovo mondo, diventandone grande amico. Forse troppo. Ricorda Robert che il padre voleva troncare i loro rapporti, perché Carpenter, bisessuale, si era forse innamorato di lui. Secondo la polizia si sarebbe così potuto comportare come un amante geloso. Dalla scena del crimine mancavano un album di polaroid di donne nude e un treppiede, che fu ipotizzato fosse l’arma del delitto. Carpenter venne assolto. Ma la sua vicenda personale ebbe ancora eco. Patti Olson, rammenta Robert, ottenne da Crane di cambiare le proprie volontà testamentarie, in modo che i figli della donna ne diventassero gli unici eredi. Solo che Crane non poteva esserne il padre: «Certo, lei era rimasta incinta. Solo che papà – dice ancora al Daily Mail- aveva subito una vasectomia nel 1968, quando ancora era sposato con mamma. Questo perché non voleva più avere bambini per potersi dedicare a tutte le sue donne» senza avere problemi. Robert rammenta poi come Patti, per far soldi, decise di mettere in vendita le foto della scena del crimine, copia della relazione dell’autopsia e cinquanta tra foto e video porno in cui Crane era il protagonista insieme a 12 svariate donne. Avrebbe pure commercializzato t-shirt con l’immagine dell’attore impegnato in un rapporto sessuale con una ragazza. Quando anche Patti morì, Robert mise all’asta la giacca mitica che il padre indossava ne Gli eroi di Hogan. Fu venduta a 32mila euro. L’omicidio di Crane è tuttora irrisolto. Ma la sua parabola discendente non costituisce un’eccezione. Il mio amico Arnold, giunto da noi inizialmente come Harlem contro Manhattan, rappresentò il più clamoroso exploit internazionale di una serie anni 7080. E anche in questo caso il declino dei protagonisti principali fu inesorabile. La sitcom raccontava la storia di Arnold e Willis, due bimbi neri di Harlem adottati da un ricco vedovo bianco di Manhattan, padre già di una bella e docile ragazza, Kimberly. Tra risate finte e trame divertenti, non mancavano richiami al senso della famiglia, all’uguaglianza, alla parità di sessi e razza. Un sottofondo morale che, sostanzialmente, caratterizzava tutte queste produzioni. Arnold, protagonista assoluto, era al secolo Gary Wayne Coleman. Arrivò a guadagnare fino a 100mila dollari ad episodio. Quando la serie chiuse, la sua vita cambiò. E per la seconda volta. Adottato da un operaio e da un’infermiera, da piccolo aveva subito due trapianti di reni, si sottoponeva a dialisi quotidiana. A causa della malattia di cui soffriva la sua crescita si fermò a un metro e 42 centimetri. Solo molti anni più tardi si sarebbe scoperto che, nonostante la patologia e la giovane età, era costretto a stare lunghe ore sul set a sopportare i dolori. Tanto che, non appena poté, non ne volle più sapere. Solo che per il mondo Gary era semplicemente Arnold, quello del tormentone «Che cavolo stai dicendo Willis?». 13 Impossibile vederlo in qualche altro ruolo impegnativo. Trovò poco, qualche cameo. Nel frattempo la vita privata lo tormentava: nel 1989 citò in giudizio – e vinse la causa - i genitori adottivi per avergli portato via gran parte dei suoi soldi. L’epoca del successo era così distante. Nel 1993 ammise in un’intervista televisiva di aver tentato due volte il suicidio ingoiando pasticche. Cinque anni più tardi lavorava ormai come guardia in un centro commerciale della California. Tracy Fields, autista di pullman di Los Angeles, lo riconobbe e gli chiese un autografo. Scocciato, Gary rifiutò. E l’uomo, vedendolo a lavorare lì, cominciò a deriderlo. Gary reagì. Lo colpì e fu arrestato. Le manette lo raggiunsero ancora con l’accusa di violenza domestiche. Morì il 28 maggio 2010 a 42 anni per via di un incidente casalingo in cui aveva battuto la testa. Ci fu chi ipotizzò l’omicidio, come il tabloid The Globe, ma l’ospedale in cui era morto rilasciò una nota in cui sostenne la caduta accidentale dell’ex divo. Una fine malinconica. E non l’unica. Prima di lui se n’era andata Kimberly, al secolo Dana Plato, anche lei troppo famosa per trovare altri ruoli importanti. Alla chiusura della serie ebbe spazio solo in b-movie e pellicole softcore. Posò nuda per Playboy, ma fu rovinata dal suo commercialista, che, forte di procure fattele firmare, scappò portandole via ogni avere. Si separò e perse la custodia del figlio. Ebbe problemi di alcol e droga e la fama la distrusse letteralmente. Non poteva neppure delinquere per mantenersi. Il 28 febbraio 1991 con una pistola giocattolo tentò infatti una rapina in una videoteca. E l’impiegato chiamò la polizia: «Sono stato appena rapinato da Kimberly de Il mio amico Arnold». Morì per un’overdose da farmaci l’8 maggio 1999. Il giorno prima era stata al programma The Howard Stern Show, raccontando dei suoi problemi con la legge e la droga, e assicurando di esserne uscita da dieci anni, tanto da poterlo dimostrare con un test in diretta. 14 Undici anni più tardi il figlio Tyler Lambert si sarebbe suicidato sparandosi un colpo di fucile. Come Arnold e Kimberly, pure Willis, ossia l’attore Todd Bridges, pagò caro il successo della sitcom. Rimase presto disoccupato. Divenne cocainomane e rischiò un’overdose da crack. Nel 1988 fu processato e assolto con l’accusa di tentato omicidio nei confronti di uno spacciatore. Fu allora che il suo avvocato ne narrò l’infanzia, caratterizzata dagli abusi sessuali subiti e l’arrivo alla droga dall’industria dell’intrattenimento tesa a sfruttare i ragazzi. Sembrava destinato al peggio, quando il nuovo matrimonio lo vide riprendersi, anche come attore, grazie soprattutto ai reality show, sempre in cerca di vecchie glorie da rilanciare. Con Charlotte Rae, ossia la governante Edna Garrett della serie tv, è rimasto l’ultimo superstite della sitcom, i cui fasti e il cui declino ebbe modo di raccontare in un film verità insieme a Gary Coleman prima che questi morisse. Scrisse anche un libro dal titolo emblematico: Uccidere Willis. Ossia quell’identità fittizia che l’aveva reso celebre per poi gettarlo nella polvere. Come loro, altri, per via del troppo successo e dell’improvviso declino, persero la testa e finirono nel baratro. Ma, appunto, quando arrivò il dottor Cliff Robinson sugli schermi televisivi italiani, nonostante l’indigestione di sitcom che avevamo fatto, tutti presentarono la serie come qualcosa di rivoluzionario. Dissero che l’attore che lo interpretava, Bill Cosby, era il più pagato delle tv americane. Il più simpatico, il più divertente. Nessuno ci aveva detto che, in effetti, a differenza di tutti gli altri, lui la testa non l’aveva persa dopo un improvviso successo seguito dal declino. Ma molti, molti anni prima. 15 Quando, esattamente non si sa. Ma i racconti delle donne che ora lo accusano di averle stuprate risalgono addirittura ai primi anni 60. Il potere Era il 1986 e I Robinson facevano il loro ingresso di prepotenza sui teleschermi italiani, a due anni dall’esordio negli Stati Uniti. La produzione sarebbe proseguita fino al 1992, le repliche fino ad oggi. La sitcom virava sui prodromi del politically correct: le avventure di una famiglia di colore borghese non già perché si fosse arricchita col tempo in una sorta di scalata sociale - tipo I Jefferson - ma perché già economicamente e socialmente stabile da più di una generazione. I protagonisti erano tanti, ma, come nelle precedenti serie, a parte qualche eccezione, anche loro al termine della produzione smisero di riscuotere popolarità internazionale in altri ruoli. C’era Phylicia Rashad nei panni di Claire, avvocato e moglie di Cliff Robinson, ginecologo, che avrebbe lavorato ancora in altre sitcom con Bill Cosby. C’era Lisa Bonet, presto interprete a fianco di un memorabile Mickey Rourke in Angel Heart- Ascensore per l’inferno, con cui si scatena in una scena di sesso molto, ma molto hot, tanto da essere tagliata nel montaggio finale. Avrà altre parti in qualche film, come in Nemico Pubblico, con Will Smith. E poi c’era, in quattro episodi, l’esordio di un giovanissimo Adam Sandler, uno dei migliori amici di Theo Robinson, figlio del dottor Cliff. I Robinson risulterà per cinque anni la più seguita d’America. Ed è soprattutto William Henry “Bill” Cosby, che la produce, la scrive e la interpreta, a emergere, tanto da diventare il personaggio televisivo più pagato a cavallo tra gli anni 80 e 90. Per noi era un volto più o meno nuovo, ma in America era già piuttosto noto anche prima. 16 Figlio di una cameriera e di un marinaio, comincia a recitare da ragazzino. Fa l’infermiere in marina e ottiene un diploma per corrispondenza. Agli inizi degli anni 60 si esibisce come cabarettista e ottiene i primi successi. Gira i palcoscenici di New York, Las Vegas, Chicago, San Francisco, Washington. Nel 1963 la fama è tale che lo chiamano alla NBC per il The Tonight Show. La Warner Bros gli produce il primo disco comico. Con Robert Culp interpreta la serie Le spie ed è il primo coprotagonista afroamericano che recita in una serie tv drammatica. Grazie a questa vince quattro Emmy Awards come miglior attore protagonista. Nel 1968 si può permette di rifiutare un contratto di cinque anni della Warner Bros, perché vuol farsi una sua casa di produzione. Il The Bill Cosby Show va in scena sulla NBC. Poi tocca al cartone animato Fat Albert and the Cosby Kids, arrivato in Italia come Albertone. Produce film insieme a Sidney Poitier. Prima ancora del The Cosby Show, ossia I Robinson, Bill Cosby è dunque negli Stati Uniti un uomo di enorme successo, ricco, addirittura simbolo della lotta al razzismo. E di cultura, dato che nel 1976 ha ottenuto un dottorato all’università del Massachussetts. Appassionato di jazz, diventa amico di Hugh Hefner, creatore dell’impero di Playboy. Dal 1979 presiede il Playboy Jazz Festival e lo si vede suonare il basso con Jerry Lewis e Sammy Davis Jr. Sarà certo I Robinson a dargli notorietà planetaria, e non a caso nel 2002 lo scrittore Molefi Kete Asante lo inserirà nel suo libro sui cento più importanti personaggi afroamericani. Ma la fama c’era già eccome. Così come i soldi, a pioggia, il rispetto, la considerazione sociale. Il che, di riflesso, significa anche altro: il potere. Un potere che durava dai primi anni sessanta. Un potere “simpatico”, che godeva dei consensi unanimi della platea americana, che lo vide impegnato in sitcom fino al 2000, a fianco, ancora, di Phylicia Rashad. E pure impegnato per qualche tempo nella sostituzione di David Letterman, 17 un monumento della tv americana, nello show omonimo, quando il conduttore fu sottoposto ad un’operazione di bypass coronarico. E si sa che il potere affascina. Ma c’è anche un altro lato della medaglia. Nel luglio del 1997 l’attore testimoniò infatti di essere stato costretto a pagare centomila dollari ad una sua amante, Shawn Upshaw, con cui aveva avuto una breve relazione a Las Vegas negli anni 70. Il tutto per non far emergere la storia. La donna disse poi di aver avuto anche una figlia da lui, Autumn Jackson. Ma il comico negò. La Jackson fu successivamente condannata a 26 mesi di carcere per tentata estorsione verso Cosby: un ricatto per qualcosa come 40 milioni di dollari. L’America era tutta con lui, figuriamoci dopo che, ad un’icona del genere, era stato ammazzato un figlio, Ennis, proprio nel 1997, in seguito ad una rapina. Solo che la medaglia, in questo caso, ha anche una terza faccia, più oscura. «La gente spesso ora mi dice: “Beh, perché non lo avevi denunciato alla polizia?” Perché nel 2005, quando lo denunciò Andrea Constand, Bill Cosby aveva ancora il controllo dei media. Nel 2015, abbiamo i mezzi di comunicazione sociale. Non possiamo sparire. È tutto online e non potrà mai essere cancellato». Sono le parole di Tamara Verde, una delle 35 donne che oggi accusano Bill Cosby di averle violentate. La confessione La deposizione è rimasta segreta per dieci anni. Si trattava della denuncia per un episodio di violenza sessuale avvenuto quasi trent’anni prima, nel 1976. A denunciarlo fu certa Andrea Constand, ex direttrice della squadra di basket della Temple University di Philadelphia, che spiegò 18 come fosse stata costretta a far sesso con l’attore dopo che questi le aveva fatto prendere una pillola che le aveva annebbiato la mente. La vicenda si sarebbe poi conclusa con un patteggiamento e una clausola di riservatezza sulle deposizione di Cosby. Ma oggi, anche sulla scia delle continue e simili querele presentate contro il papà dei Robinson, quelle carte sono diventate di dominio pubblico. Ovviamente contro il parere fortemente contrario dei suoi legali. L’anno è il 2005 e il colloquio si svolge al Rittenhouse Hotel a Philadelphia. Presenti Cosby e Dolores Troiani, avvocato di Andrea Constand. Ed è allora che l’uomo ammette di essersi fatto prescrivere sette ricette di Quaalude per il mal di schiena. Ma di volerlo usare con una donna. Il Quaalude, per intendersi, è il nome di un farmaco a base di metaqualone, i cui effetti erano simili ad un barbiturico: con una forte azione sedativo-ipnotica per l’insonnia e come miorilassante. Presto venne però anche usato come droga per sballare e negli anni 80 fu ritirato dal commercio. Per capirne la potenza basti pensare che Anthony Kiedis, cantante dei Red Hot Chili Peppers, scrisse nella sua autobiografia di averlo usato quando si trovava senza eroina. Quando l’avvocato Troiani chiede all’attore se abbia mai dato il Quaalude ad altre persone, lui risponde di sì. E aggiunge: «Incontrai Ms T (sul verbale viene preservato l’anonimato) a Las Vegas. Lei poi venne da me nel camerino. Le diedi il Quaalude. E facemmo sesso». Nella sua deposizione parla del rapporto sessuale avuto con Andrea Constand e ripete di averlo vissuto come consensuale: «L’ho accompagnata fuori. Non sembrava arrabbiata. Non mi disse di non farlo mai più. Non 19 camminava con l’atteggiamento di una vittima. E lo dico perché penso di essere un lettore abbastanza preparato delle persone e delle loro emozioni in queste dinamiche sessuali, romantiche, o come volete chiamarle». Il legale chiede allora se abbia mai parlato con qualcuno del rapporto con Andrea. La risposta è secca: «Io sono un uomo, l’unico modo per sapere con chi ho fatto sesso è chiederlo alla persona alla persona con cui l’ho fatto». D. Cosa vuol dire? R. Quando ero ragazzo era una frase che le ragazze ripetevano: ti prego di non dirlo a nessuno. Ma, quando sono cresciuto ho imparato che quelle ragazze sono le prime ad andare a dire in giro ciò che hanno fatto. C’è altro. L’avvocato domanda di Beth Ferrier, altra donna che lo ha accusato di averla drogata a metà degli anni 80. La Ferrier sosteneva che, dopo aver avuto una breve relazione con l’attore, quando la storia tra loro era ormai finita, lo incontrò a Denver, durante uno spettacolo. Lui le diede un caffè. Lei si sentì stordita. E si risvegliò in macchina coi vestiti stropicciati e il reggiseno slacciato. D. Qual è stato il suo rapporto con lei? R. Abbiamo fatto sesso e abbiamo fatto cene e rendezvous. D. Cosa intende per rendez-vous? A. Rendez-vous è quando chiami qualcuno e gli dici: vuoi fare così e così, loro accettano e si sta insieme. D. C’è qualche contatto sessuale associato al rendezvous? R. Con Beth c’era ogni volta. D. Dove si è verificato questo rendez-vous? 20 R. Non ricordo. D. Lei conosce le città? A. Certamente a Denver. D. Lei sa se uno dei rendez-vous ci sia stato a New York City? R. Non ricordo. D. Come è andata a finire con lei? A. Ho smesso di chiamarla per i rendez-vous. D. Ha smesso? R. Sì. D. Perché? R. Ho lasciato perdere. D. Che cosa vuol dire? A. Che non volevo più vederla. Cosby risponde scocciato. C’è anche qualche discussione col suo legale. Poi si riprende. E l’avvocato Troiani insiste. D. Lei ha detto solo che ha “lasciato perdere”. Che cosa significa? A. Che volevo cambiare. D. Aveva deciso di smettere di avere relazioni extraconiugali? R. No. L’avvocato va oltre. E chiede conto di un episodio: di quando, dopo una cena a Manhattan, Beth Ferrier andò a cena da Cosby con molte altre persone. Per poi restare da sola con lui. D. La signora sostiene che rimase con lei. E che lei 21 cominciò a parlarle della sua carriera, per poi chiederle notizie del padre morto di cancro. Ricorda qualcosa? R. Sì. D. Si ricorda che parlò di questo argomento? R. Sì. D. Si ricorda di cos’altro avete parlato? R. Questo può bastare. D. Le fece quelle domande perché voleva avere rapporti sessuali con lei? R. Sì. Si passa al capitolo Quaalude. Cosby ammette di aver chiesto sette prescrizioni al medico nell’arco di due o tre anni, a partire dal 1970. Ricorda che disse al medico che voleva curare il mal di schiena, ma immaginava che il dottore avesse capito che non lo avrebbe usato per quello. D. Ha testimoniato che il medico sapeva che questi medicinali non li prendeva lei. Vorrei che spiegasse. Come faceva a saperlo o perché dice che lui lo sapeva? A. Perché all’epoca accadeva questo: il Quaalude era la droga che i ragazzi usavano nelle feste. E c’erano momenti in cui avrei voluto averlo per ogni evenienza. Ma lui, racconta, il Quaalude non lo ha mai preso perché gli faceva venir sonno. Lo usava solo nei rapporti con le donne. Aggiunge che, con l’eccezione di qualche birra, non beve alcolici dall’età di 16 anni. D. Perché non hai mai preso il Quaalude? R. Lo usavo. D. Per cosa? A. Per lo stesso motivo per il quale una persona direbbe “facciamoci un drink”. Cosby sembra voler giocare. Ma è irritato. L’avvocato 22 Troiani passa a chiedergli di Teresa Serignese, che ha parlato di un rapporto sessuale avvenuto dopo che Cosby le ha propinato il Quaalude a Las Vegas. Interviene anche Patrick O’Connor, legale del comico. D. Ora, siete d’accordo con me se dico che l’incontro avvenne quando Teresa aveva 19 anni e lei più di 30 e quasi 40? O’CONNOR: Beh, era il 1976. R. Sono nato nel 1937. D. È d’accordo con me che lei aveva intorno ai 39, 40 anni? R. Faccia un po’ i conti. Quando si torna a parlare di Andrea Constand, Cosby sbotta. Dice di essere stanco di rispondere. Poi spiega che non voleva che la moglie Camille ne scoprisse le relazioni extraconiugali. Per questo aveva deciso di pagare gli studi di Andrea con un assegno e non attraverso una sua fondazione che elargiva borse di studio. R. È la famiglia. Mia moglie non sapeva che le pagavo gli studi perché con Andrea avevo avuto rapporti sessuali e che Andrea era molto, molto arrabbiata... D. Come avrebbe spiegato a sua moglie che ne pagava personalmente gli studi invece di usare la fondazione? R. Dicendo che c’era una persona che volevo aiutare. Ancora su Teresa Serignese. La donna sostenne di essere stata pagata dal suo agente William Morris Agency, che sarebbe poi stato rimborsato da Cosby. Il tutto dopo l’episodio di Las Vegas. D. I soldi provenivano dal suo conto personale o dalla sua attività professionale? R. Dal mio conto personale. 23 D. Allora, lo scopo era di quello di mascherare… R. Sì. D. Devo finire la mia domanda. Lo scopo era quello di mascherare che quel denaro era per Teresa? R. Sì. D. E la ragione stava nel fatto che non voleva che lo venisse a sapere… A. …la signora Cosby. La deposizione del 2005 è stata infine ottenuta dal New York Times. L’immagine di Cosby è letteralmente offuscata, con una ventina di denunce che gli piovono sulle spalle. Poi ecco la copertina il New York Magazine. E davvero, per il 78enne papà dei Robinson, il peggiore dei declini sembra essere giunto. La copertina del New York Magazine Sei mesi di lavoro. Poi le presunte vittime di Cosby posano tutte insieme sulla cover del New York Magazine. Un’accusa a mezzo stampa senza precedenti. Una serie di racconti agghiaccianti anche a cinquant’anni di distanza dai fatti. Come dire: il dottor Cliff Robinson è sempre stato così, molto prima che il suo viso sempre allegro facesse il giro del mondo. Trentacinque donne hanno deciso di uscire allo scoperto e di mettersi in gioco, storie raccolte meticolosamente dai cronisti del magazine, capaci anche di convincerle a farsi fotografare, vestite tutte di scuro. Come fossero a lutto. E vestite tutte di bianco quando intervistate singolarmente: a indicare, evidentemente, come la loro purezza sia stata stroncata dalla violenza. Messaggi forti, anche cromaticamente, che non danno da pensare ad altro. I giornalisti spiegano che è stato proprio il numero alto delle prime aderenti a convincere le successive, confortate dal non essere sole a voler parlare di ciò che accadde loro. 24 «Non ho più paura» afferma Chelan Lasha, fattasi avanti alla fine del 2014 per rammentare come Cosby l’avesse drogata quando lei aveva 17 anni. «Ora mi sento più forte di lui». Il gruppo ha un’età che varia dai 20 agli 80 anni. Sembra davvero incredibile. Non basta. Sulla copertina compare anche una sedia vuota: segno che, va da sé, che ci sono in giro vittime che ancora non hanno avuto il coraggio di esporsi. Lo raccontano proprio alcune di loro. Sei rilasciano anche dichiarazioni in video. Ed è probabilmente la mazzata finale. Fino ad allora, infatti, le voci che si inseguivano da qualche mese sulle denunce a pioggia sull’attore, non avevano influito più di tanto sull’opinione pubblica: durante gli spettacoli Cosby veniva accolto da standing ovation. E in pochi protestavano. Giusto qualcuno con un cartello davanti al teatro e la scritta: “Lo stupro non è uno scherzo”. Noi, drogate e violentate La prima si chiama Sunnita Welles, oggi ha 66 anni, ex attrice e cantante. La violenza l’avrebbe subita a metà degli anni 60. Conosceva Cosby fin da bimba e a 17 anni andò a vederlo sul set de Le spie. Ricorda che l’attore la invitò in un jazz club, ordinò da bere, ma poco dopo lei cominciò a sentirsi male e a vedere tutto sfuocato. Si svegliò in un appartamento, nuda e sola. Cosby le disse poi che aveva bevuto troppo champagne e che per questo l’aveva portata in quella casa per farla dormire. Strano, perché Sunnita rammentava di aver bevuto solo una Coca Cola, ma lo prese in parola. Tempo più tardi fu invitata dall’attore ad uno spettacolo di magia. Stessa scena: ricordi della serata scomparsi, risveglio nuda in un letto. Non lo rivide mai più. Si è fatta avanti nel marzo 2015: 25 «A casa nemmeno mia madre, all’inizio, mi credette». Come lei, altre. Carla Green è un’ex coniglietta di Playboy, oggi moglie di Lou Ferrigno, in Italia noto soprattutto per il telefilm in cui interpretava L’incredibile Hulk. Anche il suo episodio è datato: 1967. Ricorda che un amico aveva organizzato un’uscita di coppia e, dopo cena, andarono a casa dell’attore per giocare al biliardo nel seminterrato. «Ad un certo punto mi ritrovai sola con lui. Mi afferrò e mi strinse a sé baciandomi in bocca, ma in modo molto brusco. Riuscii a svincolarmi e scappai. Non ne avevo mai parlato con nessuno prima d’ora». A novembre 2014 ha sporto denuncia. Cindra Ladd di anni ne ha 67 e la sua storia è datata 1969. Lavorava allora come dirigente per un produttore cinematografico a New York. Fu lì che incontrò Cosby. Divennero amici. Un giorno dovevano andare al cinema, ma Cosby le disse che dovevano passare prima a casa di un amico. Cindra aveva mal di testa. E lui le offrì delle pillole: «Una cura miracolosa, fidati». Si risvegliò nuda nel letto. C’era uno specchio attaccato al soffitto e Cosby in accappatoio. Non ricordava nulla della notte. Prese le sue cose e se ne andò. Solo a gennaio 2015 ha deciso di parlare. Stesso anno, diversa presunta vittima: Joan Tarshis, 67 anni. All’epoca ne aveva 19. Ambiva a scrivere commedie quando incontrò tramite amici comuni Cosby a Los Angeles. L’attore le chiese se volesse lavorare a delle sceneggiature con lui. Le propose un Bloody Mary ed una birra nel suo bungalow. Joan bevve. E poi ricorda solo l’attore che la spogliava sul divano. Le sue parole per tentare di respingerlo dicendogli che aveva un’infezione. E Cosby che, per tutta risposta, la costringeva ad un rapporto orale. Tornata a New York ricevette una telefonata: il comico la invitava allo spettacolo. Lei ci andò. Finì allo stesso modo, col risveglio nel letto e Cosby nudo. «Non 26 mi rendevo conto che ero stata violentata. A quei tempi lo stupro era inteso come qualcosa che avveniva in un vicolo con uno sconosciuto che ti puntava un coltello alla gola. Non c’erano altri tipi di stupro, allora. E io sapevo solo che qualcosa di orribile mi era successo. Ma non riuscivo a dargli un nome. La differenza tra ciò che avevo subito e una violenza sessuale in un vicolo buio è che il volto di chi mi aveva fatto questo sarebbe stato davanti a me ogni settimana in tv. Non ho mai più scritto commedie. Ricordo solo che, ogni tanto, i miei genitori mi chiamavano: “Oh, vieni qui, guardare e vedere il Bill Cosby Show, oppure i Robinson”. Citavano le sue battute: “non sono divertenti?” E per tutto il tempo il mio stomaco andava in subbuglio. Avrei voluto solo rispondere: “Voi non lo conoscete”». Anche Linda Joy Traitz, 64 anni, sarebbe stata aggredita nel 1969. Lavorava come cameriera al Cafè Figaro di Los Angeles. Cosby si fece avanti per accompagnarla a casa. Invece la portò su una spiaggia. Tirò fuori una valigetta piena di pillole e gliene offrì una. Rifiutò. Fu allora che il comico si infuriò e, sostiene, provò a saltarle addosso. Ma riuscì a respingerlo: «Sono stata aggredita, non violentata». Si è fatta avanti a novembre 2014, quando su Facebook vide i commenti degli utenti che non credevano alle denunce delle altre donne. «Accadde quando avevo 18 anni. Mi ci è voluto tanto, tanto tempo per capire che era lui ad aver sbagliato, non io. La vita non è stata facile per me. Mi ha dato filo da torcere. Ho avuto problemi di dipendenza da grande». Non c’è da meravigliarsi se tante all’epoca non abbiano denunciato. Anche in Italia, fino ad epoche piuttosto recenti, lo stupro era considerato un reato contro la morale e punito assai blandamente. In compenso la vittima veniva sottoposta ad un terzo grado, umiliata anche nelle aule 27 dei tribunali, costretta a rispondere a domande su quanto un rapporto orale potesse avvenire con costrizione o sul reale dolore patito durante l’atto. La vittima veniva sostanzialmente colpevolizzata. Figurarsi nel caso in cui avesse denunciato un uomo ricco, potente e famoso. Di più, un simbolo della lotta al razzismo. Il tempo è ciò che consente di metabolizzare. Ed è probabilmente per questo che la maggior parte delle denunce riguardano episodi avvenuti diversi decenni fa. Anche quanto narrato da Victoria Valentino, 72 anni, risale al 1969. Ex coniglietta di Playboy, musicista ed attrice, fu invitata da Cosby a cena insieme alla sua compagna di stanza in un ristorante alla moda. A Valentina era appena morto un figlio di 6 anni, si sentiva triste. Vide il comico corteggiare l’amica. Poi lui si girò e le mise una pillola di fianco al bicchiere: «Ecco, questa ti farà sentire meglio». Be’, pensò, se poteva sentirsi davvero meglio, l’avrebbe presa subito. La ingoiò con del vino rosso. Cosby gliene diede un’altra. La prese anche l’amica. Valentina cominciò a star male e disse di voler tornare a casa. L’attore non ci pensò due volte: «Vi accompagno io». Ma Victoria svenne. Quando riaprì gli occhi notò Cosby su un divano con l’amica, completamente incosciente. «Si alzò e si avvicinò. Si sedette e aprì la patta. Mi costrinse ad un rapporto orale, mi girò e abusò di me. Quando si avvicinò alla porta gli dissi: “Come facciamo a tornare a casa?” E lui rispose: “Chiamate un taxi”». Linda Brown è un’ex modella, 67 anni. Nel 1969 doveva andare ad una cena con Cosby organizzata da un’agenzia. Il divo si mostrò gentile, la passò a prendere e, prima di andare a recuperare una terza persona, le disse di voler fare una deviazione per il suo albergo, perché aveva un regalo per lei. Le servì una soda e fece una telefonata. Linda bevve. E si risvegliò nel letto nuda. Ricorda che Cosby l’aggredì: «Mi sentivo come una bambola gonfiabile. Ho 28 mantenuto il segreto perché provavo troppa vergogna e imbarazzo per aver permesso che una cosa così orribile potesse accadermi. Inizialmente pensavo di essere stata l’unica a cadere in questa trappola. Quando ho capito che non ero la sola, ma che lui aveva fatto la stessa cosa a molte donne, ho sentito il bisogno di farmi avanti». Ma le violenze non sarebbero avvenute solo con ragazze che Cosby non conosceva. È il caso di Kathy McKee, 66 anni, che colloca l’episodio tra il 1973 e il 1974. Attrice e showgirl, in tour con Sammy Davis Jr aveva avuto di conoscere Cosby per otto anni. Dopo uno show a Detroit, il comico la invitò nella sua stanza d’albergo. Disse che come aprì la porta, lui l’afferrò, la fece girare e la penetrò: «Riuscii a entrare nel bagno degli ospiti. Cercavo di capire cosa stesse succedendo, che cosa fosse accaduto. Ero davvero confusa e scioccata. Era successo tutto così in fretta. Bill era un amico. Avevo lavorato con lui. Avevo cenato con la moglie in una o due occasioni. Lo conoscevo da molti, molti anni e non ci aveva nemmeno mai provato. Non riuscivo a capire cosa ci fosse di sbagliato in lui. Se fosse impazzito, se fosse drogato, cosa diavolo gli era accaduto. Quando uscii dal bagno, mi disse “Okay, dai, andiamo. Ci stanno aspettando”. Si comportò come una persona che non avevo mai incontrato in vita mia». Kathy si è decisa a parlare nel 2014. Sempre nei primi anni 70 tocca a Tamara Verde, avvocato che all’epoca aspirava a diventare cantante. Cosby glielo presentò un amico comune. Le chiese di dargli una mano per un nuovo club che voleva aprire. La convinse a pranzare al Cafè Figaro. Al ristorante Tamara non si sentiva bene. E lui tirò fuori alcune pillole rosse e grigie. Medicine, assicurò. Poi furono le vertigini. L’attore la portò nel suo appartamento e la spogliò. Lei provò a dibattersi. La penetrò con le mani mentre si masturbava. 29 Poi lasciò duecento dollari sul tavolo. E se ne andò. Autumn Burns, 68 anni, nel 1970 lavorava al casinò di Las Vegas. Cosby assicurò di volerla aiutare a sfondare nel mondo della moda. Scattò l’invito ad un suo show. Una sera le chiese di raggiungerlo in camera dopo il lavoro. Le diede uno scotch. E lei perse il controllo. Lo vide nudo nel letto. Poi ricorda un rapporto orale e la penetrazione. L’inquietante giro di presunte vittime non si ferma. Anno 1971: lei è Louisa Moritz, oggi 69enne, attrice. Doveva apparire al The Tonight Show, quando Cosby entrò nel suo camerino. Si slacciò i pantaloni e la costrinse ad un rapporto orale: «Non potevo spingerlo via. Era il signor Cosby. Si muoveva avanti e indietro, e la mia testa era continuamente sul suo pene. Mi chiamarono sul palco, ma non mi avrebbe lasciato andare. Si precipitò fuori ed uscì lui dicendo: “Sono Louisa Moritz”. Ottenne una risata enorme. Non ricordo se mi chiamarono ancora. Ero uno zombie. Mi sedetti e lo spettacolo andò avanti. Io non lo guardai. Lui neppure». Helen Hayes, 80 anni, ricorda quando nel 1973 partecipò al torneo di tennis per celebrità organizzato da Clint Eastwood a Pebble Beach, in California. Incontrò lì Cosby che, dopo averla seguita tutto il giorno, la raggiunse al ristorante dove le afferrò un seno. Finì lì. Nel 1975 è la volta di Margie Shapiro, 58 anni. Lavorava in un negozio di ciambelle. L’attore arrivò con una macchina di lusso per ordinarne a decine. Fece quattro chiacchiere. Poi la invitò sul set. Qualche giorno più tardi le propose una cena da lui. Ma subito dopo ebbe un’idea migliore: andare alla villa di Hugh Hefner, il patron di Playboy amico suo. Margie, incuriosita, accettò. Giocarono a flipper e Cosby le propose una sfida: chi 30 avesse perso avrebbe dovuto ingoiare una pillola. Margie perse. Ingoiò. Svenne. Si ritrovò nel letto nuda, con Cosby dentro di lei. Lo ha denunciato a marzo 2015. Più o meno quanto sarebbe accaduto lo stesso anno all’ex modella Marcella Tate, oggi 67enne. Aveva conosciuto l’attore in un nightclub di Chicago, poco prima. Fu lui a chiamarla e a chiederle di passare a prenderlo all’aeroporto. Una volta in auto la invitò ad un giro alla Playboy Mansion. Un bicchiere di vino. Un drink. Poi i ricordi scompaiono fino al risveglio, con lei nuda a letto con lui: «Capivo che c’era qualcosa di sbagliato, ma non sapevo cosa». Ad aprile 2015 ha sporto querela. Il 1976 è l’anno del caso di Teresa Serignese. E dodici mesi più tardi presunta vittima è ancora una coniglietta di Playboy, Sarita Butterfield, 22 anni. Cosby la chiamò dopo averla vista sul giornale. Le pagò il biglietto aereo per raggiungerlo la vigilia di Natale a cena nella sua casa nel Massachusetts. C’erano altri ospiti, ma quando rimasero soli tentò di afferrarne i seni e di baciarla. La ragazza riuscì a respingerlo. Andò meno bene, stando al suo racconto, ad un’altra ex coniglietta della rivista maschile, Pj Masten, che oggi ha 65 anni. Era il 1979 e la scusa per il cocktail drogato fu una cena al Whitehall Hotel di Chicago. Anche lei si svegliò nuda nel letto di Cosby. Il giorno successivo ricevette un ficus con un biglietto: “Le amicizie devono essere curate come questo albero”. Racconta Pj: «La cosa più difficile da accettare è che non avevo avuto il controllo di me stessa. Non avrei mai permesso che accadesse, mai. Sono dovuta andare al lavoro il giorno successivo. Lui continuava a chiamarmi. Quando dissi al mio capo ciò che mi aveva fatto, rispose: “Lo sai che è il migliore amico di Hefner, giusto?” Dissi di sì. E lui: “Nessuno ti crederà. Ti suggerisco di chiudere la 31 bocca”. I sopravvissuti di stupro hanno a lungo difficoltà nelle relazioni intime. Avevo vent’anni. Fino ad oggi è stato come avere un nero, disgustoso tumore. Un tumore segreto». Il tempo corre. E mentre i presunti stupri proseguono, la fama di Cosby continua a crescere. Tra il 1979 e il 1980, l’attore incontra Joyce Emmons, attualmente 70enne. Joyce gestiva un comedy club, ed era amica del comico da un paio d’anni. Il giorno in cui accusò un mal di testa e gli chiese un Tylenol, lui rispose di aver qualcosa di più forte. Temeva fosse droga, ma il comico la rassicurò: «Sei una delle mie migliori amiche, potrei mai farti del male?» Poi la scena è la stessa di sempre, o quasi, con Joyce che si sveglia a letto nuda. Ma con un amico di Cosby. «Tutto quello che ricordo è che stavo prendendo la pillola. Non mi ricordo di essere andata a letto. Mi sono svegliata come in una nebbia. Ho aperto gli occhi e non indossavo vestiti, eppure li avevo quando avevo preso la pillola. Ero senza abiti e c’era l’amico di Bill, completamente nudo a letto con me. Non so dire cosa fosse accaduto. Lo guardai, e lui mi guardò e iniziò a ridere dicendo: “Oh, stai bene?”. Ho risposto: “Che cazzo è successo? Ti scopi sempre una persona morta?” Perché questo è ciò che ero. Ero una persona morta in quel momento. Non ha detto niente, ho afferrato la mia coperta e me ne sono andata a fare una doccia. Ho preso i vestiti. E Bill mi ha chiamato: “Dove stai andando?” “Me ne vado – ho sbottato- Che cazzo mi hai dato?” E lui: “Eh, hai avuto un forte mal di testa. Soffrivi tanto. Ti ho dato un Quaalude”». Linda Kirkpatrick non faceva parte del mondo dello spettacolo. Imprenditrice, ora che ha 58 anni ricorda quanto successe nel 1981 in un torneo di tennis doppio misto a Las Vegas contro Cosby. L’attore lanciò la sfida: se lei e il suo partner fossero riusciti a batterlo, lui avrebbe 32 regalato loro dei biglietti per lo show. Vinsero, ma il partner non poté partecipare allo spettacolo. Ci andò sola e al termine fu accompagnata nel camerino del comico. Saltò fuori un cocktail, stavolta alla frutta. Ne bevve metà. Quindi i ricordi sfocano: Cosby su di lei che cerca di baciarla, il braccialetto d’argento con inciso il nome della moglie dell’attore. Tuttora non rammenta come tornò a casa. Successivamente Cosby la contattò al tennis club per scusarsi. Scattò un nuovo invito allo spettacolo. Ma anche allora provò a saltarle addosso. Riuscì a respingerlo. A gennaio 2015 si è decisa a raccontare tutto: «Non mi sono mai fatta avanti prima per paura. Avevo 25 anni e temevo che se avessi rivelato cosa mi aveva fatto una grande celebrità che apparentemente portava avanti i valori della famiglia, sarei stata presa per una bugiarda, così come è poi accaduto a molte vittime». Vittime, o presunte tali, dai lavori più svariati: attrici, impiegate, dirigenti, soubrette. Janice Baker-Kinney, oggi 57enne, era ad esempio direttore di scena in tv nel 1982. Spesso accadeva che i divi dei programmi invitassero il personale alle feste. Così non ci trovò nulla di strano quando arrivò la proposta di Cosby. Arrivò con un’amica, ma non vide nessun altro. Cosby le diede una pastiglia, poi iniziarono a giocare a backgammon. Improvvisamente tutto girò. Ricorda di essersi trovata su un divano con la camicetta sbottonata. La mattina si svegliò nuda di fianco all’attore nel letto. «Resta tra me e te» le disse lui. Prima di denunciarlo, ad aprile 2015, Janice si è consultata con la famiglia: «Perché mio figlio non ne sapeva nulla. Hanno detto che se poteva servire ad aiutare altre donne, era giusto che lo facessi». Janice Dickinson era invece una modella e nel 1982 aveva 28 anni. L’attore voleva darle l’opportunità di recitare con lui, almeno l’avvicinò così. Andarono a cena. E ancora una volta saltò fuori la pillola. Janice si svegliò la mattina successiva, con Cosby addosso. «Tutta la mia 33 vita cambiò per sempre. Avevo compreso che Bill Cosby mi aveva violentata la sera prima. Ho tenuto questi ricordi nell’anima per anni e anni». Lo stesso destino di Heidi Thomas, che nel 1984 faceva l’insegnante di musica. Aveva 24 anni. Fu il suo agente a dirle che “Mr. C.” voleva incontrarla. Si videro in un ranch. Cosby le chiese di leggere una sceneggiatura. Doveva interpretare una persona ubriaca. Per farla entrare nella parte le offrì da bere. Heidi si risvegliò con l’attore che tentava di costringerla ad un rapporto orale. «Il mio primo pensiero fu: “come sono arrivata qui? Che cosa ho detto? Cosa ho fatto? Non mi sto comportando in maniera professionale. E spero di non vomitare sul suo letto perché sarebbe davvero disdicevole”. Nel secondo flash rammento che pensavo: “questo non è il motivo per cui sono venuta qui”. Ero annebbiata. E ora so perché. Ricordo che quando chiusi la porta feci un gran rumore. E pensai: “Oh mio Dio, ho appena sbattuto la porta in faccia Bill Cosby”. L’idea che mi avesse appena aggredito non mi sfiorò nemmeno. All’epoca nessuno aveva mai sentito parlare di una droga da stupro, nessuno aveva mai sentito parlare di una cosa del genere». Già, nemmeno Beth Ferrier, la cui presunta aggressione è del 1984. Un anno più tardi, la giovane modella diciassettenne Barbara Bowman fu presentata dal suo agente a Cosby, che volle subito farle da mentore nel mondo dello spettacolo. E qui la questione si complica. Dopo averla conosciuta a Denver, il comico la portò infatti con sé a moltissimi show e ad eventi in tutto il Paese. Barbara si trasferì a New York prima e a Long Island poi, dove prese lezioni di recitazione. Durò due anni. Due anni nei quali, secondo il suo racconto, Cosby la drogò e violentò ripetutamente. «Ci sono stati momenti in cui ero completamente confusa – 34 ha dichiarato al New York Magazine - e altri momenti in cui ero più lucida». La manipolazione psicologica fu molto sottile. «Era il papà preferito d’America». Ed era come se fosse anche il suo, con lui che le diceva di amarla come una figlia. Ma, si domandò quando tutto finì, come poteva amarla come una figlia un uomo che la violentava? Nel 2005 si associò alla denuncia di Andrea Constand. Ricorda che la rottura della relazione avvenne ad Atlantic City, dove si era diretta per vederne lo show. Un’altra notte offuscata dalla droga, nella camera dell’attore. Si accorse ad un certo punto di non avere il bagaglio e chiamò il concierge per sapere dove fosse. Fu allora che Cosby andò su tutte le furie, perché non voleva che si sapesse che nella sua suite c’era una ragazza di 19 anni. «La mattina successiva mi svegliai nuda. Non sapevo che fosse successo. Mi chiamò al telefono e mi intimò di raggiungerlo nella stanza. Gridò che lo avevo messo in imbarazzo e che lui aveva bisogno di discrezione. Mi buttò giù dal letto e mi strinse un braccio sotto la gola. Si mise a cavalcioni su di me e tirò fuori la fibbia della cintura. Il rumore della fibbia non lo dimenticherò mai». Poi, il ragionamento fu quello di tutte: «Violentata e drogata da Bill Cosby…ma chi diavolo mi avrebbe creduto?» A cavallo della vicenda di Barbara c’è l’episodio che riguarda Rebecca Lynn Neal, oggi 60enne, nel 1986 massaggiatrice in un centro benessere in cui l’attore si recava spesso. Scattò un invito allo spettacolo e poi a cena. Quindi Cosby lamentò un dolore alla schiena e alla spalla e le chiese se potesse fargli un massaggio dopo aver mangiato. Era il suo lavoro e non ebbe problemi ad accettare. Finì la cena con un bicchiere di Stolichnaya. Fu allora che si sentì improvvisamente disorientata: non riusciva a camminare. Cosby la portò dal ristorante al camerino. Si sedette e tirò giù i pantaloni. Poi la prese. Lei gli chiedeva di smettere, ma si sentiva incapace di fermarlo. «Mi disse calmarmi, che non aveva intenzione 35 di farmi del male…». Quando tutto finì, Cosby si precipitò fuori proponendole di chiamarlo la prossima volta che si fosse trovata in città. «Non l’ho mai più visto di nuovo in palestra né in qualsiasi altro luogo». La catena di accuse è impressionante. Chelan Lasha ha 46 anni e oggi fa la dietista. Nel 1986 era un’aspirante modella. Giovanissima, 17 anni, la madre adottiva inviò una lettera a Cosby con una foto della figlia, spiegandone i sogni. L’attore si fece vivo e con grande galanteria invitò Chelan ad un suo show a Las Vegas. Ci andò accompagnata dalla nonna. Terminato lo spettacolo, l’attore le chiese di raggiungerlo nella suite dove l’avrebbe presentata ad un agente della Ford Modeling Agency. Chelan arrivò di corsa. Ma aveva freddo e lui le diede una pillola blu e un sorso di Amaretto. Le disse di mettersi in accappatoio e di bagnare i capelli per un set di fotografie. Qualcuno in effetti si presentò. Scattò delle foto e se ne andò. Ma i ricordi sono confusi. Rammenta di essere stata messa sul letto e di essersi svegliata 13 ore più tardi quando Cosby, sopra di lei, batté le mani gridando: «Papà dice: svegliati». Le lasciò 1500 dollari, con cui, spiegò, avrebbe potuto prendere qualcosa di bello per sé e per la nonna. Ne ha parlato solo a dicembre 2014: «Temevo per la mia vita, per via dell’influenza che lui aveva. Ho sempre voglia di piangere e incubi. Dopo quel fatto non sapevo più di chi fidarmi e di chi no. Non vorrei mai che i miei figli guardassero il The Cosby Show, perché so che comincerei a piangere». A differenza di tante, Helen Gumpel reagì. Oggi ha 59 anni, è stata modella e successivamente ufficiale delle forze dell’ordine. Nel 1987 ebbe un piccolo ruolo in un episodio del The Cosby Show. Quando la chiamarono una seconda volta sul set, pensava la volessero scritturare per una nuova puntata, invece fu portata direttamente 36 nel camerino dell’attore, che le offrì da bere. Ma lei lo respinse. Denunciò nel febbraio 2015. E oggi racconta «non è mai stato un segreto. Ne ho parlato alla gente. Ne parlai pure ad un grande cronista, un cronista mondano. Solo che, a dire la verità, allora, nessuno voleva attaccare Bill Cosby. Era il comico numero 1 al mondo, un’enorme macchina da soldi. E chi avrebbe creduto a qualcuno ad una donna senza alcun potere?» Ancora il 1987. Sammie Mays, oggi scrittrice di 57 anni, era all’epoca una giovane giornalista. Provò ad avvicinarlo per un’intervista. Lui accettò: ne avrebbero parlato nella sua stanza d’albergo. Le servì un drink. E lei bevve due grandi sorsi. Poi tutto divenne scuro e quando riaprì gli occhi Cosby la sovrastava. Aveva il reggiseno slacciato. Uscì di corsa scusandosi dell’accaduto, confusa, non capendo bene che fosse successo. Il suo racconto è del maggio 2015. «Siamo sopravvissute. Ma eravamo donne che volevano fare carriera. Ecco come Bill Cosby è potuto arrivare a noi». Già, come Kaya Thompson. Alla fine degli anni 80 faceva la modella. Ma molto giovane: a 17 anni era partita dal Maryland verso New York in cerca di un’agenzia. La mandarono agli Astoria Studios per incontrare l’attore sul set di The Cosby Show. Lui la prese in simpatia, tanto da voler parlare ai suoi genitori assicurando loro che si sarebbe occupato personalmente della carriera della figlia. «Lo vedevo come una figura paterna» ha detto Kaya al New York Magazine. Fu però quando provò a interrompere la relazione, ricorda, che il comico approfittò di lei. «Sapeva che ero giù…» rammenta. Lui le indicò una bottiglia di lubrificante. E si fece masturbare. Poi, per quanto lei giuri di non aver chiesto nulla, le lasciò 700 dollari. La sua storia è emersa a marzo del 2015, ma la raccontò, in forma anonima, anche 37 allo studio legale Troiani che nel 2005 assisteva Andrea Constand. Lise-Lotte Lublin avrebbe fatto in seguito l’insegnante. Nel 1989 era invece una modella di 23 anni chiamata per un provino nella suite di Cosby a Las Vegas. Un drink non si rifiuta mai. Ne sorseggiò due. E il suo ultimo ricordo è di lei seduta sopra un tavolino a cavallo dell’attore che le accarezza i capelli. Il resto sono flash. Non sa come arrivò a casa. «Capii cosa mi aveva fatto venticinque anni più tardi. Se un medico ti lascia una spugna nel corpo durante un intervento chirurgico e per venticinque anni soffri, e poi un altro medico ti riapre e ritrova quella spugna, tu non sapevi che fosse quella la causa. È ciò che è successo a me». Si è fatta avanti a febbraio 2015. Ha combattuto per inasprire le pene sullo stupro in Nevada. La legge è cambiata il primo ottobre 2014. Anche Jewel Allison, professione scrittrice, intorno al 1990 faceva la modella. Fu il suo agente a dirle di una cena di lavoro a New York da Cosby. Quando arrivò si accorse di essere l’unica ospite. «Mi chiese se volessi un bicchiere di vino. Diedi qualche sorso. Aveva un gusto orribile. Poi cominciai a non sentirmi bene. Mi afferrò per le ascelle e mi portò nella stanza accanto, davanti ad uno specchio. Mi disse di guardare. C’era qualcosa di sbagliato in me. Mi prese la mano destra e la portò dietro la schiena. Ricordo che sul pavimento vidi dello sperma. Sentii del liquido nella mano. E capii così che qualcosa era accaduto». Cosby chiamò un taxi. «Mi confidai con la mia migliore amica. Ne ho parlato in famiglia e ad altri conoscenti. Dopo più o meno una decina d’anni incontrai un’ex modella dell’agenzia e confrontammo i nostri racconti. Anche a lei era capitato. Le consigliai di non parlarne a nessuno. Ma volevo proteggerla. Un paio di volte avrei voluto farmi avanti, prima che tutte le altre donne venissero allo scoperto. Ma ero spaventata. In più 38 non volevo far crollare l’immagine di un afro-americano. Sono sempre stata molto coinvolta nella comunità nera. E per me denunciare e fondamentalmente distruggere l’immagine fortissima di uno dei pochi afroamericani importanti degli Stati Uniti, era allora troppo difficile». Lili Bernard, attrice dei primi anni 90, come già accaduto ad altre vedeva in Cosby una figura paterna. «Me lo diceva spesso: “Tu sei come una figlia, Bernard”». Apparve nell’ultima stagione de I Robinson. Andò tutto bene fino all’ormai famigerato drink. Cui seguì lo stupro. Al loro ultimo incontro, nel 1992, l’attore le disse: «Per quanto mi riguarda, Bernard, tu sei morta. Mi senti? Sei morta. Non esisti». Lili tentò il suicidio. «Negli ultimi 23 anni ho vissuto con un tremendo senso di paura». Ha raccontato tutto a maggio 2015. «E l’unica ragione per cui sono riuscita a parlarne è che tante altre donne lo avevano fatto prima di me. E mi sono sentita al sicuro». Nel 1996 è infine la volta di “Kacey”. Manager, divenne amica di Cosby fino a quando l’attore non le chiese di lavorare con lui ad un nuovo progetto di show. La invitò a cena e finì con il comico che tentava di baciarla, respinto duramente. Quindi le scuse, il nuovo incontro al Bel Air Hotel, Cosby che apriva la porta in accappatoio e pantofole. Il pranzo e l’immancabile pillola. Stavolta di colore bianco. Kacey si risvegliò a letto, accanto a lui. «Per tanti anni pensai di essere la sola. Quando ho visto tutte le altre donne farsi avanti, ho pensato che era arrivato il momento giusto. Va bene, mi sono detta, posso uscire dalla porta dietro la quale sono rimasta intrappolata». Certo, si tratta delle loro versioni. Ma tutte queste donne hanno deciso di metterci la faccia ben sapendo che per la stragrande maggioranza dei casi, quand’anche uno stupro ci sia stato, è ormai intervenuta la prescrizione. 39 Cosby, d’altronde, ha ammesso di aver usato almeno in qualche occasione il Quaalude, e non per sé. E la cosa stupefacente, se si sta ai racconti, è che si ha addirittura l’impressione che se alcune di loro l’attore le avesse corteggiate, be’ probabilmente sarebbe potuto nascere qualcosa. Senza ricorrere a droghe e violenze. Invece è come se Cosby traesse piacere proprio dal fatto che fossero inermi, quasi delle bambole inanimate. Nel 2002 il comico ricevette una medaglia per la libertà dall’allora Presidente degli Stati Uniti George W. Bush. Un’onorificenza che oggi un’associazione contro gli abusi sessuali vorrebbe fosse revocata. Ma non si può fare, perché non c’è una legge che lo preveda né esistono precedenti. Lo ha dichiarato direttamente Barack Obama, che è comunque voluto entrare nel merito della questione: «Credo che questo Paese non debba tollerare lo stupro. Se dai della droga di nascosto a qualcuno e poi abusi sessualmente di lui o lei senza il suo consenso, questo è stupro. Penso che in America e in nessun altro Paese civilizzato si può tollerare la violenza sessuale». Di certo, per vedere quanto ci sia di concreto nella perversione del papà de I Robinson non si deve attendere molto. Il 9 ottobre 2015 è chiamato a testimoniare sotto giuramento su una presunta violenza sessuale ai danni di Judith Huth, avvenuta nella Playboy Mansion nel 1974. Judith aveva allora 15 anni. È la prima volta che Cosby depone davanti ad un giudice. Stavolta non può mostrarsi scocciato. Non può eludere le domande. Non può cavarsela con una battuta. Anche se l’idea che nella sitcom di maggior successo americana proprio lui interpretasse un ginecologo appare ora come la peggiore delle sue beffe. 40 41 42 STUPRI, PRESUNTI STUPRI E STUPRI MAI COMMESSI Il lato oscuro di Jimmy Savile Jimmy Savile è stato il più noto dj e conduttore radiofonico e televisivo e inglese. L’idolo della BBC, in cui esordì a 38 anni nell’edizione britannica di Top of the Pops. Sarebbe stata poi la volta, dal 1975 al 1994, di Jim’ll fix it, il programma, sempre sulla BBC, in cui realizzava i desideri degli spettatori. Tipo eccentrico e sportivo, riconosciuto gran benefattore, già nel 1971 venne insignito del titolo di Sir. Una carriera di allori infinita, culminata nel 1990, quando, in virtù delle opere di bene compiute, Papa Giovanni Paolo II lo nominò Cavaliere dell’Ordine di San Gregorio Magno. Onore e gloria, un vanto dell’Inghilterra fino alla morte, avvenuta nel 2011, a due giorni dal suo 85mo compleanno. Seppellito in una bara d’oro, un anno più tardi ne emerge clamorosamente il lato oscuro di stupratore seriale. 43 Uno ad uno emergono infatti numerosissimi racconti di sue violenze sessuali, che sarebbero state anche coperte nei decenni da altre persone dell’emittente. Presto 81 dipendenti della BBC finiscono sotto accusa per presunti abusi perpetrati tra il 1967 e il 1985. Le denunce arrivano a 152. Sulla scia dello scandalo, un ex volto dell’emittente, Stuart Hall, classe 1929 – presentatore prima dei telegiornali, poi di programmi come Giochi Senza Frontiere e infine di calcio - ammette di aver stuprato 13 ragazze tra il 1967 e il 1986, tra cui una bimba di nove anni. Se la caverà con 30 mesi di carcere, più altri 30 quando gli saranno contestati, nel 2014, altri due reati. Intanto lo scandalo di Savile cresce. Non si parla più solo di violenza avvenute in ambito professionale, ma addirittura in ben 28 ospedali, dove il dj avrebbe abusato di malati incapaci di reagire. In particolare all’ospedale psichiatrico di Broadmoor e al Leeds General Infirmary, l’enorme centro con 15mila dipendenti e un milione e mezzo di pazienti l’anno, nel quale Savile, oltre ad esserne un benefattore, operò come volontario per circa quarant’anni. E non è finita. Scrive il Corriere della Sera il 26 giugno 2014: Sesso con cadaveri e occhi di vetro per gioielli: i nuovi orrori su Savile Jimmy Savile ha molestato e stuprato in 50 anni oltre 200 persone, il 73% delle quali aveva meno di 18 anni. Adesso, a un anno e mezzo dallo scoppio dello scandalo pedofilia che ha choccato la Gran Bretagna, saltano fuori nuovi agghiaccianti particolari sulla condotta del dj-presentatore della Bbc, morto da impunito nel 2011 a 84 anni. Savile, che per decenni ha avuto libero accesso a diversi ospedali britannici per portare avanti la sua attività di volontariato, ha molestato e abusato sessualmente senza sosta di pazienti, 44 personale infermieristico e perfino cadaveri. Secondo un testimone, il dj-maniaco sessuale si sarebbe anche vantato di aver trasformato in gioielli (degli anelli in particolare) occhi di vetro rubati da alcuni corpi in un obitorio. È quanto emerge da un rapporto presentato oggi al Parlamento di Westminster dal ministro della Sanità, Jeremy Hunt, che si è scusato con le vittime degli abusi e ha affermato che le azioni di Savile hanno sconvolto il Paese in profondità. Vittime dai 5 ai 75 anni Secondo il rapporto, tra le vittime di Savile ci sono almeno 60 persone dai 5 ai 75 anni. Uomini e donne, bambini e bambine: non importava di che sesso fossero le sue prede. L’ex dj viene anche accusato di aver compiuto atti sessuali su corpi senza vita in un obitorio di un ospedale. I casi finora accertati di violenze sono avvenuti in 28 ospedali. Un predatore senza freni, che forse ha una lista di vittime ancora più lunga di quanto già si sappia. C’è infatti il timore che il più grande maniaco del Regno abbia colpito anche in oltre 20 strutture per l’infanzia e scuole. Al momento le carte del «caso Savile» - con l’elenco di denunce che risalgono agli anni Sessanta - sono state passate al Dipartimento per l’Istruzione (il Dfe) e le indagini sono in corso. Intanto il patrimonio della star della tv britannica sarà usato dalle autorità per risarcire le vittime. E se non dovesse bastare, ci penserà il Governo. Da allora lo scandalo non si è fermato. Sembra che le vittime possano essere più di 300. Quarant’anni in fuga: lo strano caso di Roman Polanski Il caso di Roman Polanski fa ancora discutere. Tra i più noti registi del mondo, ha avuto una delle infanzie 45 più tragiche. Padre polacco di origini ebraiche, madre russa di famiglia ebraica convertitasi al cristianesimo, Roman nasce nel 1933 a Parigi, città da cui è costretto a fuggire coi genitori a Cracovia quando in Francia inizia a diffondersi l’antisemitismo. Ma lì non va meglio, perché Hitler invade la Polonia. Rinchiusi nel ghetto della città, la mamma finisce deportata ad Auschwitz, dove morirà. Il papà viene invece spedito a Mauthausen, riuscendo a sopravvivere. Prima di finire al lager, organizza però la fuga del figlio, pagando una forte cifra ad una famiglia cattolica perché lo tenga nascosto. Ma che lo “cede” a dei contadini, presso i quali Roman resta fino alla fine della guerra. Superato l’inferno, il giovane ha una gran voglia di riscatto. Si diploma alla Scuola Nazionale di Cinema di Lodz nel 1959. Poi è tutta una scalata al vertice del cinema. Quando nel 1968 approda negli Stati Uniti è già un regista affermatissimo, tanto da aver ottenuto una candidatura all’Oscar come miglior film straniero per 1962: Il coltello nell’acqua. Da due anni sta con l’attrice Sharon Tate. L’ha conosciuta sul set di Per favore, non mordermi sul collo!, e l’avrebbe voluta anche come protagonista di Rosemary’s Baby, uno dei suoi film più inquietanti e successivamente candidato all’Oscar: la storia di una ragazza che resta incinta del diavolo e in balìa di una setta. Ma poi i produttori hanno optato per Mia Farrow. Roman e Sharon sono una coppia sempre al centro del gossip, la loro casa è frequentata dai più grandi divi di Hollywood. Sharon è apparsa nuda su Playboy: le foto gliele ha scattate Roman. E per l’epoca è decisamente anticonformista. Sostiene che tutte le coppie debbano convivere prima di sposarsi. È amata e fa discutere. Il loro matrimonio lo celebrano a Londra il 20 gennaio 1968. Roman dice che la vuole hippie e non casalinga. 46 Sharon diventa “l’attrice rivelazione dell’anno” per La valle delle bambole. Incinta di otto mesi, a luglio 1969 rientra a casa, in attesa del ritorno del marito, previsto per il 12 agosto. Ma il 9 agosto succede l’imprevedibile. Sharon è nella villa di Beverly Hills di Terry Melcher, produttore musicale figlio di Doris Day. Con lei ci sono alcuni amici: Jay Sebring - il suo parrucchiere - , Abigail Folger – figlia dell’imprenditore del caffè Folger - e Wojciech Frykowski, fidanzato di quest’ultima. Ciò che accade quella sera, dopo le 22,30, di ritorno dal ristorante El Coyote, lo scopre la cameriera Winfred Chapman la mattina successiva. Il corpo di Steven Parent, un giovane che era andato alla villa per tentare di vendere un orologio al custode della villa William Garretson, è in auto, crivellato da una calibro 22. Sul prato ci sono i cadaveri di Frykowski e Folger. Nel salotto di casa, uniti da una lunga corda stretta intorno al collo, le ultime due vittime: Jay Sebring e Sharon Tate. A parte Parent, sono stati tutti pugnalati. Sharon l’hanno accoltellata 16 volte. Prima di andarsene, gli assassini hanno scritto con uno straccio intriso nel sangue la parola “Pig”, maiale, sulla porta. Sono i membri di The Family, la setta fondata da Charles Manson, musicista fallito, un tipo che si considera la reincarnazione di Gesù e di Satana. Un nome che da allora evocherà il male e la paura, influenzando scrittori, artisti e cantanti, come Brian Hugh Warner, che ne ha preso il cognome per fonderlo insieme a quello della più grande diva di Hollywood nel proprio nome d’arte: Marilyn Manson. Prima di essere presi il giorno successivo i seguaci di Manson uccidono altre due persone a colpi di forchetta. Il guru non ha preso parte agli eccidi e li nega. Ma ad incastrarlo come mandante ci pensa Susan Atkins, 47 membro della setta, che racconta come Manson avesse in programma di uccidere anche Steve McQueen, Richard Burton, Frank Sinatra e Liz Taylor. Moventi reali non ne sono mai stati trovati, se non nel delirio di The Family. Basti pensare che in seguito Manson dirà di essere stato ispirato dal brano Helter Skelter dei Beatles, attraverso il quale aveva ricevuto l’ordine divino di diffondere il caos. Un fatto di sangue del genere non ha precedenti a Hollywood. E diventa quasi impossibile trovare una figura simile a quella di Polanski, cui il destino sembra aver voluto dare tutto e togliere tutto, in un frenetico balletto tragico: l’infanzia più orrenda prima nel ghetto e poi passato di mano in mano mentre i genitori venivano deportati, poi fama, ricchezza, potere e amore. E ancora l’ennesima parabola mortale, una morte atroce per la moglie e il figlio che di lì a qualche settimana sarebbe nato. Passano però otto anni. E stavolta le ombre su allungano su di lui. Nel 1977 viene infatti accusato di “violenza sessuale con l’ausilio di sostanze stupefacenti” ai danni di una ragazzina non ancora quattordicenne, Samantha Geimer, figlia di una conduttrice televisiva, fatto avvenuto nella villa di Jack Nicholson. Il caso esplode sui media e l’avvocato della giovane, per proteggerla, propone un patteggiamento, in modo da non farla deporre pubblicamente. Le accuse si riducono così a “rapporto sessuale con persona minorenne” del quale il regista si dichiara colpevole. Viene disposta una perizia psichiatrica e lo mandano alla prigione di Chino, California. Quando lo liberano anticipatamente in attesa delle decisioni del giudice e si viene a sapere che il magistrato non è affatto d’accordo con una detenzione domiciliare, fugge a Londra. E da lì a Parigi. Gli Stati Uniti nel 1978 spiccano un 48 mandato di cattura internazionale, ma Polanski, che gode di cittadinanza francese, non sarà mai estradato. Nel 2009, all’aeroporto di Zurigo, dove si è diretto per un premio alla carriera, viene però arrestato per effetto di un nuovo mandato di cattura internazionale statunitense del 2005. A 32 anni dai fatti il caso torna a galla. Si scopre che a gennaio 2009 Polanski aveva chiesto invano l’archiviazione delle accuse. E che Samantha Geimer aveva depositato una sua memoria per chiudere definitivamente la vicenda: Ho chiesto che il caso venga chiuso, che le accuse siano ritirate. Sono diventata vittima delle azioni del procuratore… Polanski si dichiarò colpevole, in parte, per salvarmi da un processo pubblico, in cambio, le altre accuse nei suoi confronti vennero fatte cadere. Sono arrabbiata con il procuratore distrettuale che ha rifiutato di chiudere il caso, dando ancora pubblicità ai luridi dettagli di questi eventi. Che siano vere o no, la pubblicazione di queste cose causa danno a me, al mio amato marito, ai miei tre figli, e mia madre. Sono diventata vittima delle azioni del procuratore… Non sono più una bambina di 13 anni... Sono sopravvissuta, sono riuscita a prevalere su ogni eventuale danno che il signor Polanski mi abbia causato… Non credo che sia un soggetto pericoloso per la società. Non credo che debba essere rinchiuso per sempre. Credo volessimo metterci questa storia alle spalle, vedere Roman Polanski in una prigione non ci avrebbe aiutato a raggiungere questo obiettivo. Il regista trascorre due mesi in prigione. Dopo una lunga serie di polemiche pro e contro che coinvolgono anche le più importanti star di Hollywood, la Svizzera respinge la richiesta di estradizione per un vizio di forma. Nel 2011, tornato al Zurigo Film Festival, Polanski chiede per la prima volta scusa a Samantha. 49 Nel 2013 Samantha, che oggi ha tre figli adulti, scrive un libro, The Girl: A life in the Shadow of Roman Polanski, in cui ricorda ciò che accadde quella notte del 1977: Polanski aveva chiesto una prima volta a sua madre di fotografarla, anche se non le aveva parlato di foto di nudo. E quando lui ad un certo punto le domandò di posare a seno scoperto, lei rifletté un minuto: «Pensai a Brooke Shields e Jodie Foster e accettai». Al secondo invitò, nella villa di Muloholland Drive di Nicholson, Roman stappò lo champagne. Poi tirò fuori una pastiglia…: se la scena vi ricorda qualcosa, non sbagliate. Si tratta proprio del Quaalude, la pillola incriminata dei presunti stupri di Bill Cosby. Dalla deposizione del 24 marzo 1977 di Samantha davanti al Gran giurì della Contea di Los Angeles, di fronte alle domande del procuratore distrettuale Roger J. Gunson: Il signor Polanski le aveva mai espresso il desiderio di fotografarla? «Sì». E quando? «Il 13 febbraio». Che cosa le disse per indicarle il suo interesse a fotografarla? «Mi mostrò un numero di Vogue che aveva fatto e mi chiese: “Ti piacerebbe che ti facessi delle fotografie?”. E io: “Sì”». Lei rispose «Sì»? «Ah-ah». Risponda sì o no, per favore. «Sì». Il 20 febbraio lei è uscita con il signor Polanski per farsi fotografare? «Sì». [...] Il regista e Samantha si ritrovano per nuove fotografie 50 il 10 marzo. Il regista, dopo averla portata in una casa, l’accompagna nella villa dell’amico Jack Nicholson. Il signor Polanski le ha mai offerto qualcosa da bere? «Sì. Credo di aver detto che avevo sete. Lui è andato in cucina, e c’era questo frigorifero pieno di succhi, vino, bibite e tutta questa roba. E quando è tornato aveva una bottiglia di champagne». [...] Nella villa è presente anche una donna, che Samantha sostiene di non conoscere. Bevono insieme dello champagne. Il regista scatta fotografie a Samantha nel patio, vicino alla piscina. L’altra donna, a quel punto, se ne va. Che lei sappia, c’erano altre persone nella villa di Nicholson dopo che lei se ne andò? «No». Dopo le foto nella zona del patio, che è successo? «Rientrammo, e lui si mise di nuovo ad armeggiare con la macchina fotografica. Penso per cambiare gli obiettivi, o qualcosa del genere. Poi riprendemmo a fare fotografie sotto il patio». Indossava gli stessi abiti che aveva quando è entrata nella villa, jeans e maglietta? «No». Come? «No». Si era cambiata? «No. Avevo tolto la maglietta e posavo davanti a una lampada». La maglietta se l’era tolta da sola o gliel’aveva tolta Polanski? «Da sola». Era una sua richiesta o l’ha fatto di sua volontà? «Era una sua richiesta». […] 51 Cosa le diceva di fare? «Diceva cose tipo “Prendi il bicchiere di champagne così”, “Guardami in questo modo”…». Dopo queste foto che è successo? «Mi ha fatto vedere la Jacuzzi di Jack Nicholson». […] Che cosa è successo dopo che le disse che voleva fotografarla nella Jacuzzi? «Abbiamo telefonato a mia madre. […] Lui le ha detto che saremmo tornati a casa un po’ più tardi […] Prima eravamo entrati in bagno e lui aveva tirato fuori una piccola cosa gialla, una specie di scatoletta. […] Dentro c’era una pillola divisa in tre parti. Mi ha detto: “Questo è quaalude (un barbiturico, ndr)?”. E io: “Sì”. E lui: “Pensi che sarei capace di guidare se lo prendo?”. E io: “Non lo so”. E lui: “Devo prenderlo?”. E io: “Non lo so”. E lui: “Scommetto che lo farò”, e ha preso la pasticca. Poi mi ha detto: “Ne vuoi un pezzetto?”. E io: “No”. Poi ho detto “Okay”, perché… Non so perché» […] Come ha preso la sua parte di Quaalude? «L’ho mandata giù con un sorso di champagne». […] Che cosa è successo dopo che ha preso la pasticca? «Sono andata in cucina […] Mi resi conto che avevo bevuto e mi arrabbiai con me stessa. E cominciai a mangiare. […] Dopo aver mangiato cosa ha fatto? «Lui mi ha chiamata e io sono entrata nella Jacuzzi». Che cosa indossava quando è entrata nella Jacuzzi? «Le mutandine, ma lui mi disse di togliermele». […] Che è successo nella Jacuzzi? «Mi ha fatto delle foto». In quel momento aveva un bicchiere in mano? C’era champagne nel bicchiere? «Sì». Ha bevuto champagne mentre era nella Jacuzzi? «Non so». Ricorda, più o meno, quante foto le ha fatto il signor Polanski mentre era nella Jacuzzi? 52 «Non molte». Le diceva come mettersi in posa mentre le scattava le fotografie? «No». Che cosa faceva nella Jacuzzi? «Stavo in piedi e lo guardavo. Ha fatto poche foto. Diceva che non c’era abbastanza luce». Che ha fatto lui, dopo? «È entrato nella Jacuzzi». Quando è uscito dalla Jacuzzi indossava qualcosa? «No». E prima di entrarci? «Sì» Che cosa indossava? «I pantaloni». […] Che cosa ha fatto il signor Polanski quando è entrato nella Jacuzzi? «È andato nella parte più profonda». E lei? «Stavo dal lato opposto». Poi che cosa è successo? «Mi diceva: “Vieni qui”. E io: “No, no, voglio uscire”. Poi gli ho detto che avevo l’asma e non potevo… Dovevo uscire. […] E lui: “Vieni un attimo”. Alla fine mi sono avvicinata. C’era l’idromassaggio, e lui mi ha detto: “Non si sta meglio qui?”. E mi teneva, perché l’acqua era quasi sopra la mia testa. Poi gli ho detto: “Meglio uscire”. E sono uscita». Che intende quando dice che la teneva? «Le sue mani erano intorno ai miei fianchi, più o meno qui…». Intorno alla vita? «Sì. Poi ha cominciato a toccarmi e sono uscita». Ha l’asma? «No». Ha mai avuto l’asma? «No». 53 E allora perché gli disse che aveva l’asma? «Volevo uscire». […] Che cosa ha fatto quando è uscita dalla Jacuzzi? «Ho preso un telo da bagno». E poi? «Lui mi ha detto: “Vieni qui”. E io. “No, fa troppo freddo”. E lui: “No, fa caldo”. Ho messo un piede nell’acqua. E gli ho detto: “No, non voglio entrare”. […] Sono andata in bagno e ho cominciato ad asciugarmi». Vedeva il signor Polanski in quel momento? «Sì, era entrato in bagno». Poi che è successo? «Mi ha chiesto se andava tutto bene, se il mio asma era grave». Che gli hai risposto? «Che dovevo andare a casa perché avevo bisogno di prendere le mie medicine». E lui che ha detto? «“Bene, ti ci porto tra poco”». Che cosa ha fatto lei? «Gli ho detto: “No, devo andare a casa subito”». E lui? «Mi disse di andare a sdraiarmi nell’altra stanza». Com’era quella stanza? «Non sono sicura. Non c’era luce. Sembrava una camera da letto. C’era un letto, il divano, la tv». Che ha fatto quando le ha chiesto di andare nell’altra stanza? «Gli ho risposto: “No, è meglio che vada a casa”. Ma avevo paura. Perciò sono entrata e mi sono seduta sul divano». Di che cosa aveva paura? «Di lui». E così è andata nella stanza e si è seduta sul divano? «Sì». Che indossava in quel momento? «La biancheria intima e il telo da bagno». 54 Aveva rimesso le mutandine? «Sì, le avevo messe appena ero andata in bagno». Che cosa è successo quando si è seduta sul divano? «Mi si è seduto vicino e mi ha chiesto se era tutto ok». Che cosa gli rispose? «Gli risposi: “No”». E lui? «“Ok, starai meglio”. E io: “No, non starò meglio. Devo andare a casa”». Poi che è successo? «Si è avvicinato e mi ha baciato. Io gli dicevo: “No, allontanati”. Ma avevo paura di lui, perché in casa non c’era nessun altro. […] Poi si è sdraiato e mi ha messo la bocca sulla vagina». Che cosa faceva quando ti ha messo la bocca sulla vagina? «Faceva una cosa tipo leccarla, non saprei. Stavo per scoppiare a piangere. Volevo dirgli “No, basta”. Ma avevo paura». E lui diceva qualcosa? «Nulla che io ricordi». […] Per quanto tempo il signor Polanski ha tenuto la bocca sulla sua vagina? «Qualche minuto». E poi cos’è successo? «Ha cercato di avere un rapporto con me». Che intende per rapporto? «Ha messo il suo pene nella mia vagina». Che cosa gli ha detto mentre lo faceva? «Gli dicevo “basta, fermo”, ma non lottavo davvero, perché in casa non c’era nessuno e non sapevo dove andare». E lui diceva qualcosa? «Forse qualcosa l’ha detta, ma non lo stavo ascoltando, non ricordo». In quel momento aveva le mutandine? «No». 55 Come mai non le aveva? «Me le aveva tolte lui». Quando? «Me le aveva tolte mentre mi baciava». Lui le chiese quando le doveva arrivare il ciclo? «Sì». Quando glielo chiese? «Mentre mi penetrava». E le chiese se prendeva la pillola? «Sì». Quando? «Nello stesso momento». Che cosa le disse? «Mi ha chiesto: “Prendi la pillola?”. E io: “No”. E poi: “Quando hai avuto l’ultimo ciclo?” E io: “Non ricordo, una o due settimane fa. Non ne sono sicura”». E lui che ha detto? «“Ma dai, devi ricordarlo”. Gli ho ripetuto che non ricordavo». Le ha detto qualcosa dopo? «Sì, mi ha detto: “Vuoi che ti prendo da dietro?” E io: “No”». Ha detto qualcos’altro? «No». Quanto a lungo ha tenuto il pene nella sua vagina? «Non ricordo per quanto, ma non è stato a lungo». Aveva avuto rapporti sessuali prima del 10 marzo? «Sì». Quante volte, più o meno? «Due». Come fa a dire che il signor Polanski aveva il pene nella sua vagina? «Lo sentivo». Cosa è successo quando lui ha detto “Vuoi che ti prenda da dietro?”… L’ha davvero presa da dietro? «Sì. […] Quando gli ho detto che non prendevo la pillola, mi ha risposto: “Oh, allora non ti verrò dentro”. Poi mi ha tirato 56 su le gambe ed è entrato nel mio ano. Che cosa intende quando dice che le è entrato nell’ano? «Mi ha messo il pene nel sedere». Lui ha detto qualcosa in quel momento? «No». Ha provato a fare resistenza? «Un po’, ma non tanto, perché… (pausa) Perché? «Perché avevo paura di lui». Quando si è accorta che nella casa c’era qualcun altro? «Una donna ha bussato alla porta dicendo: “Roman, sei qui?”. E lui: “Sì, esco dalla Jacuzzi e mi vesto”». E poi che è successo? «È andato alla porta, ha aperto, ha parlato con lei. Io mi sono rimessa la biancheria e mi sono avviata verso la porta». E poi? «Lui mi ha presa di nuovo, sempre da dietro. Ha cominciato a penetrarmi e poi si è fermato». Sa cos’è un orgasmo? «Sì». Sa se lui ha avuto un orgasmo? «Sì». Come fa a dirlo? «Perché potevo quasi sentirlo, ed era sulla mia biancheria. Era sulla mia biancheria. Era sul mio sedere, sulla mia roba». Crede che abbia eiaculato nel suo ano? «Sì». Che vuol dire orgasmo? «Che lo sperma esce fuori». Sa cos’è lo sperma? «Sì». Ha visto o sentito dello sperma? 57 «Sì, l’ho sentito». Dove l’ha sentito? «Sul mio sedere e sulla mia biancheria». Quando ha sentito bussare alla porta non ha detto niente? «Avevo paura di lui. Non sapevo che dire». […] Che cosa fece quando lui la lasciò andare? «Sono andata in bagno, mi sono rimessa i vestiti, mi sono sistemata i capelli. Lui mi ha detto: Aspettami. Ma io non l’ho fatto. Sono uscita. Quella donna era seduta e parlava al telefono. L’ho salutata, sono uscita, e mi sono seduta in macchina. […] Ho cominciato a piangere. Dopo cinque minuti lui è uscito e mi ha detto: sarò da te tra un paio di minuti. Devo parlare con quella donna». E io, Oh, okay. […] Poi è entrato in macchina e siamo andati a casa. (deposizione riportata da Roberta Mercuri su gazzetta. it e ripresa dal sito thesmokinggun.com ) Se ne potrebbe quasi dedurre, stante ciò che ha raccontato Samantha, che quello fu l’errore di un uomo in balìa del destino. Un uomo dalla personalità enigmatica. Nel 1979 Roman Polanski parlò infatti con lo scrittore Martin Amis del caso di Samantha. Ciò che gli disse è riportato nel libro Visiting Mrs Nabokov. Michael Deacon, nel suo blog sul The Telegraph, all’indomani dell’arresto del regista nel settembre 2009, ha ripreso la parte saliente delle frasi di Polanski in quel colloquio: «Neanche se avessi ucciso qualcuno sarei stato così interessante per la stampa. Ma una storia di scopate e di ragazzine, voglio dire...I giudici vogliono scoparsi le ragazzine. La giuria vuole scoparsi le ragazzine. Tutti vogliono farlo!». La furia di Mike Tyson Sabato 27 luglio 1991 l’Ansa diffonde una clamorosa 58 notizia che arriva da Indianapolis. La procura locale ha ufficialmente aperto un’inchiesta nei confronti di Mike Tyson, accusato da una modella di averla violentata: …La presunta vittima, che ha chiesto l’ anonimato, ha detto alla polizia che Tyson, dopo averla portata in una limousine al Canterbury Hotel di Indianapolis, l’ ha costretta a salire nel suo appartamento e a subire un rapporto sessuale violento. La prima ricostruzione è surreale, ma i giornali americani ribattezzano subito l’intera storia come quella della “Bella e la Bestia”. Tyson, ai microfoni della CNN nega ogni addebito, ritenendosi indignato per l’accusa patita. Ma il suo passato, la sua vita smodata, il suo sregolato modo di passare le notti non giocano certo dalla sua parte. Tutto sarebbe successo il 19 luglio, al termine del concorso americano di Miss America Nera. La ragazza presenta querela piangendo il giorno successivo al tenente Tim Horty del commissariato di Washington, accompagnata da un medico che conferma lo stupro. Lì per lì c’è chi la giudica come una delle solite faccende che Tyson chiude risarcendo il malcapitato di turno: chi per percosse, chi per insulti, chi per averla palpeggiata. Ma qui le cose vanno diversamente. L’11 febbraio 1990 l’epopea di Tyson nella boxe è sostanzialmente finita in un incontro incredibile: Iron Mike, apparso assolutamente sottotono, è andato giù alla decima ripresa con James “Buster” Douglas. Nessuno ci credeva: lo sfidante che gli ha portato via il titolo era dato 42 a 1. Ci sono state polemiche e sospetti, come da sempre accade nel pugilato. Poi il campione è sembrato riprendersi. Ha vinto un match e si stava allenando per giocarsela con Evander Holyfield: l’incontro è previsto per 59 l’8 novembre dello stesso anno. Ancora non lo sa, ma dovrà rinviarlo di molto, molto tempo. L’inchiesta per stupro prosegue infatti a ritmo serrato. Poco prima è stato rinviato a giudizio il nipote del senatore Ted Kennedy per un reato identico. E l’America puritana insorge e accusa prima ancora che inizi il processo del pugile: Tyson ha commesso un “date rape”, lo stupro che segue all’appuntamento, uno dei crimini più in voga del momento nei college e tra le giovani miss. Presto la situazione del pugile si complica. Dietro la forte pressione dell’opinione pubblica, Mike Tyson viene rinviato a giudizio per il febbraio successivo. È l’inizio della fine. Suo e della boxe, su cui c’è grande subbuglio: tre pugili avevano perso la vita nel 1991, uno, Michael Watson, è rimasto menomato subendo ben tre operazioni al cervello. Il CIO è intenzionato a togliere il pugilato dalle Olimpiadi, si cerca di imporre il caschetto anche ai professionisti. A questa pubblicità negativa contribuisce il caso Tyson, per il quale l’accusa chiede 65 anni di carcere. Il 27 gennaio del 1992 comincia il processo. A New York sono presenti centodieci reporter provenienti da tutto il mondo. Per la difesa Don King, il suo storico manager, ha scelto l’avvocato Vincent Fuller, uno decisamente in gamba, che ha salvato lo stesso Don King dall’accusa di evasione fiscale. I pronostici fanno ben pensare al team di Iron Mike. Da poco si è infatti concluso a favore degli imputati eccellenti William Kennedy Smith e il giudice Clearence il processo per due stupri commessi in Florida: il caso di Kennedy in 60 particolare ha suscitato grosso scalpore. Tutta l’America morbosa, quella che ora si appresta a fare la medesima cosa con Tyson, ha guardato in tv il dibattimento. Il tribunale viene mandato in mondovisione e assume, come in tutti i casi americani, l’aspetto di un set hollywoodiano. Intanto l’accusatrice viene allo scoperto. Si chiama Desiree Washington. In aula due modelle, compagne di Desiree, l’accusano di essere una “gold digger”, una cacciatrice d’oro, in cerca di notorietà e di denari facili. Sotto giuramento raccontano che, poco prima dell’episodio incriminato, Desiree scambiò con loro vivaci impressioni sul pugile statunitense, dettasi certa di poter mettere le mani sull’immenso patrimonio finanziario del ragazzo di Brooklyn. La prima testimone si chiama Madelyn Wittington, ha 20 anni, e racconta: «Eravamo nel camerino e Desiree mi disse che Tyson le aveva chiesto di uscire. Quando le chiesi se si fidasse mi rispose testualmente: perché no? Quello è stupido ed ha un casino di soldi. Guarda tutto quello che gli ha portato via la moglie, Robin Givens, dopo soli otto mesi di matrimonio». Non appena la dichiarazione diviene di dominio pubblico, gli allibratori si scatenano e danno Tyson assolto per cinque a uno. Non solo. Nello stesso giorno, il 7 di febbraio, un’altra modella, Cecilia Alexander, 22 anni, conferma: «C’ero anch’io nel camerino. Desiree disse che Tyson era un ignorante che non sapeva nemmeno parlare. Ma disse anche che accanto a lei non ne aveva bisogno. Con tutti quei soldi lui avrebbe pensato a combattere facendo i miliardi e lei a fare le chiacchiere». Quando il procuratore Harrison cerca di cogliere le testimoni in castagna facendole contraddire, e in parte riuscendoci, Tyson si è però già conquistato parte 61 dell’opinione pubblica. Almeno quella internazionale, poco propensa a credere nell’assoluta ingenuità della vittima. La terza testimone della difesa, Aleta Anderson, 19 anni, sembra chiudere i conti quando afferma che il giorno successivo al presunto stupro Desiree si comportò come tutti gli altri giorni, guardando per strada gli uomini col solito interesse. Il pubblico in aula fa scrosciare gli applausi. Tyson impassibile, ascolta le testimonianze una dietro l’altra. Tonya Taylor, altra modella del gruppo, sta con lui: «È anche un gentiluomo. È vero, a me ha chiesto un bacio o del sesso. “Del sesso sarebbe meglio” mi ha detto “ma va bene anche un bacio”. Lo ha fatto scherzando e sorridendo e quando ci siamo lasciati mi ha stretto affettuosamente. Niente di scabroso». Harrison si gioca le sue carte sentendo altre ragazze: chi si lamenta di essere stata palpata sul sedere, chi afferma che Tyson cambierebbe in fretta umore e personalità. Intanto la faccenda si fa più chiara: Desiree ha accettato l’invito di Tyson nella sua stanza, pur avendogli negato il consenso ad un rapporto sessuale. Gli ha fatto compagnia in camera, poi è andata in bagno e quando ne è uscita si è trovata davanti il campione in mutande. Nemmeno allora, però, si aspettava che le saltasse addosso. I fan di Iron Mike non ci stanno più e incendiano l’albergo dove sono ospitati i membri della giuria, all’urlo «Proscioglietelo! Proscioglietelo!». Si scontrano anche con un gruppo di persone che si definisce “Uomini contro lo stupro”. È una vera e propria bagarre che infiamma l’America. Un giurato si ritira, affermando di non poter più giudicare con serenità. Harrison prosegue nella sua tesi: «Un no è un no, anche quando la ragazza ti segue nella stanza e ti vede in mutande senza scappare». 62 Tyson rilascia una testimonianza cruda, rispondendo con stirati sorrisi alle domande della Procura. «Lei era molto disponibile - dichiara in aula- altroché. Quando le telefonai per uscire le dissi di mettersi qualcosa di comodo. Una gonna ampia, per esempio, che si sfila molto prima dei jeans. Così potevamo fare l’amore in macchina senza troppe complicazioni». La sua versione è confermata dal cantante Johnny Gills, che era con lui al momento della telefonata: «Fu una telefonata esplicita e lei mi sembrò d’accordo sulla proposta di Tyson». Il pugile non era riuscito ad avere rapporti in auto con Desiree, ma l’aveva convinta ad andare con lui in albergo, nella sua stanza. «Mi ha seguito - ribadisce - sapeva bene quello che avevo in mente di fare. E non ci fu violenza. Fuori dalla porta stazionava la mia guardia del corpo». Quando il procuratore Harrison fa notare alcune contraddizioni, come il colore dei calzoni diverso, il fatto che le aveva inizialmente offerto una cena e che poi le offrì solo del sesso, lui non si scompone: «Ci sono tante ragazze che mi corrono dietro. Mi sarò confuso». La deposizione di Desiree Washington è piuttosto convincente. La ragazza riesce a tenere testa alle imbarazzanti domande dell’avvocato Vincent Fuller, rispondendo colpo su colpo nonostante la sua giovane età. Voce flebile, da ragazzina, ma dotata di un carattere molto forte, non cede nemmeno di fronte al secondo interrogatorio. È istruita, ha vissuto per diciotto anni nel Rhode Island, ha vinto quattro borse di studio per andare al college. Passa le domeniche ad insegnare in una scuola religiosa e prima del fattaccio non è mai stata protagonista di vicende scabrose. Un curriculum insomma che le dà molti punti 63 di vantaggio su Tyson. Nell’aula 4 del tribunale di Indianapolis, Fuller sostiene che Desiree ci sarebbe stata per poi ricattare il pugile e portargli via un sacco di soldi. Lei smentisce categoricamente: «Ero nel mio letto il 18 luglio alla una di notte. Quando Tyson mi ha chiamata al telefono ero in pigiama e non avevo voglia di uscire. Ci sono andata soltanto perché mi ero fatta convincere dalle mie amiche. Sono scesa e ho trovato in macchina l’accusato. Era una limousine color oro. Lui mi ha invitato a salire. Poi mi ha subito abbracciata, ha tentato di baciarmi. Aveva un alito che puzzava tantissimo. Ha voluto che lo accompagnassi in albergo perché aveva dimenticato qualcosa. Lo aspettai, fuori dalla sua stanza, la 606, fino a quando non mi invitò ad entrare per un attimo. Una volta dentro lui accese la televisione e iniziò a farmi delle domande. Gli risposi che non ero come le altre donne. Poi andai in bagno. Quando uscii lo vidi in mutande e mi spaventai. Mi cacciò la lingua in bocca saltandomi addosso. Cercai di allontanarmi, di dimenarmi. Ma sembrava di picchiare contro un muro. Lui continuava a dirmi di stare ferma, di non resistere. Mi tolse la camicetta, il reggiseno, poi mi infilò due dita nella vagina. Lo supplicai di fermarsi, dissi che non avevo bisogno di avere un figlio, che dovevo andare all’Università. Lui scherzò sul figlio che avremmo potuto avere insieme. E mi violentò. Urlavo che mi faceva male, ma lui non si è fermato. È stato terribile». La testimonianza, un po’ commossa, davanti ai giurati, quattro donne e otto uomini, di una ragazza di 50 chili tutta casa e chiesa contro un energumeno campione di ferocia e con un passato nelle patrie galere, fa il suo effetto. Questi, che potrebbero sembrare meri dettagli, inutili in un processo, costituiscono in realtà l’ossatura dei processi americani, in cui tutto si trasforma in show e dove l’essere convincenti risulta più utile di una prova. Fuller fa notare alla giovane che aspettò due giorni per denunciare il suo assistito. 64 «Avevo paura, pensavo di non essere creduta». E Desiree fa effetto: bella, giovane ingenua e colpita nel fiore delle sue speranze da un uomo violento. Per di più un nero della periferia di Brooklyn, già noto alle forze dell’ordine per i suoi vizi. Eppure le prove di questo presunto stupro stanno tutte nelle parole della deposizione della stessa Washington: possibile che una ragazza scenda dal letto alla una di notte, si cambi, salga in macchina di un uomo (uno qualsiasi, il fatto che sia Tyson rende ancora più stramba la situazione), veda che questo è ubriaco e tenta di baciarla, nonostante questo salga in camera sua e vada in bagno fino a trovarselo in mutande all’uscita; possibile tutto questo senza un filo di malizia? Perché andò in bagno se aveva paura? Possibile che non abbia gridato? Perché mai una ragazza dovrebbe alzarsi dal letto alla una di notte e seguire una persona della quale ha paura convinta di andare ad un ristorante? All’una di notte? Possibile che veramente avesse fatto tutto questo senza avere intenzione di starci? Sono le domande che infiammano l’opinione pubblica americana. Ma Desiree, vincitrice di quattro borse di studio, convince anche il giudice Patricia Gifford a rifiutare tre testimoni a sorpresa a favore del pugile, una in particolare: una ragazza di colore che sosteneva di aver visto la coppia avvinghiata in macchina in atteggiamenti inequivocabili. Il giudice accetta al contrario la registrazione della telefonata alla polizia della ragazza subito dopo la presunta violenza carnale. Quando poi a testimoniare arriva la madre della giovane, il dramma raggiunge l’apice: «La mia ragazza che avevo mandato al concorso di bellezza era diversa. Pallida in volto - spiega la madre in lacrime - l’ho abbracciata e continuava a tremare, a piangere. Era un automa, aveva un sorriso falso e il trucco nascondeva il trucco degli occhi. Ridatemi mia figlia, la rivoglio!» 65 Arriva infine Stacy Murphy, la prima delle altre miss a vedere Desiree il giorno dopo l’aggressione: «Sembrava una zombie. Mi disse che Tyson l’aveva stuprata e le consigliai di denunciarlo subito». Il processo, come sempre accade in America, sfocia decisamente nel morboso. Accusa e difesa si ribattono colpo su colpo le dimensioni del pene di Tyson, le caratteristiche delle mutande della vittima, le parolacce, il linguaggio usato dai due. Fuller sostiene che Tyson, alla ragazza, disse: «ti voglio scopare»; l’accusa risponde che disse invece soltanto «ti voglio». Argomenti che da fuori possono sembrare improbabili, come quando Desiree dice di essere entrata nella 606 solo perché Tyson era l’idolo di papà. Su ciò che successe nella stanza c’è grande divergenza, un po’ su tutto: «La ragazza indossava i calzoncini del pigiama perché non aveva evidentemente intenzione di avere rapporti, altrimenti avrebbe messo gonna e slip» sostiene il procuratore. Fuller risponde: «Perché la ragazza andò in bagno gettando l’assorbente, come da lei stessa dichiarata, senza cambiarlo con uno nuovo? Perché se non per prepararsi ad un rapporto sessuale con il mio assistito?» Tyson viene infine ritenuto colpevole. E si sprecano le interviste, i retroscena, i servizi fotografici alla miss di colore. Il giorno successivo il pugile prende l’aereo per Cleveland, in attesa di sapere a quanto sarà condannato. Si ritira nella sua villa di tremila metri quadri dell’Ohio tenendo per tutto il tempo del viaggio una cuffia del walkman sulle orecchie per non sentire le domande di giornalisti e curiosi. Deve affrontare l’ennesima grana: tra spese legali, spese folli, regalie varie è rimasto al verde. Nella sua carriera pugilistica pare abbia guadagnato circa 60 milioni di dollari. Con una borsa sempre in 66 crescendo dai primi 300 dollari dall’esordio del 1985. Nel 1989 la rivista Forbes lo aveva indicato come il più ricco atleta del mondo, con guadagni pari a 28,6 milioni di dollari. Ora, dopo tutto quello che è successo e che ha combinato, è rimasto con meno di quindici milioni di dollari. Ha riempito la casa di auto, ciondoli d’oro, oggetti inutili di valore immenso. Sembra che il giorno del presunto stupro avesse in tasca circa 30.000 dollari in contanti, quanto, per ironia della sorte, deve versare alle casse erariali di Indianapolis per pagarsi la cauzione. Allo studio legale William & Connoly deve due milioni di dollari. Cinquemila dollari al mese vanno alle madri dei suoi due figli. Il suo mago personale John Haplin si prende una parcella di 40.000 dollari per ogni servizio. Senza contare il vecchio Don King, che dalla macchina da soldi ha sempre ricavato un terzo dei guadagni. Gli danno 10 anni di prigione. Sta dentro 1095 giorni, dal 1992 al 1995. Al suo rientro, la sua stella sul ring non brillerà più. La serata calda di Cristiano Ronaldo Accuse di stupro hanno colpito anche diverse star del mondo del calcio. Molte di queste si sono poi rivelate false. Fu il caso, ad esempio, di Patrick Kluivert, attaccante della nazionale olandese, Ajax, Milan e Barcellona. A metterlo nei guai fu una giovane conterranea nel 1997, Marielle Boon. Disse di averlo incontrato insieme a tre amici in una discoteca di Amsterdam e di averli accompagnati a casa del calciatore. Nei giorni successivi li denunciò tutti per violenza sessuale. Un anno più tardi i giudici ritennero infondata la querela, sostenendo che non era stato affatto costretta ad avere rapporti sessuali. Dovette rimborsare il calciatore con 42mila fiorini per le spese 67 legali, l’equivalente all’epoca di 35 milioni di lire. Ci provò allora in sede civile, ma nell’aprile del 2000 perse anche quel ricorso. Ma certo lo scandalo più grande, se avesse avuto un seguito, si sarebbe potuto rivelare l’episodio che vide coinvolto Cristiano Ronaldo. Allora aveva 20 anni ed era già uno dei più promettenti fuoriclasse del Manchester United, ma ancora lontano dall’essere il numero uno (o due, fate voi) al mondo. Dal Corriere della Sera del 20 ottobre 2005: Scandalo Manchester Cristiano Ronaldo arrestato per stupro LONDRA - (f.m.r.) Ci risiamo. Un giocatore della Premier League è accusato di stupro. Cristiano Ronaldo martedì sera ha giocato in Champions League a Manchester, ieri ha preso la macchina e con il suo avvocato è andato a un appuntamento già programmato con Scotland Yard che voleva ascoltare la sua versione dei fatti. Il portoghese è stato trattenuto in stato di fermo, in attesa di chiarire la propria posizione. Cristiano Ronaldo, 20 anni, si è volontariamente presentato di fronte agli inquirenti che lo hanno convocato insieme a un amico trentenne, che è stato rilasciato. Il calciatore no. Ad accusarlo due ragazze che hanno raccontato di essere state abbordate in un club del centro di Londra la sera del 1° ottobre (il Manchester United aveva vinto 3-1 con il Fulham nella capitale), di aver acconsentito a proseguire la serata in una suite da 1.500 euro dell’ hotel Sanderson, vicino a Oxford Street, ma di essere state poi violentate da Ronaldo e dal suo amico. Gli agenti dell’ Operazione Saffiro, la squadra dedicata alle violenze sessuali nella capitale inglese, hanno sigillato la stanza incriminata alla ricerca di prove, e ieri hanno interrogato e trattenuto il portoghese, che non è stato però ancora formalmente incriminato. Quello di Ronaldo è 68 l’ottavo caso di stupro che ha visto coinvolti giocatori dei campionati inglesi negli ultimi due anni. Ronaldo disse di essere vittima di una montatura. E, a dire il vero, fin da subito gli inquirenti definirono le sue dichiarazioni “corrette”. Passò un mese e mezzo e infatti Scotland Yard archiviò le accuse. Peggio era andata all’attaccante olandese Robin Van Persie: sempre nel 2005 anche lui patì le medesime accuse, da parte di una modella nigeriana, Sandra Krijgsman, accuse che poi si rivelarono infondate. Tuttavia passò due settimane in un carcere olandese in attesa che i fatti fossero chiariti: trattavasi di rapporto consensuale. D’altra parte, quando di mezzo c’è una star ricca e famosa, il rischio di incappare in vicende del genere è sempre molto alto. Il campione di basket Kobe Bryant e la giovane cameriera Kobe Bryant, cresciuto cestisticamente in Italia, è il terzo tiratore più prolifico dell’NBA, alle spalle del mitico Kareem Abdul-Jabbar e di Karl Malone. Lo scandalo lo colpisce nel pieno della carriera, il 4 luglio 2003: l’accusa è di aver stuprato una ragazza di 19 anni dipendente dell’Hotel Cordillera di Edwards, Colorado. Il cestista ammette il rapporto, ma dice che è stato consensuale. Uscito grazie ad una cauzione di 25mila dollari, la sua immagine ne risente subito: Nutella, Adidas e altri marchi rescindono i loro contratti di sponsorizzazione. Ma la vicenda appare complessa da subito, quando la ragazza dice di averlo baciato e di avergli successivamente e invano chiesto di smettere. La difesa di Kobe gioca in attacco. Scrive Riccardo Romani sul Corriere della Sera l’11 ottobre 2003: 69 La difesa di Kobe Bryant attacca e gioca pesante «In tre giorni la ragazza ebbe rapporti con più uomini». L’avvocato della stella Nba ribalta la situazione e mette in cattiva luce l’ impiegata dell’ hotel che ha sporto denuncia EAGLE (Colorado) - Tutto accade per un motivo: il 30 giugno scorso, alla 19enne biondina del Colorado che vuole spedire all’ergastolo Kobe Bryant con l’accusa di stupro, si fermò l’automobile. Uno stupido inconveniente. La ragazza dovette cambiare il turno di lavoro come receptionist al Cordillera Hotel e si presentò in ritardo; solo così alle 22 di quella giornata poté registrare il signor Rodriguez nella stanza numero 35, la stessa dove circa un’ora dopo sostiene di essere stata violentata. Javier Rodriguez è il nome in codice per Kobe Bean Bryant. Dopo le prime cinque ore di udienza preliminare presso il piccolo tribunale di Eagle intasato di vecchiette, algide studentesse di legge ammaliate dal campione e reporter avidi di dettagli truculenti, è evidente che quanto accaduto nella stanza numero 35, non ha più troppa importanza. A decidere se l’asso dei Lakers meriti la galera o meno saranno altri fattori: la reputazione da ragazzo d’oro della Nba, la capacità di confondere la scena da parte del team di favolosi avvocati al proprio servizio, i mass-media, la tenacia degli spauriti legali dell’accusa trovatisi di colpo dentro ad un gioco più grande di loro; ed infine la credibilità di questa biondina procace il cui passato (ma anche la sua versione dei fatti), presenterebbe qualche buco nero. Il tutto mescolato in un’atroce salsa di mutandine macchiate di sangue, erezioni, cavilli legali, immagini di organi genitali ingrandite a dismisura e bollori malcontrollati. A gestire il traffico in questo caotico crocevia di emozioni e informazioni, il giudice Frederick Gannett, un placido 50enne 70 con un passato da sceriffo di montagna che pare divertirsi un sacco («Mai vista tanta gente per un mio caso...»). A lui tocca stabilire se le prove presentate meritano un processo. Le cose si erano messe al brutto per Kobe: l’accusa ha utilizzato come testimone Doug Winters, 200 chili di detective che sembra uscito da un film dei fratelli Cohen. È lui che ha raccolto la testimonianza della vittima. L’uomo racconta: la ragazza, dopo averlo registrato, fa amicizia con Kobe, di cui era una fan, fino ad accettare un invito in camera di lui e baciarlo. Con la scusa di un tatuaggio sulla schiena da mostrare, finisce in trappola. Kobe le stringe il collo con violenza immobilizzandola ed abusando di lei, ignorando le suppliche, e minacciandola di non dire niente a nessuno. Poi le chiede di baciarlo sui genitali prima di lasciarla andare. Lo zelante Winters dice di aver visto le mutandine di lei, macchiate di sangue così come la magliettina di lui. Alcune foto transitano davanti agli occhi del giudice. La sala del tribunale è raggelata. Kobe, abito blu impeccabile e catenona di diamanti con crocifisso, non mostra alcuna emozione. E qui entra in scena la difesa. Pamela Mackey, anni 46, fa paura solo il nome dello studio per cui lavora: Haddon, Morgan, Mueller, Jordan, Mackey and Foreman. È un asso, una donna capace di feroce accanimento: attacca subito il detective Winter: «La ragazza è stata quasi strozzata da Kobe: lei ha visto segni sul collo di lei?». No, nessuno. Il tatuaggio? Sulla schiena o sulla caviglia? Non sa, non si capisce. Poi il colpo di scena della Mackey, dopo aver detto per sei volte il nome della vittima (contravvenendo l’ordine del giudice): la tesi per cui le escoriazioni vaginali siano frutto di tre rapporti, con tre uomini diversi in tre giorni. La Mackey ha in mano i testimoni del caso? Possibile. Il giudice Gannett interrompe le ostilità e rimanda tutto a mercoledì. Kobe Bryant respira. Forse non scamperà al processo, ma l’ obiettivo era di far sapere al mondo che chi 71 l’accusa non è senza macchia. E di seminare dubbi anche tra chi lo vedeva già dietro le sbarre. La legge in Colorado è molto severa sugli stupri. Ma, contrariamente alla regola per la quale le presunte vittime sono tutelate e si vieta la pubblicazione sui loro comportamenti sessuali, stavolta i giudici autorizzano la difesa a usarli. Il tempo intanto passa, in attesa che venga fissata la data del processo. E il 20 aprile 2004 si fa viva la madre della ragazza: «Sono orgogliosa di mia figlia – dice apparendo per la prima volta in pubblico insieme al marito al convegno annuale di Denver che riunisce le vittime del crimine - Mia figlia mi ha insegnato molto sul significato del coraggio». Ma il 27 agosto dello stesso anno le accuse vengono infine ritirate. Come scrive Repubblica: Caso Bryant, archiviate le accuse. Si chiude il processo per stupro EAGLE (Colorado) - Il caso di Kobe Bryant, il campione Nba accusato di stupro da una ragazza, è chiuso. Il giudice del Colorado che per oltre un anno si è occupato della vicenda ha annullato le accuse contro il giocatore dei Los Angeles Lakers su richiesta dei procuratori dell’accusa, che si sono arresi di fronte all’impossibilità di vincere il processo. Nessuna accusa criminale potrà essere di nuovo sollevata in questa vicenda contro Bryant. L’accordo è arrivato al termine di un’udienza drammatica a Eagle, in Colorado, di fronte al giudice Terry Ruckriegle. Tra i motivi che hanno spinto la procura ad alzare bandiera bianca ci sarebbe la consapevolezza che quasi tutti i giurati interrogati nella fase preliminare sembravano innocentisti. Per la procura è apparsa evidente 72 l’impossibilità di ottenere una condanna che poteva superare i 20 anni di reclusione sulla base di elementi che sancissero la colpevolezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Bryant era accusato da una ragazza di 20 anni, che sosteneva di essere stata violentata dal campione di basket in una camera d’albergo in Colorado il 30 giugno 2003. Il procuratore Mark Hurlbert ha spiegato che “la vittima a questo punto non si sente in grado di andare avanti” e di testimoniare contro Bryant. La ragazza ha fatto sapere, attraverso i suoi avvocati, di essere rimasta sconvolta dalla pubblicità del caso e di aver perso fiducia nella giustizia. Ma una serie di perizie hanno dimostrato che, con ogni probabilità, la giovane ha fatto sesso con un altro uomo poche ore dopo il presunto stupro di Bryant, nonostante abbia descritto come traumatico il rapporto con il giocatore. Questo dato ha minato più di ogni altro l’impianto accusatorio. Il processo a Bryant era pronto a entrare nel vivo la settimana prossima, dopo aver completato la scelta dei giurati. Il campione dell’Nba si è sempre difeso ammettendo di aver avuto un rapporto sessuale con la ragazza, ma descrivendolo come sesso tra consenzienti. I legali della ragazza hanno ora la possibilità di continuare a perseguire Bryant in sede civile, ma il crollo del processo penale sembra costituire un serio pregiudizio e le parti potrebbero decidere di chiudere tutta la vicenda con un accordo extragiudiziale. E in effetti la storia si concluderà proprio così: con un accordo stragiudiziale i cui contenuti non verranno resi noti. E con una lettera pubblica di scuse del campione di basket. 73 Come distruggere la star: l’annientamento di Michael Jackson È stata la più grande rockstar di tutti i tempi. Divo fin da bimbo, quando si esibiva coi fratelli. Ancora giovanissimo quando l’album Thriller scardinava ogni classifica della storia della musica. Ha venduto più di chiunque, oltre un miliardo di dischi. E in epoca digitale, ad un anno dalla sua morte, è diventato l’artista più scaricato di sempre. Il Guiness dei Primati ha sancito un altro suo record: donazioni in beneficenza per 400 milioni di dollari. A Neverland Ranch ospitava bambini malati, molti dei quali sono guariti grazie alle spese sostenute da lui. Ed è questa sua generosità ad averlo portato allo scandalo, questo suo essere la più fenomenale macchina da soldi dello spettacolo ad aver attratto avvoltoi e gentaglia senza il minimo scrupolo. Anche se la cosa sarà chiara definitivamente al mondo soltanto dopo la sua morte. Le prime accuse sono del 1993. A farle è certo Evan Chandler, dentista di Beverly Hills radiato dall’albo. Chandler cita Jackson in sede civile sostenendo che il cantante ha abusato sessualmente del figlio minorenne Jordan. Michael si professa innocente, ma intorno a lui nessuno sembra rendersi conto della gravità della vicenda. Il 25 gennaio 1994 a Chandler viene versata dall’assicurazione una cifra non precisata per volontà dei soci in affari del cantante, che temono di perdere le enormi somme dei tour di Michael qualora sia costretto a subire un processo. La scelta si rivela un boomerang: la Pepsi scioglie il contratto pubblicitario e il Dangerous Tour viene presto sospeso non appena i giornali scrivono che i soldi sono stati versati per far ritirare le accuse di molestie. Michael denuncia allora Chandler per estorsione e pretende che l’ex dentista scriva su un documento ufficiale, successivamente depositato in tribunale, che lui non ne ha 74 mai molestato il figlio. Che Chandler sia un mero ricattatore lo si saprà più avanti, quando si verrà a sapere delle telefonate nelle quali diceva al suo avvocato che voleva distruggere il cantante perché non gli aveva prestato del denaro per aprire un’attività. Ma non è sufficiente. Il 3 febbraio 2003 la Granada Television manda in onda il documentario del giornalista inglese Martin Bashir dal titolo Living with Michael Jackson, trasmesso negli Stati Uniti il 6 febbraio. Il giornalista è rimasto con la star per 8 mesi. E all’interno spiega di essere rimasto turbato dai rapporti di Michael coi bambini. Tra questi c’è Gavin Arvizo, 13 anni, ammalato di cancro e curato con successo proprio grazie alle cure pagate dal cantante. Nel video si racconta anche di una notte in cui Gavin dormì nel letto di Michael, mentre Michael si era coricato per terra. Niente di speciale, diceva la star: tanti altri lo avevano fatto. Solo che il documentario è stato sapientemente tagliato. Mancano i complimenti che lo stesso Bashir faceva a Michael per il rapporto instaurato coi figli e coi bambini disagiati. Come e perché Michael, la cui infanzia era stata terribile, avesse deciso di occuparsi di tanti di loro. Sarà così il cantante a diffondere un secondo documentario, Take Two, con le riprese del suo cameraman personale. Intanto, però, la famiglia Arvizo denuncia Michael per abusi sessuali su Gavin. Sarebbero avvenuti tra il 20 febbraio e il 12 marzo 2003, nientemeno che dopo la messa in onda negli Usa del documentario di Bashir, che metteva in croce la star proprio nel rapporto con il tredicenne. Possibile mai? Di fatto, viene anche spiccato un mandato di arresto. Portato al carcere di Santa Barbara County, Michael 75 appare in manette. Esce pagando una cauzione di 3 milioni di dollari. Per il mondo, specie chi, fuori dagli Stati Uniti, non conosce gli atti nel dettaglio, Michael è un pedofilo. E chissà quella volta con Jordan Chandler... Il meccanismo mediatico non lo si ferma più. Resta una domanda da porsi: chi sono gli Arvizo, che tanto avevano chiesto l’aiuto del cantante per aiutare il figlio a guarire dal cancro? Lo si scopre durante il processo del 2005, quando si raccontano una serie di tentativi di estorsione che la famiglia ha messo in atto con personaggi famosi, dal presentatore Jay Leno al comico Chris Tucker all’attore George Lopez. Vantano pure arresti per taccheggio. E alla madre di Gavin, Janet, arriverà anche una condanna nel febbraio 2006. Tutto era accaduto quando Gavin aveva rubato un abito nel grande magazzino JC Penney, West Covina, California. Le guardie fermarono la famiglia nel parcheggio. Star Arvizo, fratello di Gavin, giurò che le guardie avevano molestato la madre. E lei ammise: era stata molestata e pure picchiata. Al processo portò le foto dei lividi e la JC Corporation pagò 152mila dollari di danni. Solo che, più tardi, si scoprì che a pestare Janet era stato il marito. E, al processo per Michael, Star dichiara finalmente di aver mentito: nessuno molestò mai la madre. Non c’è bisogno di aggiungere molto sulle testimonianze: rinviato a giudizio per 14 capi d’accusa, il 13 giugno 2005 Michael Jackson è dichiarato non colpevole. Soltanto dopo la sua morte Jordan Chandler, ormai adulto, il primo che aveva allungato ombre di pedofilia sulla rockstar nel lontanissimo 1993, ammette: «Non avrei voluto distruggere l’immagine di Michael Jackson, ma mio padre mi fece raccontare un sacco di bugie. Ora non posso più 76 mentire e chissà se Michael potrà mai perdonarmi, lui non mi ha fatto mai nulla, è stato mio padre, lo ha fatto per uscire dalla povertà». Nel giugno 2013 il britannico Sunday People, dopo aver letto alcuni documenti dell’Fbi, definisce Michael una specie “predatore di bambini”. Secondo il racconto i suoi abusi sarebbero cominciati a Neverland nel 1989. E per nasconderli la rockstar avrebbe pagato con ben 35 milioni di dollari «due dozzine di teenager». L’Fbi sarebbe venuta a conoscenza della verità già nel 2002, quando iniziò ad indagare su Anthony Pellicano, il detective delle star coinvolto in diversi casi di spionaggio privato e assunto da Michael. Fu a lui che sequestrarono diversi fascicoli sul cantante che lo indicavano come pedofilo. Di certo tali documenti non furono mai trasmessi ai magistrati che lo processavano. Forse perché l’Fbi sapeva che di famiglie Chandler e Arvizo l’America è piena. Le notti di Dominique Strauss-Kahn Dominique Gaston André Strauss-Khan, per i francesi semplicemente DSK, è un economista membro del Partito Socialista d’Oltralpe che il primo novembre 2007 diventa direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Conosciuto in tutto il mondo, la sua candidatura è stata appoggiata da Nicolas Sarkozy con il consenso degli Stati Uniti, contro l’antagonista Josef Tosovsky, che invece era sostenuto da Vladimir Putin. Le donne, innegabilmente, gli piacciono molto: quando scoppia il primo scandalo è sposato in terze nozze con Anne Sinclair, giornalista e conduttrice televisiva di TF1. Un matrimonio che dura da sedici anni. Il 18 ottobre 2008 il Wall Street Journal lancia la notizia: un’inchiesta interna al FMI è stata aperta per 77 verificare se DSK abbia favorito all’interno della struttura una sua amante, Piroska Nagy, economista ungherese, ex dipendente poi passata alla Banca Europa per la Ricostruzione e lo Sviluppo. L’inchiesta deve accertare se l’abbia prima portata avanti e poi penalizzata una volta terminata la relazione. Scrive l’Ansa: «Che DSK sia un seduttore, lo si sa dai tempi in cui era ministro dell’economia e delle finanze francese alla fine degli anni novanta. E in Francia una storia come quella con la Piroska non avrebbe avuto probabilmente nessuna conseguenza. Ma nel caso dell’Fmi, la situazione è diversa, visti i precedenti, ed il fatto che la Piroska è sposata ad un famoso economista argentino, Mario Blejer». Una storia di tradimenti reciproci e un’accusa di abuso di potere. Cuore dell’indagine è anche la liquidazione della donna e l’ipotesi che sia stata spinta a lasciare il Fondo. Lui si difende: «In nessun momento ho abusato della mia posizione al Fondo monetario». E trova dalla sua il Paese. I politici ci vanno cauti coi commenti. E poi sanno che DSK è un possibile candidato all’Eliseo nelle elezioni del 2012. Anzi, i socialisti sentono puzza di complotto. Dice ad esempio Jean Christophe Cambadelis: «È un incidente di vita di una sbalorditiva banalità e ne vogliamo fare un grande scandalo politico. Credo che ci sia qualcosa di sospetto». E Jean-Marie Le Guen gli fa eco: «Potrebbe anche esserci una certa volontà di destabilizzare Strauss-Kahn». Anche il presidente della Bce Jean-Claude Trichet, è però ottimista: «Ne sono convinto, l’inchiesta dimostrerà che Dominique Strauss-Kahn non ha abusato del suo potere». Quanto alla moglie Anne, lo scandalo sessuale non fa crollare le sue certezze. E scrive nel suo blog: «Per quanto mi riguarda quell’avventura di una sola notte è alle nostre spalle. Abbiamo girato pagina, e posso dire che ci amiamo come il primo giorno». 78 Il freddo rapporto del team legale indipendente chiamato a decidere del caso ricostruisce la storia spiegando che fu DSK a fare il primo passo verso Piroska, inizialmente per “legittime questioni di lavoro”. Poi, per almeno due settimane, era scattato “uno scambio di messaggi consensuali e molti personali” che portò, per comune volontà “ad una relazione fisica consensuale tra le due parti per un breve periodo nel gennaio 2008… subito dopo la fine delle relazione sessuale il marito della ex-dirigente scoprì l’accaduto e sottolineò al direttore a alla moglie la potenziale pubblicità negativa che poteva derivarne”. Il 26 ottobre 2008 la vicenda si chiude: secondo il Board dell’FMI, DSK non ha commesso né atti di favoritismo né abusi di potere. La breve relazione tra il direttore e Piroska è stata semplicemente “consensuale”. Certo, DSK ha commesso “un grave errore di giudizio”, ma lo “ha riconosciuto e si è scusato”. Dice infatti il direttore: «Sono spiacente per l’incidente e accetto la responsabilità. Ho presentato le mie scuse al Board, allo staff dell’FMI e alla mia famiglia». E Piroska? La sua versione, sensibilmente diversa, la pubblica il sito del magazine L’Express il 19 febbraio 2009. Si tratta di una lettera risalente al 20 ottobre, sei giorni prima della decisione del Board dell’FMI, inviata al team di legali indipendenti: «Strauss-Kahn ha abusato della sua posizione per entrare in relazione con me…Io non ero preparata alle avances del direttore generale del FMI…Ebbi la sensazione che sarei stata perdente se avessi accettato e perdente se avessi rifiutato…Io temo che quest’uomo abbia un problema, forse, che lo renda poco idoneo a dirigere un’organizzazione ove lavorano delle donne». Passa un anno e a maggio 2010 esce il libro di un’autrice anonima DSK. I segreti di un Presidenziabile, di cui il 79 quotidiano Times anticipa i contenuti: DSK viene dipinto come un uomo ossessionato dal sesso, alla continua ricerca di donne. L’autrice, che si firma Cassandra, sarebbe stata, secondo l’editore, una collaboratrice del direttore e non vuol rivelarsi perché teme per la sua carriera. Ma scrive che quando DSK entra in un locale, valuta in pochi secondi tutte le donne presenti, per poi scegliere la “preda” e partire all’attacco. Alla prescelta arriverebbero poi sms espliciti, del tipo “ti voglio”. Un’attrice, Danielle Evenou, racconta: «Chi non è stata chiusa nell’angolo da Dominique Strauss Kahn?». Il volume accenna anche a foto che ritrarrebbero DSK all’uscita di un locale per scambisti. La notizia fa ovviamente il giro del mondo. Dodici mesi più tardi, con DSK ormai lanciatissimo - nonostante i rumors sui suoi appetiti sessuali - verso l’Eliseo, scattano le manette: il 14 maggio 2011 è arrestato a New York per tentato stupro ai danni di una cameriera d’albergo di Times Square, in cui il direttore alloggiava. Di lui, il giorno successivo, scrive Marcello Foa su Il Giornale: Ebreo, nel 1995 ha sposato in sinagoga la giornalista Anne Sinclair, assieme formavano una delle coppie più glamour di Parigi e ora anche di New York. Ricco di famiglia, nominalmente di sinistra ma di fatto liberista e dunque ben accetto nella grande industria e nell’alta finanza, aveva tutti i numeri per riuscire. Con un solo, grande handicap: la vita privata. Nella Parigi che conta tutti sapevano che Dominique Strauss-Kahn era sessualmente molto disinvolto. Anzi, ossessionato dal sesso. Nei salotti si sussurrava, ammiccando, della sua assidua frequentazione di club scambisti e orgiastici, anche estremi. Tutti sapevano che, anche di giorno nell’esercizio delle sue funzioni, non sapeva resistere di fronte a una bella donna: allungava le mani e 80 faceva, su due piedi, proteste oscene. Al Fondo monetario internazionale ha portato a letto la moglie di uno suo dipendente, la cosa si venne a sapere e Dominique la fece franca per un soffio. La prima a non dare il minimo credito ad un fatto del genere è Anne Sinclair, stoicamente ancora accanto al marito: «Non credo neppure un secondo a queste accuse». Passa 36 ore al telefono con gli avvocati dall’altra parte dell’oceano. Poi prende il primo volo per gli Stati Uniti. DSK si dimette dalla prestigiosa carica e trascorre sei giorni nel carcere di massima sicurezza di Rikers Island, poi esce dietro il pagamento di una cauzione milionaria. L’accusatrice si chiama Nafissatou Diallo, anche se, all’inizio, per proteggerne l’identità, gli inquirenti le affibbiano lo pseudonimo di Ophelia o Ofelia. Lo scandalo è molto più grosso del precedente. Ma un mese e mezzo più tardi succede qualcosa di inaspettato: secondo il procuratore Ophelia avrebbe mentito davanti al Gran Jury. Scrive Guido Olimpio, sul Corriere della Sera, il primo luglio 2011: WASHINGTON – Dominique Strauss-Kahn, torna libero. La procura di New York ha accettato di rilasciare l’ex direttore del Fondo monetario internazionale, dopo i dubbi circolati sull’autenticità delle accuse rivolte all’economista francese dalla cameriera del Sofitel di New York Ophelia. Sarà restituita anche la cauzione di un milione di dollari, versata subito dopo la prima udienza per ottenere gli arresti domiciliari. L’ex direttore del Fmi potrà anche viaggiare all’interno degli Stati Uniti. Una decisione in merito è attesa attorno alle 18 di oggi (ora italiana, ndr). Le misure in favore del politico francese accusato di stupro sono legate a quanto hanno scoperto gli investigatori in queste settimane. 81 Il procuratore Vance – secondo il New York Times – ha scoperto incongruenze e bugie che avrebbero minato la credibilità di Ofelia, la cameriera africana che ha denunciato lo stupro. “Buchi” che non riguardano l’aggressione ma piuttosto la sua vita privata. Gli inquirenti, dopo il presunto episodio di violenza all’Hotel Sofitel, hanno passato al setaccio il passato e il comportamento della donna. Tenendo sotto controllo il suo telefono hanno intercettato un colloquio tra Ophelia e un detenuto avvenuto alla vigilia di una importante deposizione. I due avrebbero discusso dei possibili vantaggi nel denunciare l’ex direttore del Fondo monetario. Lo stesso uomo, legato a traffici di droga, a partire dal 2009, avrebbe fatto insieme ad altri dei versamenti in favore della donna per un totale di 100 mila dollari. Soldi sparpagliati tra conti in Arizona, Georgia, New York e Pennsylvania. C’è il sospetto che si tratti di un’operazione di riciclaggio di denaro. Altra scoperta: l’accusatrice di Strauss-Kahn ha sempre sostenuto di aver un solo telefono ma la polizia ha accertato che pagava ogni mese bollette per centinaia di dollari a cinque differenti compagnie. La procura ha poi confrontato la versione di Ofelia con le carte presentate per ottenere asilo negli Usa. E sono saltate fuori delle incongruenze. La ragazza aveva raccontato di aver subito in passato violenze ma non lo ha riportato nei documenti presentati alle autorità. Così come non c’è alcun riferimento alla mutilazione genitale che la cameriera ha sostenuto di aver subito in Africa. «È una bugiarda patentata», avrebbe affermato una fonte vicina all’indagine. Le scoperte degli investigatori si sono intrecciate con quelle dei legali di DSK. La difesa aveva assunto un esercito di investigatori privati per scavare nel passato dell’accusatrice. E soprattutto cercare di minare la sua credibilità anche su aspetti non collegati al caso specifico. Gli 007 hanno lavorato 82 in Guinea – paese d’origine della donna – e poi nel Bronx, dove lei viveva da alcuni mesi. E di recente, gli avvocati del politico francese avevano lasciato trapelare indiscrezioni sulla scarsa credibilità della ragazza. Giovedì i due sentieri si sono “incontrati”. La procura – secondo il New York Times – ha convocato i legali dell’economista francese per comunicare loro le novità. A loro volta i difensori avrebbero mostrate alcune delle loro carte. Resta da chiarire quanto è davvero avvenuto nella camera del Sofitel il 14 maggio. Ophelia ha sostenuto di aver subito un’aggressione e la polizia ha raccolto tracce di Dna che hanno provato la tesi di un rapporto sessuale. Strauss-Kahn ha negato di aver assalito la donna. Ma le bugie della cameriera sul suo passato potrebbero inficiare anche il procedimento sulla violenza sessuale. Non la pensa così il suo avvocato: «Per noi non cambia nulla». E il fratello della ragazza, dalla Guinea, ha parlato di una «campagna di diffamazione». L’avvocato della presunta vittima di DSK ammette gli errori della propria cliente. Ma ciò «non significa che non sia stata vittima di una violenza sessuale», spiega Kenneth Thompson che ha definito tutte «bugie» le accuse sulla sua cliente. «La mia cliente – ha affermato – è stata vittima di un’aggressione sessuale violenta che ha descritto davanti a me e ai giudici e nessun elemento delle sue dichiarazioni è cambiato». In particolare la cameriera avrebbe ammesso di aver dato una falsa testimonianza al Grand Jury omettendo il fatto che dopo la presunta aggressione nella camera 2806 dell’albergo avrebbe pulito un’altra camera. «La donna – ha detto l’avvocato – ha fatto una ricostruzione errata dei fatti ma ha poi ammesso che la sua testimonianza era falsa e che ha subito dopo pulito un’altra camera per poi ritornare nella suite 2806 per metterla a posto e solo allora riferire l’incidente al supervisore dell’albergo». DSK è libero, in attesa delle decisioni dei giudici. A 83 luglio inoltrato Ophelia, rivelatasi infine come Nafissatou Diallo, va in tv e dagli schermi di Abc News rompe il silenzio. Piange e giura: «Non sono una prostituta. E non lo sono mai stata. Dio mi è testimone, sa che sto dicendo la verità. Non avrei mai voluto uscire in pubblico, ma non avevo altra scelta. Lo dovevo fare, lo dovevo per me stessa e per dire la verità. Voglio giustizia, voglio che vada in galera...Voglio che lui sappia che ci sono posti dove non puoi usare i tuoi soldi, il tuo potere, quando fai cose come queste». Dice che non aveva idea di chi fosse DSK e di averlo scoperto solo sui giornali: «Quando ho saputo che stava diventando il prossimo presidente francese ho pensato, “oh mio Dio!”, mi ammazzeranno...». Quanto allo stupro che avrebbe subito rammenta: «Ero girata e quando mi sono voltata ho visto le sue mani sul mio seno. Allora ho detto: “Fermo, fermo, non voglio perdere il mio lavoro”. Ma lui è andato avanti, mi spingeva, mi spingeva...». Ma i legali di DSK, William Taylor e Benjamin Brafman, attaccano: «Si tratta di un circo inverosimile, che ha l’evidente obiettivo di eccitare l’opinione pubblica contro un imputato in attesa di essere giudicato». A metà agosto si parla di possibile archiviazione. I giudici sarebbero convinti dell’inattendibilità della cameriera. Il New York Post riporta che la sera prima della presunta violenza Nafissatou avrebbe avuto un rapporto sessuale, che giustificherebbe il “rossore” usato come prova dai legali della donna per incastrare DSK. Il 23 agosto 2011 il caso è archiviato. Poche ore prima del verdetto, Douglas Wigdor, legale della donna, aveva dichiarato in conferenza stampa: «Siamo stati contattati da numerose donne in diverse parti del mondo che testimonierebbero contro DSK. Non diremo il numero di queste donne perché la vicenda è ancora oggetto di 84 un’inchiesta». Aveva anche aggiunto che la sua cliente era stata «trattata più come un sospetto che come una vittima». Il procedimento proseguirà tuttavia in sede civile, chiuso con un accordo stragiudiziale i cui non saranno resi noti. Nel 2014 Nafissatou investirà parte del denaro ricevuto da DSK in un ristorante nel Bronx: «Cerco di fare del mio meglio per offrire a mia figlia la migliore vita possibile – dirà ai cronisti - E voglio offrire alla città di New York un buon ristorante afro-americano». Quanto al protagonista, DSK dice: «Sono impaziente di tornare a casa e a una vita normale». Ma il suo desiderio di “normalità” deve ancora attendere. Perché a settembre il tribunale di Parigi lo interroga in merito alle accuse di un tentativo di stupro nei confronti della giornalista e scrittrice trentaduenne Tristane Banon. Un vecchio episodio, avvenuto nel 2003, in un appartamento di Parigi, quando Tristane era ancora una giovane cronista. Quando esce dal palazzo di giustizia non rilascia dichiarazioni, ma resta accanto, sorridente, alla sua Anne, che non smette di credergli. Quattro giorni più tardi L’Express cita la testimonianza di DSK agli inquirenti: l’uomo avrebbe ammesso di aver tentato di baciare la cronista, ritenendola consenziente, ma si sarebbe fermato subito dopo, non appena Tristane rifiutò. Si tratta di una versione un bel po’ diversa da quella rilasciata a Michel Taubmann nel libro biografico Il vero romanzo di Dominique Strauss-Kahn. Allora aveva detto, a proposito delle accuse: «È completamente falso! La scena che racconta è immaginaria. Ma mi vedete voi gettare a terra una giovane donna e usare la violenza contro di lei come racconta? … L’intervista si è svolta normalmente ... Quando ho saputo che mi accusava di aggressione, ero stupefatto». Già, si dirà, cos’ha denunciato esattamente Tristane? 85 Dopo averne parlato in tv nel 2007 – ma allora il nome di DSK era sovrastato da un beep – ha ribadito che «quando me ne sono voluta andare, mi ha acchiappato la mano e poi il braccio, gli ho chiesto di lasciarmi, a quel punto è scoppiata la rissa. Mi ha tirato verso di lui, siamo caduti a terra e ci siamo picchiati». Ricorda che mentre lei gli tirava calci, lui «mi ha sganciato il reggiseno e ha cercato di aprirmi i jeans». Ma perché Tristane attese tanto per denunciarlo? Forse la risposta, più che lei, la fornisce sua madre, Anne Mansouret, che riferisce agli investigatori di aver rivelato alla figlia che, tanti anni prima, aveva avuto una relazione sessuale con l’ex direttore dell’FMI. Il 29 settembre Tristane e DSK vengono messi a confronto al commissariato. Al termine la donna si sfoga coi cronisti di TF1: «Lui ripete solo menzogne. C’è stato un tentativo di violenza. Strauss-Kahn è un arrogante, non ha osato guardarmi in faccia, aveva soltanto quel sorriso stampato in faccia». Ritiene di essere entrata nel mirino della “cricca mediatica” che sosterrebbe DSK «sullo stile di quella subita da Nafissatou Diallo. Stanno tirando fuori la mia infanzia movimentata, dicono che sono instabile, che ho detto di non aver conosciuto mio padre e invece non è vero, o che ho una storia con il mio avvocato. Se si è certi della verità non c’è bisogno di fare questo, io non mi immischio nel rapporto fra Strauss-Kahn ed Anne Sinclair e delle chiacchiere che ci sono intorno». I giudici stabiliscono che non ci sono prove dello stupro, mentre il tentativo di bacio di DSK può essere configurato come “aggressione sessuale”, che tuttavia in Francia si prescrive in tre anni. Siamo a ottobre 2011 e anche questo caso è chiuso. Ma un mese più tardi, da un’indagine sullo sfruttamento 86 della prostituzione a Lille trapela la possibile partecipazione di DSK ad alcuni festini a luci rosse in compagnia di escort. Gli inquirenti, secondo Libération e Le Figaro, vorrebbero vederci chiaro sui viaggi di alcuni protagonisti coinvolti nella vicenda a Washington, quando DSK era direttore del FMI. L’ultimo volo di alcune giovani donne legate al magnaccia Dominique Alederweireld, in particolare, sarebbe avvenuto tra l’11 e il 13 maggio 2011, alla vigilia dell’arresto di DSK per la vicenda di Nafissatou Diallo. Racconta Libération che David Roquet, ai vertici di un grande gruppo edilizio e accusato di sfruttamento della prostituzione, avrebbe dichiarato di essere andato a Washington su invito di DSK, in compagnia del capo della polizia di Lille, fermato dai colleghi: «Sono stato io a pagare i biglietti, con l’accordo del mio capo. Mi sono costati tra i 3.000 e i 4.000 euro». Sempre lui e un altro imprenditore, precisa Libération, avrebbero pagato un conto tra i 12mila e i 15mila euro per festini a luci rosse in un albergo cui avrebbero partecipato il capo della polizia di Lille, DSK e diverse prostitute. L’ex direttore del FMI parla di «maligne insinuazioni». Pochi giorni più tardi un uomo del suo entourage, che vuol restare anonimo, confida a Le Journal du Dimanche: «Per la prima volta, negli ultimi giorni, mi ha detto che bisogna che si faccia curare. Ha ammesso di essere malato…» Ricorda che un tempo amava dire: «Provaci con tutte, una cadrà», ma che ora «è l’ombra di se stesso». Barba lunga e sguardo assente «si morde le unghie fino a sanguinare, divora la pelle delle dita, e passa le giornate a non fare niente, incapace di concentrarsi su un libro, rifiutando di accendere la televisione o di leggere i giornali. L’unica cosa che lo calma sono le equazioni matematiche, ma la sua agenda è vuota». L’inchiesta presto si allarga. La stampa francese si 87 concentra sui festini all’Hotel Carlton di Lille. Il settimanale Voici riporta che due giudici francesi vogliono andare a fondo sulle testimonianza di alcune donne che parlano di rapporti violenti e a volte pure non consenzienti con DSK. Anne-Marie S., si legge sul settimanale Le Point, ricorda di averlo incontrato in un hotel di Washington nel 2010 insieme a David Roquet, che aveva il compito di trattenerne i polsi: «Fu una relazione brutale. Sono stata pagata per andare lì, non per subire questo trattamento. Per me l’escorting non è questo. Ho sempre avuto a che fare con dei gentlemen». Dice pure che non era consenziente. Anche Mounia, escort francese, sostiene di aver avuto nel 2010 rapporti violenti con DSK all’Hotel Murano di Parigi: «Non mi ha violentata, ma si intuiva che amava i rapporti forzati». Beatrice Legrain si sarebbe invece lamentata col compagno – anch’egli coinvolto nello scandalo – di un “rapporto brutale” avuto con DSK nel bagno di un ristorante di lusso di Parigi. Le testimoni sono sempre di più. I fatti sempre più dettagliati. Alla fine Anne Sinclair sbotta: «Il lavoro della stampa è stato legittimo per rendere conto di un evento di cui non minimizzo l’importanza politica. Ma trovo che i limiti del voyeurismo e dell’inquisizione siano stati superati». Ripete che «non sono una santa, non sono una vittima, ma una donna libera» e alle femministe che criticano la sua scelta di difendere ad ogni costo il marito, risponde per le rime: «Il significato stesso della parola femminismo è stato ribaltato. Il femminismo è la lotta per la libertà delle donne, invece delle autoproclamate femministe si sono messe ad insegnare a ciascuno come portare avanti la propria vita accusando la società francese di essere una società “moralista e in crisi”». Tre mesi più tardi, agosto 2012, si separa ufficialmente dal marito. 88 Il procedimento coinvolge DSK anche in veste di indagato. E si trascina per tre anni. Due prostitute si ritirano dalla parte civile. Roquet ammette che DSK non sapeva che le donne dei festini fossero escort, dato che le pagava lui di nascosto e le presentava ora come ristoratrici, ora come segretarie. Donne colte ed eleganti. Insieme ad un altro imprenditore finanziava trasporti, ristoranti, prostitute: un investimento da 46mila euro: «Mi ero detto che al di là del lato piacevole, se avessi stretto contatto con monsieur Strauss-Kahn, una volta giunto alla presidenza della Repubblica... il mio obiettivo professionale era quello: organizzare un pranzo con lui e i miei super capi…Passare il pomeriggio con uno che è il numero due al mondo, futuro presidente della Repubblica. Certo che mi faceva piacere». Il 12 giugno 2015 DSK è prosciolto da tutte le accuse. Unico condannato per sfruttamento della prostituzione, su 14 imputati, è Renè Kojfer, ex responsabile per le pubbliche relazioni dell’Hotel Carlton. «Sono il capro espiatorio dell’intero processo» dirà sconsolato. Passa qualche giorno e DSK, 65 anni, twitta: «Jack is back». Vuol tornare in pista. Secondo un sondaggio di Libération del luglio 2015, il 37% dei francesi lo ritiene il miglior candidato all’Eliseo per le elezioni del 2017. 89 90 QUESTIONI DI FAMIGLIA Guerra dei Roses in casa Allen Woody Allen è uno degli artisti più eclettici dell’era contemporanea: regista, attore, scrittore, commediografo, compositore, clarinettista. Tra i più fini umoristi, le sue gag filosofico-esistenziali ne hanno caratterizzato l’intera produzione di film. Ma per buona parte della sua carriera un altro dettaglio accompagna le pellicole che dirige e interpreta: la protagonista è spesso la sua reale compagna del momento. Succede con Louise Lasser e con Diane Keaton. Succede infine con Mia Farrow. I due non si sposano e non convivono per lunghi periodi. Hanno un figlio, Ronan Satchel (un figlio che poi Mia dirà forse essere il frutto dell’amore con l’ex marito Frank Sinatra). E lei ne adotta altri due: Dylan Farrow e Moses Farrow. Una terza, Soon-Yi Farrow Previn, orfana coreana, l’aveva adottata insieme all’ex marito André Previn. 91 Lo scandalo scoppia nel 1992, quando Mia scopre alcune foto hard che Allen ha scattato a Soon-Yi, che all’epoca ha 19 anni. La coppia si separa e Allen inizia una lunga battaglia legale per la custodia dei tre minori. Prima che il procedimento inizi il pediatra della piccola Dylan, 7 anni, contatta le autorità sostenendo che Allen abbia abusato di lei. Scoppia una vera e propria Guerra dei Roses versione Allen-Farrow, che Alessandra Farkas sintetizza perfettamente in un articolo sul Corriere della Sera del 22 agosto 1992: Per gli amici di Woody, Mia è pazza nevrotica NEW YORK - «Ti credevo diversa, saggia e forte. Invece ho scoperto che, dietro la tua aria tranquilla, sei pazza come gli altri». La folle in questione è Judy (Mia Farrow). Ad accusarla è Woody Allen (tramite la finzione del personaggio Gabe Roth) in uno dei film più autobiografici della sua illustre carriera. Husbands and Wives, mariti e mogli, esplora i meandri del bizzarro triangolo Mia-Woody-SoonYi che continua a infiammare la morbosità degli americani. Con l’effetto di aver congelato, per ora, tutte le attività promozionali legate all’uscita del film, in USA dal 9 ottobre. In questa guerra ogni giorno più sordida, arte e realtà sono ormai indistinguibili. «Mia Farrow è pazza come una cavalla - dichiara un intimo del regista - Woody lo sa e lo dice apertamente in Husbands and Wives». Dopo una settimana di incondizionato tifo pro-Mia, per la prima volta da quando è esploso lo scandalo anche il partito pro-Woody è finalmente sceso in campo. L’identico campo dei tabloid scandalistici. «Mia è un’egocentrica che pensa solo a sé - sbotta Letty Aronson, sorella di Allen -. Non ha mai dato sostegno emotivo ai suoi figli e ora li ha messi tutti contro mio fratello». 92 «Tratta gli adottivi come servi - assicura a Newsday una fonte anonima - . Lo scorso anno ha rispedito in Vietnam un bimbo perché il medico di famiglia sospettava fosse ritardato». E anche la presunta molestia sessuale subita dalla piccola Dylan da parte del padre sarebbe una mostruosa sceneggiata della vendicativa Mia. «Due settimane fa Woody visitò Dylan e Satchel nella villa in Connecticut - incalza la Aronson -. L’ indomani, al telefono, Mia lo accusò d’averli molestati. L’aveva invitato con l’idea precisa d’incastrarlo». Eppure, giurano in molti, Woody non si era mai appartato con i figli e aveva giocato in giardino sotto l’occhio vigile delle baby-sitter. Proprio la testimonianza oculare di una baby-sitter, che l’avrebbe colto in flagrante nella soffitta di casa, sarà la prova schiacciante usata dai legali della Farrow, insieme alla videocassetta dove la bimba descrive il “fattaccio”. «Balle - replica Brian Hamill, amico stretto del regista con cui ha lavorato in ben 17 film - . Chiunque conosce Woody sa benissimo che soffre di claustrofobia cronica. Non andrebbe in una soffitta neppure se lo pagassero». Incalza Jeff Kurland, suo costumista dal ‘79: «Come si può credere a una donna che ha buttato i propri figli in pasto alla stampa e alla Tv per tirare l’America dalla sua parte?». Negli ultimi giorni i piccoli hanno dato centinaia di infuocate interviste anti-Woody. Altroché mammona tenera ed equilibrata, gridano ora i tabloid. Mia sarebbe invece un animale accecato dagli impulsi irrazionali della gelosia. «Quando scoprì le foto, mi picchiò a sangue con una sedia e uno stivale, fino a riempirmi di lividi» ha confidato SoonYi a un’amica. Poi, dopo averle fatto a pezzi il guardaroba, l’avrebbe messa alla porta, togliendole gli alimenti. E se non 93 bastasse ha tolto il suo nome dal testamento e ha ritagliato il suo volto da tutte le foto dell’ album. «Tutto ciò la dice lunga su chi è Mia - commenta Jane Martin, produttrice e amica della coppia -, fino all’ultimo ha cercato di tenersi il suo Woody, riversando tutta la colpa sulla figlia». Dopo la scoperta delle famigerate foto la Farrow avrebbe preso a tempestare l’ex compagno di telefonate, minacciandolo di suicidarsi. «Era ossessionata soprattutto da una cosa: voleva sapere se a letto era meglio lei o la figlia». Infine il produttore Jean Douminian, amico di Allen da 25 anni, lo assolve dall’accusa di incesto: «Woody non s’è mai posto come figura paterna. I ragazzi non si sedevano mai sulle sue ginocchia né lo chiamavano papà». Il procuratore Frank Maco ordina una perizia che dopo sei mesi esclude gli abusi di Allen su Dylan. Ma gli esperti ravvisano comunque qualcosa che non va nel rapporto tra genitori e figli. Scrive Arturo Zampaglione su Repubblica il 20 marzo 1993: CARO WOODY, ORA CURATI NEW YORK - Assolto da un team medico dall’accusa di aver abusato della figlia, ma “condannato” a frequentare con più assiduità il suo psicanalista, Woody Allen ha chiesto ieri alla corte suprema di Manhattan di poter riabbracciare la piccola Dylan dopo sette mesi di lontananza. La magistratura glielo aveva vietato in attesa di una decisione sull’affidamento dei tre figli del regista e di Mia Farrow, e soprattutto dell’esito dell’inchiesta sulle presunte molestie sessuali da parte di Allen. Questa inchiesta non si è ancora conclusa: spetterà alla procura dello stato del Connecticut, dove si trova la villa di Mia, dire l’ultima parola. Ma è probabile che l’intera 94 questione sia archiviata, come suggerito giovedì dagli psicologi dello Yale-New Heaven Medical Center, guidati da John Leventhal, che per quattro mesi hanno studiato la strana famiglia Allen-Farrow. «Hanno concluso che non c’è stato alcun abuso o molestia» ha riferito il regista ai giornalisti, uscendo l’altro ieri dalla clinica del Connecticut, dopo due ore di colloqui a cui ha partecipato anche la sua ex-compagna. In teoria, le valutazioni degli esperti dovevano rimanere riservate, ma ieri Newsday, il quotidiano del gruppo del Los Angeles Times che tenta di scalfire il predominio del New York Times nella Grande Mela, ha pubblicato ampi stralci del documento elaborato dai medici. Sia per Woody che per Mia è un “j’accuse” da brivido. Ne escono fuori come due genitori degeneri, profondamente instabili, incapaci di un approccio equilibrato con i figli. “Allen - scrivono gli psicologi - ha un problema di confini nei suoi rapporti con la figlia Dylan. Tende ad avere con lei un comportamento con marcate implicazioni sessuali. Nella mente della bimba, l’amore ragazzo-ragazza equivale a baciarsi e abbracciarsi. Il padre, con lei, ha fatto esattamente questo, a volte con grande intensità. Ed è pure diventato l’amante di sua sorella Soon-Yi”. Di qui, la confusione nella mente della bambina che, in una situazione emotivamente molto tesa - per via della separazione tra la madre e il padre, e della relazione del padre con la sorella – l’avrebbe portata, nel videotape registrato da Mia Farrow, ad accusare Allen di molestie sessuali, che invece non ci sarebbero state. “D’altra parte - continua il rapporto degli esperti di Yale - Mister Allen ha un rapporto squilibrato con Dylan e Satchel (il figlio naturale di cinque anni, ndr). E perché riesca a stabilire confini più giusti tra sé e i bambini, deve continuare a sottoporsi a una psicoterapia”. Stesso invito anche per Mia Farrow, per dodici 95 anni compagna di Allen e, dallo scorso agosto, in guerra con lui per l’affidamento dei figli. “È indispensabile per la salute mentale dei bambini continuano gli esperti - che la signora Farrow segua una cura psicologica intensiva”. Mia Farrow continua a criticare i risultati del team di Yale. «Starò sempre dalla parte dei miei figli» aveva detto lapidaria giovedì, uscendo dalla clinica. Ieri il suo avvocato, Eleanor Alter, ha di nuovo attaccato il lavoro degli psicologi. «Si sono rifiutati di parlare con molte persone che erano al corrente dei rapporti edipici tra Woody e Dylan» ha detto la Alter. Come la babysitter Alison: la prima ad avere visto la bimba sulle ginocchia del padre in posizione “inquietante”. Allen sostiene che Mia abbia plagiato la figlia per accusarlo, ma il giudice Elliot Wilk - incaricato di decidere dell’affidamento e della presunta molestia fatta a Dylan il 4 agosto 1992 - ritiene che non vi siano prove credibili della sua tesi e assegna la custodia dei minori alla donna. Scrive in proposito: «probabilmente non sapremo mai cosa successe il 4 agosto 1992. Le dichiarazioni credibili di Ms. Farrow, del Dr. Coates, del Dr. Leventhal e di Mr. Allen provano comunque che l’atteggiamento di Mr. Allen verso Dylan è stato scandalosamente inappropriato e che misure devono essere prese per proteggerla». Ossia divieto di vedere Dylan da una parte e incontrare Ronan Satchel solo sotto supervisione dall’altra. Moses, che all’epoca ha 14 anni, decide di non frequentare Allen. Il regista prosegue la relazione con Soon-Yi, che sposa a Venezia il 22 dicembre 1997. Adottano anche due bimbe coreane. Ma la diatriba famigliare non cessa. Ronan Satchel, diventato avvocato e attivista per i diritti umani, quando, durante i Golden Globe, viene assegnato il premio alla carriera al padre, scrive su Twitter: «Mi sono perso il 96 tributo a Woody Allen: hanno messo la parte in cui una donna ha confermato pubblicamente che l’ha molestata all’età di 7 anni, prima o dopo Io e Annie?». Siamo a gennaio 2014. E anche Dylan, che oggi ha cambiato nome, invia una lettera al New York Times, ricordando come Allen abusò di lei quando aveva 7 anni. La lettera è pubblicata sul blog del giornale: «Mi condusse in un attico buio della casa in Connecticut, mi disse di stendermi pancia a terra e di giocare con il trenino elettrico di mio fratello… Ricordo che mi parlava mentre abusava di me, sussurrandomi che ero uno brava ragazza, che quello era il nostro segreto, e promettendomi di portarmi a Parigi e di farmi recitare nei suoi film... Per quanto mi ricordo mio padre mi ha sempre fatto cose che non mi piacevano, spesso mi faceva giacere a letto con lui e mi metteva la testa sul ventre e queste cose accadevano regolarmente ed erano abilmente nascoste a mia madre, al punto che pensavo fossero normali. Il fatto che l’abbia sempre fatta franca mi ha perseguitato durante tutta la mia giovinezza, anche per il senso di colpa di avergli lasciato avvicinare alte bambine». La portavoce del regista, Leslee Dart, risponde con una nota che definisce «false e vergognose» le accuse: «All’epoca un’indagine minuziosa era stata condotta da esperti indipendenti incaricati dal tribunale». Le conclusioni, prosegue il comunicato, furono che «non vi erano prove credibili dell’aggressione; che Dylan Farrow era incapace di distinguere tra immaginazione e realtà; che Dylan Farrow era stata probabilmente manipolata dalla madre Mia Farrow». La sorellastra di Sylvester Stallone Più spigoloso il caso di Sylvester Stallone. Il New York Post, nel gennaio 2013 scrisse che l’attore, 26 anni prima, 97 aveva pagato 2 milioni di dollari alla sorellastra Toni-Ann Filiti, più un mensile di 16mila dollari e un trust di 50mila dollari l’anno per spese mediche, per mettere a tacere le accuse che lei gli muoveva di abusi sessuali nei propri confronti. Filiti era morta di cancro nel 2012, a 48 anni. E si trattava del secondo scandalo che riguardava il passato della star. Il primo, molto più leggero, era inerente l’interpretazione che l’attore fece in Italian Stallion, un softcore del 1970 per il quale Stallone, agli albori della carriera, percepì 200 dollari. Avrebbe poi ricordato come, una volta giunto al successo, i produttori gli chiesero 100mila dollari per bloccarne la diffusione, cosa che non fece perché a corto di denaro. D’altra parte, rammentava, all’epoca del film era un senzatetto e senza un dollaro in tasca: « O facevo quel film o derubavo qualcuno, perché ero alla fine - veramente alla fine - della mia capacità di resistenza. Invece di fare qualcosa di disperato, lavorai due giorni per 200 dollari, levandomi dalle stazioni degli autobus». Il secondo scandalo ha ovviamente un sapore diverso. Secondo il New York Times Toni-Ann aveva denunciato di aver patito “danni personali, anche psicologici”. Edd, figlio della donna, aggiunse: «Mia madre per colpa loro è diventata la pecora nera della famiglia». Edd le era stato accanto negli ultimi momenti di vita, in un ospedale della Florida: «Mi ha raccontato tutto quello che aveva dovuto subire per colpa loro». La madre di Stallone, Jacqueline, rilasciò allora delle dichiarazioni molto precise: «Si trattò di un’estorsione in piena regola, di questo si è trattato. Toni-Ann era dipendente da una droga chiamata Oxycontin, ne assumeva ogni giorno, e arrivò a minacciare Sylvester. Una drogata 98 farebbe qualsiasi cosa. Quando lui diventò famoso, non ebbe nemmeno bisogno di prenderlo all’amo. Lui voleva aiutarla, e alla fine ha ceduto. C’erano stati così tanti episodi conflittuali. A quel tempo, parliamo del 1987, lui era all’apice del successo. Gli avvocati gli consigliarono di accontentarla, per farla stare zitta». L’attore negò ogni addebito. E un suo portavoce si limitò a dichiarare: «Sfortunatamente, i personaggi famosi, i politici, gli atleti diventano molto spesso oggetto di ricatti da parte di membri della loro stessa famiglia o di persone a loro vicine, in grado di costruire un castello di accuse infondate pur di riuscire ad estorcere loro denaro». Il caso non ebbe seguito e il presunto scandalo si sgonfiò. L’inquietante Klaus Kinski Di scandali famigliari di ogni tipo Hollywood è piena. Ma anche l’Europa. Quando Klaus Kinski morì fu ricordato come l’attore capace di mostrare l’inquietudine più sinistra dell’animo umano, dai ghigni mefistofelici di Nosferatu il vampiro di Werner Herzog fino al suo Paganini. Solo che Kinski inquietante pare lo fosse davvero. Molti anni più tardi Der Spiegel ne avrebbe ricordato l’ego smisurato, di quando a teatro insultava gli spettatori, delle sfuriate nelle quali spaccava tutti i mobili, di quando spegneva le sigarette nelle zuppe al ristorante. Nel 1989 scrisse il libro di memorie Tutto ciò di cui ho bisogno è amore. Riportò in proposito l’agenzia Ansa il 21 gennaio dello stesso anno: Il famoso attore dai perenni occhi spiritati confessa un appetito insaziabile per le donne e adombra rapporti sul filo 99 dell’incesto con la figlia Nastassja. Il libro è appena uscito negli Stati Uniti, dove Kinski è molto apprezzato per le sue interpretazioni nei film di Werner Herzog (Aguirre, Fitzcarraldo, Nosferatu, Woyzeck). L’attore tedesco usa le tinte forti per raccontare della sua squallida infanzia in una famiglia d’origine polacca trasferitasi nella Berlino di Hitler: il padre farmacista quasi sempre disoccupato, altri due fratelli e una sorella che dormivano nel suo stesso letto, una madre che per tirare avanti dovette impegnare anche la fede nuziale e arrivò sull’ orlo della prostituzione. «In confronto i bassifondi descritti da Gorky sono d’un lusso sfrenato» ha commentato il Washington Post in una recensione alle memorie. Ecco il piccolo Klaus che a sei anni ruba cibo per la famiglia, eccolo quasi alla stessa età che incomincia “giochi proibiti” con la madre e con la sorella. Scoppia la seconda guerra mondiale ed il nostro eroe ancora bambino viene arruolato a forza nella Wehrmacht, fatto prigioniero dagli inglesi e ha una prima tremenda crisi quando gli dicono della mamma uccisa in un bombardamento aereo americano. Nella Germania dell’immediato dopoguerra, Klaus Kinski fa quasi per caso le prime esperienze di teatro e cabaret. In quegli anni difficili e di disorientamento collettivo si impone per l’originalità e bravura con cui legge le poesie di Villon o mette in scena monologhi tratti da Shakespeare. È un irrequieto, gira per l’Europa senza quasi mai un soldo. Nel 1948 incomincia in modo sommesso una carriera cinematografica che solo negli anni settanta darà tutti i suoi frutti (materiali e artistici). In Tutto ciò di cui ho bisogno è amore Kinski racconta senza apparenti peli sulla lingua dei suoi tre matrimoni (finiti male) e si dilunga in particolare sul terzo - il più traumatico - con una giovane vietnamita, Minhoi, 100 da cui ha avuto un figlio, Nanhoi, a cui si lega in modo ancora più ossessivo dopo il divorzio. Compaiono nelle memorie anche decine e decine di amanti più o meno fugaci e non mancano episodi piuttosto bizzarri. A dargli credito, il nostro eroe una volta era addirittura in fin di vita per un tumore alla gola che si è tagliato via da solo con un coltello da cucina. Un’altra volta Kinski si sarebbe ritrovato in un manicomio dove l’avrebbe rinchiuso una dottoressa a cui stava facendo una corte troppo spietata... del suo insaziabile desiderio di donne scrive con febbricitante spacconeria: «Rimorchio ogni donna che posso portarmi a letto...commesse, cameriere, donne sposate, madri, negre, donne francesi, turiste americane, studentesse...una donna beduina...le sette mannequins negre di Saint Laurent...». L’elenco potrebbe continuare e tra gli oscuri oggetti del desiderio sembra esserci anche la figlia Nastassja, ora attrice di enorme successo, nata dal suo secondo matrimonio. Fin troppo esplicito per quanto riguarda i “giochi proibiti” con mamma e sorella, il protagonista di Fitzcarraldo rievoca con voluta ambiguità una settimana passata assieme alla figlia già adulta: «Nastassja è stupefacente. Ma per quanto desideri Nastassja non posso essere felice fino a che non so dove sono Minhoi e Nanhoi...di notte non posso addormentarmi con Nastassja...lei si afferra a me singhiozzando e mi dice che non le voglio bene». Senza mai smettere i panni del “mostro innocente” in rivolta contro la società conformista, Kinski scrive con stupore che la gente e le istituzioni lo prendono sempre più sul serio: l’Università del Michigan l’ha invitato a parlare sulla crocefissione di Cristo, l’orchestra sinfonica di Baltimora gli ha proposto una conferenza su Beethoven, il ministero francese della cultura l’ha fatto commendatore. «Perché 101 io?» si chiede l’attore e se lo chiedono anche i lettori di un libro il cui titolo più appropriato sarebbe “Tutto ciò di cui ho bisogno è sesso”. Sembra che questa tendenza all’eccesso potesse far parte del personaggio. Eppure le cronache raccontano che passò davvero un periodo in manicomio. La famiglia non prese bene il libro. Restò sconcertata. A proposito delle tendenze incestuose verso Nastassja, parlò di “infame rappresentazione” e “volgari menzogne” appartenenti “al mondo della sua immaginazione deviata”. Due anni più tardi Klaus morì. Aveva rotto i ponti con tutti: con Nastassja («Vive circondata dai cretini»), con Herzog («Scemo superidiota») e col mondo del cinema e dei festival, attaccando buona parte dei migliori registi internazionali, da Stanley Kubrick a Steven Spielberg. Riteneva che molti di loro lo avrebbero voluto come attore, ma disse di aver sempre rifiutato ritenendoli dei gran rompiscatole. Nastassja non partecipò ai funerali. Nel 2009 raccontò: «È stato un padre assente, instabile. Quando giovanissima ho cominciato a fare cinema, incontrando Wim Wenders in Falso Movimento nel ‘74, mi si è aperto un mondo: era il contrario di mio padre, sensibile, dolce. Il mio amore per il cinema lo devo a lui, anche se ho cominciato troppo presto, ho perso l’infanzia e avrei dovuto dire qualche no in più». Aveva 15 anni Nastassja quando conobbe Roman Polanski, 42, nel 1976. I due ebbero poi una relazione e il regista la lanciò in Tess, nel 1979, che le valse un Golden Globe. Del padre non parlò mai volentieri. Nel 2013, a ventidue anni dalla morte di Klaus, Pola Kinski, sorella di Nastassja – stesso papà, madre diversarilascia un’intervista a Stern in cui anticipa il contenuto del 102 suo libro, in cui racconta gli stupri sistematicamente subiti dal padre da quando aveva 5 anni fino a quando ne compì 19: «Era semplicemente un violentatore di bambini. Io non ne potevo più di sentirmi dire: “Tuo padre! Fantastico! Un genio! Mi è sempre piaciuto!”. Dalla sua morte in poi, questa mitizzazione non è che aumentata». Ricorda come Klaus le dicesse che «dappertutto nel mondo i padri lo fanno con le loro figlie». Dice che la chiamava “bambola” e che la definiva il suo “angelo”. E che la implorava di non parlarne con nessuno, altrimenti sarebbe finito in prigione: «Lo faceva anche se mi difendevo, come succedeva spesso, o dicevo di non volere: per lui era uguale». Il libro, Kindermund, viene editato in Italia come L’amore di papà da Newton Compton. All’indomani delle rivelazioni, Nastassja piange: «Sì, è un momento difficile per me. Io però sono con mia sorella, la sostengo. Sono profondamente sconvolta. Ma sono anche orgogliosa della forza che ha avuto nello scrivere un libro del genere. Conosco il contenuto. Ho letto le sue parole. E ho pianto a lungo... Bambini e adolescenti devono essere protetti: devono sapere che ci può essere subito aiuto per loro, quando succede qualcosa di così raccapricciante. Un libro come quello di Pola aiuta tutti i bambini, i giovani, e le mamme che hanno paura del padre, e che mandano giù questa paura e la nascondono nell’anima. Mia sorella è un’eroina, ha liberato dal peso della segretezza il suo cuore, la sua anima e il suo futuro. Queste cose succedono a bambini di tutto il mondo ogni giorno. Più se ne sa, più si può essere di aiuto. Soltanto perché uno si chiama padre, non vuol dire che sia davvero un padre. L’Orrore è successo, anche i padri fanno cose orribili». Il tabloid Bild ricorda un vecchio volume di memorie pubblicato da Klaus Kinski nel 1975, poi scomparso dal mercato nella sua edizione originale: Sono così pazzo 103 della tua bocca di fragola. All’interno l’attore ricordava di come avesse portato Pola, quando questi aveva 3 anni, in un bordello. «Se la madre non vuole darmi mia figlia, io gliela strappo dalle braccia» scriveva Klaus. E scriveva pure di aver violentato una quindicenne, alzando il volume della tv per non farne sentire le urla. E ancora di essere stato a letto, da adolescente, con la sorella più piccola Inge. Nel 1985, ci si rammenta infine, alla tv pubblica aveva affermato: «Qui si finisce in prigione se vai a letto con ragazze giovani. In altri Paesi le sposi». No, la follia non faceva parte del personaggio. Faceva parte della persona. Le star vittime di abusi sessuali Ma a volte anche i divi si sono trovati nella parte delle vittime. Episodi che qualcuno di loro ha deciso di rendere pubblici a mezzo stampa. Le loro confessioni hanno fatto il giro del mondo. E alcune, negli ultimi anni, hanno destato davvero scalpore. A partire da quella della più grande star femminile del pop, Madonna. Lo rivelò in un articolo della rivista americana Harper’s Bazaar. Fu in quell’occasione che ricordò come, al suo arrivo a New York, quando ancora non era famosa, fu violentata dietro minaccia di un coltello: «Il primo anno mi hanno rapinato con una pistola. Sono stata violentata sul tetto di un edificio, dove mi avevano spinto con un coltello alla schiena, e il mio appartamento è stato svaligiato tre volte. Non so perché, visto che non avevo più niente di valore dopo che mi avevano rubato la radio la prima volta». Nel dicembre 2014, nel corso dello show radiofonico 104 di Edward Stern, Lady Gaga spiegò al conduttore il significato di una sua canzone, Swine. Stern le chiese se alludesse ad uno stupro e se fosse mai stata violentata da un produttore discografico. E la star rispose: «Ho passato cose orribili di cui oggi posso ridere, ma solo perché sono stata sottoposta a terapia mentale e fisica per poter guarire durante gli anni… Ero in un guscio. Non ero me stessa. Per essere onesti, avevo 19 anni. Frequentavo la scuola cattolica e poi è successo una cosa folle ed io ho pensato: “Sono così gli adulti?”. Ero molto ingenua». L’uomo che la violentò era di vent’anni più grande. Non ebbe mai il coraggio, più avanti, di affrontarlo. «Penso che mi avrebbe terrorizzato. Una volta lo vidi in un negozio e rimasi paralizzata dalla paura. Perché è stato solo anni dopo che mi sono resa conto di quello che mi era capitato». La canzone è stato un modo per uscirne: «Non lo dissi a nessuno, neanche a me stessa per lungo tempo. E poi mi sono detta: Sai cosa? Tutto questo bere e queste sciocchezze, devi andare alla fonte, altrimenti non andrà via. Non andrà mai via». E ancora Ozzy Osbourne, nel 2003 parlò al Daily Mirror delle molestie sessuali subite da altri ragazzi quando di anni ne aveva appena 11, pur senza essere mai stato violentato: «mi obbligavano a tirarmi giù i pantaloni, mi toccavano... era terribile. La prima volta che è successo ero di fronte a mia sorella e mi ha fatto ancora più male». Nel 1998 fecero scandalo le rivelazioni dell’attrice e cantante francese Marie Laforet al settimanale Paris Match: «A tre anni sono stata violentata ripetutamente da un vicino di casa. Mio padre era prigioniero e mia madre era spesso assente perché lavorava come infermiera». Si trattava di episodi che aveva rimosso fino a quando, a quindici anni, affiorarono di colpo nella memoria i flash delle violenze patite: «Ho pianto per tre giorni e per 105 tre notti ininterrottamente. Poi per sei mesi non ho più parlato con nessuno. La mia vita è stata segnata da quel trauma, soprattutto i rapporti sentimentali che sono stati una catastrofe. Mi sono sposata quattro volte e sono stati quattro funerali, ovviamente i miei». Infine Gabriel Byrne, il protagonista de I soliti sospetti, nel corso di una trasmissione televisiva, si lasciò andare ad un tremendo racconto, di quando aveva 11 anni: vittima delle violenze di un sacerdote. La cosa, ammise, lo segnò nel profondo, tanto da portarlo alla depressione e ad anni di alcolismo. 106 SESSO ALL’ECCESSO Secondo alcuni ricercatori anche l’eccesso di sesso può diventare una malattia. Lo sostengono ad esempio gli studiosi dell’università britannica di Cambridge, i quali sostengono che la dipendenza dal sesso riesca a scatenare nel cervello gli stessi meccanismi che si attivano nei casi di tossicodipendenza. Di più: la reazione agli stimoli sessuali della pornografia ricalcherebbe quella di un tossicodipendente alla vista della droga. Per dimostrarlo, gli scienziati hanno utilizzato la risonanza magnetica, analizzando le reazioni cerebrali di due gruppi di soggetti. Il primo, con una vita sessuale normale. Il secondo, con comportamenti sessuali compulsivi. Entrambi sono stati piazzati di fronte a video pornografici e a video sessualmente neutri, tipo competizioni sportive. Il risultato è che i video pornografici attivavano nel secondo gruppo le stesse aree cerebrali – ossia il corpo striato ventrale e 107 l’amigdala - dei tossici messi di fronte alla droga. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Plos One e condotto dagli psichiatri dell’ateneo coordinati da Valerie Voon. Quale valenza abbiano questi studi su quel che è di fatto un istinto, non è chiaro. Uno può avere più o meno fame. Uno può avere più o meno necessità di dormire. Così come uno può avere più o meno voglia di far sesso. O no? E come si quantifica una “vita sessuale normale”? E come fanno a sapere gli scienziati che la persona che dichiara di avere “una vita sessuale normale” non stia mentendo? Di ricerche come queste sono piene le cronache. Spesso dai risultati contraddittori e dalle premesse molto, ma molto incerte, provano a catalogare l’istinto sessuale per individuarne un disturbo. La dipendenza sessuale, o ipersessualità, ha oggi infatti un nome specifico: sex addiction. Il primo a confessare di soffrirne fu l’attore Michael Douglas, che diede scandalo in tutto il mondo. Era la metà degli anni 90 è il protagonista di Basic Instinct e Rivelazioni disse ai fan che andava in clinica a disintossicarsi da una sessuomania che nessuno sapeva che fosse. Finì alla Mary Poppins di Hollywood, clinica dei vip americana dove già era stata Alison, figlia di Clint Eastwood, ma per disintossicarsi dall’alcol. E dove sarebbe presto andata, raccontò il Daily News nel 1999, Julie Andrews, depressa per la perdita della voce e per la morte della zia che le aveva fatto da madre. Nell’estate del 1998 la sessodipendenza tornò in auge. Lo psicoterapeuta Jerome Levin annunciò l’uscita di un libro, nel pieno del sexgate americano: La Sindrome Clinton: il presidente e il carattere autodistruttivo della 108 dipendenza dal sesso, edito da Prima Publishing. L’autore sosteneva che Clinton manifestasse i sintomi tipici di «una persona in preda a un’assuefazione non curata». E disse «La sessodipendenza non riguarda tanto il sesso quanto la insicurezza, la mancanza di amor proprio e l’esigenza di riconferme e rassicurazioni. In ultima analisi, il sessodipendente non si sente amato né amabile, quindi cerca in modo ossessivo di smentire questa sensazione». Passarono due anni e fu la volta di Robbie Williams che, dopo essersi liberato da alcol e droga, secondo il Daily Star si stava curando dalla dipendenza dal sesso attraverso l’aiuto di uno psicanalista, chiamato a frenare la sua voglia di portare a letto tutte le donne che incontrava. La neonata sex addiction finì per colpire diverse star dello spettacolo, dell’industria e dello sport, come il celeberrimo Tiger Woods che, dopo gli ultimi successi golfistici della fine del 2009, finì travolto dallo scandalo per i continui tradimenti nei confronti della moglie svedese Elin Nordegren, da cui divorziò. Poco più tardi decise di sottoporsi ad una terapia riabilitativa dalla dipendenza dal sesso durata diversi mesi. E tornò a vincere sul prato verde. Alla fine del 2011 arrivò così il primo studio, americano. In base ai dati forniti dalla Society for the Advancement of Sexual Health, negli Stati Uniti erano oltre nove milioni le persone affette da sessodipendenza. E, dettaglio per nulla trascurabile, davano lavoro a millecinquecento terapisti specializzati, un esercito se si pensa che dieci anni prima erano meno di cento. Di più: le persone che volevano sottoporsi ad una cura per uscirne dovevano essere monitorate costantemente per non cadere nel tunnel della droga o della depressione. Almeno raccontarono così i giornali americani, citando un istituto medico di Los Angeles. 109 Sarà. Tuttavia, se si spulciano bene le cronache, si scopre che già nel 1997 Michael Douglas ammise che il suo vero problema era stato l’alcol, mica il sesso. Disse ai cronisti giunti a Londra, durante la presentazione del film The Ghost and the Darkness: «Sono stato in segreto un alcolizzato per vent’anni. È questa la cosa che ha portato alla rottura del mio rapporto con Diandra». Rammentò di aver cominciato quattro anni prima a disintossicarsi in una clinica di Tucson in Arizona dopo aver messo in giro «come paravento» la falsa notizia di una sua incontenibile sessuomania: «Parlai di dipendenza dal sesso, ma tutti sanno che una cosa simile non esiste». Ma un conto è dire che il protagonista di Basic Instinct va in clinica a curarsi per l’alcol. Un altro è sostenere che ci va perché troppo dipendente dal sesso: nell’immaginario popolare la differenza è abissale. Nel primo caso c’è commiserazione, nel secondo addirittura meraviglia, tanto da farne argomento di discussione – per anni – nei bar, in casa, tra amici, in tv, sui giornali. E ancora: una cosa è essere definito un adultero impenitente, incapace di mantenere un legame sentimentale. Un altro è affibbiarne la responsabilità ad una vorace voglia di sesso, alla stregua di una malattia che ci impedisce di controllarci. Una questione, se vogliamo, di marketing. In fondo, lo stesso psicoterapeuta Jerome Levin, aveva spiegato tra le righe che il problema di Clinton non era la sessodipendenza, ma un’insicurezza di carattere. Ma certo, focalizzare sul primo aspetto fa molta più notizia. Una notizia da prima pagina. D’altra parte raccontare o esibire ciò che un divo fa sotto le lenzuola rende parecchio in termini di popolarità. Ce ne si accorge quando scoppia il primo clamoroso 110 scandalo del web: il 19 febbraio 1995 la “bagnina” di Baywatch Pamela Anderson sposa il batterista dei Motley Crue Tommy Lee, conosciuto appena quattro giorni prima. Qualche tempo dopo qualcuno ruba loro un video privato amatoriale a luci rosse girato durante la luna di miele. Il filmato, 39 minuti davvero hot, comincia a circolare sul web. Succede il finimondo e fermarlo appare presto impossibile. Dopo aver portato in tribunale la società che lo ha diffuso, i Lee rinunciano nel dicembre 1997 a bloccarlo e raggiungono un accordo transattivo: il video che fino a quel momento girava clandestinamente, finisce addirittura in vhs e dvd nei sexyshop e milioni di persone lo scaricano su internet. È il 1998. Ma i tempi della censura e del moralismo sono ormai terminati da un pezzo: ciò che arriva a Pamela Anderson è una popolarità decuplicata. E non in maniera negativa. In quasi tutti i sondaggi diventa la numero uno nell’immaginario sexy, ma conquista anche grande simpatia nelle donne. Presto la sezione Internet del Guiness sancisce che è la donna più menzionata nel web, con collegamento a 1 milione e 540mila siti. E non siamo ancora all’anno 2000. Nel 1999 spunta un altro suo video privato, girato ai tempi in cui era fidanzata col cantante Bret Michaels, che riuscirà parzialmente a fermarne la diffusione. Il web sembra come impazzito. D’altronde siamo nei momenti in cui, al cinema, il sesso esplicito nei film impegnati viene sdoganato. Diventa, anzi, quasi una costante. Succede, ad esempio, col professore di filosofia diventato regista Bruno Dumont, che dirige una serie di pellicole d’autore piuttosto scabrose: con L’età inquieta, nel 1997, che mostra un rapporto sessuale reale, vince il Premio Jean Vigo. Due anni più tardi la scrittrice Catherine Breillat porta 111 sugli schermi Romance, in cui arruola anche Rocco Siffredi e nel quale l’attrice Caroline Ducey non nasconde proprio nulla: il film è candidato al British Independent Film Awards come miglior film straniero. Pare quasi che più le dive osino sfondare nel realismo sessuale, più riscuotano consensi. Kerry Fox, attrice già affermata, partecipa allo scandalo interpretando Intimacy, in cui le scene di sesso sono palesi: conquista l’Orso d’Argento come miglior attrice al Festival di Berlino. Lo scandalo, insomma, porta successo. Da allora alcuni registi e star già ben noti si cimenteranno in pellicole, d’autore s’intende, con scene di fellatio e rapporti completi, fino ad arrivare ai limiti di Nymphomaniac del 2013, dove le scene di vero sesso non si contano più: e il film viene salutato come il capolavoro di Lars Von Trier. Nasceranno presto anche serie tv dove il sesso reale la fa da padrona, come X Femmes su Canal Plus, che in un episodio recluterà come protagonista nientemeno che Victoria Abril. In molti casi registi, le stesse attrici o perfino i titoli di coda dei film tendono a precisare che le scene di sesso esplicito non sono state interpretate dai protagonisti, ma da attori hard professionisti. Vero o meno che sia, il punto non è questo: il nodo centrale è che si capisce come l’esibizione delle sessualità possa andare di pari passo con la celebrità, aumentandola in maniera esponenziale. E non solo al cinema. Nel 2003 finisce in Rete un video hot privato di Paris Hilton. Ventidue anni, modella, ha partecipato ad un paio di film non esattamente da botteghino. Il nonno Barron è il proprietario dell’immensa catena alberghiera degli 112 Hilton e proprietario della squadra di football americano dei San Diego Chargers. Il video hard, dal titolo 1 Night in Paris, buttato fuori alla vigilia della partecipazione di Paris Hilton al reality per miliardarie The Simple Life viene visto e scaricato da mezzo mondo, per quando la bella ereditiera non sia nota come Pamela Anderson, anzi. Narrano le cronache che il filmato sia stato diffuso dall’ex fidanzato, Rick Salomon, coprotagonista della notte d’amore. Lei ha tentato causa, poi, nel 2005, si sono messi d’accordo. Nello stesso anno, finito pure in dvd, il video amatoriale riceve diversi AVN Awards, l’Oscar del porno, come film più venduto dell’anno, film più noleggiato dell’anno e miglior campagna di marketing-progetto individuale. Quel che è sicuro è che da allora Paris ha inciso dischi, partecipato a numerosi film, aperto una linea di profumi. Sulla carriera artistica, i media sono impietosi: sul Guiness dei Primati, sempre nel 2007, appare come la “celebrità più sottovalutata”. In alcuni sondaggi – firmati Associated Press e AOL- è votata come “peggior celebrità nel ruolo di modella del 2006”. Ma Paris diventa imprenditrice di grido, tanto che la rivista Variety la decreterà nel 2011 come “imprenditrice dal miliardo di dollari”. E questo nonostante nel 2007 il nonno abbia donato il 97% del patrimonio destinato alla nipote alla fondazione benefica messa in piedi dal padre, stanco che Paris facesse parlare di sé per la vita mondana, il gossip, gli arresti per guida in stato di ebbrezza, eccesso di velocità e guida senza patente. Sarà un caso, ma dopo il caso del video hot dell’ereditiera, si entra nell’era dei sextape: filmati amatoriali a luci rosse i cui protagonisti sono divi e dive del cinema, della musica e dello sport. Sempre diffusi da ex gelosi. E casi sempre chiusi con accordi. Diventano in breve così tanti – in 113 Rete moltissimi siti vivono ormai soltanto di sextape di celebrità - da non destare più nemmeno scandalo. Perché, è evidente, nella stragrande maggioranza degli episodi, si tratta di mere operazioni di marketing. Anche se, ovviamente, qualche eccezione c’è. Perché l’ultima cosa che Max Rufus Mosley avrebbe voluto è che un suo video hot privato diventasse di dominio pubblico. Il festino del capo della Formula Uno Classe 1940, Max è il figlio di Sir Oswald Mosley, l’ex ministro laburista inglese poi diventato antisemita e fondatore della British Union of Fascists, e di Diana Mitford, scrittrice inglese sostenitrice dell’estrema destra. I due si sposarono segretamente nella casa del gerarca nazista Joseph Goebbels e Adolf Hitler fu l’ospite d’onore. Ma questo non ha mai inciso negativamente sulla carriera di Max, che diventato avvocato, si affaccia presto sul mondo dei motori. Prima come modesto corridore, poi aprendo una propria scuderia, la March Engineering. Con Ken Tyrell, Frank Williams e Bernie Ecclestone dà il via alla Formula One Constructors Association. È una corsa al vertice continua che lo porta nel 1993 a diventare inamovibile presidente della FIA, organo di governo della Formula 1, per ben tre mandati: 1997, 2001 e 2005. Sicché, quando lo scandalo esplode, succede davvero il finimondo. È il 30 marzo 2008 e il settimanale inglese News of the World pubblica alcuni fotogrammi di un video amatoriale di 5 ore in cui Max Mosley partecipa ad un’orgia sadomaso con alcune squillo. Secondo il tabloid, che con quel numero vende nientemeno che due milioni di copie, si tratterebbe di un’orgia in abiti nazisti e con divise che ricordano quelle indossate dagli internati nei lager. 114 Dal Corriere della Sera: «Mosley, orgia nazista con prostitute» Il presidente della Formula Uno messo alla gogna da un video di 5 ore: dà ordini in tedesco, frusta e si fa frustare LONDRA - «Orgia nazista con cinque prostitute». Con questa pesante accusa il presidente della Formula Uno Max Mosley è stato messo alla gogna da News of the World. «In segreto è un pervertito sessuale sadomasochista» scrive senza mezzi termini il tabloid domenicale londinese. La prova? Un video di cinque ore dove si vede Mosley - figlio di un famigerato leader fascista britannico - che si atteggia a comandante di un lager nazista durante una «depravata orgia in stile nazista», dà ordini in tedesco alle prostitute nude o seminude, le frusta e poi a sua volta «gode a farsi frustare a sangue» scrive il tabloid inglese. «In pubblico il boss della Formula Uno respinge il malefico passato del padre ma in segreto fa giochi nazisti in un’orgia da 2.500 sterline» sibila il News of the World. Sessantasette anni, enormemente ricco, figlio di quel Oswald Mosley che tra le due guerre mondiali fondò l’Unione Britannica dei Fascisti e manifestò una sperticata ammirazione per Hitler e Mussolini, il presidente della Formula Uno avrebbe dato sfogo ai suoi istinti venerdì in un lussuoso appartamento nel quartiere londinese di Chelsea. Pagando in anticipo alla “dominatrice” (la prostituta-leader) 2.500 sterline in contanti, circa 3.100 euro. Il tabloid non spiega come i suoi “segugi” siano riusciti a mettere mano sul video hard ma fa un dettagliatissimo resoconto dell’orgia, con Mosley che alterna i ruoli dell’aguzzino e della vittima immaginando di trovarsi in un campo di concentramento. Per accentuare lo «stile nazista» due delle cinque prostitute erano vestite come le donne recluse ad Auschwitz. Sposato 115 da 48 anni con Jean, padre di due figli già grandi, Mosley ha lasciato l’appartamento di Chelsea dopo quasi cinque ore. Il tabloid fornisce persino l’ora esatta in cui è uscito dalla porta: le 17.05. «Si tratta di una questione fra Mosley e il giornale» fa sapere una fonte della Federazione internazionale dell’automobilismo. La risposta di Max Mosley arriva il giorno successivo con una lettera aperta in cui spiega che, per quanto il video lo abbia messo in imbarazzo, esclude di dimettersi e che il filmato avesse una “connotazione nazista”: «Ho ricevuto un gran numero di messaggi di simpatia e sostegno provenienti dalla FIA e dal mondo dell’automobilismo sportivo in generale, e tutti mi dicono che la vita privata non c’entra con il lavoro, e non deve influire, e che quindi devo rimanere al mio posto. Ho deciso di seguire il consiglio». E per prima cosa fa causa a News of the World. Bmw e Mercedes-Benz esprimono perplessità sul suo futuro alla guida della FIA. E Mosley risponde anche con un certo sarcasmo, affidando le sue parole alla Reuters: «Considerata la storia di BMW e MercedesBenz, soprattutto prima e durante la seconda guerra mondiale, capisco pienamente perché vogliano prendere le distanze con decisione da questa storia di cui descrivono correttamente come “vergognoso” il contenuto delle pubblicazioni» alludendo evidentemente ai rapporti tra le due case automobilistiche e il Reich. E manda, ancora, una lettera al presidente dell’Automobilclub tedesco Peter Meyer, che gli aveva chiesto di tornare sui suoi passi: «Non vedo perché dovrei farlo. Io non ho fatto nulla di sbagliato, l’errore è del giornale. E per questo l’ho querelato. Se avessi guidato a velocità folle su una strada pubblica, o ubriaco, allora sì che mi sarei dimesso il giorno stesso». E riparla del sadomaso: 116 «Molti possono trovare che certi comportamenti siano inaccettabili, ma sono inoffensivi e completamente legali. Molta gente fa cose in camera da letto o ha abitudini personali che altri trovano ripugnanti. Ma finché restano riservate nessuno ha nulla da obiettare. L’offesa non è quello che ho fatto io, ma il fatto stesso che sia stata resa pubblica». E ancora, quanto «all’elemento nazista, è un montaggio puro». Di nuovo, in un’intervista al Sunday Telegraph si difende sostenendo che sia uno suo «diritto avere una vita sessuale eccentrica». Quanto alle critiche sul video «si fondano sull’idea che non si può avere una vita sessuale un po’ eccentrica. Ma la maggior parte della gente dice se qualcuno ama questo genere di cose, finché non offende nessuno e resta nel privato, la cosa non la riguarda». Ma lo scandalo presto si allarga. Siamo alla metà di maggio del 2008 e, mentre il destino di Mosley a capo della FIA pare ora incerto (ma la FIA si pronuncerà poi a larga maggioranza per la sua permanenza in carica), escono nuovi dettagli, altrettanto clamorosi, perché coinvolgono esponenti istituzionali piuttosto delicati. Scrive ancora il Corriere della Sera: «All’orgia con Mosley moglie di uno 007» LONDRA - I servizi segreti britannici e lo scandalo sessuale che ha coinvolto Max Mosley. Secondo la stampa britannica un legame c’è. A fine marzo ha sollevato un vero e proprio polverone il video di un’orgia nazista, che aveva come protagonisti il presidente della FIA e cinque prostitute, diffuso dal sito del tabloid britannico News of the world. Ora i giornali inglesi scrivono che una delle cinque ragazze con Mosley è la moglie di un agente dell’MI5, l’agenzia per la sicurezza e il controspionaggio del Regno Unito. Secondo il Sunday Times, il mese scorso, sarebbe stato lo stesso agente a dare la notizia, costretto in un secondo momento 117 a dare le dimissioni. Grande imbarazzo per Jonathan Evans, direttore generale dell’MI5, che ha subito informato della cosa il premier Gordon Brown affermando come l’agenzia non abbia alcun ruolo nella vicenda. «Tutte le supposizioni- ha fatto sapere un portavoce della MI5- secondo le quali l’agenzia abbia contribuito alla “preparazione” dello scandalo Mosley non hanno totalmente senso». L’agente sarebbe stato spinto a dimettersi perché il comportamento della moglie avrebbe potuto avere conseguenze sulla sicurezza. «Non posso parlare di casi individuali - ha detto ancora il portavoce- ma noi ci aspettiamo regole dure per il comportamento dei membri del nostro personale, sia sul piano professionale che privato. In ogni caso dove un membro non abbia rispettato queste norme, dei provvedimenti saranno presi». Il 3 giugno un’assemblea straordinaria della FIA voterà la fiducia di Mosley. Il 24 luglio 2008 - dopo una prima pronuncia in senso contrario dato che autorizzava la diffusione di una miniclip del video - il tribunale gli dà ragione, condannando il tabloid a risarcirlo con 60mila sterline. L’Alta Corte di Londra ritiene infatti che l’orgia non avesse connotati nazisti e giudica il servizio una grave violazione della privacy. E a parlare è ora Michelle, la prostituta moglie dell’agente segreto britannico, che in un’intervista a Sky News presenta le sue scuse a Mosley: «Mi dispiace moltissimo per sua moglie e per la sua famiglia. Sono stata ingenua e stupida». È lei ad essersi infatti prestata a girare il video per il tabloid. Due figli, professione dominatrix in gonna di pelle, calze a rete e frustino in mano nei suoi servizi pubblicitari circolanti in Rete, dice ancora sulla moglie di Mosley: «Deve essere stata una cosa devastante. Non se lo meritava. Vorrei soltanto inginocchiarmi e chiedere scusa. Vorrei non averlo mai fatto». 118 Mosley va all’attacco. Parla alla Gazzetta dello Sport: «L’orgia? Tutto vero, tranne la storia del nazismo. Chi mi critica pensa che il sesso sia solo quello classico, ma non è così. Mia moglie si è arrabbiata, ma non divorzieremo». E alla domanda se non fosse stato più dignitoso lasciare appena scoppiato lo scandalo, risponde senza esitazioni: «Non l’ho mai considerato. Visto la falsità della colorazione nazista ho pensato a contrattaccare. La FIA mi ha appoggiato: non avessi avuto il voto favorevole, me ne sarei andato». Il 5 maggio 2009 il figlio di Max Mosley, Alexander, viene trovato morto in un appartamento di Notting Hill, Londra, per overdose da eroina. Un mese e mezzo più tardi Max annuncia di non volersi ricandidare alla guida della FIA. Passano due anni. E si scopre che l’intrusione nella privacy sarebbe il problema minore del News of the World, il più venduto giornale in lingua inglese del mondo: il tabloid viene infatti costretto alla chiusura dato che emerge che alcuni suoi giornalisti effettuavano intercettazioni telefoniche abusive e corrompevano agenti di polizia per ottenere notizie riservate su politici e vip. Nel 2014 Mosley fa causa a Google per la diffusione delle immagini del party erotico attraverso il motore di ricerca. I giudici prima in Francia e poi ad Amburgo stabiliscono che i frame dell’orgia non vadano diffusi. Google presenta appello. Ma un anno più tardi, maggio 2015, viene raggiunto un accordo riservato tra le parti: «L’accordo è confidenziale – dichiara Mosley - sono felice e non voglio metterlo a repentaglio». 119 Morire di sesso: David Carradine e Kristian Digby Un conto è la sessodipendenza. E un altro cercare di moltiplicarne i piaceri mettendo a repentaglio la propria vita: il 3 giugno 2009 fa il giro del mondo la notizia della morte di David Carradine, 73 anni, in una stanza d’albergo di Bangkok, città in cui stava girando un film. Figlio d’arte, per intere generazioni il suo volto più noto è stato quello del placido ma implacabile monaco Kwai Chang Caine della serie televisiva Kung Fu, 63 episodi diventati vero e proprio cult e nel cui ruolo principale fu preferito al giovanissimo Bruce Lee. Ai più giovani è invece stampato nei ricordi come uno dei protagonisti di Kill Bill di Quentin Tarantino. Inevitabile che il caso appassioni più di due generazioni. Un caso che appare subito strano. Com’è morto l’attore? All’inizio si parla di un suicidio per impiccagione. Poi la polizia thailandese rivela che David è stato trovato nudo con i genitali legati ad una corda. E non solo. Spiega ai giornalisti Worapong Siewpreecha, uno degli ispettori di polizia intervenuti sul posto: «Aveva una fune legata attorno al collo e un’altra intorno all’organo sessuale, ed entrambe le corde erano legate insieme e appese nell’armadio. Considerate le circostanze non possiamo essere sicuri che si sia suicidato, ma potrebbe essere morto per un folle gioco legato alla masturbazione». La versione è confortata dal fatto che le telecamere a circuito chiuso dell’hotel non hanno visto né uscire né entrare qualcuno in camera. Ma la famiglia non accetta la versione ufficiale. Pochi giorni dopo Mark Geragos, uno dei loro legali, racconta a Larry King della CNN che l’attore voleva indagare su alcune società segrete di arti marziali. Il fratello di David, Keith, chiede una nuova autopsia a Los 120 Angeles e l’intervento dell’FBI. La stampa internazionale riporta tuttavia le dichiarazioni delle sue ex mogli secondo cui Carradine aveva una forte passione per il bondage. In particolare, secondo alcuni siti scandalistici americani, l’ex quarta coniuge Marina Anderson, separatasi nel 2001, nelle sue denunce presentate per il divorzio, sottolineò che il marito aveva «un comportamento sessuale ripugnante e anormale, potenzialmente letale». Caso chiuso? Forse. Proprio Marina pubblica successivamente il libro David Carradine: The Eye of My Tornado nel quale racconta di aver svolto indagini private sulla morte dell’ex marito. E di essere convinta che non fu accidentale. Ma David Carradine non è l’unica star che si ritiene morta con pratiche del genere. Kristian Digby, 32 anni, notissimo volto della BBC, tv sulla quale conduceva programmi televisivi sul mercato immobiliare, lo ritrova la proprietaria di casa, Asiya Rasheed, allertata da Jason, il suo compagno, un ex poliziotto che non riusciva a trovarlo al telefono, nella sua casa di Stratford, est di Londra. Il cadavere è sul letto con indosso solo i boxer. Scotland Yard esce poco più tardi dall’abitazione con una cintura e un sacco. È il primo marzo 2010. Secondo le autorità Kristian è morto per asfissia. Come, non è ancora chiaro. Amato dal pubblico fin dal 2003, quando aveva iniziato a condurre il programma To buy or not to buy, Kristian ha condotto anche diversi programmi sull’omosessualità, battendosi contro le discriminazioni. Il caso fa discutere molto. Sette mesi più tardi il referto autoptico fornisce qualche spiegazione in più su come si sia arrivati all’asfissia. E sono spiegazioni scioccanti: Kristian si è soffocato con una busta di plastica legata alla testa con una cintura. Ma non si tratta di suicidio. Si tratta, ancora una volta, di un gioco autoerotico, secondo cui in apnea il piacere si 121 moltiplica: ipossifilia. Di più: nel corpo non sono state trovate tracce di alcol o stupefacenti. In compenso, di fianco al cadavere, è stata rinvenuta una bomboletta spray di anestetico locale, il cloruro di etile, che se inalato, sarebbe in grado di aumentare il piacere quasi come il popper. 122 SEXGATE L’Europa politica degli scandali L’ultimo è il caso del lord britannico John Buttifant Sewel, del quale il tabloid The Sun ha diffuso un video mentre, mezzo nudo, sniffa polvere bianca con una banconota sul seno di una donna durante un festino. Secondo il giornale le donne che lo accompagnavano erano due escort. Sewel si è dimesso subito dopo. Per quanto quasi sempre vogliano decidere non solo delle leggi, ma anche dell’aspetto etico-morale dei cittadini che rappresentano, politici e scandali sessuali vanno a braccetto un po’ovunque. In Italia, terra per antonomasia della famiglia tradizionale cattolica, scandali del genere non si contano nemmeno più. Il primo e, per i tempi, più clamoroso, fu certamente quello che esplose nel 1953, quando fu trovato sulla spiaggia di Capocotta il cadavere di una giovane, Wilma Montesi. Qualche mese più tardi 123 una donna raccontò che Wilma era morta forse per overdose nel corso di un’orgia a casa del marchese Ugo Montagna, alla quale aveva partecipato il musicista Piero Piccioni. E cioè il figlio del potente ministro degli Esteri Attilio, destinato ad ereditare la guida di De Gasperi alla Dc. La vicenda si trasformò in un clamoroso tritacarne mediatico e coinvolse dodici imputati, tra cui il questore di Roma, accusato di voler insabbiare le carte. Ma vide tutti assolti con formula piena. Il più noto scandalo è rappresentato invece dalla vicenda del bunga bunga, ossia le cene eleganti organizzate a casa di Silvio Berlusconi, di cui, per anni, ha parlato il mondo intero. Eppure, se soltanto si valicano le Alpi, si scopre che sotto le lenzuola ognuno nasconde segreti. Sette anni prima di diventare Presidente della Repubblica francese, ossia nel 1974, François Mitterand ebbe una figlia, Mazarine Pingeot – oggi scrittrice- da una relazione extraconiugale con Anne Pingeot. La riconobbe durante il suo primo mandato presidenziale, nel 1984, ma ci vollero altre dieci anni prima che l’opinione pubblica venisse a saperlo. Nicolas Sarkozy è stato sposato tre volte. Cécilia Ciganer-Albéniz, la seconda delle sue mogli, lasciò il marito nel 1988 per andare a vivere con lui. Ottenuti i rispettivi divorzi, si sposarono nel 1996. Ma nell’ottobre 2007, quando Sarkozy è già da mesi all’Eliseo, la fine del rapporto si consuma davanti agli occhi dei francesi, tanto che il presidente perde le staffe nel corso dell’intervista alla trasmissione americana 60 Minutes. Due mesi più tardi Sarkozy ufficializza la sua relazione con l’ex modella Carla Bruni, che sposerà dopo una cinquantina di giorni. Non da meno gli scandali che hanno coinvolto François Hollande che, mentre era convivente con Ségolène Royal, dalla quale ebbe quattro figli, coltivò una relazione per diversi anni con la giornalista di Paris Match Valérie 124 Trierweiler, reduce da due divorzi, il cui rapporto fu reso pubblico solo nel 2010. Ma il 9 gennaio 2014 il settimanale Closer rivelò che Hollande aveva un’amante, confermando voci che giravano da quasi un anno: l’attrice francese Julie Gayet. Quando lo scandalo emerse, Valérie fu ricoverata in ospedale per un malore. Sulle vicende che coinvolsero Carlo e Diana d’Inghilterra, coi rispettivi amanti, si sono scritti libri su libri. Per la morte della principessa nell’incidente nella galleria del Pont de l’Alma a Parigi il 31 agosto 1997 si parla ancora di un complotto nonostante le indagini sia francesi che inglesi lo abbiano più volte escluso. E a far riparlare del caso è un articolo del Daily Mail nell’agosto 2015, che racconta come, non appena giunse la notizia della morte di Diana e del suo ultimo compagno Dodi AlFayed, la Regina Elisabetta commentò: «Qualcuno deve aver ingrassato i freni». Il Daily Mail ha ripreso la frase dal libro The Queen’s Speech di Ingrid Seward, che riapre così un giallo infinito. Tra le nuove rivelazioni su Diana, quelle di Selina Scott, volto noto della tv britannica, secondo cui Lady D fu anche vittima di stalking. Lo scrive sul Sunday Times, sostenendo che l’autore della corte spietata sarebbe nientemeno che Donald Trump, il magnate in corsa per la Casa Bianca: «La bombardò con enormi bouquets di fiori, ciascuno del valore di centinaia di sterline. Trump vedeva Diana come l’ultima moglie trofeo da esibire». Anche se prove di questo stalking non ce ne sono. D’altra parte l’Inghilterra è da sempre la patria europea degli scandali sessuali. E non solo riguardo i Reali. Decenni prima del bunga bunga, esplose infatti il clamoroso caso del ministro John Profumo. Erano gli anni della guerra fredda. Esattamente il 1961 e Profumo allacciò una breve relazione con la showgirl e prostituta d’alto bordo 125 diciannovenne Christine Keeler, che nello stesso periodo era legata a Eugenij Ivanov, presunto agente del Kgb sotto copertura. Profumo era un conservatore, apparentemente felicemente sposato con la bella attrice Valerie Hobson. Quando la storia emerse, un anno più tardi, lui all’iniziò negò. Poi, dietro la spinta mediatica, ammise e lasciò la politica attiva. Un antesignano dei sexgate avvenuti in mezzo mondo. Di una carrellata di vicende del genere ho già avuto modo di scriverne nel secondo volume dell’Enciclopedia del Sesso (GVP editore), per documentare la differenza tra vizi privati e pubbliche virtù che caratterizza buona parte degli esponenti istituzionali a qualsiasi latitudine. Solo per attenersi agli ultimi scandali, nel 2007 il presidente israeliano Moshe Katsav si dimise perché accusato di abusi sessuali e in un caso di stupro – oltre che a intercettazioni illegali e frodi- nei confronti di quattro donne che avevano lavorato alle sue dipendenze sia quando era ministro del turismo sia quando era già diventato presidente. Sei mesi più tardi toccava a Ilkka Kanerva, ministro degli esteri finlandese, che, nel marzo 2008, si dimise perché scoperto di aver mandato circa 200 sms piccanti ad una spogliarellista. Seguiva John Della Bosca, settembre 2009, ministro della sanità del Nuovo Galles del Sud, che si dimise anticipando le rivelazioni del Daily Telegraph su una sua storia di sei mesi con una donna di 26 anni. E nel gennaio 2010, il primo ministro dell’Irlanda del Nord Peter Robinson, si autosospese dall’incarico per sei settimane, in seguito alle voci sulla relazione di sua moglie Iris con un ragazzo di 19 anni al quale aveva fatto anche avere un prestito non dichiarato. La donna, pure lei deputata al parlamento dell’Ulster, aveva ammesso l’infedeltà e lui l’aveva perdonata pubblicamente. Ma la vicenda 126 divenne presto un caso politico impossibile da reggere. Dall’Irlanda del Nord alla Gran Bretagna il passo è breve: nel 2013, un altro tradimento suscitò clamore. Ma ebbe l’effetto di un boomerang. Protagonista Vicky Price, 60 anni, ex moglie del liberaldemocratico Chris Huhne. La donna, nel 2003, si era fatta carico di una multa presa dal marito per eccesso di velocità con tanto di rischio di ritiro della patente. Lo amava al punto di diventarne complice. Finché Chris non la tradì. Infuriata, svelò tutto: disse che era stato lui a guidare quel giorno e che l’aveva manipolata per farsi addossare le colpe. E in effetti Huhne ha ammesso. Si è dimesso da ministro e da deputato. Non sapeva però Vicky Price che ogni vendetta può avere dei costi da patire: e infatti a marzo 2013, proprio per l’inganno protratto per difendere il marito nel 2003, la donna è stata riconosciuta colpevole di malversazione della giustizia. Gli scandali sessuali americani Ma chi prese più in giro l’Italia per la vicenda bunga bunga furono gli americani. I quali, com’è noto, sono pubblicamente piuttosto puritani. E forse, proprio per questo, in materia di scandali sessuali, risultano inarrivabili maestri. Il più bizzarro riguarda Anthony Weiner, deputato democratico al centro non di uno, ma di due scandali sessuali. Il primo avvenne per i suoi selfie in mutande (e in erezione) postati su Twitter ad alcune ragazze, seguiti da chat a luci rosse con la pornostar Ginger Lee. La quale raccontò come l’approccio del politico fosse stato di natura ben diversa. Le aveva parlato di aborto e riforma sanitaria. Poi era passato a cose più pratiche e decisamente più spinte. Quelle che davvero lo interessavano. «Dopo l’esplosione dello scandalo - rammentò la donna - Weiner mi ha chiesto di mentire sulle nostre comunicazioni». Foto 127 e chat porno costarono a Weiner – che inizialmente gridò come sempre accade al complotto- le dimissioni dalla Camera dei Rappresentanti, il 17 giugno 2011. Pianse, mostrandosi sinceramente pentito. E la moglie, Huma Abedin, ex collaboratrice di Hillary Clinton, lo perdonò. Passarono due anni e mentre era in corsa per la poltrona di sindaco di New York, spuntarono nuove immagini di Weiner, che in chat si faceva chiamare Carlos Danger. Foto decisamente più esplicite rispetto a quelle del passato. Le tirò fuori il sito di gossip The Dirty. Ed emersero pure nuovi messaggi erotici, inviati alla giovane Sidney Leathers. «Avevo detto che altri messaggi e foto sarebbero probabilmente venuti fuori e oggi è successo - si difese Weiner-. Come ho già detto in passato queste cose che ho fatto erano sbagliate e dannose per mia moglie. Hanno posto sfide al nostro matrimonio, sfide che sono andate oltre le mie dimissioni dal Congresso. Mentre alcune cose postate oggi possono essere vere e altre no, questo comportamento è ormai alle mie spalle. Mi sono scusato e voglio di nuovo dire che mi dispiace». Invece, secondo il New York Post non solo quelle foto erano nuove, ma Weiner aveva continuato a postarle pure dopo lo scoppio dello scandalo. E se Weiner è il caso più bizzarro, non è certo l’ultimo, che risponde invece al nome di Adam Kuhn, a capo dello staff del repubblicano Steve Stevers, Ohio, costretto alle dimissioni nel giugno 2014 a causa di una relazione piuttosto particolare con Jennifer Roubenes Allbaugh, in arte Ruby, ex pornostar americana. L’attrice, duecento film hard alle spalle, ritiratasi per crescere i propri figli, ha postato sul profilo twitter di Stivers la foto del pene di Khun. «Ti odio stronzo, ora siamo pari». Poi ha cancellato il post, ma forse era un po’ tardi. D’altra parte, se si vuole trovare uno scandalo sessuale 128 negli Stati Uniti, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Tra i primi, nel 1974, si fece notare Wilbur Mills, 65 anni, il deputato più influente del Congresso, presidente della commissione sulle tasse: una spogliarellista piuttosto formosa sbucò dalla sua auto per tuffarsi nel laghetto artificiale di fronte al maestoso monumento a Thomas Jefferson. Tale Annabell Battistella, in arte Fanne Foxe, nota nel mondo dello striptease come il “petardo d’Argentina”. Mills, dopo aver invano negato, frenò la sua corsa alla presidenza della commissione, che non raggiunse mai. Due anni dopo, 1976, toccò a Wayne Hays, potente leader democratico alla Camera, costretto alle dimissioni quando si scoprì che aveva assunto come segretaria la sua giovane amante. Il deputato repubblicano e conservatore Robert Bauman, finì trombato alle elezioni dopo essere stato accusato di averci esplicitamente provato con un sedicenne. John Jenrette, democratico della Carolina del Sud, già dimessosi per una vicenda di mazzette nel 1980, vide compromessa definitivamente la propria carriera quando l’ex moglie Rita posò nuda per Playboy, raccontando di un loro vecchio amplesso sulla scalinata del Congresso. Nel 1983 i deputati Gerry Studds, democratico del Massachusetts, e Daniel Crane, repubblicano, furono “censurati” per aver avuto rapporti sessuali con stagisti minorenni, rispettivamente con un fattorino di 17 anni e con una ragazzina, sempre diciassettenne. Quattro anni più tardi Gary Hart, il primo tra gli aspiranti tra i democratici alla Casa Bianca, venne fotografato su uno yacht insieme all’amante Donna Rice, seduta sulle sue ginocchia. Gli fu chiesto in una conferenza stampa se avesse mai commesso adulterio. Lui non rispose. E la sua carriera politica finì lì. Più avanti nel tempo si andò oltre: nel 1989 il repubblicano dell’Ohio Donald Lukens venne condannato 129 per aver avuto rapporti sessuali con una sedicenne. Stessa accusa e condanna per Mel Reynolds, nel 1995, democratico dell’Illinois. Nel medesimo anno, Robert Packwood, repubblicano assai noto dell’Oregon, si dimise dalla carica dopo le accuse di molestie sessuali. E nel 2007 il notissimo Larry Craig, senatore repubblicano dell’Idaho, lasciò in seguito ad un arresto, per aver tentato di far sesso con un poliziotto in borghese in un bagno pubblico. Gli affari sessuali del Presidente I presidenti degli Stati Uniti d’America sono stati travolti da scandali a ripetizione, fin dai tempi di Thomas Jefferson, tra i padri fondatori della patria e terzo presidente: ebbe due figli da due delle sue schiave. Andrew Jackson, settimo presidente, finì travolto dallo scandalo in quanto sua moglie Rachel Donelson era bigama. Grover Cleveland, presidente per due mandati, ebbe un figlio illegittimo. Su Dwight Eisenhower, presidente tra il 1952 e il 1960, si accesero i riflettori rosa per la relazione con Kay Somerville, sua autista personale durante la guerra. E i rumors su tradimenti e scappatelle d’amore non hanno risparmiato neppure Warren Harding, Franklin Delano Roosevelt, Dwight Eisenhower e Lyndon Johnson. L’epopea dei Kennedy Ma certamente nulla è paragonabile all’epopea dei Kennedy. Solo che le voci sulla vita sessuale disinibita che riguardarono John Fitzgerald Kennedy furono tutte successive alla sua morte. Una volta ucciso nell’attentato di Dallas del 22 novembre 1963, queste voci si moltiplicarono a dismisura. La relazione più nota rimase certo quella con Marilyn Monroe. Ma tra le infinite scappatelle che gli vennero riconosciute si contarono anche quelle con 130 Jean Simmons, Lee Remick, Mary Pinchot Meyer, Pamela Turnure, Betty Grable. Christoper Andersen, nel suo libro del 1996 Jack e Jackie, ritratto di un matrimonio americano, gli attribuì anche un flirt con Sophia Loren (relazione che l’attrice ha smentito). E scrisse che «La frenesia sessuale di Kennedy era provocata da una potente droga antidolorifica che ne esasperava l’erotismo, un cocktail di anfetamina e steroidi». Secondo alcune rivelazioni gli ultimi anni, pare pure che JFK amasse sguazzare tutto nudo nella piscina della residenza di Pennsylvania Avenue con accanto un paio di “fidate collaboratrici” molto formose soprannominate Fiddle e Faddle. Di fatto, quando emerse il mare di donne che lo aveva accompagnato, l’allora First Lady, Jacqueline “Jackie” Kennedy, finì per essere considerata un esempio di stile e fedeltà, capace di stare vicino ad un uomo che l’aveva tradita così tanto. Forse. Ma un libro uscito a giugno 2014, Jacqueline Kennedy Onassis: a Life Beyond Her Wildest Dreams, scritto da Darwin Porter e Danforth Prince, racconta tutt’altra storia e Jackie appare decisamente diversa. Si sa ad esempio che, dopo la morte di John, ebbe una relazione con il fratello Bob. Il volume narra tuttavia che Jackie amò anche il terzo fratello Kennedy, Ted. Avrebbe detto quest’ultimo a David Powers, assistente di JFK: «Sapevo che Jackie frequentava anche Bobby, ma questo non mi ha fermato. Mi sono innamorato di lei dal momento in cui l’ho vista». E l’elenco non si ferma qui. Anzi, intera famiglia Kennedy a parte, tra gli amanti di Jackie gli autori ricordano: Peter Lawford, Paul Newman, Gregory Peck, Frank Sinatra, Warren Beatty, William Holden e Marlon Brando. Brando, 131 d’altronde, scrisse nella sua autobiografia, a proposito della prima loro notte: «Aspettava che le chiedessi di andare a letto insieme, alla fine me lo ha chiesto lei». Con John P. Marquand, figlio di un premio Pulitzer Prize, ebbe un rapporto in ascensore. A Truman Capote raccontò del fastidio che le dava la verginità e che prima di JFK aveva fatto sesso con altri cinque uomini. Uno, Ormande de Kay, doveva sposarlo al suo ritorno dalla guerra in Corea. Ma poi era arrivato John. Gli amanti arrivarono dopo. William Holden, dicono gli autori, sostenne di averle insegnato a far bene sesso orale: «Suo marito non insisteva a chiederlo, così le ho detto io come fare. All’inizio era riluttante, ma una volta preso il ritmo, non si fermava più». Seguì la relazione con Gianni Agnelli sulla costa amalfitana. Ma c’è altro. Secondo Porter e Prince, Jackie poco prima dell’attentato di Dallas era pronta a chiedere il divorzio. Anzi, lo era pronta fin dal 1956, quando lo avrebbe confessato alla madre: «Non riesco a pensare di passare il resto della mia vita con lui. Non succederà» avrebbe detto. I problemi sarebbero iniziati poco dopo le nozze, tre anni prima, quando JFK era ancora senatore del Massachusetts: Jackie lo scoprì in ufficio a far sesso con una dipendente. È a quel punto che, a farla desistere dall’intenzione di separarsi sarebbe intervenuto nientemeno che Joe Kennedy, il patriarca della famiglia, nel timore che il figlio perdesse la corsa alla Casa Bianca: per calmarla le avrebbe offerto un milione di dollari sentendosi rispondere che ne sarebbero serviti venti se il marito avesse «portato a casa una qualsiasi malattia venerea presa dalle sue prostitute». Disse agli autori del libro Paul Mathias, ex corrispondente di Paris Match: «Fin dall’inizio della relazione Jacqueline sapeva delle altre donne e questo la addolorava molto». Anche perché, come le aveva spiegato 132 Lem Billings, amico di JFK, John era un “donnaiolo compulsivo” e «non ci sarà mai una sola donna in grado di soddisfarlo». La spietata biografia racconta come, durante la luna di miele, in Messico, JFK avesse confessato alla neoconsorte di soffrire di prostatite, infezioni urinarie e di clamidia, un’infezione trasmissibile per via sessuale. La ragione per la quale, secondo gli autori, Jackie sarebbe stata contenta che le prestazioni del marito a letto fossero veloci. Poi JFK fu ucciso. E dopo la sua morte, mentre stava con Bob ma confidava a Capote di essere innamorata di Ted, fece un salto a letto con Paul Newman. Per poi svelare agli amici: «Paul e John hanno il pene identico. È stato inquietante, sembrava di essere sedotta di nuovo da mio marito». Successivamente sposò Aristotele Onassis e alla morte di quest’ultimo, la vita con gli amanti proseguì alla grande con scrittori, poeti, attori, deputati, medici e un fumettista. Intanto, a cinque anni dalla morte di JFK, anche Bob, candidato alle presidenziali del 1968, era stato ucciso in un attentato a colpi di pistola. E si era iniziato a parlare di maledizione dei Kennedy, i cui scandali non avrebbero interessato solo i tre fratelli. Ma pure il loro padre Joe. Nel 1996 usciva infatti il libro I peccati del Padre di Ron Kessler, che rivelava come Joe avesse speso una fortuna in bustarelle per aprire la strada a JFK verso la Presidenza, tipo pagare 75mila dollari per una copertina a lui favorevole di Life. Di più. Si narrava come anche il patriarca fosse ossessionato dal sesso, tanto da usare i suoi affari nel cinema per stringere relazioni con numerose attrici, tra cui Gloria Swanson. Si ricordava l’episodio in cui offrì denaro ad un’attrice minore per accusare di stupro il proprietario di una catena di sale cinematografiche: l’uomo fu assolto, 133 ma nel frattempo, devastato dallo scandalo, aveva svenduto le sue attività proprio a Joe. Quanto all’attrice, che avrebbe minacciato Joe di rivelare il complotto, fu trovata morta, avvelenata col cianuro. Kessler pescò anche l’amante segreta di Joe, la fedele segretaria Janet Des Rosiers: «Viaggiavamo sempre insieme, sulle navi e sugli aerei, dormendo negli stessi alberghi e, spesso, nello stesso letto. Ricordo un viaggio stupendo a Parigi, solo noi due. Sono stati scritti molti libri sui Kennedy, ma nessuno era mai riuscito a provare la nostra relazione». Janet disse a Kessler che la moglie lo lasciava sempre solo, anche in viaggio: «La sera, in viaggio, era sempre solo. Aveva bisogno di una compagnia. Se non ci fossi stata io, nel suo letto sarebbe scivolata qualche modella di New York». E aggiunse che Joe si faceva dare dai figli i numeri telefonici di possibili “amichette”. Si tratta di fatti impossibili da verificare tanti anni più tardi, ma che allungavano ombre oscure sul capofamiglia dei Kennedy. Non bastasse, un anno più tardi, aprile 1997, scoppiava un nuovo scandalo: venne fuori che Michael Kennedy, figlio di Bob, aveva avuto una relazione con la baby-sitter dei suoi figli, quando la ragazza era ancora quattordicenne. Se ne interessò il procuratore Jeffrey Locke. Data l’età, rischiava un processo per stupro, ma la famiglia della giovane, legatissima ai Kennedy, non era intenzionata a denunciarlo. La moglie di Michael, Victoria Gifford, chiese clemenza per il marito. Fu lei stessa a sorprenderli a letto e successivamente a separarsi. Un mese più tardi, il rampollo chiese scusa a tutti: «Mi rendo contro che sarà difficile, ma spero che col tempo la famiglia della bambinaia possa perdonarmi. Per quanto riguarda mia moglie e i miei figli spero che anche loro mi perdoneranno e che un giorno io 134 possa riguadagnare e meritare la loro fiducia. Intendo fare tutto il possibile per rimediare ai gravi errori commessi e continuare a cercare un aiuto professionale». Il procuratore, stante l’assenza di querela, archiviò il caso. Michael morì cinque mesi più tardi, a 39 anni, in un incidente sciistico sulle piste di Alpen, in Colorado. Nel 2002 sulla famiglia cadde una nuova tegola: Michael Skakel, nipote di Ethel, vedova di Bob Kennedy, veniva condannato per l’omicidio della quindicenne Martha Moxley. Ma nel 2013 il caso è stato riaperto e l’uomo è uscito di prigione con una cauzione di 1,2 milioni di dollari. Nel frattempo altri hanno passato guai. Dopo lo scandalo Skakel, nel 2005 toccò a William Kennedy Smith, nipote di Ted Kennedy, essere scagionato dall’accusa di aver violentato un’ex stretta collaboratrice, Audra Soulias, nel 1999: «Mi ha trascinata a casa sua – disse la donnami ha trascinato sulle scale fin nella sua camera da letto e mi ha stuprato». Audra chiedeva un risarcimento di 3,3 milioni di dollari. Un caso in effetti strano, dato che lei aveva continuato a lavorare per William dopo il presunto stupro. E ad avere col medesimo rapporti sessuali, stavolta tutti consensuali. Solo che quattordici anni prima, nel 1991, William era già stato al centro di un processo per stupro e percosse ai danni di una giovane su una spiaggia di Palm Beach, Florida. Un caso clamoroso che tenne incollata alla tv l’opinione pubblica americana e in cui si giocò tutto sulla parola dell’uno contro l’altra: “he said” e “she said” fu il leitmotiv in tribunale, dove William ammise il rapporto, ma disse che era consensuale. Anche allora fu assolto, tra mille polemiche. Fu il processo che precedette quello di Tyson, ricordate? 135 Nel 2014 William è entrato in politica, come consigliere di quartiere nel Distretto di Columbia. Tra scandali minori e altri morti tragiche i Kennedy sono rappresentano tuttora una delle famiglie più potenti d’America. Il rapporto orale di Bill Clinton Inutile dire che, in tutte queste vicende, l’opinione pubblica americana si è scatenata. Ma mai come per ciò che accadde con il caso di Bill Clinton, il sexgate planetario. Lo scandalo esplose nel gennaio del 1998. Il presidente americano fu accusato di aver avuto una relazione con una giovane «stagista» della Casa Bianca, Monica Lewinsky, all’epoca 24enne impiegata presso il Pentagono e oggi psicologa. Com’è noto, Clinton pose la questione in una maniera che lasciò di stucco: disse che si era trattato di un “mero rapporto orale”, non un vero e proprio tradimento secondo la religione battista cui apparteneva. Il resto del mondo rise per anni sulla questione, con mariti di ogni parte del pianeta che presero a scherzare su quanto potesse rivelarsi interessante convertirsi alla religione di Clinton. Mentre lui, per aver negato rapporti sessuali, subì l’accusa per impeachment, da cui finì assolto. Un decennio più tardi uscì un libro firmato dal generale Hugh Shelton, ex-capo di stato maggiore delle forze armate americane. Il militare raccontò che la mattina dopo lo scoppio dello scandalo Lewinsky, Clinton non trovò più un piccolo cartellino. Conteneva i codici segreti per ordinare attacchi nucleari. È stato allora che abbiamo smesso di ridere. 136 ODIO, VIOLENZA E DELITTI Un complotto nel pattinaggio Tonya Harding era una pattinatrice di ottimo livello. La seconda ad aver eseguito il difficilissimo salto detto “axel”, seconda ai mondiali del 1991. Quando nei due anni successivi la sua carriera iniziò a conoscere una fase calante e la sua vita sentimentale andò a pezzi, con il divorzio da Jeff Gillooly, fu coinvolta in un “complotto”: il 6 gennaio 1994 la favorita per i campionati nazionali, Nancy Kerrigan, fu infatti aggredita, colpita da una sbarra al ginocchio destro e si ritirò dalla competizione. E il titolo andò a lei, Tonya. Le indagini scoprirono però che era stato proprio il suo ex marito a pagare l’aggressore. Tonya negò. E partecipò comunque alle Olimpiadi invernali, finendo ottava: la Kerrigan vinse invece la medaglia d’argento. Per evitare il processo sull’aggressione, Tonya pagò una multa di 160mila dollari. E la federazione la 137 bandì a vita, revocandole il titolo nazionale. Più avanti tornò alle cronache per un video hard amatoriale girato con Gilloly e diffuso online. Nel 2002 entrò infine nella boxe professionistica, sport forse più adatto al suo carattere. La violenza di Mel Gibson Succede, a volte, che le star perdano la testa. Inebriate da potere e voglia di arrivare sempre più su perdono il senso della misura. Ci sono vicende di arresti per guida in stato di ebbrezza o droga, o ancora per liti se non risse. Ma episodi come quello della Harding sono decisamente più rari. Così come altre vicende che invece fanno davvero scandalo, rischiando di oscurare la fama del protagonista. È stato il caso, ad esempio, di Mel Gibson, uno degli attori più amati del mondo. Sposato per oltre venticinque anni con Robyn Moore, da cui ha avuto sette figli, la sua separazione è stata tra le più care nella storia di Hollywood, con un mantenimento da oltre 400 milioni di dollari. Nel 2011 Gibson dirà che Robyn volle interrompere il loro rapporto il giorno dopo il suo arresto per guida in stato di ebbrezza a Malibù. Quel giorno capitò altro. Fermato dalla polizia, si rivolse ad uno degli agenti, rimproverandolo di essere ebreo e sostenendo che erano stati gli ebrei a causare le guerre mondiali. Si trattava dell’ultima bufera in cui era incorso. Cattolico integralista, figlio di un uomo che negava l’esistenza dell’Olocausto, Mel era stato in passato accusato prima di omofobia e successivamente di antisemitismo per il film La Passione di Cristo. Ma un conto sono le interpretazioni delle opere, un altro la vita reale. Per le frasi al poliziotto, tacque a lungo, finché a Diane Sawyer di Abc, ammise: «Voglio chiedere 138 scusa per quel che ho detto. È stata la farneticazione idiota di un ubriaco. L’ultima cosa che vorrei è essere quel tipo di mostro». Confessò di essere stato dipendente dall’alcol, la sua rovina. Incidente chiuso? Non proprio. Dopo Robyn Moore, Gibson ha avuto una bimba dalla musicista russa Oksana Grigorieva. Ma quando lei lo ha lasciato, lo ha anche denunciato per percosse, maltrattamenti, insulti a sfondo razzista e minacce di morte via telefono. Gli audio, messi in Rete da Radaronline, facevano sentire l’attore che rispondeva così alla compagna che si lamentava di essere stata picchiata: «Te lo meritavi». E ancora: «Ti mando al cimitero, lo sai che ne sono capace». E infine: «Sembri una scrofa in calore. Se un gruppo di negri ti violenta, sarà solo colpa tua. Come osi comportarti come una stronza quando io sono stato così carino con te? Un giorno vengo e ti brucio casa. Ma prima me lo devi succhiare». Dopo aver patteggiato 36 mesi di libertà vigilata e un programma di riabilitazione psichica, è stato abbandonato da Hollywood e licenziato dall’agenzia William Morris Endeavor Entertainment. Ancora nel 2011 giura di non aver mai maltrattato nessuno e che quei nastri registrati furono modificati, così come avevano messo in luce alcuni esperti forensi. Chiude la vicenda con la Grigorieva risarcendola con 750mila dollari e rinunciando all’affidamento della figlia. «Perdonatelo» chiede a Hollywood Robert Downey Jr, l’Iron Man del cinema, che dal 1996 al 2001 era stato arrestato numerose volte per droga, finendo in galera e arrivando a dire ad un giudice: «Mi sento come se avessi una pistola carica nella mia bocca e il dito nel grilletto, e io adoro toccare il metallo della pistola». E Mel torna in effetti a lavorare, anche se con meno successo di prima. A marzo 2014 viene ancora accusato di insulti antisemiti ad un poliziotto. E finisce ancora in clinica per farsi curare dall’alcolismo. 139 Se un telefilm ti cambia la vita A volte un telefilm può cambiare letteralmente la vita. Ma non sempre in meglio. Il caso di Douglas Brian Irvin Jr, reso famoso dalla parte che recitava come poliziotto in CSI, è addirittura grottesco. Nel giugno 2011 si diffonde la notizia secondo la quale a Douglas piace pure farsi passare da poliziotto nella vita, ma solo in particolari contesti: una massaggiatrice lo ha infatti denunciato dopo che lui le avrebbe intimato di far sesso (e gratis) mostrandole un tesserino della polizia e dicendole che se non avesse accettato avrebbe passato seri guai. Quando sono andati da lui, gli inquirenti gli hanno in effetti trovato addosso il tesserino falso e diverse foto sul cellulare in cui appariva in divisa. E lui, negando il ricatto, si è difeso: «Mi servono per entrare nella parte». Il transfert dal film alla vita colpì anche un altro giovanissimo, l’attore di 17 anni Robert Iler che nel 2001, dopo aver interpretato il figlio del mafioso Tony Soprano nella nota serie televisiva, ammise davanti al giudice di New York di avere aggredito, insieme alla sua banda, due giovani su un marciapiede per farsi consegnare 40 dollari. Andò peggio a Lillo Brancato Jr., che nei Sopranos era il giovane mafioso Matthew Bevilacqua, attore scoperto in Bronx da Robert De Niro. Fu proprio nel Bronx che, secondo le accuse, Brancato fece irruzione con un complice in un appartamento. Il complice Steven Armento – padre della sua fidanzata- uccise nella rapina un poliziotto e finì all’ergastolo, lui fu condannato per sola rapina a 10 anni e assolto per il delitto. Lo hanno rilasciato il 31 dicembre 2013, dopo quasi nove anni di prigione. Altri personaggi minori diventano più noti per lo scandalo suscitato che per le loro interpretazioni. Succede con Michael Brea, 31 anni, che sul set non aveva avuto grande fortuna. Era riuscito ad apparire nella famosa serie 140 Ugly Betty, e poco altro. Quando i poliziotti entrarono in casa sua dissero di avergli sentito affermare frasi deliranti sul fatto che sua madre, a terra, in una pozza di sangue e piena di tagli, era posseduta. Lui teneva tra le mani una Bibbia. E una katana da samurai. Chissà, forse pensava che anche la vita fosse un film. E forse lo pensava anche Ricardo Medina Jr, 36 anni. Lo arrestano il primo febbraio 2015. Per anni Ricardo è stato un eroe dei bambini e un pupazzo rosso immancabile tra i giocattoli dell’infanzia. Origini portoricane e figlio dell’omonimo pugile, non era forse molto noto ai più grandi come attore. Nemmeno se si dice che interpretava il ruolo di Cole Evans. Ma se subito dopo si aggiunge che Medina-Cole Evans era il Power Ranger rosso, il Red Ranger, tutti immediatamente capiscono. Protagonista di Power Rangers: Wild Force, la serie in cui i supereroi mascherati combattono contro i cattivissimi Org – demoni che vogliono conquistare la terra per inquinarla-, un giorno ha forse pensato di essere ancora sul set ad interpretare scende finte di combattimento. Dato che quel giorno, secondo le ricostruzioni degli inquirenti, è come se si fosse trovato davanti uno degli Org: ha litigato con il coinquilino Joshua Sutter, a Los Angeles. Poi è andato nella sua stanza insieme alla fidanzata. E quando Joshua è entrato di forza, Medina ha agito. Si vede che il destino di alcuni, buono o cattivo, è legato al ruolo che hanno sempre rivestito nella vita. Perché il Power Ranger lo avrebbe ucciso non a mani nude, non con una pistola, non con un coltello. Le cronache dicono che lo abbia fatto con una spada, tenuta rigorosamente accanto alla porta. Quindi, ha chiamato i soccorsi. Ma le luci, a quel punto, non si sono spente. E sono scattate le manette. 141 Ascesa e declino di Oscar Pistorius Ma certo lo scalpore aumenta quanto più è un divo a macchiarsi di reati di sangue. Oscar Pistorius, sudafricano, per quasi un decennio è stato un eroe. Capace, senza nemmeno una gamba, di correre come il vento, campione paralimpico nel 2004 sui 200 metri piani e quattro anni più tardi nei 100, 200 e 400. Per poi vincere un argento ai mondiali nella staffetta 4x400 contro atleti che le gambe le avevano tutte e due. Il mondo è rimasto stupito. E lo ha guardato con la bocca aperta quando ha partecipato alle Olimpiadi. Perché la carriera del sudafricano Oscar Pistorius è valsa più di migliaia di convegni. È la dimostrazione a chiunque che “diversamente abili” non è una frase “politicamente corretta”, ma qualcosa che può fotografare davvero una realtà spesso sfuggevole alle apparenze. Come per altri eroi dello sport, però, la parabola di Pistorius ha preso all’improvviso una piega verticale, con gli sponsor in fuga e lui chiuso in una cella, accusato di omicidio premeditato. Il destino cambia corso il 14 febbraio 2013, quando in casa sua, alle 4 di mattina, muore la sua fidanzata, la bellissima modella Reeva Steenkamp, uccisa da quattro colpi di pistola. A sparare è stato lui: e lui dice che sì, in effetti ha fatto fuoco, ma pensava fosse un ladro, mentre lei, in realtà, gli stava preparando una sorpresa di San Valentino. Gli elementi raccolti dall’accusa inizialmente sembrano inchiodarlo: secondo la polizia Pistorius avrebbe sparato in camera da letto ferendo la ragazza all’anca. Quindi, quando lei si è rifugiata in bagno, ha esploso altri tre colpi, di cui due alla testa. Poi, ha chiamato i genitori, il suo miglior amico Justin Divaris, gridando alla disgrazia ed è infine sceso tenendone il corpo tra le braccia. Non bastasse, viene trovata in casa una mazza da cricket 142 insanguinata, che verrà analizzata: si vuol capire se l’abbia usata contro di lei o se lei l’abbia utilizzata per difendersi. Anche il movente pare chiaro agli inquirenti: passionale. Sembra che Pistorius fosse tremendamente geloso del rapporto di Reeva con l’attore e cantante Mario Ogle, con il quale aveva partecipato ad un reality: un reality che proprio ora viene messo in onda dalla tv sudafricana. Lo sport è sotto choc. Ci vuol tempo. Un processo mediatico. Poi il giudice di Pretoria Thokozile Masipa prova a riportare tutti alla ragione evitando tesi complottiste. E dice: «Come avrebbe potuto l’accusato prevedere ragionevolmente che il colpo sparato avrebbe ucciso la vittima? Chiaramente non poteva prevedere che avrebbe ucciso la persona dietro la porta». Tuttavia il suo fu un comportamento negligente: è stato condannato in primo grado a cinque anni per omicidio colposo e a tre anni (con pena sospesa) per possesso di arma da fuoco. La rabbia fuori dal ring La parabola discendente di Pistorius riporta a quanto successo esattamente lo stesso giorno di 25 anni prima. All’epoca finiva all’inferno l’epica carriera di uno dei più grandi pugili di ogni tempo: quella dell’argentino Carlos Monzon, l’uomo che aveva privato del titolo mondiale dei pesi medi Nino Benvenuti. Per poi imporsi come incontrastato re della categoria, ritiratosi nel 1977 senza mai perdere lo scettro. Aveva tentato di fare l’attore, ma da allora era stata soprattutto la sua vita privata a farne parlare. Storie d’amore tormentate, la sua prima moglie che gli aveva sparato. Fino alla sera del 14 febbraio 1988. Fu allora che la modella Alicia Muniz, madre del suo quarto figlio, volò dal balcone di casa. L’autopsia rivelò che non era morta per la caduta, ma che era stata 143 prima strangolata. Monzon venne condannato a 18 anni. Quarantotto mesi più tardi, 1995, ottenne la semilibertà. Ma durò poco: si schiantò in un disastroso incidente automobilistico, durante una manovra di sorpasso, morendo a soli 52 anni. L’errore del secolo Da contraltare a Monzon, fece scalpore l’inferno, durato quasi un ventennio, di Rubin Carter, alias “Hurricane”, tra i migliori pesi medi della sua generazione, capace di mandare due volte Emile Griffith al tappeto e di vedersi sfuggire il titolo mondiale per una decisione che destò molte polemiche. Quando la sua vita agonistica era ormai sul viale del tramonto, nel giugno 1966, due uomini di colore spararono in un grill del New Jersey, uccidendo tre persone. I sospetti, grazie ad alcune testimonianze, arrivarono su di lui: passò in galera, come assassino, 19 anni. Finché, grazie alle indagini di alcuni ragazzi, la verità venne a galla, e la Corte Federale riconobbe che l’accusa contro Carter era stata dovuta a “motivi razziali”. Assolto e uscito di prigione, otto anni più tardi gli fu conferita la cintura “ad honorem” di campione del mondo WBC. Denzel Washington lo interpretò in un film. Hurricane, da mero eroe della boxe, è diventò da quel momento il simbolo delle vittime di errori giudiziari. La fuga del campione davanti a 100 milioni di persone Ad altri è andata meglio. O quasi. Orenthal James Simpson, meglio noto come OJ Simpson, tra i più forti giocatori di sempre nel football americano, in grado di incantare l’America tra il 1969 e il 1979, fu accusato di aver ucciso la moglie Nicole Brown e l’amico Ronald Goldman nel 1994. Li ritrovarono nel giardino dell’appartamento 144 di lei. La donna uccisa con 12 coltellate, l’uomo con 20. Simpson, convocato dalla polizia, scappò in auto, dando vita ad un inseguimento guardato in diretta tv da 100 milioni di telespettatori. Ma al processo penale, ne uscì assolto. Il giudizio civile ribaltò la sentenza, condannandolo a risarcire le famiglie delle vittime con oltre 33 milioni di dollari. Nel 2012 nel documentario My Brother the serial killer dedicato al pluriassassino detenuto nel braccio della morte Glen Edward Rogers, il fratello Clay raccontò che Glen aveva confessato a lui e ad un criminologo di essere il vero autore del duplice delitto, avvenuto nell’occasione in cui OJ Simpson gli aveva chiesto di rubare dei gioielli in casa della donna. Le cose non cambiarono. E i guai dell’ex stella, assolto nel penale e condannato nel civile come solo in America può avvenire in merito ad un omicidio, non finirono comunque: fu denunciato più volte per altri reati, tra cui una rapina a mano armata con sequestro di persona, per aver portato via da una camera d’albergo oggetti che, a suo avviso, gli erano stati sottratti tempo prima: cimeli della sua attività sportiva. Al processo non andò benissimo. Un complice raccontò che erano entrati là portandosi una pistola. E in una registrazione si sentiva la voce di OJ dire «nessuno si muova o si farà male». Oggi l’ex giocatore di football è nella prigione di Lovelock Correctional Center. La condanna, durissima, da scontare, è di 33 anni, dei quali 9 senza possibilità di libertà vigilata. La follia di Chris Benoit Per le stelle dello sport i declini sono tanti. Ma il peggiore di tutti fu forse quello di Chris Benoit, un vero 145 divo del wrestling, uno degli atleti più amati, oltre che decorati. Lo ritrovano nel giugno 2007, morto in casa insieme alla moglie e al figlio: lei legata a polsi e piedi. Le indagini rivelano che è la prima ad essere morta. Il giorno successivo è toccato al figlio. Li ha uccisi Chris, che il mattino successivo si è impiccato. La conferma arriva anche dalla cronologia di alcuni messaggi. Poco prima che, secondo il referto autoptico, Benoit si suicidasse, due colleghi del wrestler avevano ricevuto cinque sms: due dal cellulare di Benoit, tre dai telefoni della moglie. Quattro indicano semplicemente l’indirizzo di casa di Benoit. Nel quinto si avverte che i cani sono stati chiusi nella zona piscina e che il garage è rimasto aperto. Tre mesi più tardi Michael Benoit, il padre di Chris, dichiara al programma Good Morning America, in onda sulla ABC, che un’analisi sui tessuti cerebrali del figlio ha evidenziato come il suo cervello risultasse ammalato tanto quanto quello di un malato di Alzheimer di 85 anni. Dice pure di averne trovato un diario, nel quale Chris appariva «estremamente disturbato». Il portiere e la fidanzata sbranata dai cani Ha dell’incredibile anche la vicenda che ha portato in prigione l’ex portiere e capitano del Flamengo Bruno Fernandes das Dores de Souza, più noto come Bruno, celebre per aver segnato un gol su punizione nella Coppa Libertadores del 2008 contro i peruviani del Coronel Bolognesi. A processo è finito con le accuse di sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere. Vittima, la sua amante, la modella Eliza Samudio, scomparsa nel nulla nel 2010. Secondo l’accusa la ragazza era incinta del portiere, ma si era rifiutata di abortire. E per questo, quattro mesi dopo la nascita del figlio, Bruno l’avrebbe uccisa. Di più, una testimonianza di un parente del 146 calciatore, ha rivelato dettagli mostruosi: Eliza sarebbe stata torturata e fatta a pezzi. Parte di lei sarebbe finita nel cemento: i resti, dati in pasto ai rottweiler di Bruno. Nel 2013 Bruno ammette di essere stato a conoscenza del delitto di Eliza, uccisa da un amico e data in pasto ai cani, ma di non aver partecipato all’omicidio. Il 7 marzo 2013 viene condannato a 22 anni di prigione. La star dei Sex Pistols Ma ci sono casi che, per il peso delle star coinvolte, sono destinati a far parlare per decenni, forse per sempre. Come per l’ex bassista appena ventunenne di uno dei gruppi più noti della musica, appena separatosi. Si chiamava John Simon Ritchie ed era il più eccentrico e anticonformista del complesso. Tutti lo conoscevano come Sid Vicious, star dei Sex Pistols. Il 12 ottobre del 1978, in una camera del Chelsea Hotel di New York fu trovata morta la sua fidanzata Nancy Spungen, ventenne, accoltellata allo stomaco. Sid, poche ore dopo, venne arrestato. La notizia fece il giro del mondo. Il ragazzo tornò in libertà sotto cauzione, pagata dalla EMI. E sfogò la sua rabbia: tentò il suicidio con un rasoio. Aggredì, e fu nuovamente arrestato, il fratello di Patti Smith, Todd, rompendogli un bicchiere in faccia. Ma meno di quattro mesi dopo la morte di Nancy, il 2 febbraio 1979, fu stroncato dall’eroina in casa della nuova compagna Michelle Robinson. La saga tragica dei Brando Questa lunga carrellata di star che hanno finito la loro carriera nella violenza e nel sangue non può che chiudersi con la tragica vicenda che ha visto per protagonista la famiglia del più grande divo di Hollywood: Marlon Brando. 147 Anche se i protagonisti della tragedia sono essenzialmente i suoi figli Christian e Cheyenne. Christian è il figlio di primo letto dell’attore, avuto da Anna Kashfi. Ma nel 1959, ad un anno dalle nozze, Marlon ed Anna si separano e se ne contendono l’affidamento, che - al termine di una infinita battaglia legale - nel 1971 viene infine deciso in favore del padre, dopo che si è scoperta la lunga dipendenza dall’alcol e dalla droga della donna. Una dipendenza che segnerà Christian per sempre. Un anno più tardi, uscito da scuola, la madre lo rapisce e lo affida a due hippie perché lo portino in Messico: promette loro 10mila dollari purché lo tengano per un po’, cercando così vendetta verso l’ex marito. Ma non ha soldi. Per liberare il figlio Marlon assolda due detective privati, che riescono a salvarlo. Anna viene arrestata, ancora ubriaca, e Christian affidato in via esclusiva all’attore. Che però non lo vede spesso. Lo porta con sé all’isola di Tetiaroa, nella Polinesia francese, tra servitù e baby sitter. Nuove compagne e altri fratelli. Dirà Christian in un’intervista diversi anni più tardi: «La famiglia continuava a cambiare di numero. Mi sedevo al tavolo della colazione e chiedevo alla prima persona che incontravo lì: “Chi sei?”». La maledizione prende vita la sera del 16 maggio 1990, nel salotto della villa di Marlon di Mulholland Drive, Los Angeles. Ci sono Cheyenne Brando - quinta figlia dell’attore avuta in terze nozze – e il fidanzato di lei Dag Drollet. Cheyenne è incinta di otto mesi. Christian è andato a trovarla ed è uscita con lei a cena. È così che apprende dalla ragazza che Dag l’avrebbe picchiata. Quando rientrano in casa Christian lo uccide con una calibro 45. Alla polizia dirà che era ubriaco e stavano litigando, quando un colpo della pistola è partito accidentalmente. Al processo la versione non regge. Cheyenne non si presenta, finisce in un ospedale psichiatrico dove le viene 148 diagnosticata la schizofrenia. Christian se la cava con dieci anni nonostante l’accusa di omicidio premeditato e ne sconterà solo cinque. Cheyenne non regge il dolore e, al terzo tentativo, riesce a suicidarsi in casa della madre poco prima che il fratello esca di galera. È il 1995. Marlon non partecipa ai funerali. Quanto a Christian, succede altro. Il suo destino incrocia stavolta l’ex star di un telefilm di enorme successo: Robert Blake, protagonista di Baretta. E il destino ha un nome e un cognome: Bonnie Lee Bakley. La donna è un tipo particolare: ex modella ed attrice, si è sposata a 21 anni con un cugino, da cui ha avuto due figli. Ha qualche precedente per possesso di droga e spaccio di soldi falsi. Soprattutto, dopo essersi separata, ha messo in fila altri otto matrimoni, quasi tutti con persone più anziane e benestanti. Verrà fuori che le piaceva stare intorno alle celebrità perché «ti fanno sembrare migliore delle altre persone». Nel 1993 ha dichiarato di essere la figlia di Jerry Lee Lewis, ma il dna l’ha smentita. Nel 1999 frequenta anche Christian. Ma alla festa di compleanno dell’attore Chuck McCann conosce Robert Blake e inizia una relazione con lui. Resta incinta. Per capire chi sia il padre, ci si deve affidare al test genetico. Christian, che aveva già deciso il nome come Christian Shannon Brando, deve arrendersi alla scienza: il bimbo è di Blake. L’ex Baretta sposa così in seconde nozze Bonnie Lee il 19 novembre 2000. Ma poco più di cinque dopo, il 4 maggio 2001, in un parcheggio di Los Angeles, accade l’imprevedibile. Robert e Bonnie escono da un ristorante italiano, il Vitello’s. Poi l’attore torna un attimo dentro. Quando torna trova la moglie morta: qualcuno le ha 149 sparato alla testa. Interrogato per cinque ore come testimone, Robert racconta l’accaduto. E assume un detective per far luce sul giallo. Il 18 aprile 2002 lo arrestano in diretta televisiva, mentre si trova a casa della sorella. Con lui fermano anche una sua guardia del corpo, accusato di complicità. Il movente: essere stato costretto ad un matrimonio che non voleva. Il processo è uno dei più seguiti d’America. Ad incastrare Robert è un ex stuntman, Ronald “Duffy” Hambleton, che confessa che l’attore aveva provato ad ingaggiarlo per uccidere Bonnie. La difesa scopre però che a Duffy è stata promessa l’assoluzione per alcuni suoi precedenti in cambio della testimonianza. Blake viene assolto. Al processo civile, come già accaduto per OJ Simpson, la sentenza verrà ribaltata. La difesa di Robert prova a spostare il mirino proprio su Christian Brando, che poteva avere motivi di rivalsa verso la donna che lo aveva tradito. E si fa forza dell’assoluzione penale. Christian si rifiuta di testimoniare. E Robert viene condannato a risarcire i figli di Bonnie con diversi milioni di dollari, per omicidio colposo. Due mesi dopo Robert dichiara bancarotta. Nell’estate del 2015 il Daily Mail lo scova, a 81 anni, a passare in macchina davanti al Vitello’s, dedicandogli ampio spazio. Segno che la vicenda appassiona ancora molto l’opinione pubblica internazionale. Christian è morto all’età di 49 anni, nel 2008, stroncato da una polmonite. Il padre, ormai quasi del tutto assente dal mondo del cinema, era mancato quattro anni prima. Nel gennaio 2005, usciva il libro di Tarita Teriipaia, la mamma di Cheyenne. La donna descriveva Marlon come un uomo lunatico e crudele, geniale e violento. Che tuttavia amava moltissimo. In Marlon - Il mio amore, la mia ferita, uscito in 150 esclusiva mondiale in Francia, Tarita ricordava di come Marlon l’avesse istigata più volte all’aborto. E come, in un’occasione, l’avesse picchiata, frustata con la cinghia dei pantaloni e poi lasciata sanguinante a terra. Affermò che Marlon non era in grado di capire le sbandate di Cheyenne, che si rifugiava nella droga e rammentò di quando, addirittura, aveva «tentato di ucciderla con il fucile». Nel 1999 il Time aveva inserito Marlon Brando tra i 100 personaggi più influenti del secolo. Insieme a lui c’erano solo altri due attori: Charlie Chaplin e Marilyn Monroe. 151 152 IL PIÙ GRANDE SCANDALO DI HOLLYWOOD Per tutti rappresenta l’icona stessa della diva. Ha ispirato arte, cinema, letteratura, fotografia, perfino architettura e arredi urbani. È stata considerata la donna più bella e sensuale del mondo. Di lei si diceva che «aveva curve in posti dove le altre donne non hanno nemmeno i posti». È morta da più di mezzo secolo. Eppure è forse l’unico mito contemporaneo che non tramonta. Ancora oggi se si deve identificare Hollywood con una star non si può che pensare a lei. Che scandali ne diede per le sue relazioni, i suoi matrimoni. Ma soprattutto con la sua fine. Avvenuta troppo presto e in maniera troppo strana perché, ancora cinquant’anni più tardi, scrittori di tutto il pianeta non continuassero a scriverne. Ipotizzando complotti di ogni genere. Forse perché non ci si riesce a immaginare che la più grande delle stelle sia scomparsa in maniera così banale. O forse perché l’ipotesi di un complotto è davvero possibile. 153 Il fatto È la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962. In una casa di Brentwood, Los Angeles, la cameriera trova la porta della stanza della padrona di casa chiusa dall’interno. Chiama i medici, che sono però così costretti a passare dalla finestra per capire cosa sia accaduto. Sul letto, nuda, a pancia in giù, con la coperta che le sale fin quasi sul collo, c’è il cadavere di Norma Jeane Baker, 36 anni compiuti da due mesi. Meglio nota nel mondo come Marilyn Monroe. Poco prima delle 16 in Italia arriva la notizia che l’attrice si è probabilmente suicidata e che avrebbe confidato ad un giornalista, nei giorni precedenti, di essere molto depressa. Secondo quanto si apprende da Oltreoceano, Marilyn ha ingerito una dose eccessiva di barbiturici. Ma è possibile che la donna dei sogni, la diva più desiderata che aveva tutto, possa essersi uccisa? In analisi Di sicuro Marilyn era in analisi. Prima di essere sulla cima del mondo, quando era ancora la sconosciuta Norma Jeane, molto di prima dei successi de Gli uomini preferiscono le bionde, Quando la moglie è in vacanza e A qualcuno piace caldo, la sua vita era stata infatti un inferno. Non sapeva chi fosse suo padre. E con la madre, instabile mentalmente e ricoverata in clinica psichiatrica, aveva passato l’infanzia tra orfanatrofi e diverse coppie affidatarie. Pare avesse subito anche uno stupro a nove anni. La famiglia le era sempre mancata. Era insicura, abusava di alcol e psicofarmaci. Resta una domanda sulla sua tragica fine: perché il medico legale certifica subito un suicidio anziché un’overdose accidentale? Ci vorrà una seconda inchiesta per mettere in luce anche questa ipotesi. Ma oggi sappiamo che tra tutte le voci possibili, il suicidio è forse quella con la probabilità più bassa. 154 L’autopsia psicologica Per escluderlo definitivamente, facciamo un salto avanti di mezzo secolo, anno 2012, esattamente a Beverly Hills, dove l’Heritage Foundation mette all’asta una quindicina di oggetti della diva. Tra questi c’è un comunissimo cassettone. Roba normale, da poco. È stato comprato da Marilyn con un assegno di 228,80 dollari intestato al Pilgrim, negozio di arredamento di Los Angeles. L’aspetto interessante, però, è la data dell’assegno: 4 agosto 1962, il giorno prima di morire. La notizia è eclatante. Tanto che il dottor David Bernstein, esimio psicologo forense, prende carta e penna e si esercita in un’ “autopsia psicologica” sull’Huffington Post, seguendo una logica di ferro. E cioè: com’ è possibile che una donna che si voglia suicidare quella stessa notte, stacchi un assegno per comperarsi un cassettone utile nella vita quotidiana? Per Bernstein, evidentemente, Marilyn non voleva uccidersi. Ritiene così più plausibile un incidente. Va bene, ma ci sono ancora alcuni dettagli che non tornano. La scena del delitto E allora torniamo indietro. Alla notte del 5 agosto 1962. Se l’incidente sembra la cosa a questo punto più plausibile, ci sono comunque diverse altre cose quantomeno strane. Non verrà mai chiarito, ad esempio, a che ora è stato ritrovato il cadavere e a che ora il medico ha constatato la morte. Ed è curioso per un banale incidente. Non si sa nemmeno con esattezza quante persone si siano alternate in casa poco prima e poco dopo il decesso: c’è infatti una finestra temporale di 3-4 ore, dove tra verbali e testimonianze contraddittori, molti hanno trovato lo spazio per costruire ipotesi complottiste. Perché 3-4 ore sono lunghe. Ma soprattutto è strano che la polizia sia sta 155 chiamata solo alle 4.25: certamente, per quanto gli orari siano sballati, almeno 35 minuti dopo la constatazione del decesso. Perché? Il giallo comincia qui. E prosegue con il referto dell’autopsia: rileva tracce di barbiturici nel sangue, ma pare non ce ne fossero nello stomaco. Il dato può significare due cose: o i farmaci sono stati assunti lentamente e digeriti prima della morte. Oppure l’assunzione non è arrivata per bocca. E visto che non sarebbe arrivata per iniezione (non vi sono segni di ago sul corpo), c’è chi sostiene che sia giunta per via anale: con una supposta o un clistere. Improbabile a quel punto che si sia trattato di incidente. Tantomeno di suicidio. Più probabile, per chi sospetta un complotto, diventa l’omicidio. Il movente? Di sicuro, verrà documentato decenni più tardi, Marilyn era spiata da Cia e Fbi. Sia per le sue amicizie. Sia, soprattutto, per la frequentazione, all’epoca ignota, di due ben precise persone: John Fitzgerald Kennedy, presidente degli Stati Uniti, che verrà assassinato un anno più tardi. E Bob Kennedy, suo fratello, ucciso nel 1968. E allora, chissà. Narra Andrea Carlo Cappi, autore del libro La donna più bella del mondo - Vita, morte e segreti di Marilyn Monroe: «Le persone presenti a casa di Marilyn durante o poco dopo la sua morte – la cameriera Murray, lo psichiatra Greenson e il medico curante Engeleberg – raccontarono versioni discordanti quanto a orari e circostanze. Lo scenario più probabile – indipendentemente da qualsiasi complotto – è che quella notte varie persone siano entrate in casa di Marilyn per cancellare ogni traccia delle sue relazioni segrete con il Presidente John Kennedy e il Ministro della Giustizia Robert “Bob” Kennedy, suo 156 fratello. Ci sono state manovre per evitare lo scandalo e pressioni sulle autorità per chiudere al più presto il caso. E già nel 1964 una fonte dell’Fbi sospettava di Greenson e della Murray». La cameriera? «Sì. È possibile che i due abbiano commesso un tragico errore con i medicinali e abbiano cercato di coprirlo. Ma forse non fu un errore. In un’intervista del 1992 l’ormai anziano Frank Sinatra parlò chiaramente di delitto e disse che Fbi e Cia sapevano sulle morti di Marilyn e dei Kennedy più di quanto avessero rivelato. Quindi forse psichiatra e cameriera potrebbero essere stati costretti a uccidere». Da chi, probabilmente, resterà per sempre un segreto sepolto con lei al Westwood Village Memorial Park Cemetery. 157 I LIBRI DI TEASER LAB: IL CASO BOSSETTI Carlo Taormina, Luca D’Auria, con Ilaria De Pretto, Noemi Brambilla e Claudia Pavanelli VERONICA PANARELLO ANATOMIA DI UN’INDAGINE Carlo Taormina, Luca D’Auria, con Ilaria De Pretto, Noemi Brambilla, Claudia Pavanelli e Giulia Locatelli Potete ordinare i volumi scrivendo a [email protected] ACQUISTABILI ANCHE SULLO STORE, ALL’INDIRIZZO: www.frontedelblog.it/estore-action Stampato nell’agosto del 2015 Stampa Reggiani SpA Via Dante Alighieri 50 21010 Brezzo di Bedero VA © Edizioni Teaser LAB Srl Via Privata Martino Lutero 6 20126 Milano MI Edoardo Montolli è autore di diversi libri inchiesta molto discussi. Due li ha dedicati alla strage di Erba: Il grande abbaglio e L’enigma di Erba. Ne Il caso Genchi ha raccontato diversi retroscena su casi politici e giudiziari degli ultimi trent’anni. Ha pubblicato tre thriller considerati tra i più neri dalla critica; Il Boia; La ferocia del coniglio e L’illusionista. Dirige il mensile Crimen. Il suo sito è www.frontedelblog.it grafica e artwork cover: davide forleo