Agostino Gervasio e gli studi umanistici dell`Ottocento

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Agostino Gervasio e gli studi umanistici dell`Ottocento
Agostino Gervasio
e gli studi umanistici dell'Ottocento
Uno strano destino sembra pesare talvolta su alcuni studiosi: dimenticatí
o addirittura ignorati per lungo periodo di tempo, ridestano all'improvviso un
interesse vivissimo, appaiono nella loro giusta luce, vengono - come oggi suol
dirsi - ridimensionati e riescono ancora a direi qualcosa d'interessante e di
nuovo, offrendo innumerevoli spunti di lavoro e suggestioni e insegnamenti.E’
questo il caso di Agostino Gervasio: per circa un secolo quasi del tutto
dimenticato, ora solamente si è cominciato a delineare intorno alla sua figura un
certo interesse per merito di un accurato e bene informato lavoro di mons.
Salvatore Calabrese (Agostina Gervasio e gli studi umanistici a Napoli nel primo
Ottocento, C.E.S.P., Napoli-Foggia-Bari, 1964), e grazie ancora a due letture di
carattere bibliografico tenute dal p. Antonio Belluccii all'Accademia Pontaniana
nell'aprile 1964 e nel marzo 1965.
Nato a San Severo in Capitanata il 19 giugno 1784 da Antonio e da
Gaetana Patavino, il Gervasio fu educato nei primi anni dallo stesso padre, che
era un bravo medico, e poi nel Seminario Urbano di Napoli. Di là a quattro
anni ritornò in patria, dove terminò i suoi studi nuovamente sotto la guida
paterna e quella del geologo Matteo Tondi e del matematico Michele Zannotti.
Di nuovo a Napoli nel 1802, frequentò la scuola del famoso giurista Nicola
Valletta e poi quella di Adamo Santelli, laureandosi in legge. Sentendo però di
possedere assai scarse attitudini alla libera professione forense, preferì piuttosto
impiegarsi presso il ministero dell'Interno, dove rimase per l’intera sua vita ( il
Gervasio mori’ a Napoli il 15 novembre 1863 ), percorrendo tutti i gradi della
carriera amministrativa fino a quella di Ufficiale di Dipartimento.
Già dai primi anni di residenza a Napoli il Gervasio venne a contatto
con i piu’ eminenti rappresentanti dell'alta cultura napoletana del tempo, quali il
p. Giovanni Andrés, Giovanni Antonio e Luigi Cassitto, Francesco Daniele,
Francesco Maria Avellino, Gian Vincenzo Meola,
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Camillo Minieri Riccio, ecc. La continua dimestichezza con questi dotti uomini
fece sorgere in lui la passione per gli studi letterari e archeologici; inoltre, i suoi
doveri di ufficio gli consentivano di venire a contatto anche con studiosi
stranieri, e ciò gli fu di grande aiuto per iniziare, con l'apporto di numerosi
corrispondenti disseminati in tutta Italia e all'estero, la raccolta di documenti
creduti smarriti, di stampe rare e di medaglie e iscrizioni di cui sembrava
perduta ogni traccia. Da parte sua, il Gervasio forniva agli amici lontani - più
illustri tra tutti il De Rossi e il Mommsen - notizie di scavi, informazioni bibliografiche, trascrizioni di lapidi, proposte di emandamenti testuali, spesso
rinunziando alla paternità di una scoperta o di una sua peregrina congettura,
sempre lieto di render cosa grata ai suoi compagni di studi, che poi lo
ripagavano a loro volta di egual moneta.
Sessant'anni di operoso fervore di studi: ma, al tirar delle somme, il
Gervasio riuscí appena a pubblicare una quindicina di memorie negli Atti
dell'Accademia Pontaniana e di quella Ercolanese, e quasi tutte di carattere
archeologico. A tal proposito, è da considerare che il Gervasio, non certo
inferiore ai contemporanei Avellino e Minervini e Jannelli e De Jorio, offrì
importantissimi contributi agli studi di archeologia campana, segnatamente in
tema di iscrizioni napoletane e puteolane (e della sua collaborazione si avvalse
frequentemente lo stesso Mommsen per alcuni testi epigrafici del Corpus
inscriptionum latinarum); senonché, il Calabrese ha visto giusto quando ha limitato
un po' il valore critico di alcune dissertazioni archeologiche del Gervasio,
perché, in verità, il nostro erudito era sì un abilissimo raccoglitore di notizie, un
acutissimo ricercatore, un uomo capace di fiutare a migliaia di chilometri di
distanza i « pezzi » esistenti in qualche lontana biblioteca europea (e le centinaia
di lettere con corrispondenti italiani e stranieri sono testimonianza non solo di
tale sua abilità, bensì della tenacia con la quale inseguiva e individuava i suoi
tesori, dandosi pace solamente quando era riuscito a ottenerne copia), ma si
avvaleva di un rudimentale metodo critico, era sempre incerto nelle sue stesse
opinioni e si lasciava troppo facilmente suggestionare quando in una
disquisizione ricorrevano i grossi nomi dello Henzen, del Rochette, del
Garrucci, del Cavedoni, del Borghesi o del Mommsen.
A mio avviso, l'opera del Gervasio è stata davvero meritoria nel campo
delle ricerche sull'Umanesimo napoletano; ma anche qui l'erudito pugliese ha
dimostrato la sua incapacità di pervenire a una sintesi storica di quei cento anni
così ricchi di cultura e di poesia, quali furono quelli dal 1442 al 1550 circa. Al
pari del profeta Daniele, il Gervasio veniva chiamato vir desideriorum dagli stessi
suoi amici: tutto avrebbe voluto leggere, di ogni libro raro avrebbe voluto un
esemplare, di ogni antico testo avrebbe desiderato una copia: ma, dopo aver
tutto ottenuto a furia di richieste pressanti e di iterate preghiere, dichiarava egli
stesso di « esser ritroso a venire in pubblico e a farsi strada fra gli amatori della
nostra letteratura ». E le carte si aggiungevano alle carte, gli appunti agli appunti,
le copie alle copie; e talvolta arrivava persino a buttar giù il testo di una
biografia o di uno studio preliminare all'edizione critica di qualche rara
operetta, ma alla fine
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veniva preso dal panico e, anziché darlo alle stampe, lo conservava, insieme con
cento altri tentativi più o meno riusciti o falliti, tra quei suoi brogliacci, che ora
costituiscono ben ottantotto volumi manoscritti serbati nella Biblioteca
Oratoriana di Napoli. Ovviamente, grandissima parte di quel materiale non è
affatto rara né preziosa come forse il buon Gervasio credeva: molte le
trascrizioni da incunaboli e cinquentine tuttora esistenti in molte biblioteche
italiane; numerose le copie di testi inediti di discutibile autenticità ricevuti da
quell'allegro ed infido falsario che fu Gian Vincenzo Meola; del tutto superflue
alcune faticose rimasticature delle opere biografiche dell'Ammirato, del
Toscano, del Capaccio, del Chioccarelli, del Crasso, di Toppi-Nicodemi, del
Tafuri, del Soria, del Napoli,Signorelli. Ma la messe è tale e tanta che chiunque
abbia familiarità con i quattro-cinquecentisti meridionali potrà sempre rinvenirvi
notizie ignote per altre vie, copie di documenti scomparsi, testi di indiscusso
interesse come quelli di Camillo Porzio (per i quali cfr. la recente edizione di E.
Pontieri, Napoli, 1958, pp. 386-410) e memorie manoscritte ricche di preziose
informazioni bio-bibliografiche, che si rilevarono di somma utilità ad Erasmo
Pèrcopo per i suoi studi sul Pontano e sul Cariteo e sul Tansillo, ad Alfredo
Parente per la sua edizione laterziana dei drammi e degli altri scritti di
Marcantonio Epicuro, e a me stesso che per il passato mi avvalsi di appunti e
documenti gervasiani riguardanti il Compatre, il Summonte, Bernardino
Oriense, così come più recentemente - negli studi dedicati a Riccardo Filangieri
e a Berthold L. Ullman - mi son fatto grato debitore del Gervasio a proposito
di Scipione Capece e di quel famoso « codicillo » del testamento del Sannazaro
da lui rinvenuto, mediante il quale ho avuto la prova inoppugnabile per poter
fissare al 6 agosto 1530 la vera data di morte del poeta napoletano anziché
quella tradizionale ma erronea del 24 aprile.
Per codesti motivi penso che le ricerche letterarie del Gervasio siano
state superiori a quelle di natura archeologica. Per comprendere ed apprezzare
l'importanza della sua opera nella storia della cultura napoletana bisogna
ricordare in quale dimenticanza fossero caduti già da lunghi anni gli studi sul
Quattrocento. La breve stagione dell'Umanesimo napoletano - iniziatasi col
Panormita e col Pontano, e poi giunta col Sannazaro al più alto segno di
ricchezza espressiva e di perfezione formale - aveva cominciato a declinare fin
dalla metà del Cinquecento, allorquando Don Pietro di Toledo, sospettoso
sull'ortodossia di Scipione Capece e di altri simpatizzanti dell'Ochino e del
Valdés., aveva ordinata la chiusura dell'Accademia Pontaniana. Erano poi venuti
i tempi grigi della dominazione spagnuola e di quella austriaca e di quella
francese; e la instabilità politica, le continue soppressioni di conventi, le
spoliazioni delle più vetuste biblioteche napoletane avevano portato a una quasi
totale dispersione di tutto il materiale ancora inedito dei nostri umanisti, che
andò poi ad arricchire le biblioteche di Francia, di Spagna, di Austria.
Solamente alla fine della prima guerra mondiale fu possibile rivendicare
all'Italia alcuni manoscritti trafugati dal convento napoletano di San Giovanni a
Carbonara e poi finiti nella Staatsbibliothek di Vienna;
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ma ancora oggi interi « fondi » della Nazionale di Parigi e delle più importanti
biblioteche di Monaco, di Siviglia, di Valencia sono costituiti da preziosissimi
manoscritti umanistici rubati a Napoli dai sovrani austro-spagnoli e francesi.
Buona parte, però, di codesto materiale, è ritortiato a Napoli da piú di un
secolo attraverso le più o meno accurate trascrizioni dei corrispondenti stranieri
del Gervasio e costituiscono il nucleo più vitale della monumentale raccolta di
documenti da lui lasciati in eredità ai pp. Filippini dell'Oratorio, alla quale hanno
già attinto copiosamente alcune generazioni di studiosi, e molti ancora potranno
rintracciarvi, sol che sappiano ricercare con cura ed amore, i tesori di dottrina
accumulati dall'umile ed operoso erudito di San Severo.
ANTONIO ALTAMURA
Prof. ANTONIO ALTAMURA, libero docente nell'Università di Napoli, preside
di quel Liceo Classico Statale « G. B. Vico ».
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