Rassegna stampa 5 dicembre 2016

Transcript

Rassegna stampa 5 dicembre 2016
RASSEGNA STAMPA di lunedì 5 dicembre 2016
SOMMARIO
Il risultato finale è a dir poco netto ed evidente, la riforma costituzionale Boschi-Renzi
è stata bocciata dal 59,1% degli italiani (andati in molti a votare, come non succedeva
da tempo, con un’affluenza finale del 65.5%) mentre solo il 40,9% si è espresso in
modo favorevole. E’ nebuloso e incertissimo invece… il presente e il futuro politico
italiano. Ma che si fa ora? Ecco, intanto, già qui un paio di commenti tratti dai giornali
di oggi.
Massimo Franco (Corriere della Sera): “Una nazione dove la democrazia è viva: questo
dice la percentuale degli elettori che sono andati a votare ieri per il referendum
costituzionale. Ha detto no al modo in cui Matteo Renzi voleva cambiare la
Costituzione, più ancora, forse, che al suo governo. Al di là del risultato che si profila
e degli ultimi scampoli polemici perfino sulla qualità delle matite usate nei seggi,
l’elettorato ha dimostrato di tenere alla Carta fondamentale: più di partiti che per
mesi hanno privilegiato uno scontro velenoso sul governo, lasciando in ombra i
contenuti della riforma, quasi fossero secondari. Il risultato è la bocciatura imprevista
di un’intera fase politica, che l’annuncio di dimissioni del premier sigilla. Il tentativo
di puntellare un esecutivo non eletto attraverso la consultazione referendaria, si è
rivelato un azzardo. Ha finito per esaltare una potente voglia di partecipazione, che
sfiora il 70 per cento. Il premier si era appellato a una «maggioranza silenziosa»,
convinto di sedurla. La maggioranza ha parlato, ma contro di lui, con uno scarto
intorno ai venti punti. Il rottamatore è stato colpito da quello che pensava essere il
«suo» popolo. Ma dire che è una vittoria del populismo contro l’establishment suona
riduttivo: significherebbe regalare impropriamente a Beppe Grillo e alla Lega una
grande prova di democrazia. C’è anche l’impronta populista. Ma sul voto ha influito
una miscela di fattori, che vanno dall’ostilità contro Renzi, alla voglia di difendere la
Costituzione, al rifiuto di riforme approvate attraverso forzature parlamentari, allo
scontento per i magri risultati economici del governo. E forse ha pesato una certa
invadenza televisiva del capo dell’esecutivo nelle ultime settimane. Di questa
indicazione popolare, i vinti ma anche i vincitori dovranno tenere conto. Rinfoderare
le divisioni artificiose e strumentali; ripensare a una campagna che ha sovraesposto
inutilmente l’Italia sul piano internazionale; e ricostruire un clima di unità che troppi
da tempo stanno sabotando, magari senza rendersene conto. Leggere il risultato
assecondando la propaganda dei due schieramenti, progresso-conservazione,
democrazia-svolta autoritaria, significherebbe non ascoltare il messaggio del
referendum. Il segnale va oltre gli schieramenti dei partiti. E più che trasmettere
rifiuto nei confronti della classe dirigente, imitando le ondate populiste che scuotono
l’Europa, impone una lettura meno scontata. In sintesi, è arrivato un messaggio di
protesta ma anche di grande responsabilità… Il modo in cui (Renzi) esce di scena lascia
perplessi. Non per la nettezza delle sue dimissioni, ma perché ha detto che ormai il
problema della legge elettorale è affare del Comitato del No, non suo: come se si
preparasse a non essere più nemmeno segretario del Pd, maggior partito in
Parlamento. La tentazione di mettersi di traverso forse è il riflesso della sconfitta
bruciante. Analizzando i rapporti di forza, Renzi capirà che i suoi margini sono
limitati... Beppe Grillo esulta. Eppure, non si potrà intestare facilmente il successo.
Anche il suo movimento dovrà fare i conti con un’Italia che riflette e insieme punisce
il populismo. Ieri ha bocciato le riforme del governo, ma sarà altrettanto pronta a
respingere quelle di opposizioni irresponsabili. Ci dovrebbe essere un po’ di tempo
per rimodellare il sistema elettorale, tenendo conto della frammentazione e della
complessità della società italiana; e per soddisfare un bisogno di riforme intatto. Il
referendum non archivia la voglia di cambiare: punisce una proposta pasticciata e
spiegata male. Da oggi il Paese dovrà fare i conti con un governo agli sgoccioli, e con
un premier dimissionario e impermalito dalla disfatta. Sarebbe ingeneroso farne un
capro espiatorio: i suoi errori sono quelli collettivi del Pd. E la sua lettura errata degli
umori profondi dell’Italia è stata condivisa. Sempre che Renzi non si ostini a inseguire
una realtà virtuale, rimuovendo il responso referendario. Dopo molto tempo e energie
perduti, sarà bene non alimentare altre incognite”.
Mario Calabresi (Repubblica): “Un’affluenza straordinaria, una partecipazione
inaspettata per dimensioni con un risultato netto che conferma l'orientamento dei
sondaggi ma superando ogni previsione. Bocciatura sonora della riforma votata dal
Parlamento ma anche bocciatura dell'esperienza di governo di Matteo Renzi. Un anno
fa il premier ebbe la malaugurata idea di trasformare il referendum costituzionale in
un plebiscito su se stesso, in una sorta di nuova incoronazione, sperando nel bis delle
Europee del maggio 2014, non rendendosi conto che non esiste governo nelle
democrazie occidentali che sopravviverebbe a un voto secco dopo mille giorni.
Nemmeno Merkel ne uscirebbe con una vittoria. Guardate ai presidenti o ai premier
che ci sono in giro, nessuno governa con un consenso superiore al 40 per cento. E a
nessuno di loro viene in mente di sfidare la sorte permettendo alle opposizioni e ai
malumori di sommarsi e di contarsi. Il messaggio che è arrivato, seppur nella sua
pluralità di significati, è chiaro e ha avuto la conseguenza di portare Renzi alle
dimissioni. Un passo inevitabile visto il fatale combinato di un'affluenza altissima e di
un No nettissimo. Renzi lo ha riconosciuto con un discorso di grande onestà e
chiarezza, in cui non ha cercato scusanti e si è assunto la responsabilità della
sconfitta. Il premier non poteva che lasciare Palazzo Chigi. Se non lo avesse fatto
immediatamente sarebbe stato accusato di voler restare incollato alla poltrona e ogni
uscita pubblica, dibattito o proposta politica sarebbero diventati un calvario. La
vittoria del No ha tantissimi padri, anche se ce ne sono alcuni che sono corsi ad
intestarsela un minuto dopo la chiusura dei seggi, e mille motivazioni diverse... E ora?
Porre la domanda a chi ha votato No porterebbe a risposte completamente diverse,
perché c'è chi ha votato contro la riforma per spirito di conservazione, per non
cambiare la Costituzione, e chi lo ha fatto invece per cambiare tutto, nella speranza
di rovesciare completamente il tavolo. Come queste istanze possano stare insieme è
difficile immaginarlo, anche perché questo sessanta per cento non può essere
maggioranza di governo o proposta politica. Ci sarà tempo per analizzare il voto, per
capire dove il malcontento è più forte e radicato, e ci sarà tempo per analizzare gli
errori del premier, per individuare il momento in cui ha perso presa sul Paese, ma ora
la realtà è il rischio di un ritorno alla palude e all' instabilità. Uno scenario di cui
l'Italia non ha proprio bisogno... Non si vede all' orizzonte nessuna idea forte per
rispondere alla crisi del Paese. Non ce l'ha Beppe Grillo, il cui Movimento quando deve
fare i conti con la proposta e con la realtà dell' amministrazione si trova in grave
difficoltà come dimostra la paralisi di Roma... Manca un' idea anche a Salvini, che
prima dovrebbe avere un programma e convincere il resto della destra delle sue
presunte capacità di leader. Le idee da tempo mancano infine alla cosiddetta
"minoranza" pd, che ora cercherà di tornare maggioranza ma che da troppo tempo
vive di conservazione e si definisce più per contrapposizione che per proposta. La
riforma del Sì non era delle più entusiasmanti ma non lo è nemmeno la sensazione che
tutto resti sempre uguale, che sia impossibile cambiare le cose, che anche alle
prossime elezioni voteremo per il Senato e che rimarremo inchiodati alla lentezza di
avere due rami del Parlamento impegnati nello stesso identico lavoro. Ora assisteremo
a una resa dei conti a sinistra tra chi vuole una restaurazione e chi ha predicato la
rottamazione e a uno scontro generale tra chi pensa che il sistema sia da buttare e chi
crede che le istituzioni siano invece da salvare. C'è da augurarsi che sia a destra
(come è accaduto in Francia) sia a sinistra si mettano in campo opzioni di razionalità
politica, che nel Pd si archivi la stagione delle risse e si lavori per contrastare i
populismi. Per non lasciare il campo libero a chi predica irrazionalità e propone
ricette devastanti che disgregherebbero ancora di più il tessuto sociale. Di questa
giornata per molti versi storica colpisce soprattutto un dato ed è la partecipazione
appassionata dei cittadini, una sorpresa che fa giustizia delle tante analisi sulla
disaffezione al voto. Questi italiani, non importa se hanno votato No o se hanno scelto
il Sì, meritano una proposta di Paese credibile, che parli di futuro e non di salti nel
buio” (a.p.)
IN PRIMO PIANO – UN’ONDATA DI NO TRAVOLGE RENZI. E ORA?
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La responsabilità che ora serve di Massimo Franco
Il messaggio e il percorso
Pag 1 La parola al Colle, maggioranza in bilico di Francesco Verderami
Pag 8 Gli errori del leader di Aldo Cazzullo
Pag 15 Le pagelle e i protagonisti di Pierluigi Battista
LA REPUBBLICA
Pag 1 Il rischio del salto nel buio di Mario Calabresi
Pag 31 Tocca al Quirinale garantire la stabilità di Stefano Folli
LA STAMPA
Una crisi senza precedenti di Marcello Sorgi
IL GAZZETTINO
Pag 1 Leadership, Regioni. Tutti gli errori di Matteo di Marco Gervasoni
Pag 1 “Il Paese si è mobilitato per mandarmi via” di Alberto Gentili
LA NUOVA
Pag 1 Così torna l’Italia tripolare di Roberto Weber
CORRIERE DELLA SERA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 3 Rilancio, dimissioni, elezioni e Italicum. Le tante incognite di un
referendum di Massimo Franco
Oltre alla Carta è in gioco il governo
Pag 6 Le parole in libertà di Pierluigi Battista
Il peggio della corsa elettorale
AVVENIRE di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 Sia sì sì no no di Francesco Riccardi
Il nostro voto, il dovere dei politici
CORRIERE DEL VENETO di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 Cambiare, comunque vada di Stefano Allievi
IL GAZZETTINO di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 Dalla Repubblica al divorzio, il Paese nell’urna di Diodato Pirone
LA NUOVA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 In bilico tra paura e speranza di Fabio Bordignon
Pag 1 Il popolo desideroso di capire di Mario Bertolissi
CORRIERE DELLA SERA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 Gli impegni per il dopo voto di Luciano Fontana
Un clima da ricostruire
Pag 1 Le carte coperte (e i sospetti che crescono) di Francesco Verderami
LA REPUBBLICA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 Come riunire un Paese avvelenato di Mario Calabresi
IL GAZZETTINO di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 Un risultato che in ogni caso cambia il futuro di Bruno Vespa
LA NUOVA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 L’urna e il destino del credito di Bruno Manfellotto
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 20 Corsa all’acquisto dei seicento presepi di don De Pieri di Marta Artico
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 4 dicembre 2016
Pag XXIX Tutti i segreti del restauro della cupola di S. Giorgio di d.gh.
Usata per la prima volta la fibra di basalto
LA NUOVA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 24 Vendita dei presepi, oggi si entra nel vivo di m.a.
Seicento pezzi in vendita per beneficenza della collezione di don Franco De Pieri
3 – VITA DELLA CHIESA
IL GAZZETTINO
Pag 13 Il Papa: “A Natale lasciamo successo, potere e piacere”
Dal Pontefice un invito alla “conversione”: recuperare il senso spirituale della festa
AVVENIRE di domenica 4 dicembre 2016
Pag 22 Il cardinale Tagle: gli ultimi sono stati i miei insegnanti di Monica Mondo
“Al centro della dottrina sociale c’è la dignità dell’uomo”
L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 La compassione del Dio vivente di Bartolomeo
Nell’ “Amoris laetitia”
Pag 8 Il terzo articolo
Iniziate in Vaticano le prediche d’Avvento
AVVENIRE di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 Quelli che non fuggono di Gerolamo Fazzini
I beati martiri e la parola del Papa
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 34 Lavoro e risorse umane, il Jobs Act non ha fallito di Andrea Ichino
LA NUOVA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 10 Natale, più regali per se stessi. In calo i prodotti tecnologici
Lo shopping di fine anno
CORRIERE DELLA SERA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 25 I millennial più poveri dei loro nonni. L’Italia che accumula ma non
investe di Alessandra Arachi
AVVENIRE di sabato 3 dicembre 2016
Pag 5 L’Italia resiste ma i giovani sono più poveri di Alessia Guerrieri
IL GAZZETTINO di sabato 3 dicembre 2016
Pag 5 Italia, 114 miliardi sotto il materasso di Valeria Arnaldi
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag V Messa solenne per i Vigili del fuoco di Tullio Cardona
Celebrata ieri ai Carmini la protettrice Santa Barbara
Pag VII Don Fausto Bonini: “Hanno trasformato la piazza in una discarica” di
Alvise Sperandio
LA NUOVA
Pag 15 Si getta dalla finestra del dormitorio, trovato morto di f.fur.
Ospite della Caritas
LA NUOVA di sabato 3 dicembre 2016
Pagg 2 – 3 Si vendono case ma i prezzi calano di Mitia Chiarin
Compravendite in aumento a Mestre, sul litorale e nel Veneto Orientale
Pag 25 Aperture festive dei negozi, a gennaio un tavolo etico di Marta Artico
Don Torta e Tiziana D’Andrea incontrano gli assessori regionali Marcato e Lanzarin. La
Regione si impegna: bisognerà cambiare la legge e limitare il calendario
… ed inoltre oggi segnaliamo…
IL GAZZETTINO
Pag 20 Il populismo non è una fatalità in Europa di Marina Valensise
CORRIERE DELLA SERA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 I tormenti dell’Europa di Franco Venturini
Pag 29 Una sintesi da trovare tra crescita e democrazia di Mauro Magatti
AVVENIRE di domenica 4 dicembre 2016
Pag 25 Laicismo, l’anti-religione contraria alla laicità di Fabrice Hadjadj
IL GAZZETTINO di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 Petrolio, cosa frena la svolta di Romano Prodi
CORRIERE DELLA SERA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 29 Il dramma della sinistra, perché si deve rifondarla di Aldo Cazzullo
LA REPUBBLICA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 53 Tutti all’università del dialogo religioso di Raffaella De Santis
Da un’idea di Alberto Melloni, nasce domani a Bologna un’accademia europea per un
confronto tra fedi. Aderiscono ventimila studiosi da ogni parte del mondo
AVVENIRE di sabato 3 dicembre 2016
Pag 3 L’ “atto dovuto” che meritiamo di Ferdinando Camon
Non solo caso Saronno: memoria, benzina, fiducia
IL FOGLIO di sabato 3 dicembre 2016
Pag 3 Anche il Vaticano contro l’Unesco
La Santa Sede prende posizione contro le risoluzioni antiebraiche
Torna al sommario
IN PRIMO PIANO – UN’ONDATA DI NO TRAVOLGE RENZI. E ORA?
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 La responsabilità che ora serve di Massimo Franco
Il messaggio e il percorso
Una nazione dove la democrazia è viva: questo dice la percentuale degli elettori che
sono andati a votare ieri per il referendum costituzionale. Ha detto no al modo in cui
Matteo Renzi voleva cambiare la Costituzione, più ancora, forse, che al suo governo. Al
di là del risultato che si profila e degli ultimi scampoli polemici perfino sulla qualità delle
matite usate nei seggi, l’elettorato ha dimostrato di tenere alla Carta fondamentale: più
di partiti che per mesi hanno privilegiato uno scontro velenoso sul governo, lasciando in
ombra i contenuti della riforma, quasi fossero secondari. Il risultato è la bocciatura
imprevista di un’intera fase politica, che l’annuncio di dimissioni del premier sigilla. Il
tentativo di puntellare un esecutivo non eletto attraverso la consultazione referendaria,
si è rivelato un azzardo. Ha finito per esaltare una potente voglia di partecipazione, che
sfiora il 70 per cento. Il premier si era appellato a una «maggioranza silenziosa»,
convinto di sedurla. La maggioranza ha parlato, ma contro di lui, con uno scarto intorno
ai venti punti. Il rottamatore è stato colpito da quello che pensava essere il «suo»
popolo. Ma dire che è una vittoria del populismo contro l’establishment suona riduttivo:
significherebbe regalare impropriamente a Beppe Grillo e alla Lega una grande prova di
democrazia. C’è anche l’impronta populista. Ma sul voto ha influito una miscela di fattori,
che vanno dall’ostilità contro Renzi, alla voglia di difendere la Costituzione, al rifiuto di
riforme approvate attraverso forzature parlamentari, allo scontento per i magri risultati
economici del governo. E forse ha pesato una certa invadenza televisiva del capo
dell’esecutivo nelle ultime settimane. Di questa indicazione popolare, i vinti ma anche i
vincitori dovranno tenere conto. Rinfoderare le divisioni artificiose e strumentali;
ripensare a una campagna che ha sovraesposto inutilmente l’Italia sul piano
internazionale; e ricostruire un clima di unità che troppi da tempo stanno sabotando,
magari senza rendersene conto. Leggere il risultato assecondando la propaganda dei due
schieramenti, progresso-conservazione, democrazia-svolta autoritaria, significherebbe
non ascoltare il messaggio del referendum. Il segnale va oltre gli schiera-menti dei
partiti. E più che trasmettere rifiuto nei confronti della classe dirigente, imitando le
ondate populiste che scuotono l’Europa, impone una lettura meno scontata. In sintesi, è
arrivato un messaggio di protesta ma anche di grande responsabilità. Toccherà in primo
luogo al capo dello Stato, Sergio Mattarella, fare in modo che il governo e Renzi
interpretino al meglio il responso popolare, senza tentare improbabili rivincite. C’è da
sperare che Renzi lo capisca. Il modo in cui esce di scena lascia perplessi. Non per la
nettezza delle sue dimissioni, ma perché ha detto che ormai il problema della legge
elettorale è affare del Comitato del No, non suo: come se si preparasse a non essere più
nemmeno segretario del Pd, maggior partito in Parlamento. La tentazione di mettersi di
traverso forse è il riflesso della sconfitta bruciante. Analizzando i rapporti di forza, Renzi
capirà che i suoi margini sono limitati. Altrimenti, regalerebbe a chi scommette sul
collasso del sistema un risultato che invece puntella la Costituzione e le radici della
convivenza. Va detto all’Europa, spaventata dalla propria crisi e prigioniera di troppi
stereotipi sull’Italia; e a quanti sono tentati di soffiare sull’allarme per eventuali
contraccolpi finanziari. Beppe Grillo esulta. Eppure, non si potrà intestare facilmente il
successo. Anche il suo movimento dovrà fare i conti con un’Italia che riflette e insieme
punisce il populismo. Ieri ha bocciato le riforme del governo, ma sarà altrettanto pronta
a respingere quelle di opposizioni irresponsabili. Ci dovrebbe essere un po’ di tempo per
rimodellare il sistema elettorale, tenendo conto della frammentazione e della
complessità della società italiana; e per soddisfare un bisogno di riforme intatto. Il
referendum non archivia la voglia di cambiare: punisce una proposta pasticciata e
spiegata male. Da oggi il Paese dovrà fare i conti con un governo agli sgoccioli, e con un
premier dimissionario e impermalito dalla disfatta. Sarebbe ingeneroso farne un capro
espiatorio: i suoi errori sono quelli collettivi del Pd. E la sua lettura errata degli umori
profondi dell’Italia è stata condivisa. Sempre che Renzi non si ostini a inseguire una
realtà virtuale, rimuovendo il responso referendario. Dopo molto tempo e energie
perduti, sarà bene non alimentare altre incognite.
Pag 1 La parola al Colle, maggioranza in bilico di Francesco Verderami
Si può vincere anche evocando la sconfitta e Grillo lo ha fatto scientemente,
preannunciando l’assunzione di dosi massicce di Maalox e anticipando che avrebbe
accettato «ogni risultato» fosse emerso dalle urne referendarie. Una mossa meditata
«per non ripetere l’errore» delle passate elezioni: «Dobbiamo evitare di spaventare la
gente. Tanto quel ruolo lo sta facendo Renzi». D’ora in avanti i Cinque Stelle si godranno
la vittoria nel Paese e lo spettacolo nel Palazzo, dove giace un sistema politico in
frantumi. Toccherà a Mattarella tentare di metterne insieme i cocci e risolvere una crisi
molto grave, nella consapevolezza che i margini di manovra di un capo dello Stato sono
quelli che il Parlamento gli concede. Paradossalmente, trovare una soluzione per dare un
governo al Paese sarà l’ultimo dei problemi per il Quirinale, che si trova di fronte un
rebus di non facile soluzione. È vero che - a vario titolo - i partiti di maggioranza e di
opposizione mirano al prosieguo della legislatura fino alla sua scadenza naturale. È
l’obiettivo di chi - come il Pd, i centristi e Forza Italia - deve riorganizzarsi. Ma è anche
l’obiettivo del blocco anti-sistema: Cinque Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, sebbene
chiedano elezioni anticipate, puntano in realtà sui tempi lunghi, scommettendo sul
default dei loro avversari. Insomma, la stabilità è per un verso una necessità, per un
altro un sotterfugio, un modo per tentare di lucrare altri consensi dalla crisi. Ma
garantire la stabilità sarà assai complesso per Mattarella, che si troverà davanti il partito
di maggioranza relativa - già dilaniato prima del voto - e oggi a forte rischio
balcanizzazione; l’area centrista ancora in ordine sparso e priva del suo referente a
Palazzo Chigi; e infine un centrodestra in pieno conflitto tra il duo Salvini-Meloni, che
invoca le primarie, e Berlusconi che non vuole cedere alle pressioni degli (ex) alleati e
tuttavia deve gestire le pulsioni «sovraniste» esistenti in Forza Italia. Ma è evidente che
il ground zero politico è Renzi. Mettendo in preventivo la sconfitta, il leader democratico
aveva studiato uno schema d’azione con cui spiazzare gli avversari esterni e soprattutto
interni: dimettersi da premier e indicare a Mattarella come suo successore a Palazzo
Chigi «un parlamentare non del Pd», a cui affidare esclusivamente il compito di varare
una nuova legge elettorale con la quale andare al voto nella primavera del 2017. Nel
frattempo, da segretario del partito, meditava di convocare un congresso immediato per
arrivare alla resa dei conti con «la ditta». Le dimensioni del risultato, però, non solo lo
costringono a lasciare la presidenza del Consiglio ma assottigliano anche i suoi spazi
d’iniziativa nel partito. Il voto referendario lo commissaria persino nel Pd, dove si
alimenta l’istinto di sopravvivenza delle correnti: una morsa a cui Renzi medita di
sottrarsi clamorosamente. E mentre nel suo partito prende forza l’idea di trovare «un
patto parlamentare» per varare una nuova legge elettorale insieme ai gruppi di
opposizione, lui invita il «fronte del No» ad avanzare «proposte credibili», così da
evidenziarne le contraddizioni. Ma è questa la formula della stabilità: cancellare
l’Italicum iper maggioritario e sostituirlo con un modello più proporzionale. Affidando nel
frattempo Palazzo Chigi a un «tecnico d’area», magari proprio all’attuale ministro
dell’Economia Padoan, così da tranquillizzare l’Europa e i mercati. Per arrivare alla meta
servirà però formare una maggioranza di governo, e i numeri in Parlamento dicono che
senza Verdini non ci sono i numeri. Con Renzi decapitato dal referendum e costretto a
passar la mano, il Pd accetterebbe di formalizzare il rapporto con l’ex braccio destro di
Berlusconi? A meno di non confidare in una mossa a sorpresa del Cavaliere, in
un’«astensione» di Forza Italia in cambio di una legge elettorale sulla quale l’ex premier
vorrebbe l’ultima parola. Ipotesi al momento remota, che avrebbe un duplice effetto: la
fine del centrodestra e un terremoto negli assetti politici nazionali. In entrambi i casi i
democratici dovrebbero valutare i costi di una simile operazione, e in nome della stabilità
accollarsi un saldo a forte valenza negativa. Il punto è che il voto di ieri chiude l’era della
Seconda Repubblica. Non è soltanto una crisi di governo è una crisi di sistema, che tocca
al capo dello Stato gestire. Mentre Grillo si gode la vittoria. Lui che evocava la sconfitta
«per non spaventare la gente»: «Tanto quel ruolo lo sta facendo Renzi».
Pag 8 Gli errori del leader di Aldo Cazzullo
E alla fine Matteo Renzi si ritrovò come in una vecchia puntata del Costanzo Show : solo
contro tutti. A duellare con Zagrebelsky e con De Mita, a sfidare invano Grillo e D’Alema;
se Maciste si fosse schierato per il no, avremmo visto Renzi contro Maciste. Da
Napolitano aveva ottenuto l’incarico di governo dietro l’impegno di fare le riforme
istituzionali, riportando al tavolo Berlusconi, ricompattando il partito democratico,
ridimensionando Grillo. Invece Berlusconi si è sfilato dall’accordo - come ha sempre fatto
da quando è in politica -, la sinistra Pd dopo aver detto per sei volte sì in Parlamento ha
sostenuto il no, e Grillo non è mai stato così forte. Missione incompiuta, anzi fallita,
anche al di là dei suoi demeriti. Non era impossibile prevederlo. Qualsiasi governo che
abbia sottoposto la propria linea agli elettori si è sentito rispondere no, in qualsiasi
contesto e latitudine, da Londra a Bogotà a Budapest. L’errore di Renzi non è stato
soltanto personalizzare il referendum sulle «sue» riforme; è stato proprio farlo, o meglio
chiederlo. Non è inutile ricordare che il referendum non era obbligatorio: la Costituzione
non lo impone, lo consente qualora sia mancata la maggioranza dei due terzi e ne
facciano domanda un quinto dei membri di una Camera, 500 mila elettori o cinque
assemblee regionali. Renzi non ha atteso che fossero le opposizioni a sollecitare il
responso popolare; l’ha sollecitato lui stesso, per sanare il vizio d’origine, il peccato
originale di non aver mai vinto un’elezione politica. Ma un conto è difendere il proprio
lavoro da forze contrapposte che ne chiedono la cancellazione; un altro conto è chiamare
un plebiscito su se stessi. Il presidente del Consiglio si è mosso come se il Paese fosse
ancora quello del 41% alle Europee. Ha sopravvalutato il proprio consenso e ha
sottovalutato il disagio sociale. Gli va riconosciuto il merito di aver tentato di restituire
agli italiani fiducia nel loro Paese e nel futuro. Ma per tre anni ha ripetuto un solo
discorso: l’Italia che torna a fare l’Italia, l’Italia che può fare meglio della Germania,
l’Italia che diventa locomotiva d’Europa. Ha recitato un mantra che avrebbe dovuto
essere supportato da una robusta ripresa economica; che non c’è. Renzi può rivendicare
di aver riavviato la crescita, di aver trovato un Paese con il segno meno e di lasciarlo con
il segno più. Ma all’evidenza non è sufficiente; o almeno questo è stato il responso della
netta maggioranza degli italiani. Gli va dato atto anche di aver riconosciuto subito la
sconfitta. I discorsi di accettazione gli vengono bene: era già successo anche nel
dicembre 2012, quando Bersani lo sconfisse alle primarie. La prospettiva del passo
indietro tattico è superata dai fatti. Più realistica una traversata del deserto, che non
sarà lunghissima - alla scadenza naturale della legislatura manca poco più di un anno ma è certo irta di pericoli. Renzi può ancora cercare una rivincita. Ma dovrà mettersi in
gioco almeno due volte. Prima nelle nuove, inevitabili primarie del Pd, che non saranno
scontate come potevano apparire ancora poco tempo fa. E poi in elezioni politiche che
non saranno risolutive come vagheggiava: «Voglio un sistema elettorale in cui la sera
del voto si capisca chi ha vinto e chi ha perso», amava ripetere. Ma con il proporzionale
vincono sempre quasi tutti, e quasi nessuno perde mai per davvero. Renzi ha ancora la
forza di impedire un ritorno al passato? La collaborazione con Berlusconi è una carta di
riserva che non è mai uscita davvero dal mazzo, o rappresenta una resa, da far gestire a
qualcun altro? Ci saranno giorni per discuterne. Chi sogna un Renzi addomesticato,
riflessivo, quasi mansueto, non conosce il personaggio. Può cambiare strategia; non
natura. Può ancora avere una chance; ma una fase si è chiusa definitivamente. Con una
sconfitta. Non soltanto non è riuscito a prosciugare Grillo o a prendere i voti di
Berlusconi; l’alta partecipazione al voto, che nelle previsioni avrebbe dovuto rafforzare il
governo, segna anche un rigetto personale nei confronti del premier. Nella campagna
referendaria Renzi ha tentato di tornare il rottamatore della casta; ma dopo tre anni di
Palazzo Chigi non è risultato credibile. Una cosa è certa: Grillo ha ragione di esultare;
Berlusconi può rallegrarsi; ma la soddisfazione della sinistra Pd rischia di avere vista
corta e breve durata. Gli oppositori di Renzi non hanno un vero leader, né un candidato
pronto a sfidarlo. Sono uniti dal rancore personale verso l’usurpatore, e da poco altro.
Alla fine hanno fatto miglior figura i Letta e i Prodi, che si sono espressi per il sì senza
entusiasmo, rispetto ai Bersani e ai D’Alema, che si sono battuti per un no destinato a
far cadere un governo di centrosinistra, in una fase in cui un vento di destra soffia su
tutti i Paesi del mondo.
Pag 15 Le pagelle e i protagonisti di Pierluigi Battista
Una pagella è sempre antipatica, ma formula un giudizio conciso su come si sono
comportati i protagonisti del referendum. Matteo Renzi ha giocato veramente la partita
della vita, ha legato indissolubilmente il suo destino politico all’esito referendario vissuto
come un plebiscito, fonte battesimale per la sua legittimazione. Si è battuto allo
spasimo, con un impegno personale imparagonabile rispetto a ogni altro leader. Lui è
stato il protagonista assoluto, che ha attirato su di sé la luce dei riflettori, i consensi ma
anche i dissensi. Ma alla fine la personalizzazione si è rivelata un errore fatale e i
dissensi sono stati molto più forti (voto 4). Mentre Maria Elena Boschi ha personalmente
dovuto scalare parecchie posizioni, dopo un periodo di oscuramento su cui i media
hanno costruito molte leggende maligne, come se fosse stata espulsa dal Giglio magico,
e soprattutto dopo che le vicende di Banca Etruria ne avevano offuscato l’astro. Lei è la
vera artefice della riforma costituzionale sottoposta all’ordalia referendaria, l’immagine
del nuovo che avrebbe stracciato le ragnatele del vecchio, i risultati dicono che gli italiani
non le hanno creduto (voto 5).
Il variegato fronte del No - Silvio Berlusconi si è tenuto per molto tempo prudente e
defilato, un po’ per le condizioni fisiche che non gli permettevano un impegno stressante
(proprio lui che è uno dei grandi interpreti delle campagne elettorali), un po’ per le
pressioni verso il basso profilo che la parte «aziendalista» del suo schieramento voleva
cucirgli addosso, un po’ per la difficoltà di dire No a una riforma della Costituzione. Alla
fine, raccogliendo le forze che aveva, ha optato per un’immagine meno sbiadita per
continuare a essere protagonista di un gioco che lo stava escludendo a favore di un
nuovo bipolarismo tra Renzi e Grillo. Il risultato lo ha confortato (voto 6). E a proposito
di Beppe Grillo. Negli ultimi giorni della campagna elettorale è apparso dimesso, quasi
pessimista: tutto il contrario del «vinciamo noi» con cui il leader dei 5 Stelle si giocò
malamente la partita delle elezioni europee del 2014, galvanizzando i suoi ma
spaventando una parte dell’elettorato che infatti si rifugiò sotto l’ombrello renziano del
40 per cento. L’errore di eccessiva sicurezza Grillo non ha voluto ripeterlo, anche se non
ha voluto controllare la sua pulsione all’insulto. I risultati gli danno però una grande
forza e il Movimento 5 Stelle si prepara alle prossime elezioni con una forza decisamente
maggiore (voto 8). Matteo Salvini non credeva molto alla centralità della battaglia sulla
riforma costituzionale. Il suo obiettivo era di spostare il dibattito sui temi a lui più
congeniali, quello dell’immigrazione innanzitutto ma anche quello della crisi delle banche
e del destino dei risparmiatori. La campagna elettorale in realtà è andata lungo sentieri
completamente diversi e Salvini, forte presenza nei talkshow politici, è rimasto in una
posizione un po’ marginale. La vittoria del No gli lascia però più forza nella competizione
per la leadership del centrodestra (voto 6).
Fuori dagli schieramenti - Oltre ai protagonisti della politica, hanno affollato il
palcoscenico della campagna referendaria figure che con la politica in senso stretto
hanno un rapporto meno esclusivo. Assumendo posizioni qualche volta impreviste,
oppure in contraddizione apparente rispetto agli schieramenti in cui vengono di solito
classificati. È apparsa subito un’esortazione al Sì quella che Fedele Confalonieri ha
suggerito in ogni modo all’amico Berlusconi, con uno sforzo che si è rivelato molto
velleitario e l’amico di una vita stavolta è apparso come un consigliere non lungimirante
(voto 4). Anche Michele Santoro sembra aver sbagliato nel suo calcolo di portare una
parte di sinistra nell’orbita renziana (voto 5). Mentre Vincenzo De Luca, con le sue
intemperanze verbali e i suoi comizi riservati sulle «fritture di pesce» in cambio di
suffragi, non ha condizionato l’esito elettorale nel senso del Sì, anzi ha polarizzato verso
il No un certo fastidio verso la gestione del potere regionale (voto 4), Massimo D’Alema,
che ha sfoderato le sue armi del sarcasmo per prendersi una rivincita contro il
rottamatore, può dirsi un vincitore suo malgrado (voto 7) e Pier Luigi Bersani (voto 6),
schierando per il No la sinistra pd, può intestarsi legittimamente una vittoria che riapre i
giochi nel suo partito.
Le star a sorpresa - Per Anna Falcone, giurista che è stato il volto di punta del No, si
apre forse una prospettiva di protagonismo politico inaspettato fino a pochi mesi fa (voto
8). Anche Gustavo Zagrebelsky, il simbolo dei detestati «professoroni», può dire di aver
battuto chi nei confronti tv sembrava lo avesse travolto con la sua popolarissima
parlantina (voto 7).
LA REPUBBLICA
Pag 1 Il rischio del salto nel buio di Mario Calabresi
Un’affluenza straordinaria, una partecipazione inaspettata per dimensioni con un
risultato netto che conferma l'orientamento dei sondaggi ma superando ogni previsione.
Bocciatura sonora della riforma votata dal Parlamento ma anche bocciatura
dell'esperienza di governo di Matteo Renzi. Un anno fa il premier ebbe la malaugurata
idea di trasformare il referendum costituzionale in un plebiscito su se stesso, in una
sorta di nuova incoronazione, sperando nel bis delle Europee del maggio 2014, non
rendendosi conto che non esiste governo nelle democrazie occidentali che
sopravviverebbe a un voto secco dopo mille giorni. Nemmeno Merkel ne uscirebbe con
una vittoria. Guardate ai presidenti o ai premier che ci sono in giro, nessuno governa
con un consenso superiore al 40 per cento. E a nessuno di loro viene in mente di sfidare
la sorte permettendo alle opposizioni e ai malumori di sommarsi e di contarsi. Il
messaggio che è arrivato, seppur nella sua pluralità di significati, è chiaro e ha avuto la
conseguenza di portare Renzi alle dimissioni. Un passo inevitabile visto il fatale
combinato di un'affluenza altissima e di un No nettissimo. Renzi lo ha riconosciuto con
un discorso di grande onestà e chiarezza, in cui non ha cercato scusanti e si è assunto la
responsabilità della sconfitta. Il premier non poteva che lasciare Palazzo Chigi. Se non lo
avesse fatto immediatamente sarebbe stato accusato di voler restare incollato alla
poltrona e ogni uscita pubblica, dibattito o proposta politica sarebbero diventati un
calvario. La vittoria del No ha tantissimi padri, anche se ce ne sono alcuni che sono corsi
ad intestarsela un minuto dopo la chiusura dei seggi, e mille motivazioni diverse. Oltre
alla mobilitazione di chi ha votato per evitare ogni modifica alla Costituzione si sono
messi insieme i voti del Movimento 5Stelle, della Lega, dell'area della destra populista e
di una parte del mondo berlusconiano insieme a quelli di una parte importante del Pd,
della sinistra anti Renzi e delle frange anti sistema. A questo, credo vada aggiunto un
voto che non aveva alcun legame con il merito della riforma costituzionale e nemmeno
con l'appartenenza a un'area politica ma era dettato dalla rabbia, dalla frustrazione e dal
malcontento: voto di chi dice No alla disoccupazione, alla precarietà, all' incertezza e
all'impoverimento, ma anche ai migranti e alle politiche dell' accoglienza. E ora? Porre la
domanda a chi ha votato No porterebbe a risposte completamente diverse, perché c'è
chi ha votato contro la riforma per spirito di conservazione, per non cambiare la
Costituzione, e chi lo ha fatto invece per cambiare tutto, nella speranza di rovesciare
completamente il tavolo. Come queste istanze possano stare insieme è difficile
immaginarlo, anche perché questo sessanta per cento non può essere maggioranza di
governo o proposta politica. Ci sarà tempo per analizzare il voto, per capire dove il
malcontento è più forte e radicato, e ci sarà tempo per analizzare gli errori del premier,
per individuare il momento in cui ha perso presa sul Paese, ma ora la realtà è il rischio di
un ritorno alla palude e all' instabilità. Uno scenario di cui l'Italia non ha proprio bisogno.
Questa mattina cominceremo subito a fare i conti con l’instabilità, quanto siamo
vulnerabili ce lo diranno i soliti indici (spread e Borse) e dobbiamo sperare in un governo
provvisorio che in tempi brevissimi abbia la forza di rassicurare e di mettere in sicurezza
le banche. Se ciò non accadrà il prezzo non lo pagherà la finanza ma ogni risparmiatore
italiano, ogni possessore di case con un mutuo e ognuno di noi. Non si vede all'
orizzonte nessuna idea forte per rispondere alla crisi del Paese. Non ce l'ha Beppe Grillo,
il cui Movimento quando deve fare i conti con la proposta e con la realtà dell'
amministrazione si trova in grave difficoltà come dimostra la paralisi di Roma. Diverso
appare il discorso di Torino, ma tale è in città l'impronta sabauda che anche lasciata sola
funziona e se la sindaca sia capace di fare la differenza non lo sappiamo ancora. Manca
un' idea anche a Salvini, che prima dovrebbe avere un programma e convincere il resto
della destra delle sue presunte capacità di leader. Le idee da tempo mancano infine alla
cosiddetta "minoranza" pd, che ora cercherà di tornare maggioranza ma che da troppo
tempo vive di conservazione e si definisce più per contrapposizione che per proposta. La
riforma del Sì non era delle più entusiasmanti ma non lo è nemmeno la sensazione che
tutto resti sempre uguale, che sia impossibile cambiare le cose, che anche alle prossime
elezioni voteremo per il Senato e che rimarremo inchiodati alla lentezza di avere due
rami del Parlamento impegnati nello stesso identico lavoro. Ora assisteremo a una resa
dei conti a sinistra tra chi vuole una restaurazione e chi ha predicato la rottamazione e a
uno scontro generale tra chi pensa che il sistema sia da buttare e chi crede che le
istituzioni siano invece da salvare. C'è da augurarsi che sia a destra (come è accaduto in
Francia) sia a sinistra si mettano in campo opzioni di razionalità politica, che nel Pd si
archivi la stagione delle risse e si lavori per contrastare i populismi. Per non lasciare il
campo libero a chi predica irrazionalità e propone ricette devastanti che
disgregherebbero ancora di più il tessuto sociale. Di questa giornata per molti versi
storica colpisce soprattutto un dato ed è la partecipazione appassionata dei cittadini, una
sorpresa che fa giustizia delle tante analisi sulla disaffezione al voto. Questi italiani, non
importa se hanno votato No o se hanno scelto il Sì, meritano una proposta di Paese
credibile, che parli di futuro e non di salti nel buio.
Pag 31 Tocca al Quirinale garantire la stabilità di Stefano Folli
Si chiedeva a Matteo Renzi di dimostrare senso del limite in caso di successo. Ma ora il
senso del limite devono dimostrarlo i vincitori (Grillo, certo, ma anche la sinistra
dissidente) di questo drammatico 4 dicembre. Drammatico non tanto per l'esito del voto
- al dunque la conferma della Costituzione del '48 non sarà l'apocalisse nemmeno per i
mercati, salvo i primi giorni turbolenti - quanto per le dimensioni e le modalità della
sconfitta renziana. Si è creata la combinazione più negativa per il premier: una grande
affluenza alle urne, la più alta degli ultimi vent'anni, e al tempo stesso uno smacco
esplicito che non consente prove di appello. Quando invece i sondaggisti ritenevano che
un'affluenza superiore al 60 per cento avrebbe favorito il Sì. Siamo intorno al 70, invece,
e il beneficio sembra essere tutto del No. Quel che è peggio per Renzi, il voto di ieri ha
confermato cosa sarebbe il secondo turno di ipotetiche elezioni fatte con l'Italicum:
l'alleanza di tutti contro uno. È il momento di misurare il grave errore compiuto a
Palazzo Chigi nel voler trasformare il referendum costituzionale in un plebiscito intorno
alla figura del capo. Capita quando non si è in grado di far tesoro della storia. De Gasperi
entrava in punta di piedi nel dibattito della Costituente perché la considerava materia
esclusiva del Parlamento. E non a caso Piero Calamandrei, giurista insigne nonché
fiorentino come Renzi, teorizzava che "i banchi del governo devono essere vuoti" quando
l'assemblea discute intorno alla Costituzione. Altri tempi. Sta di fatto che nell'Italia del
2015-2016 si è seguita la via opposta, oltretutto collegando la riforma della Carta a una
molto discutibile legge elettorale e infine a sette mesi di campagna elettorale utile solo a
spargere nevrosi in un paese frantumato. Si capisce che da oggi il compito del
presidente Mattarella diventa cruciale nella sua complessità. Tuttavia è la logica della
democrazia parlamentare e in particolare della nostra tradizione costituzionale. Il motore
del Quirinale si accende quando il sistema si inceppa. Purtroppo l'intoppo stavolta è
alquanto grave e quell'affluenza imprevista ai seggi testimonia da un lato un desiderio
collettivo di partecipare alla vita politica, ma dall'altro segnala l'ampiezza del malessere
diffuso e il disagio sociale che si sono rovesciati sulle ambizioni di un premier troppo
disinvolto. Riannodare i fili non sarà semplice. È plausibile che il presidente della
Repubblica riparta da quel che c'è, ossia dalla maggioranza che ha sostenuto fin qui
Renzi. Essa esiste e non è stata messa in dubbio dal referendum, visto che tutte le sue
componenti erano per il Sì. Perdente dunque sulla riforma, ma non sul programma di
governo. Chiamata a chiarire la sua volontà, come accadrà entro pochi giorni, questa
maggioranza cercherà di dimostrarsi in grado di sostenere il prossimo esecutivo, anche
perché ha ben poca voglia di scivolare verso le elezioni anticipate. Del resto, il ministero
di domani non sarà di mera transizione. Lo attende un triplice impegno: approvare la
legge di stabilità e fornire all'Europa le garanzie sui conti pubblici; scrivere la nuova
legge elettorale che sostituirà il malinconico Italicum, senza dimenticare che al termine
della legislatura si voterà anche per il Senato; affrontare la crisi delle banche, vale a dire
il passaggio più delicato del post-referendum. È noto che i mercati finanziari, al pari
della Commissione europea, chiedono all'Italia stabilità. Avrebbero preferito averla con
un Renzi consolidato dal Sì alla riforma costituzionale. Non è andata così e il premier
avrà tempo per meditare sui suoi passi falsi. Un rilevante patrimonio politico è stato
compromesso al punto che il "rottamatore" è stato messo fuori gioco proprio con il No
preponderante dei giovani. A vincere è un certo patriottismo della Costituzione, la prova
che gli italiani non accettano di buon grado gli stravolgimenti, soprattutto se intravedono
in filigrana un vago disegno "bonapartista". Sta di fatto che il tema della stabilità resta
assolutamente prioritario. Il Parlamento dirà che una maggioranza c'è ancora. Potrebbe
essere Renzi a succedere a se stesso, mettendo da parte i propositi di ritiro a vita
privata? In teoria è tuttora una delle ipotesi, ma la forbice di quasi venti punti fra Sì e
No compromette tale prospettiva. Spetta al capo dello Stato studiare la situazione e fare
le sue scelte. Se non sarà Renzi, dovrà comunque essere individuata una figura
autorevole in grado di affrontare quei tre impegni fra economia e istituzioni. Il ministro
Padoan potrebbe essere il Lamberto Dini del 2017, il presidente del Senato Grasso
potrebbe offrire una cornice idonea all'esigenza di riscrivere la legge elettorale con il
concorso di una parte almeno dell'opposizione, ossia Berlusconi. In ogni caso il paese
non può essere consegnato a un destino di tipo spagnolo, ossia a mesi e mesi senza
governo. Di questo il capo dello Stato è ben consapevole. Quanto a Renzi, ha lasciato il
campo con un discorso orgoglioso, ma lasciando un panorama di macerie. Il suo ciclo
potrebbe non essere concluso, ma solo se sarà capace di fare i conti con se stesso. Tutti
i politici di razza hanno subito sconfitte e hanno saputo rialzarsi. L'uomo di Rignano è
ancora segretario del Pd. Potrebbe ricominciare da lì, con la pazienza di imparare dai
suoi errori. E con l'obiettivo di ricostruire un centrosinistra capace di stare nella storia d'
Italia, nel rispetto delle culture politiche.
LA STAMPA
Una crisi senza precedenti di Marcello Sorgi
La crisi di governo che s'è aperta a tarda sera in diretta, man mano che affluivano i dati
della vittoria del «No» al referendum costituzionale, è senza precedenti, perché, pur
essendo chiaro il risultato delle urne, il Capo dello Stato si trova davanti due
schieramenti, uno sconfitto ma all'interno del quale c'è ancora una maggioranza
parlamentare e potenzialmente un governo, e uno vincitore ma non in grado di
esprimere un'alternativa. Teoricamente, ma solo teoricamente, il presidente Mattarella,
esaurito un giro formale di consultazioni, potrebbe chiedere a Renzi di tornare in
Parlamento e verificare se ha ancora l'appoggio dei partiti che sostenevano il suo
governo. Ma questo cozzerebbe, prima di tutto, con la volontà di Renzi di accettare la
sconfitta e farsi da parte, e poi con il senso esplicito del voto referendario: un «No»
rivolto, non solo alla riforma, ma al premier che se l'era intestata e l'aveva difesa fino
all'ultimo in una campagna forsennata e solitaria. Inoltre Mattarella dovrà tener conto
che Grillo e il Movimento 5 stelle, cioè i veri vincitori di questa tornata, chiedono che si
vada subito alle elezioni, senza formare un nuovo governo, ma lasciando in carica per gli
affari correnti quello battuto nelle urne. Toccherebbe al Parlamento, in tempi brevissimi,
varare una nuova legge elettorale per Camera e Senato, partendo dal minimo comune
denominatore del proporzionale, il filo rosso che unisce gli alleati del «No», divisi su
tutto il resto. Così, garantiti dal vecchio sistema della Prima Repubblica, che consente a
tutti di andare di fronte agli elettori con le proprie posizioni e senza vincoli di accordi di
coalizione, i partiti potrebbero ripresentarsi, ciascuno per conto proprio, nella prossima
primavera, previo uno scioglimento delle Camere che il Capo dello Stato dovrebbe
garantire non appena approvata la nuova legge. Ma a raffreddare gli ardori dei vincitori,
che non vedono l'ora di seppellire una volta e per tutte l'era renziana, stamane potrebbe
essere l'apertura dei mercati finanziari, che già alla vigilia del voto avevano dato segni di
inquietudine e potrebbero oggi manifestarli con maggiore intensità. La caduta del
governo, infatti, non è solo un affare italiano e rischia di ripercuotersi in Europa con un
allarme di cui il Quirinale non potrà non tener conto. Con la conseguenza che, difficile se
non impossibile a un primo esame della situazione, la formazione di un nuovo governo
potrebbe rivelarsi indispensabile, per evitare che il Paese precipiti nel baratro di una crisi
economica, oltre che politica, dagli effetti devastanti. Sul tavolo di Mattarella in questo
caso potrebbero allinearsi tre ipotesi da verificare in tempi rapidi. La prima, calibrata
sulla necessità di arginare i rovesci dell'economia, sarebbe di affidare la guida del
governo al ministro Padoan, che avrebbe dalla sua la solidità dei rapporti intessuti con le
autorità di Bruxelles e l'appoggio di Renzi, disponibile, sebbene non ufficialmente, a
questa possibilità. Ma è inutile nascondersi che un governo Padoan in diretta continuità
con quello uscente, senza novità di rilievo nella composizione, non verrebbe accettato
dal fronte del «No», la collaborazione del quale serve per definire la nuova legge
elettorale. Di qui la possibilità che il Presidente della Repubblica, capovolgendo questa
impostazione, cerchi innanzitutto di far cadere i veti alla nascita del nuovo governo
scegliendo, com'è avvenuto altre volte, una personalità al di sopra delle parti, di rilievo
istituzionale e in condizioni di gestire il difficile negoziato sul sistema con cui si dovrà
andare al voto. In questo quadro, Padoan potrebbe anche restare all'Economia per
garantire la continuità dei rapporti con l'Unione europea. Ma occorrerebbe stabilire chi,
appunto, potrebbe guidare questa sorta di «governo del Presidente» che Mattarella
invierebbe in Parlamento con il compito di stabilire prima di ogni altra cosa una tregua.
Paradossalmente, lo schieramento del «No» è pieno di personalità istituzionali, basti solo
pensare al drappello di ex-presidenti della Corte Costituzionale - Onida, Cheli, De Siervo,
Zagrebelsky, Flick -, impegnati contro la riforma; ma è impensabile che Renzi, richiesto
di dare a un governo come questo l'appoggio del Pd, per consentirgli di prendere il largo,
possa rassegnarsi a uno sbocco del genere, che oltre a sottolineare la sua sconfitta gli
farebbe carico di tutte le divisioni emerse durante la campagna referendaria. Così,
malgrado l'interessato abbia già allontanato altre volte da sé l'amaro calice, nella
confusione della notte ieri tornava a circolare il nome del presidente del (redivivo)
Senato Pietro Grasso. I suoi rapporti con Renzi, si sa, non sono idilliaci, ma Grasso ha
alcune frecce al suo arco: ha condotto con equilibrio, portandola all' approvazione finale,
la riforma che per i senatori significava tagliare il ramo sul quale erano seduti; ha alle
spalle una quarantennale carriera di magistrato e una preparazione giuridica completa
che gli consentirebbe di districarsi tra le pieghe complicate dei sistemi elettorali; ha un
antico e solido rapporto con Mattarella, che data dai giorni tragici dell' assassinio
mafioso del fratello del Capo dello Stato. E infine è stato eletto sullo scranno più alto di
Palazzo Madama con pochi, ma significativi, voti del Movimento 5 stelle, che avrebbe
qualche difficoltà a dirgli di no.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Leadership, Regioni. Tutti gli errori di Matteo di Marco Gervasoni
Alla fine il vento anti-establishment ha risparmiato l'Austria ma ha investito in pieno
l'Italia. Se i dati parziali di cui disponiamo dovessero essere confermati, si profila una
vittoria del No, che si configurerebbe come l'ennesimo atto di rigetto non solo di un
governo ma anche della cosiddetta casta. Un voto conservativo, nel senso di mantenere
gli assetti istituzionali presenti e di rifuggire dai rischi dal nuovo, che però
paradossalmente potrebbe produrre effetti contrari, favorendo incertezza e instabilità.
Pur nella precarietà dei dati, forniti dagli exit poll, dobbiamo cercare di rispondere a tre
domande. La prima è: chi avrebbe perso? Lo sconfitto sarebbe indubbiamente Renzi,
franato su almeno tre terreni. Quello della leadership, con l'errore della
personalizzazione, finalizzata a un plebiscito che alla fine si sarebbe rivolto contro di lui.
L'altro terreno che è ceduto è stato quello del potere locale. La riforma, nel caso
venissero confermati gli exit poll, avrebbe tolto potere alle Regioni, quasi tutte
controllate dal Pd: evidentemente molti dirigenti locali devono aver remato in direzione
contraria rispetto a quanto deciso dal partito, timorosi di perdere quel potere che il ddl
Boschi in parte gli avrebbe sottratto. E qualcosa di analogo deve essere accaduto anche
dalla parte dei Senatori, non così desiderosi di perdere il posto. La terza causa della
frana sarebbe rappresentato dal Sud: che secondo gli exit poli avrebbe massicciamente
votato per il No. Un Mezzogiorno politicamente controllato quasi interamente dal Pd, ma
con cui Renzi, nonostante gli sforzi, non si è mai sentito in sintonia: un sentimento
ampiamente ricambiato. La seconda domanda è speculare alla prima: chi avrebbe vinto?
Nonostante la variegata compagine ostile alla riforma, che ha composto un
accerchiamento tipo «Renzi contro tutti » difficile da scardinare, è indubbio che uno dei
vincitori politici sarebbe Grillo e i 5 Stelle. E non solo perché la filosofia del no è quella
incarnata dal Movimento fin dalle sue origini, il rigetto della «casta». I 5 Stelle
potrebbero infatti meglio di altri profittare della situazione. E qui veniamo alla terza
domanda: che scenari si aprono? Con ogni probabilità, Renzi si recherà al Quirinale per
dimettersi, ricevendo, presumibilmente, un reincarico per un breve governo che riveda
la legge elettorale in vista di elezioni a primavera. Che però sia Renzi o meno a guidare
il governo, dipenderà da molti fattori: non solo quelli interni al paese ma anche quelli
provenienti da fuori, e dai mercati in particolare. Una cosa è certa: la maggior parte dei
contrari alla riforma sembra aver votato per «mandare a casa Renzi» ma questo
obiettivo è difficile che sarà perseguito, almeno a breve termine. Premier o no (e più
probabilmente no) Renzi resterà segretario del Pd, cioè del partito di maggioranza
relativa nelle Camere, investito dalle primarie: difficile che venga eliminato da un
congiura come i suoi predecessori. Chi ha scelto il No per dare una spallata a Renzi e al
sistema, è probabile resterà con un pugno di mosche in mano. Il segretario del Pd
continuerà a dettare l'agenda politica, anzi cercherà di considerare come voti favorevoli
alla sua leadership quelli andati al sì, mentre il restante dovrà essere diviso tra numerosi
soggetti. Quanto al «sistema», è probabile che il Presidente della Repubblica, come da
suo ruolo, cercherà di intraprendere tutte le strade per formare un governo con la
maggioranza già esistente: cioè ancora una volta un esecutivo Pd-Ncd. Chi ha investito
nell'ipotesi di un governo di grande coalizione non è detto insomma che sarà
accontentato. In entrambi gli scenari, però, i 5 Stelle, potranno cavalcare nelle praterie
dell'opposizione e crescere ancora. Certo una vittima acclarata, stando alle prime
proiezioni, già stasera è sotto i nostri occhi: la capacità del paese di muoversi, di essere
credibile, di diventare grande, di raccogliere le sfide.
Pag 1 “Il Paese si è mobilitato per mandarmi via” di Alberto Gentili
«Se sono andate a votare così tante persone, vuol dire che il Paese si è mobilitato per
mandarmi a casa». Matteo Renzi, di fronte ai primi exit-poll che lo danno sconfitto e la
percentuale di affluenza alle stelle, non sta a girarci attorno. Legge il voto come
un'ordinanza di sfratto. E valuta perfino l'addio alla segreteria del Pd, nel caso la
sconfitta si confermasse pesante: da una posizione di estrema debolezza non riuscirebbe
a contrastare l'assedio della minoranza. «La verità è che ho sbagliato, ho giocato questa
partita troppo su di me e poco sulla riforma. Questo ha prodotto un enorme danno
anche al Paese», ha confidato. Per tutta la giornata, dopo aver votato alla scuola
elementare De Amicis di Pontassieve, Renzi è rimasto chiuso in casa a Rignano sull'Arno.
Al seggio ha scherzato: «Come voto? Beh, ora ci penso». E, senza portafogli, ha chiesto
al presidente se poteva votare ugualmente: «Non ho documenti, spero di essere
riconosciuto...». Poi, ai fotografi e cameramen che gli chiedevano di restare in posa
mentre infilava la scheda elettorale nell'urna: «Dai ragazzi, sennò quelli che aspettano in
fila votano tutti no!». Finiscono qui i momenti leggeri del premier. Poco dopo è scattato
il tam tam con i primi exit-poll secretati. E sono cominciati i dolori. E' cresciuta la
consapevolezza di aver perso la partita della vita. Quella dell'uno contro tutti. Quella cui
ha legato il proprio destino politico. E a sera, a urne ancora aperte, da palazzo Chigi è
arrivata la notizia che a mezzanotte - viste le proiezioni - il premier avrebbe parlato urbi
et orbi. C'è chi racconta che nella notte Renzi sia stato tentato di mollare. Di dire basta
non solo con palazzo Chigi, ma anche con la politica. Ma c'è anche chi afferma e
garantisce (forse per provare a tirarsi su) che il mood del premier ormai dimissionario
sia «come al solito combattivo». Perché «se vai a vedere quanti voti ha incassato il Sì,
scopri che sono più di quelli presi dal Pd alle elezioni europee del 2014, quando prese il
40,8% dei voti», dice un renziano di alto rango «e con questo tesoretto ci si può
considerare sconfitti, ma non certamente dei falliti...». E' davvero così? In base a ciò che
già sussurrano i sondaggisti, con Renzi si sono schierate - voto del Pd a parte - le classi
medie e alte, quelli con un grado di istruzione più elevato che hanno puntato sulla
stabilità. Si sarebbe insomma formato e coagulato il blocco sociale in grado di dare
corpo e sostanza al fantomatico Partito della Nazione. Ed è con alle spalle questo blocco
che Renzi potrebbe scegliere di andare alle elezioni. Ma non prima di aver cambiato la
legge elettorale. Perché una cosa è certa: con il ballottaggio tra i due maggiori partiti,
succederebbe «tutta la vita quello che in giugno è accaduto a Roma, destra e grillini uniti
contro di noi», dicono al quartier generale del Nazareno. E poi c'è anche da inventare il
sistema elettorale del Senato, visto che l'Italicum - se non verrà demolito dalla Consulta
- vale solo per Montecitorio. Adesso la domanda che assedia Renzi è cosa fare?. Le
dimissioni sono certe. C'è da capire se, com'è probabile, il capo dello Stato Sergio
Mattarella gli chiederà di renderle effettive solo dopo il varo della legge di stabilità. A
fine mese. E, soprattutto, se il premier uscente accetterà. E' probabile di sì. Ma poi? Poi
c'è la navigazione a vista. Un primo schema, se i voti per il Sì fossero tanti e la distanza
dal No non fosse abissale, porterebbe addirittura al reincarico. A un Renzi-bis. Ma non
subito, prima il segretario del Pd vorrebbe assistere al teatrino di una politica avvitata su
se stessa. Incapace, senza il sostegno dei dem, di dare vita ad alcun governo. Né
tecnico, né di scopo. Lo schema insomma, in caso di sconfitta di misura, sarebbe quello
che portò nel 2013 alla rielezione di Giorgio Napolitano, invocato dall'intero Parlamento
come un salvatore della Patria. E l'orizzonte porterebbe al voto anticipato a fine
legislatura: tempo necessario per provare a rimarginare la brutta ferita aperta ieri notte.
Più probabile, in caso di sconfitta e non di una debacle, il sostegno da segretario del Pd
alla nascita di un governo con un solo compito: riformare la legge elettorale. In questo
caso a guidarlo non sarebbe Renzi. E il respiro dell'esecutivo sarebbe breve: elezioni ad
aprile («vediamo se Grillo è di parola, ha detto che vuole le urne immediate»), o al
massimo a giugno, appena chiuso il G7 in programma a fine maggio a Taormina. La
scommessa di Renzi: tornare in Parlamento con una maggioranza coesa, senza Bersani
& C. Di sicuro Renzi non mollerà. Non farà le valigie e, sfogo notturno a parte, non dirà
addio al partito. Eppure appena un anno fa, durante la conferenza stampa natalizia,
aveva messo a verbale: «Se perdo considererò fallita la mia esperienza politica. Chi ha
fatto il premier non può fare altro». Erano giorni in cui nessuno avrebbe scommesso sul
No degli italiani alla riforma costituzionale che tagliava i costi della politica e semplificava
il sistema istituzionale. In più, personalizzare serviva a Renzi per bypassare, senza
mettere in gioco il governo, le elezioni comunali della primavera. Quelle da cui, infatti, il
Pd è uscito con le ossa rotte perdendo Roma e Torino. A Renzi, inoltre, lo schema
dell'uno-contro-tutti, piaceva. Eccome. Era convinto che questo si rivelasse un
vantaggio, in un Paese dove è forte il vento dell'anti-politica: «Vedendo che sono tutti
contro di me», confidò all'epoca, «la gente capirà che sono l'unico che si batte sul serio
contro la Casta». Da qui l'idea di raccogliere le firme per promuove il referendum.
Peccato che già in giugno i sondaggi rivelarono che le cose non stavano andando
esattamente così. Anzi. Il No, a cavallo dei ballottaggi per le comunali, superò il Sì. E da
allora non c'è mai stato un contro sorpasso. La reazione del premier è stata la
spersonalizzazione. Smettere di dire e ripetere, «se perdo il referendum vado a casa».
Ma non è servito. Sempre a giugno i sondaggi dissero che il 38% degli elettori sarebbe
andato a votare in autunno «per confermare o mandare a casa il governo». Scattò
l'allarme. Così a settembre arrivò l'apertura sulle modifiche all'Italicum. Obiettivo:
smontare la teoria del combinato disposto tra legge elettorale e riforma costituzionale
con il collegato timore di una svolta autoritaria. E soprattutto Renzi si mise a caccia del
voto moderato: «Per vincere il referendum sono indispensabili i voti della destra», disse
in una intervista al Foglio il 27 settembre. Apriti cielo: Bersani e soprattutto D'Alema
salirono sulle barricate. Scelsero il fronte del No da lì a pochi giorni. Spersonalizzare, per
Renzi, significava far capire che non era in gioco solo il suo destino, «ma il futuro del
Paese». Così cominciarono a rimbalzare notizie sulle «conseguenze catastrofiche» della
vittoria del No: «Sarebbe peggio della Brexit», disse anche Roberto Benigni. Così il
premier cominciò a battere su tasti capaci di solleticare le simpatie moderate. Più duro
con l'Europa, quasi sferzante con Merkel e Juncker: «Se vinco, l'Italia sarà più forte e
daremo noi le carte a Bruxelles». Più duro sui migranti: «Non possiamo accoglierli tutti,
non è giusto che gli immigrati stiano a bighellonare tutto il giorno fuori dai centri di
accoglienza». Più deciso sulla crescita economica, con una legge di stabilità decisamente
espansiva. Il messaggio è almeno in parte passato, se i Sì sono stati milioni e milioni. Ma
più forte, nel Paese, è stata la voglia di mandarlo a casa. L'affluenza alle stelle è lì a
dimostrarlo. E pensare che il 17 ottobre su Renzi aveva scommesso anche Barack
Obama e l'intera amministrazione democratica.
LA NUOVA
Pag 1 Così torna l’Italia tripolare di Roberto Weber
Il No dunque, prevale, e in modo forse inatteso si spalma su tutto il paese. Renzi ne
prende atto e si dimette. Il voto ci rimanda indietro al risultato delle elezioni politiche del
2013 e cioè di un’Italia solidamente tripolare. Gli analisti pensavano ad un’affermazione
largamente guidata dal meridione del paese ove più forte emergevano elementi di
rancorosità e frustrazione dettati in larga misura da un ampliarsi delle diseguaglianze
economiche e sociali. Ma non è stato così e l’onda antigovernativa - è indubbio che la si
possa definire in questo modo - ha finito per affermarsi anche nelle aree più affluenti del
paese, fra i giovani in particolare ma anche nelle fasce produttive che, a ben vedere,
sono state quelle oggetto delle politiche di spesa del governo. Accanto a ciò ha
evidentemente avuto il suo peso, la questione del merito, o meglio del cambiamento
costituzionale, percepito dalla maggioranza degli elettori come un azzardo privo di
sufficienti contrappesi democratici, e gravato fino all’ultimo dalla minaccia dell’Italicum,
vissuto come un tentativo di porre le premesse di un lungo dominio renziano. Il Premier,
accusato di aver spaccato il paese, non è riuscito a rassicurare gli elettori, né a
convincerli del passaggio modernizzante, avviato con la riforma. Renzi pur avendo
portato dalla sua una parte considerevole del paese (e quindi un potenziale serbatoio di
voti futuri), a fronte delle dimensioni dell’affermazione del No, esce necessariamente di
scena. Viceversa Beppe Grillo in primo luogo, può cantare vittoria. Non solo i voti del
M5S hanno rappresentato la spina dorsale del fronte del No, ma ben più importante è
stato l’affiorare di un qualcosa che già si era visto in recenti test elettorali: l’M5S
“spaventa” meno di quanto spaventi il Pd guidato da Renzi. Un Pd che esce con una
profonda faglia interna, rappresentata dalla minoranza dem di Bersani, Speranza... e dal
ritornante D’Alema, oltre a molti esponenti di quell’area liberale che Renzi ha poco
considerato. Il centro-destra bifronte costituito dal viscerale Salvini e dal moderato
Berlusconi, ha evidentemente contribuito in modo significativo al risultato, ma crediamo
che sarà ancora quest’ultimo a sedere al tavolo delle trattative per la costruzione della
nuova legge elettorale. Il messaggio di Silvio ai “suoi” moderati evidentemente ha avuto
effetto e l’ex-premier non mancherà di farlo pesare. Curiosamente il Pd è di fronte ad
una nuova svolta: l’Italia infatti, troverà al solito un meccanismo di galleggiamento - non
di autoriforma, Dio non voglia - ma è assai improbabile che il Pd trovi una nuova
leadership capace di reggere l’urto di Grillo. Un’ultima considerazione sul tono e sul
carattere della campagna elettorale, raccontata dai più, come divisiva, priva di contenuti
e lacerante. Personalmente l’ho vissuta e trovata del tutto simile ad altre che l’avevano
preceduta, forse con alcuni “pregi” che in passato erano mancati. Mi riferisco da un lato
al processo di alfabetizzazione cui, si sono sottoposti gli italiani, dall’altro ad una
fiammata di partecipazione e senso civico, che credevamo sepolti. Per altri versi
abbiamo ritrovata l’Italia delle fazioni, dello scontro, del nemico principale (Renzi in
questo caso) che mette d’accordo tutti, l’Italia della retorica, del “bene assoluto” che si
contrappone al “male assoluto”. In conclusione l’Italia di sempre, a partire dalla
fondazione dello stato unitario.
CORRIERE DELLA SERA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 3 Rilancio, dimissioni, elezioni e Italicum. Le tante incognite di un
referendum di Massimo Franco
Oltre alla Carta è in gioco il governo
È chiaro che oggi si voterà sulla riforma della Costituzione, come è giusto, ma anche
sull’operato del governo di Matteo Renzi. Il premier ha impresso questa direzione alla
campagna referendaria, e gli avversari l’hanno fatta propria convinti di esserne
avvantaggiati. Non è una prospettiva incoraggiante. Utilizzare la Carta fondamentale per
legittimare pienamente un esecutivo non eletto, o per abbatterlo, dimostra una
sensibilità istituzionale dai contorni controversi. Comunque, se prevale il Sì la
Costituzione subirà un mutamento di fondo, del quale si capiranno solo alla distanza le
implicazioni. Altrimenti rimarrà com’è. Ma ormai conta il «dopo»: uno scenario che,
almeno di qui a fine anno, non prevede le dimissioni di Matteo Renzi.
Dimissioni e legge di Stabilità - Anche se il premier le offrirà al capo dello Stato, Sergio
Mattarella, difficilmente saranno accettate prima che sia approvata la legge di Stabilità:
un passaggio obbligato. E comunque, sarà il risultato del referendum a determinarne il
significato. Se il Sì dovesse vincere, anche solo per una manciata di voti, l’offerta di un
passo indietro sarebbe solo il piedistallo per un rilancio dell’esecutivo. Con Renzi
saldamente a Palazzo Chigi, nuovi ministri e un programma da spendere alle prossime
elezioni politiche: forse prima di quanto non si pensi. L’unico timore del governo sono i
ricorsi e le proteste che scatterebbero se il voto degli italiani all’estero risultasse
decisivo.
Ombre sui voti all’estero - L’ombra dei brogli diventerebbe incombente e sarebbe usata
e ingigantita dalle opposizioni. La nuova Costituzione ne uscirebbe approvata, ma
politicamente contestata e delegittimata. Per paradosso, un epilogo del genere
evocherebbe una vittoria destabilizzante; e darebbe corpo a una prospettiva di elezioni
anticipate, col rischio di un Italicum modificato al minimo e di uno scontro tra il
populismo di Beppe Grillo e un governo Renzi tentato di inseguirlo sullo stesso terreno.
Per questo, dietro l’aggressività del Movimento 5 Stelle si indovina il calcolo di una
«vittoria comunque»: o perché si indebolisce Renzi con il No, o perché lo si sfida dopo
l’affermazione del Sì con qualche possibilità di batterlo, diventando così il polo di
attrazione delle opposizioni.
Il «fattore Grillo» - Il governo conta sul «fattore Grillo» come spaventapasseri
dell’elettorato. La scommessa è di additare la possibilità di una presa del potere dei
Cinque Stelle per spostare gli indecisi dal No al Sì; e per convincere quanti sono
intenzionati a «votare con il portafoglio». L’operazione, almeno in parte, sembra riuscita.
Il contratto in extremis ai pubblici dipendenti, la bocciatura da parte della Corte
costituzionale della riforma dell’Amministrazione firmata dal ministro Marianna Madia:
sono tutti tasselli che il governo rivendica come episodi da giocare per la rimonta,
insieme col voto all’estero. Bisogna vedere solo se funzioneranno fino a invertire i
pronostici.
L’incognita dell’Italicum - Il fatto che in due anni e mezzo di renzismo il M5S sia
diventato più forte, e non più debole, passerebbe in secondo piano; e così i magri
risultati delle riforme economiche e i livelli di occupazione di fatto invariati. Lo scenario
di un’affermazione del No, per paradosso, potrebbe rivelarsi più stabilizzante. Lo status
quo costituzionale imporrebbe una revisione radicale del sistema elettorale dell’Italicum,
vero convitato di pietra, in senso proporzionale. In quel caso, la prospettiva di un M5S
pigliatutto si allontanerebbe: Grillo conterebbe per i suoi voti, senza premi alla
minoranza più forte tali da regalarle una maggioranza assoluta.
Tra reincarico e alternative - Ma soprattutto permetterebbe di tentare una riconciliazione
nazionale dopo gli strappi di questi mesi. Si tratta di un’esigenza più sentita di quanto
sembri, anche ai vertici delle istituzioni. L’incognita è se Renzi accetterebbe di guidare
quello che suonerebbe come un ridimensionamento sia personale, sia della sua strategia
di rottura; oppure se insisterebbe, per dimostrare che è impossibile formare una
qualunque maggioranza senza il suo «placet». Già si parla di governi guidati da Romano
Prodi, dopo il suo Sì sorprendente e critico dell’ultim’ora; o da ministri come Piercarlo
Padoan, Graziano Delrio, Dario Franceschini.
Le urne sullo sfondo - Sono ipotesi che rispecchiano in modo crescente le proporzioni di
un’eventuale sconfitta del Sì, fino a prefigurare un dopo-Renzi. A oggi è una prospettiva
remota, sebbene Palazzo Chigi la analizzi con fastidio. E per i giorni successivi ci sono
troppe variabili: dal numero degli elettori alle percentuali reali, non quelle di sondaggi
troppo oscillanti, di un’affermazione del Sì o del No. Ma si può scommettere fin d’ora
che, prima di togliere il disturbo, Renzi lavorerà per intestarsi ogni singolo voto; e per
farlo pesare in caso di voto anticipato o di reincarico. Il suo orizzonte rimangono le urne.
Deve solo capire se e quando riterrà di poterle ottenere, per centrare meglio i suoi
obiettivi.
Pag 6 Le parole in libertà di Pierluigi Battista
Il peggio della corsa elettorale
La peggiore campagna elettorale mai conosciuta in Italia in epoca repubblicana?
Certamente la più lunga, estenuante, sfibrante. Inevitabilmente ripetitiva, bisognosa di
additivi emozionali per sfidare la monotonia dell’eterno ritorno del sempre uguale. Una
campagna referendaria costellata di invettive, gaffes, urla, rotture. Tanti mesi fa Maria
Elena Boschi ammoniva quelli del No che se avessero insistito si sarebbero comportati
come CasaPound. L’Anpi per rappresaglia scomunicò una riforma costituzionale descritta
come l’anticamera di una feroce dittatura fascista. Qualche mese dopo gli argini del buon
senso sarebbero stati travolti. Il presidente dell’Anpi di Latina ha detto che Renzi è
«peggio» del Duce. Il Procuratore generale di Bologna ha equiparato i sostenitori del Sì
ai repubblichini di Salò. Quando ancora la buriana doveva cominciare, Confindustria si è
portata avanti e ha incaricato il suo ufficio studi di dimostrare che con il No l’Italia
avrebbe conosciuto l’aumento di 430 mila unità dei suoi poveri, nientemeno. Una
campagna elettorale a zig zag. Quando il Financial Times ha tifato per il Sì, quelli del No
hanno detto che i «poteri forti» stavano con il nemico. Quando l’ Economist ha
parteggiato per il No, quelli del Sì hanno detto che i «poteri forti» stavano con il nemico.
Poi c’è stata la bella e il Financial Times ha ipotizzato che la vittoria del No avrebbe
procurato il fallimento di otto banche. E l’allarmismo ha raggiunto l’apice. I «poteri
forti»? Un po’ frastornati. Del resto lo zig zag è stato anche il sentiero imboccato da
Matteo Renzi che prima ha giocato la carta anti-Europa, con tanto di bandiera europea
nascosta nell’armadio, con l’immagine di Bruxelles cattiva che bloccava i soldi per il
terremoto, poi ha incassato l’endorsement di Wolfgang Schäuble, il cattivo per
eccellenza, l’euroinflessibile spietato sui conti pubblici italiani. Mistero. Nessun mistero e
nessuno zig zag per Beppe Grillo, che quando parte la gara dell’insulto più greve, si
sente in dovere di vincere, anzi di stravincere. E quindi ecco quelli del Sì additati come
«serial killer», ecco l’insulto becero rivolto a Renzi paragonato a una «scrofa ferita».
Oppure la battuta quasi surreale con cui Grillo minaccia Renzi di denunciarlo per «abuso
di credulità», o anche il paragone un po’, anzi decisamente bislacco con la dittatura di
Pinochet (quella cilena, non quella «venezuelana» di Luigi Di Maio) che il premier
starebbe preparando per andare «oltre» il tiranno del Cile. Variopinti gli aggettivi con cui
i pasdaran del Sì hanno chiosato e accompagnato «l’accozzaglia» che secondo il premier
spingerebbe per un nuovo governo sostenuto dalle forze del No (ma è un referendum
non un turno di elezioni politiche). Mentre invece si è via via ingrossato, ultimo Romano
Prodi, il fronte capeggiato da Massimo Cacciari del Sì a una riforma considerata molto
negativamente («una puttanata» secondo il lessico cacciariano). E non si sa se questo
fronte comprende anche i kenioti per il Sì, raggruppati da un imprenditore di Malindi
coadiuvato da un gruppo di Masai. Poi c’è, da parte dei vertici del Comitato del No, la
denuncia preventiva di brogli non ancora tecnicamente effettuati da parte del Sì sui voti
degli italiani all’estero: pronto il ricorso, ma solo se ad essere determinanti saranno
quelli che all’estero dovessero confortare il presidente del Consiglio (e se invece
accadesse il contrario, il ricorso sparirebbe?). È divampata anche, forse per la prima
volta in queste proporzioni, la guerra del web, tutto un dannarsi attorno a falsi in Rete,
manovre via social network, complotti per la propalazione di bufale. Menzogne (ora
ribattezzate «post verità») sulla presunta scelta di Agnese Renzi di votare No contro il
marito premier: una scemenza dalla vita breve. Poi la bufala del ritrovamento di
centinaia di migliaia di schede già contrassegnate con il Sì: falso assoluto. In compenso
ha fatto molto scalpore, addirittura con seguito di denuncia avviata da Luca Lotti nei
pressi di Palazzo Chigi, lo smascheramento di un falso account su Twitter, indicato come
strumento diabolico al servizio del Movimento 5 Stelle, in realtà gestito dalla consorte
buontempona di Renato Brunetta. Ma è la paura che fa fare simili errori. La paura di
molti del No della «deriva autoritaria», la paura di molti del Sì alla deriva grillina cui si
darebbe una spinta in caso di vittoria dei contrari. E allora persino Massimo D’Alema,
laico impenitente, sostiene, scherzando ma non troppo, che «la Madonna è per il No». I
fanti non si sa cosa votino. E i santi?
AVVENIRE di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 Sia sì sì no no di Francesco Riccardi
Il nostro voto, il dovere dei politici
Comunque vada, quest’oggi avrà vinto la democrazia. Comunque vada, avranno perso
certi politici, quelli dello scontro per lo scontro. Comunque vada – meglio dircelo prima –
bisognerà lavorare per ricostruire un rapporto tra il palazzo che s’intesterà la vittoria e
parti importanti della società italiana. Quelli che non si sono fidati del progetto di riforma
costituzionale proposto, se a prevalere fossero i Sì. O quelli che, se ad abbondare
fossero invece i No, vedrebbero frustrate le loro aspettative di cambiamento. Comunque
vada, sarà necessario evitare mosse avventate e (ri)mettere a punto, secondo attese
diffuse, con la più ampia convergenza possibile, buone regole per l’elezione del
Parlamento della Repubblica. Vincerà oggi la democrazia perché, proprio grazie al
grande patrimonio lasciatoci dai padri costituenti e a coloro che lo hanno fatto fruttare in
ormai lunghi decenni di pace sociale e di crescita civile, siamo liberi di decidere se e
come mutare le forme in cui si sviluppa la nostra democrazia, senza intaccarne i valori
fondanti. Consapevoli che tutto è imperfetto – l’attuale progetto di riforma, così come la
difesa dello status quo o la promessa di un diverso cambiamento (quale? sulla base di
quale intesa?) – ma se a fare da stella polare sono il bene comune e non gli interessi
personali e di fazione, la protezione dei deboli e non il vantaggio dei forti, l’apertura e
l’inclusione degli altri anziché la chiusura nelle proprie (false) sicurezze, una democrazia
non può finire fuori strada. Perché a sostanziarla, assai più delle forme in cui si esplica, e
persino del necessario bilanciamento dei poteri, è l’animus dei cittadini, la loro passione,
partecipazione e capacità di giudizio. Avranno perso tanti politici, proprio perché non
hanno saputo animare un confronto leale sul merito della riforma, caricandola di funzioni
salvifiche o, al contrario, addossandole rischi esiziali per la stessa democrazia, che
francamente non esistono in alcun caso. Si è fatto di tutto per snaturare il significato del
referendum, trasformandolo ora in un sondaggio sul gradimento del premier in carica
ora nelle votazioni per il congresso di un partito (il Pd), per la leadership e la natura di
una – ipotetica – coalizione (di destra-centro o di centro- destra). Sono stati avanzati
ricorsi giudiziari dal sapore solo propagandistico e dallo scontato esito negativo, se ne
sono annunciati altri, ma solo a seconda del risultato, e si è persino gridato ai brogli in
maniera preventiva. Si è solleticata tanto la pancia del Paese (fino a chiedere un voto di
questa specie), assai poco si è stimolata la testa, in ben pochi casi si è scaldato il cuore.
E si è spaccata l’opinione pubblica. Lo si è fatto con argomentazioni ingiuste e persino
impossibili – il pericolo di una dittatura, i serial killer delle future generazioni, le mafie al
governo, la grande palude dell’immobilismo – che hanno finito per togliere legittimità
alle ragioni di un fronte e dell’altro, rischiando di toglierne alla scelta stessa dei cittadini.
Invece chi voterà Sì non sarà un fascista e neppure un complice della mafia. E a chi
sceglierà il No non potranno essere addebitati i mali paralizzanti del bicameralismo
paritario, i malfunzionamenti della sanità o la perniciosa instabilità dei governi.
Bisognerà perciò ripartire dalla ri-legittimazione delle posizioni e delle opinioni dell’altro
– elemento essenziale e costitutivo di ogni democrazia – se si vuole un Paese che non
sia eternamente frammentato e sterilmente litigioso e, dunque, incapace di felice
sviluppo. Il mondo cattolico che ha affrontato questo referendum in maniera molto
'laica', con posizioni variegate, ma non divisive o di feroce contrapposizione, può
indicare una strada in tale direzione. L’unica che può permettere a una classe politica
logorata di ricostruire il rapporto di fiducia con i cittadini. Da domani, sia che si abbia un
Senato radicalmente riformato sia che resti l’assetto attuale, si dovrà lavorare a una
nuova legge elettorale. Non modulata sulle contingenti presunte convenienze dell’uno o
dell’altro partito, ma pensata per rafforzare proprio il legame fiduciario e la stretta
relazione elettore-eletto che sono la base di una rappresentanza degna di questo nome.
È essenziale, e anche noi lo sollecitiamo da almeno dieci anni, che i cittadini tornino
fortemente e direttamente protagonisti della scelta dei propri rappresentanti. Oggi,
intanto, la nostra scelta sia lineare e limpida. Un consapevole voto 'per' , non 'contro'.
Sia il nostro Sì sì e il nostro No no, vagliando in coscienza il meglio possibile per il nostro
Paese e infischiandocene delle parole inutili. E i signori dei partiti intendano bene, e bene
si accingano a fare, sbloccando in ogni caso un’Italia che merita di essere rispettata e
davvero rimessa in moto. Settant’anni fa, per una scelta istituzionale assai più divisiva
tra Monarchia e Repubblica, con un clima e condizioni interne ed esterne estremamente
più complicate e pericolose, i loro grandi predecessori e tutti i nostri genitori e nonni ne
furono capaci. Fallire ora sarebbe del tutto inaccettabile.
CORRIERE DEL VENETO di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 Cambiare, comunque vada di Stefano Allievi
Oggi si vota per cambiare la costituzione, o per decidere di non farlo. Il nocciolo della
questione è tutto qui: e la palla – in forma di scheda elettorale – è in mano agli elettori.
Se si vota Sì, si introducono cambiamenti che cercano di velocizzare e rendere più
efficiente il sistema di produzione legislativa, modificando i meccanismi della
rappresentanza, senato in primo luogo. Se si vota No, resta tutto come è ora. Certo, si è
costretti a ridurre una questione complessa a un Sì o a un No. Ma non è quello che
facciamo tutti, nella nostra vita, di fronte a molte variabili, prendendo delle decisioni?
Che sia sposarsi, acquistare un’automobile, scegliere una facoltà universitaria, aprire
un’azienda a un nuovo prodotto o a un nuovo mercato. Si valutano i pro e i contro, i
costi e i benefici, per quel che si può. Ma poi si sceglie, per così dire all’ingrosso. E si
agisce di conseguenza. Con le incertezze del caso. Senza rinviare più. Si può discutere
della qualità e della ’opportunità dei cambiamenti proposti: e lo si è fatto in questa lunga
campagna elettorale (quando, e spesso. non s’è parlato d’altro). Qui non ce ne
occuperemo: ormai ognuno ha già fatto le sue scelte, o le farà in cabina. Ma è
indiscutibile che dei cambiamenti occorrono, urgentemente. Per questo non è stata
negativa, questa campagna elettorale. Certo, i toni hanno trasceso spesso, le accuse si
sono radicalizzate, si sono divise famiglie, amicizie, generazioni, partiti. Ma la passione
della discussione ha fatto se non altro aumentare la conoscenza media della
costituzione, e la consapevolezza dei problemi legati al funzionamento della macchina
istituzionale: un risultato positivo. Un patrimonio che si potrà e si dovrà recuperare
presto. Comunque vada, resta infatti che questo paese ha un enorme bisogno di
cambiamento, di innovazione, di semplificazione. Che non si esaurirà: né che vinca il Sì,
né che vinca il No. Non si può pensare di rimandare indefinitamente questa
trasformazione: il prezzo lo paghiamo tutti. Bisognerà al contrario prenderla di petto:
oggi più di ieri, proprio perché ce n’è maggiore consapevolezza. Con più velocità. Con
sempre maggiore radicalità. Comunque vada, ci sarà la responsabilità di unire il paese,
di ricomporre le fratture. Ma non sul niente, o sull’immobilismo: su altri, ulteriori
processi di mutamento. Delle istituzioni, della legislazione, dell’economia, della società.
Ed è cosa difficile, che non potrà che passare per altri conflitti, altre fratture, altre
divisioni. E’ bello raccontarselo, ma è illusorio pensare – in una società sempre più
plurale – di coinvolgere tutti, magari all’unanimità, in processi inevitabilmente complessi,
che riscrivono equilibri, toccano interessi, rispondono a bisogni profondamente diversi.
Comunque vada, dovremo tutti, non solo i politici (professioni, categorie produttive,
associazionismi), nella chiarezza e nella differenza delle posizioni, riprendere il dialogo
con chi la pensa diversamente da noi. Perché se non ci può essere unanimità sui progetti
di cambiamento, ci può essere e si deve comunque ricercare la massima unità possibile
sulle ragioni per cui non si può andare avanti come si è fatto in passato. In fondo,
questo è già emerso. Tra chi è a favore della riforma. E tra chi è contrario: non a caso,
molti dicono che bisognerebbe cambiare comunque, solo in altro modo. Il problema è
sapere in quali condizioni sarà più facile metter mano ai cambiamenti futuri.
Torna al sommario
IL GAZZETTINO di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 Dalla Repubblica al divorzio, il Paese nell’urna di Diodato Pirone
In principio fu la scelta fra Repubblica e Monarchia. Il 2 giugno 1946 circa 25 milioni di
italiani, quasi la metà donne che avevano ottenuto il diritto a votare solo tre mesi prima,
capirono per la prima volta la forza del referendum popolare. E fu subito amore-odio per
questo strumento di democrazia diretta: ci aveva regalato la Repubblica sull'onda di
quasi 13 milioni di voti (contro 11 milioni), ma era decisamente poco adatto alla
mediazione, la vera chiave di volta della Prima Repubblica. E infatti i grandi partiti, tutti,
si affrettarono a riporlo in naftalina per ben 28 anni, fino al 1974. C'era da capirli i
raffinati intellettuali che guidavano i partiti. Il referendum era semplice, diretto,
dirompente. Poteva assegnare gloria ma anche polvere amara a chi lo maneggiava. Era
altro dalle raffinate alchimie di Aldo Moro, Amintore Fanfani, Palmiro Togliatti, Riccardo
Lombardi. La politica italiana delle convergenze parallele escludeva il referendum dai
propri radar anche per via di quanto accadeva in quegli anni nella vicina Francia. A Parigi
un ex generale ed ex capo della Resistenza che si chiamava Charles De Gaulle alla fine
degli Anni Cinquanta aveva utilizzato proprio il referendum come grimaldello per
rompere la dittatura parlamentare della Quarta Repubblica che produceva un governo a
semestre. De Gaulle e il suo gruppo di una decina di consiglieri tanto colti quanto
spregiudicati aveva ideato una Repubblica semi-Presidenziale, la Quinta, stabile e
affidata alle sue mani e ai suoi partiti. De Gaulle offrì la sua costituzione al popolo e
ottenne il 79,25% di Sì al referendum del 28 settembre 1958. Qualcosa di più di un
trionfo. Ma appena 11 anni dopo, nel burrascoso 1969, De Gaulle riuscì a perdere per un
soffio un banale referendum guarda caso sul Senato (che in Francia conta un po' come il
nostro Cnel: zero), se ne adombrò, si dimise e uscì di scena per sempre. Ma torniamo
all'Italia. Da noi l'incantesimo anti-referendario fu spezzato nel 1974. Quando i vescovi
italiani imposero alla Dc di Amintore Fanfani un referendum per abrogare la legge
Fortuna-Gaslini sul divorzio. Il 12 maggio si recò alle urne l'88% degli italiani. Tutti. I
No, che poi voleva dire Si al divorzio, furono 19 milioni contro gli appena 13 milioni del
fronte opposto. Fu rivoluzione. «Non solo emerse di colpo la secolarizzazione della
nostra società - spiega ancora Sabbatucci - Ma fu evidente che la Chiesa non conosceva
più gli italiani: non solo non li guidava ma non li capiva». Allora a capire e cavalcare
(talvolta fino allo sfinimento anche degli elettori) l'enorme forza del referendum fu un
uomo politico atipico: Marco Pannella. Con i suoi radicali ne promosse moltissimi.
Parecchi furono ignorati ma alcuni ebbero grossi successi come quello sul finanziamento
pubblico dei partiti (1978)che finì per essere aggirato ma segnò la fine dell'egemonia dei
partiti. Se nel 1974 la mannaia semplificativa del Si e del No si abbatté sulla Chiesa, nel
1985, ad esserne colpita fu un'altra istituzione che andava facendo il suo tempo: il Pci.
«Il gruppo dirigente comunista anche contro il parere dell'allora segretario della Cgil,
Luciano Lama, puntò su un referendum in difesa della scala mobile - racconta il
sociologo Mimmo Carrieri - Era una mossa politica contro l'astro nascente socialista
Bettino Craxi che aveva rotto il tabù dell'aumento nominale dei salari per combattere
l'inflazione e modernizzare il Paese. Il Pci perse 54 a 46, ma soprattutto non vinse nelle
grandi città operaie del Nord. Oggi gli operai votano per la Lega o per Grillo ma all'epoca
fu uno choc». I socialisti vinsero subito dopo, nel 1988, anche un referendum solo in
apparenza secondario sulle centrali nucleari. L'Italia è stato il primo paese europeo a
smantellarle. Ma un po' come per De Gaulle, Craxi bruciò il proprio patrimonio politico
proprio con un referendum. Nel 91 un peone democristiano che si chiamava Mario Segni
riuscì a raccogliere le firme per una consultazione contro le preferenze, giudicate il perno
della corruttela nel sistema politico. Craxi non capì. «Andate al mare», consigliò agli
elettori. Che invece lo giubilarono con 27 milioni di Sì all'abolizione delle preferenze.
Dopo quella stagione il referendum ha sostanzialmente vivacchiato finendo nelle mani di
piccoli gruppi d'influenza. Poi il gigante si è risvegliato nel 2011 in piena crisi del
berlusconismo quando a sorpresa 26 milioni di italiani votarono per i beni pubblici. Il
referendum ha sempre avuto questo di bello: raccoglie gli umori di fondo degli elettori e
apre e chiude grandi scenari e grandi carriere. Sarà così anche oggi.
LA NUOVA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 In bilico tra paura e speranza di Fabio Bordignon
È dunque arrivato il 4 dicembre. Le urne sono aperte. Alla fine di una lunghissima,
estenuante campagna elettorale. Ricca di colpi di scena e colpi sotto la cintura. Offese e
sospetti. La fine di un incubo. O solo l’inizio? In effetti, il sentimento che maggiormente
ha segnato l’ultima settimana è stato proprio la paura. La paura di quel che succederà:
da domani. Una paura che potrebbe favorire il Sì. Ma che, da sola, non sarà sufficiente a
sospingere la riforma. Del resto, è un film che abbiamo già visto: in Grecia, nel Regno
Unito, negli Usa. Alla vigilia di cruciali appuntamenti elettorali: la fibrillazione dei
mercati, i timori sulla tenuta del sistema bancario, gli ammonimenti dei grandi quotidiani
finanziari. Eppure, i cittadini di quei paesi hanno affrontato il loro salto nel buio. La
paura non ha prevalso. O, più probabilmente, hanno prevalso altre paure: quelle
connesse alla globalizzazione, all’impoverimento, all’arrivo dei migranti. E l’in-sofferenza
sociale che le ha generate. Vedremo se l’Italia farà eccezione. Se la sua anima
“moderata” esiste ancora. E risulterà decisiva, con la sua volontà di evitare nuove
turbolenze e di aggrapparsi ai timidi segnali di ripresa. Renzi, così, ha in parte cambiato
registro. Lui che, meno di tre anni fa, ha scalzato Enrico Letta da Palazzo Chigi
opponendo la logica della rivoluzione a quella della stabilità. Ora, invece, la stabilità è
diventata parola d’ordine del fronte del Sì. Insieme ad altre: semplicità, sobrietà,
giustizia. Il premier ha invitato gli italiani a scegliere guardando ai contenuti che
troveranno stampati sulla scheda. A votare con la testa e non con la pancia. La pancia
esaltata da Grillo. La pancia da curare con casse di Maalox, in caso di sconfitta. Il
fondatore del M5S, infatti, ha chiuso il proprio tour usando toni insolitamente cauti e
rassicuranti. Memore, forse, di quanto accadde nel 2014, quando l’annuncio della
spallata al governo non portò fortuna. Al contrario, spaventò una parte degli elettori,
favorendo il Pd. Il premier, in quella partita, giocò sulla contrapposizione tra rabbia e
speranza. Uno schema che ha tentato di riproporre negli ultimi giorni. Con maggiore
difficoltà, visto che 1000 giorni di governo pesano sul percorso del leader. Ricercare lo
spirito di allora, tuttavia, era l’unica strada a disposizione di Renzi per affrontare la
madre di tutte le battaglie. Provando a sfondare presso quella fetta di Italia moderata un
tempo berlusconiana. Compattando, al contempo, il centrosinistra e il tanto atteso
endorsement di Prodi potrebbe essere di grande aiuto. In questa sfida, la paura dei
grillini e dei Salvini alle porte può avere un certo peso. Allo stesso modo, la prospettiva
di una crisi di governo, di lunghi mesi di incertezza politica ed economica, lo spettro
degli inciuci e dei governi tecnici: potrebbero allarmare una parte degli italiani. Ciò
nondimeno, per vincere, Renzi non poteva a limitarsi a giocare in difesa. Quanto alla
stabilità e ai suoi alfieri: le agenzie di rating e il mondo delle banche, non erano certo i
migliori testimonial cui affidare l’appello finale. Per queste ragioni, il leader del Sì ha
chiuso la propria campagna tornando a insistere sull’idea di cambiamento e rottura con il
passato. A raccontare il sogno di un’Italia veloce e efficiente, moderna e capace di
decidere. Che va oltre la stagione delle grandi coalizioni e diventa finalmente
governabile. Al passo delle altre democrazie del continente: addirittura leader in Europa.
In questa chiave, ha sottolineato l’irrepetibilità dell’occasione: per sbloccare il Paese e
proiettarlo sul futuro. Alla chiusura delle urne, tra poche ore, sapremo se questo
racconto è ancora capace di trascinare gli italiani. Se Renzi è il leader in grado di
veicolare tale visione del Paese. E se sarà la sua riforma a portarci nella Terza
Repubblica.
Pag 1 Il popolo desideroso di capire di Mario Bertolissi
La campagna referendaria, per come si è svolta e per l’immagine che ha dato di sé la
politica, va presa sul serio. In primo luogo, dalla politica stessa. Questa deve riflettere
sulla propria qualità e sulla crescente separazione che esiste tra essa e la cosiddetta
società civile. Espressione - quest’ultima - poco amata, se non disprezzata, da quanti
sono persuasi che un Paese ha la classe dirigente che si merita. Forse, così è stato in
passato. Ora, non più. È un rilievo che suggerisce attente riflessioni. a) Mesi e mesi di
contrapposizioni nette tra esponenti del Sì e del No hanno messo in mostra una
debolezza strutturale della politica. I suoi interpreti non sono stati capaci, tranne
eccezioni, di illustrare il proprio punto di vista, dando atto, nel contempo, che il
medesimo non è privo di criticità. Prese di posizione scomposte, opinioni quasi mai
convergenti, per inesistenza di una adeguata sensibilità istituzionale, hanno diviso anche
il corpo referendario, a quanto pare. Ma pare a chi? Sempre e soltanto ai politici e a
quanti li corteggiano e li inseguono. È una sorta di circo, all’interno del quale si celebra
continuamente lo stesso spettacolo, facendo mostra di convinzioni granitiche, che
lasciano intatti i dubbi. b) Invece, Vittorio Sermonti la pensava altrimenti, il 12
novembre di quest’anno, quando ha scritto sul proprio sito: «La cieca inappellabilità del
discorso politico dei più si fonda su una griglia di dati illusori, certificati dalla più faziosa,
boriosa, rabbiosa selezione di informazioni … Faziosità, boria e rabbia che hanno radici
profonde nel buio di ognuno, non tollerano il dubbio implicito in ogni scambio di idee,
sono il funerale della politica». Ed è proprio l’assenza del dubbio, fondata sulla premessa
errata che risposte precise generino certezze, quando è la realtà in sé e per sé a non
essere immediatamente comprensibile e, con questo, caratterizzata da evidenze che
persuadono: è l’assenza del dubbio che disorienta. c) Ne sa qualcosa chi ha partecipato
a eventi che hanno avuto ad oggetto il referendum del 4 dicembre. Lasciati in disparte
tanti interrogativi, che hanno angustiato molti, riguardanti la legittimazione istituzionale
delle Camere; la qualità del contraddittorio e le relative forzature; l’inadeguatezza
dell’articolo 138 della Costituzione, ove lo si colleghi all’intensità e all’ampiezza delle
modifiche apportate alla Legge fondamentale e via dicendo; a prescindere da tutto ciò,
costui - tra i quali mi iscrivo - ha potuto apprezzare l’intento del cittadino, desideroso di
capire. Di capire, oltretutto, perché la sua esperienza concreta della vita e dei problemi
quotidiani lo ha convinto che in gioco c’è il futuro suo e non solo: ne va dei propri figli.
Sicché, la domanda di chi non si accontenta di preconcetti, ma pretende di conoscere
per dare un voto responsabile, è nettamente diversa da quella prospettata dagli
intervistatori di turno, limitata al Sì e al No. È una domanda generata dall’aspirazione
alla conoscenza, resa tale da una profonda convinzione, vale a dire che tutto è
discutibile e opinabile, non certo. d) Lontani anni luce, pertanto, dal «suona a destra uno
squillo di tromba, a sinistra risponde uno squillo», di cui si sono fatti interpreti i politici e
i lodo adepti. Tant’è che la politica pare aver lasciato perdere ogni nesso di collegamento
con gli intendimenti dell’uomo della strada. La separazione è netta, evidente,
preoccupante. È il prodotto di leggi elettorali pensate per dare sfogo ai giochi di palazzo,
che hanno avuto il demerito di escludere l’elettore dalla scelta dei candidati (dal
Porcellum all’Italicum). I quali sono - sulla carta - servi fedeli del capo, salvo tradire al
momento debito in nome di una prerogativa costituzionale abusata, quale è il divieto di
mandato imperativo. Le migrazioni indecenti da gruppo parlamentare a gruppo
parlamentare, giustificate da un tornaconto privo di idealità, costituiscono l’altra faccia di
una medaglia il cui verso positivo registra l’immagine di una moltitudine desiderosa
d’altro. È il popolo, di cui l’attuale Presidente della Corte costituzionale, Paolo Grossi, ha
scritto così: «Non è un’entità astratta, ma lo sono genitori e figli, maestri e studenti,
propritarii e nullatenenti, imprenditori e lavoratori, sani e malati…, creature carnali,
sorpresi nelle trame di una vita quotidiana fatta di ideali ma anche di interessi e bisogni
troppo spesso difficili da soddisfare». Loro rimangono in attesa. Lo sono da tempo. Lo
sono ora. Lo saranno dopo il 4 dicembre.
CORRIERE DELLA SERA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 Gli impegni per il dopo voto di Luciano Fontana
Un clima da ricostruire
Siamo arrivati al momento della verità dopo una delle campagne elettorali più lunghe e
sfibranti della storia repubblicana. Quasi sei mesi dedicati completamente alla battaglia
sulla riforma costituzionale. Parlamento bloccato, riforme economiche sospese, banche
che vacillano senza soluzioni vere e definitive all’orizzonte. Un clima da guelfi e ghibellini
con il ritorno di fiamma degli appelli e dei controappelli di intellettuali e star
cinematografiche e televisive. Famiglie divise, televisioni occupate, giornali internazionali
secondo i quali saremmo al terzo passaggio chiave del declino dell’Occidente, dopo la
Brexit e la vittoria di Trump. Il tema del contendere valeva tutto questo? Lo abbiamo già
detto: noi abbiamo molti dubbi. La riforma costituzionale in gioco è un passaggio
importante: con aspetti positivi ma anche con scelte discutibili sulla composizione del
nuovo Senato e sulla formazione delle leggi tra Camera e Senato. Sarebbero state, a
nostro giudizio, molto più importanti riforme sulla tassazione, la burocrazia, la
competitività, l’istruzione e la ricerca che avrebbero dato finalmente slancio a un Paese
che cresce poco, che (nonostante le sue tante eccellenze) perde terreno in termini di
produttività, che concede ai suoi giovani orizzonti precari. A questo punto non ci resta
che aspettare il risultato libero e democratico che domani daranno gli italiani con il loro
voto. Da lunedì però, qualunque sia l’esito, c’è un clima politico da ricostruire, una
razionalità da recuperare e priorità da ritrovare. N on possiamo affondare il Paese per
colpa dei conflitti della politica. Se dalla sfida il premier Renzi uscirà vincitore dovrà
onorare rapidamente gli impegni presi. Sulle modalità di elezione del Senato: quelle
previste nella riforma tolgono ai cittadini la scelta dei senatori e la consegnano a una
contestata classe dirigente locale. Sulla nuova legge elettorale: non tanto perché, come
si sente ripetere, farebbe trionfare il Movimento Cinque Stelle (ma che motivazione è?)
ma perché attribuisce al vincitore del ballottaggio nelle prossime elezioni un premio
enorme, senza alcun rapporto con il voto reale degli italiani, e al presidente del Consiglio
un potere soverchiante in aggiunta a quelli già garantiti dalla riforma costituzionale. Il
premier dovrà evitare la tentazione di utilizzare la vittoria per una resa dei conti finale
tesa a liquidare tutti i suoi oppositori interni ed esterni. L’anno che ci separa dalle
elezioni deve servire ad avviare finalmente quelle riforme finora rimaste sulla carta:
cambiamenti strutturali, investimenti produttivi, riduzione della spesa pubblica, taglio
delle tasse. Archiviando la stagione dei bonus, dei sussidi e dei regali elettorali. Impegni
altrettanto importanti, forse ancora più stringenti, il Paese si attende nel caso della
vittoria del No. Nell’opposizione alla riforma si sono coalizzati partiti e movimenti di
opinione che hanno strategie molto diverse. Un’armata eterogenea, e variopinta, che in
comune non ha niente. Nell’ipotesi, tutt’altro che inevitabile, di una crisi di governo
saranno necessari comportamenti responsabili, almeno da parte di chi non è disponibile
a cedere a derive pericolose. L’Italia è nel mirino degli investitori internazionali, la nostra
solidità come debitori è messa in discussione. Un blocco delle riforme sarebbe il segnale
peggiore che il Paese potrebbe dare. Siamo certi che il presidente della Repubblica, in
questa eventualità, saprà gestire con capacità ed equilibrio il vuoto di potere e
assicurare una transizione efficace e ordinata che porti rapidamente a una nuova legge
elettorale e al rispetto degli impegni sui conti economici del sistema Italia. Siamo ancora
troppo fragili, troppo bisognosi di stabilità e di riforme. Non possiamo permetterci
avventure.
Pag 1 Le carte coperte (e i sospetti che crescono) di Francesco Verderami
Nel Palazzo tutti parlano del futuro, quasi nessuno ricorda invece il recente passato, la
crisi costituzionale che nel 2013 paralizzò le istituzioni all’indomani del voto, con un
Parlamento incapace di formare una maggioranza di governo e incapace persino di
eleggere un capo dello Stato, mentre quello in scadenza - entrato nel semestre bianco non poteva nemmeno sciogliere le Camere e indire nuove elezioni. Le riforme e il
referendum sono figlie di quella crisi, sono la «ragione sociale» di una legislatura
sopravvissuta a se stessa proprio per ovviare al baco costituzionale che minava la
Repubblica. Ma di questo problema non si è mai discusso in una lunga e volgare
campagna elettorale, dove il fronte del Sì e il fronte del No hanno speso le loro energie
per rappresentare l’avversario come l’emblema della «casta». E tra un comizio e l’altro
hanno continuato a ragionare sul dopo, come se nulla fosse accaduto prima. Così Renzi
ha dato il proprio imprinting alla nuova Carta, ipotecando il futuro in caso di vittoria e
proponendo dei ritocchi a una legge elettorale che aveva imposto con voto di fiducia.
Mentre dall’altra parte Berlusconi, che pure aveva condiviso la riforma in Parlamento fino
al penultimo voto, ha preso d’un tratto a denunciare i rischi di una deriva autoritaria.
Appesi al verdetto delle urne, sugli scenari post referendari tutti tengono coperte le loro
vere carte, e ciò alimenta reciproci sospetti. Nel fronte del No nessuno si fida nemmeno i compagni della «ditta» - delle promesse fatte dal leader del Pd, che in caso
di successo si è detto pronto a completare l’iter della legislatura senza strappi. Persino
Gianni Letta, dopo molte titubanze, ha dato ragione infine al Cavaliere e si è convinto
che «Renzi, se dovesse vincere, potrebbe non tener fede ai patti». I «patti» ovviamente
riguardano la legge elettorale, che è l’alfa e l’omega per ogni forza politica, lo strumento
da cui dipende la possibilità per Berlusconi di rientrare in gioco: magari non più per
comandare, ma di sicuro per contare. L’idea che il compromesso passi per la sconfitta
altrui ha reso il referendum una sfida senza regole d’ingaggio, e ha complicato il lavoro
del capo dello Stato. La vittoria del Sì avrebbe - fino a un certo punto - un percorso
lineare, quella del No si porterebbe appresso molte più variabili e alcune incognite. A
partire dalla scelta che farebbe Renzi. Perché un conto è mettere in preventivo le sue
dimissioni, altra cosa è capire se - magari dopo un giro di consultazioni al Quirinale e un
incarico esplorativo affidato al presidente di una Camera - il leader del Pd passerebbe
comunque la mano o accetterebbe un nuovo incarico. Su questo tema anche ai
fedelissimi Renzi ha opposto un muro di silenzio: «Vincesse il No saprei cosa fare. Ne ho
parlato con mia moglie». Vincesse il No dovrebbe parlarne anche con il capo dello Stato,
sapendo che l’ipotesi di un governo tecnico - lo «spauracchio» con cui cerca di
convincere gli elettori a votare Sì - si concretizzerebbe solo con il suo sostegno: dunque
avrebbe una chiara paternità. E l’appoggio del Pd in Parlamento non permetterebbe al
suo segretario di tenersi a distanza dalle scelte del nuovo esecutivo, chiamato l’anno
prossimo a racimolare una ventina di miliardi per evitare che scattino le clausole di
salvaguardia concordate con l’Europa. Di qui la scommessa che fanno i suoi avversari, e
cioè che alla fine il capo dei democrat resterà a Palazzo Chigi. Ma è una scommessa che
non tiene conto della personalità dell’ex sindaco di Firenze. Così come sarebbe una
scommessa riuscire a trovare un accordo sulla legge elettorale. Con la vittoria del No
resterebbero due Camere con due diversi elettorati. Quale modello si adotterebbe?
L’eventuale premio di maggioranza si assegnerebbe solo a un ramo del Parlamento o a
entrambi? E se - visti i due diversi elettorati - dalle urne uscissero vincenti due forze o
coalizioni diverse? Il Palazzo, dove si discute del dopo referendum, rischia di tornare allo
stallo che precedette il referendum. In presenza di tre poli, il rebus avrebbe come unica
soluzione il ritorno alla proporzionale, che non potrebbe però tenere conto di una
variabile: la possibilità che le forze «antisistema» - per quanto non coalizzabili - superino
insieme il 50% dei consensi. Insomma, il Sì e il No sono due medaglie con il loro
rovescio. Da lunedì toccherà ai partiti misurarsi con il verdetto popolare. E le scorciatoie
sul sistema elettorale - vero oggetto della contesa - non appaiono praticabili. Sarebbe
complicato anticipare la fine della legislatura. A meno che il Parlamento - incapace di
mettersi d’accordo - non decida di affidarsi alla Consulta, pronta a «ritoccare» anche
l’Italicum dopo il Porcellum. Ma una legge elettorale scritta dalla Corte costituzionale
sancirebbe l’abdicazione di tutti i partiti della Seconda Repubblica. E a quel punto
vincitori e vinti del referendum, accomunati nella sconfitta, sarebbero costretti a passar
la mano.
LA REPUBBLICA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 Come riunire un Paese avvelenato di Mario Calabresi
La campagna elettorale è finita, domani finalmente si vota, lunedì - al di là del prevalere
dei Sì o dei No - un risultato certo l'avremo: un Paese diviso e malato e una sinistra in
macerie. Non parlo del governo: è evidente che con l'approvazione della riforma Matteo
Renzi resterà in sella mentre al contrario ci sarà la crisi di governo. Parlo della comunità
che tradizionalmente si è riconosciuta nelle idee progressiste e che oggi è smarrita e
dispersa. In Italia di campagne elettorali feroci ne abbiamo avute tante, di giorni del
giudizio e divisioni nette anche: basti ricordare lo scontro del 1948, il referendum sul
divorzio del 1974 o la polarizzazione della società negli Anni Settanta. Ma anche nelle
condizioni più difficili e tragiche - pensiamo alla stagione del terrorismo, delle stragi, del
conflitto ideologico frontale - c'erano punti fermi, coesione sociale e capacità di
progettare. Il clima e i toni, così come la violenza verbale del presente, sembrano più
riconducibili alle lacerazioni del primo e del secondo dopoguerra. Nel primo caso, quasi
un secolo fa, lo sbocco fu un regime autoritario, nel secondo invece la ricostruzione del
Paese fu un successo. Fu un successo grazie alla saggezza dell'Assemblea costituente, al
Piano Marshall e alla voglia di tornare a vivere. Oggi siamo in quello che potremmo
definire un terzo dopoguerra: il conflitto è stato istituzionale, con la fine delle strutture
dei partiti, ed economico con una crisi che ha distrutto il ceto medio, le aspettative e ha
rotto il patto sociale che si basava sulla convinzione che i figli avrebbero avuto una vita
migliore dei loro genitori. Questa è la cifra del nostro tempo e lo scontro forsennato sulla
riforma costituzionale non è che la spia di un malessere grave e diffuso. Quando
guarderemo con la dovuta distanza a questo referendum e a questi mesi, ci renderemo
conto che la materia del bicameralismo non poteva giustificare un clima da guerra civile
senz'armi, che non si trattava di un tema di grande interesse popolare che tocca la vita
dei cittadini come aborto, divorzio o nucleare, ma che è stato caricato di significati altri.
Una resa dei conti di chi si sente scivolare verso il basso contro chi è considerato
establishment, così come un duello all'ultimo sangue tra pezzi di classi dirigenti, tra
rottamatori e rottamati, tra idee diverse di società. Una divisione che attraversa non solo
un partito come il Pd ma comunità, amicizie e famiglie. Ciò che oggi provoca angoscia è
lo sfarinamento del tessuto del Paese, la fatica di immaginare un futuro e la
delegittimazione violenta di chiunque non sia o non la pensi come noi. È tale la canea
che le persone più ragionanti, pacate e positive sono ormai tentate di chiudersi nel
privato, di non impegnarsi in nulla che sia pubblico e sperare che passi la bufera. È
tempo per gladiatori e si fatica ad immaginare schiarite all' orizzonte. Solo guardando
con attenzione e pazienza al nostro territorio si scoprono tantissime persone coraggiose
che si impegnano nel sociale, nella gestione della cosa pubblica o che rischiano per
creare nuove attività e imprese, ma lo fanno rigorosamente sottovoce, quasi temendo
che finire in un cono di luce e di attenzione porti polemiche e invidie. Per uscire da
questo terzo dopoguerra abbiamo bisogno di una profonda opera di ricucitura della
società, di una manutenzione straordinaria, altrimenti l'idea stessa di futuro sarà
declinata in nome di un interesse personale e mai al plurale e ognuno si arrangerà come
potrà, sperando solo di andare all'estero o di mandarci figli e nipoti. La retorica della
resa dei conti, dei tavoli da rovesciare, dei palazzi da abbattere ha annebbiato le menti e
conquistato le viscere. Una retorica che andrebbe respinta con fermezza, con razionalità
e con cui non è possibile flirtare, anche perché è una bestia che non si fa addomesticare
ma sbrana chi prova a giocarci. Se a sinistra non si mette mano a tutto questo, il rischio
è di consegnare l'Italia alla sfida tra due populismi, uno più propriamente di destra - con
la scommessa di Matteo Salvini di conquistare l'intero campo conservatore grazie alle
primarie - e uno post ideologico rappresentato dal movimento di Beppe Grillo. Due
populismi isterici e nessuna sinistra, nessun campo progressista. Il rischio è quello della
perdita dell'idea stessa di una comunità nazionale, di un'appartenenza comune come
antidoto alle paure e agli egoismi del nostro tempo. Se questi populismi aumentano il
loro consenso, è perché intercettano stanchezza e paura, perché leggono meglio il
malessere sociale, perché promettono di dare soddisfazione alla rabbia e sfogo alla
frustrazione. Questo, come ci ha raccontato nella sua lunga inchiesta sulla crisi della
sinistra Ezio Mauro, mentre il Pd appare lontano, senza parole d'ordine e senza risposte.
Renzi ha lavorato alla modernizzazione e all'innovazione del Paese, questa maggioranza
di governo ha avuto a cuore i diritti sociali e l'accoglienza, ma c'è troppa assenza dai
problemi dei giovani e una difficoltà a contenere il disagio e a comprenderlo. Un premier
che amava viaggiare in treno ma che oggi sta troppo poco tra la gente comune, a cui si
oppone una sinistra che appare concentrata sulla lotta nel Palazzo più che nelle strade e
caratterizza la sua identità per contrapposizione e non per proposta. Appare difficile,
quasi impossibile, eliminare i veleni, digerire questa stagione, ma è doveroso provarci.
La strada esiste e parte dalla capacità di accettare il risultato senza aprire rese dei conti,
cercando di costruire invece di credere che ci sia ancora qualcosa da abbattere. Se
vincesse il Sì, sarebbe un tragico errore leggerlo come un via libera alla pulizia nel
partito: si ignorerebbe che una parte importante di quel Sì è stato dato solo per senso di
responsabilità, con una montagna di distinguo e di dubbi. D'altra parte se prevarrà il No
si sappia che se lo intesterà tutto Grillo, pronto a lanciare la sua sfida finale al Pd, e non
ci si illuda che possa essere un momento catartico di rifondazione di una nuova sinistra
ideale. Ci vorrà invece senso di responsabilità, amore per la propria storia e per il
proprio Paese. Ci vuole comprensione, e bisogna ripartire dall'ascolto della società,
sintonizzarsi con l'angoscia dei genitori e la paura dei figli per un lavoro che sembra
scomparso, per un welfare che perde i pezzi, per un orizzonte che non si vede.
IL GAZZETTINO di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 Un risultato che in ogni caso cambia il futuro di Bruno Vespa
Può sembrare strano, ma da lunedì avremo un'altra Italia. O un governo più forte o
l'assenza di un governo. Gli esperti dicono che il risultato potrebbe dipendere
dall'affluenza alle urne. I sostenitori del No sono più motivati e andranno comunque a
votare. Il Sì potrebbe pescare tra gli indecisi e tra elettori abituali di partiti diversi dal
Pd. Una forte affluenza alle urne favorirebbe il Sì. Gli italiani all'estero hanno votato in
modo più massiccio delle attese battendo l'affluenza delle elezioni politiche del 2013.
Questo ha messo in allarme il No e Salvini ieri si è affrettato ad annunciare ricorsi se i
voti stranieri' (un milione 600mila) fossero decisivi per il Si. Nel caso di vittoria del No,
Sergio Mattarella farebbe l'impossibile per convincere Renzi a restare. Ma avrebbe poche
possibilità di successo. Il presidente del Consiglio si è troppo esposto per poter far finta
di niente. Galleggiare, come dice lui, non gli converrebbe. Si formerebbe
prevedibilmente un governo politico a maggioranza Pd, ma di attesa: una nuova legge
elettorale, il congresso del Pd con successive primarie alle quali Renzi prevedibilmente si
candiderebbe, elezioni anticipate all'autunno del '17 o confermate alla scadenza naturale
del febbraio 2018. Ordinaria amministrazione per un anno, mentre il mondo corre. Se
vincesse il No, il Partito democratico sarebbe chiamato a una decisiva prova di serietà.
Quando si è affermato alle primarie che lo hanno portato alla guida del Pd, Renzi aveva
con sé giusto un drappello di cavalleria. L'artiglieria pesante è arrivata dopo, in ossequio
alla tradizione assai diffusa in Italia di andare in soccorso del vincitore. Celebrando
Napoleone nel 5 maggio', Manzoni parlò di servo encomio'. Sarebbe antipatico se in caso
di caduta del governo si passasse al codardo oltraggio'. Poiché tuttavia la lotta
referendaria si annuncia davvero aperta, Renzi può vincere. In questo caso, starebbe a
lui conquistare una vera leadership resistendo alla tentazione di stravincere. Un giorno
Mussolini disse alla sua amante-musa Margherita Sarfatti: Vincere, non stravincere,
perché le stravittorie non durano. (Se oltre alla Sarfatti l'avesse detto a Hitler prima
della campagna di Russia la storia avrebbe preso forse un'altra, tragica piega). Nella
cerchia del presidente del Consiglio più d'uno avrebbe voglia di regolare una volta per
tutte i conti nel partito. Sarebbe un errore grave. Nonostante i miglioramenti e alcune
riforme, il Paese resta debole. Una vittoria del Sì eviterebbe verosimilmente vuoti di
potere, ma l'Italia ha un disperato bisogno di unità e di reciproco rispetto tra le parti in
causa. Un buon esempio l'ha dato Susanna Camusso che pur votando No ha messo la
sua firma sotto il rinnovo del contratto degli statali a quattro giorni dal referendum
sapendo che questo avrebbe potuto favorire il governo. Renzi dovrebbe aprire a
Berlusconi per fare una nuova legge elettorale e il Cavaliere dovrebbe rendersi
disponibile anche se il No perdesse. Il risultato, insomma, qualunque esso sia, dovrebbe
essere gestito con grande saggezza da entrambe le parti.
LA NUOVA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 L’urna e il destino del credito di Bruno Manfellotto
Ora, cercare il responsabile della tensione che grava sulla sorte delle banche se vincesse
il No, è vano e tardivo; mettersi a valutare se la paura sia fondata o, come direbbe
Camilleri, sia solo scalmazzo, serve a poco. E però la questione c’è. Come conferma
l’annuncio fresco fresco del governo di un intervento pubblico per salvare Mps qualora
non andasse in porto l’aumento di capitale riservato ai privati. O, ieri, la sentenza del
Consiglio di Stato che ha rimandato alla Consulta la legge di riforma delle banche
popolari, fiore all’occhiello del governo Renzi, avanzando dubbi di costituzionalità. Non
resta che aspettare: oggi è sabato, domani si vota, e lunedì ci sveglieremo nell’Italia del
Sì o del No, e come noi si sveglieranno i grandi investitori che non aspettano altro che
una scusa per essere della partita o lasciar perdere. Le previsioni apocalittiche, come
spesso accade, sono made in England, come se gli inglesi non dovessero preoccuparsi
piuttosto della Brexit: magari si agitano alla ricerca di eventi negativi che, a posteriori,
suonino come conferma della loro decisione di lasciare l’Ue. Comunque hanno brillato
per catastrofismo, ma in modo diverso e con argomentazioni alquanto arzigogolate.
L’Economist, per esempio, ha invitato gli italiani a votare No, e sapete perché? Perché se
poi questa Brexit nostrana dovesse condurre alla fine dell’euro, be’, allora vuol dire che il
destino della moneta unica era già scritto. Amen. Come se fosse cosa da niente. Il
Financial Times, invece, non si augura una vittoria del No: salterebbe l’aumento di
capitale del Monte dei Paschi di Siena, che entra nella fase decisiva proprio la prossima
settimana, e sulla scia di un flop altre sette banche italiane potrebbero finire nella
tagliola del bail-in, incubo di azionisti, obbligazionisti e depositanti con oltre 100mila
euro: sono Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Carige, e le quattro minori Etruria, Banca
Marche, Cariferrara e Carichieti per le quali il fondo Atlante, costituito ad hoc, ha già
predisposto l’acquisto dei crediti più difficili da rivendere poi all’Ubi. Reazione a catena.
Intanto nuove indiscrezioni confermano ciò che si intuiva, ma che la prossimità del voto
ha finora impedito di ufficializzare, e cioè la possibilità che il Tesoro ricorra a fondi
pubblici per salvare Mps: all’inizio l’ipotesi era stata scartata, ma torna ora dinanzi allo
spettro di una fuga dei privati. Impossibile sapere quali potrebbero essere le condizioni
di questa sorta di nazionalizzazione, comunque da trattare con Bruxelles; difficile anche
pronosticare come la interpreterebbe il mercato: necessaria e indiscutibile, o preludio a
un più esteso salvataggio, ben più delicato e costoso? Il sistema del credito - stretto tra
un debito pubblico in calo, ma sempre pesantissimo di cui le banche sostengono una
parte importante, e una valanga di crediti inesigibili sulla cui reale entità gli analisti si
dividono (360 miliardi, si dice, ma pare che a fronte degli accantonamenti in bilancio
siano meno della metà) - è sempre stato sensibile all’instabilità dei governi,
preoccupazione costante dei mercati e arma principale a disposizione degli speculatori.
Al mercato Mps chiede ora 5 miliardi dopo averne bruciati otto, ed è impossibile
immaginare come reagirebbero Jp Morgan e Mediobanca, cui il governo ha affidato il
coordinamento dell’operazione, dinanzi alla volatilità di un incerto dopo referendum. E
pensare che anche Unicredit si appresta a chiedere un aumento di capitale, e per 13
miliardi… Al di là della propaganda e dell’irrazionalità, tutti sanno che si è disposti a
scommettere soldi quando si intravede un futuro sereno, senza scossoni né incertezze.
Vale per chi deve comprare un’automobile, figuriamoci una banca… Dunque peserà il
risultato del referendum e come, e anche in che modo le forze politiche lo
interpreteranno; d’altronde, pur fingendo di ignorare gli allarmi dei giornali-bibbia della
finanza internazionale, decisivo sarà l’esito del salvataggio Mps sul destino delle altre
banche a rischio. Comunque vada a finire il problema resta, cambierà solo il clima in cui
si prenderanno le decisioni necessarie. E non è cosa da poco.
Torna al sommario
2 – DIOCESI E PARROCCHIE
LA NUOVA
Pag 20 Corsa all’acquisto dei seicento presepi di don De Pieri di Marta Artico
Quando ha pensato di lasciare scritto nel suo testamento di vendere i suoi presepi,
sicuramente don Franco De Pieri, scomparso il 23 dicembre del 2015, sapeva che
sarebbero andati letteralmente a ruba e qualcuno è convinto che ovunque si trovi ora,
stia sorridendo compiaciuto. Perché è riuscito nel suo intento. Erano 600 le Natività in
vendita nelle due parrocchie mestrine in cui il sacerdote ha svolto il suo ministero e dove
ogni cosa parla ancora di lui, San Paolo in via Stuparich e Corpus Domini in Rione
Pertini: sabato ne sono andati via quasi la totalità, ieri pomeriggio se ne contavano
poche decine e verso sera non ce n'era praticamente più nessuno. Venduti tutti, nell’arco
di un fine settimana, gli ultimissimi saranno a disposizione oggi nello spazio di via
Stuparich a fianco alla chiesa. Con un clic, da casa, la gente è andata sul sito di
monsignor Vecchi, ha scorso le immagini, ha pensato quali voleva, poi si è recata sul
posto. I prezzi variavano: molti costavano 10 euro, alcuni 25, i più belli 50 euro, ma
l’offerta per la San Vincenzo delle due parrocchie era libera e in tanti hanno dimostrato
la loro generosità. Per i poveri, per mantenere vivo il ricordo di don Franco e per avere
con sé, sopra un mobile, in un punto preciso della propria abitazione, un pizzico di quello
sguardo sul mondo che ha sempre contraddistinto il sacerdote mestrino facendo spazio a
un tassello della sua passione. I presepi di don Franco sono una porta sull’universo, i
volti dei personaggi rispecchiano i Paesi dove vivono: Maria e Giuseppe hanno la pelle
scurita dal sole, i tratti somatici peruviani piuttosto che cileni, al posto del bue e
dell’asinello statuette di simpatici lama, presepi vivaci come le anime delle persone che
vivono nel Sudamerica, che dei colori non possono fare a meno. E ancora natività in
legno, cera, creta, marmo, materiali preziosi e poveri, grandi, piccoli, incorniciati tra
palmeti, grotte, montagne e persino cactus al posto di capanne. La grotta diventa di
volta in volta una caverna, una duna, una piroga. Volti allargati e fini, gote pronunciate e
visi esquimesi, statuine con gonne e sombreri. Don Franco lo sapeva: un presepe è più
delle statuette che raffigura, nel come i popoli diversi rappresentano la nascita del
Signore c’è tutto un mondo, una teologia prodotto del vissuto dell’uomo e delle persone.
I presepi profumano ancora dei luoghi da cui provengono, sono diversi come le mani
giunte in preghiera e allo stesso tempo incarnano l’umanità dello stesso miracolo. Tra i
tanti un presepe chioggiotto con barca e bricole, imbarcazioni di bambù, quelle che si
usano ancora nel delta del Mekong e nel lago Titicaca tra Perù e Bolivia. Tra di essi vere
e proprie opere d’arte collezionate in una vita di viaggi. Sicuramente l’obiettivo del
sacerdote, oltre a quello di raccogliere fondi per la San Vincenzo, era far riflettere fedeli
e meno sul significato della grotta e del bambino nato in una stalla e questo Natale,
anche senza essere presente fisicamente, ci è riuscito in pieno.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 4 dicembre 2016
Pag XXIX Tutti i segreti del restauro della cupola di S. Giorgio di d.gh.
Usata per la prima volta la fibra di basalto
Venezia - I segreti del restauro della statua della cupola della basilica di San Giorgio
Maggiore sono stati svelati alla Scoletta dei Calegheri in un incontro organizzato da
Comitato Venezia, in collaborazione con la Municipalità di Venezia, Murano e Burano da
Giuseppe Tonini, Giovanni Mariuzzo ed Elisabetta Longega, i restauratori che hanno
eseguito il prezioso lavoro di recupero. L'occasione ha consentito di conoscere nei
dettagli la tecnica di esecuzione del manufatto e il suo stato di conservazione.
«L'intervento ha richiesto tre mesi di lavoro, minuzioso e appassionato - hanno spiegato
i restauratori -. Nel 2002 un violento temporale danneggiò seriamente il monumento
provocando il distacco del braccio dal corpo che rimase agganciato alla lancia. Fu
necessario l'intervento dei Vigili del Fuoco perché la lancia con il braccio si era inclinata
restando sospesa tra la cupola e il tetto della chiesa dell'Abbazia, ponendo a rischio
l'incolumità pubblica dei passanti e della chiesa». Solo nel 2014, dopo 12 anni
dall'evento calamitoso, nell'abito delle attività culturali della Benedicti Claustra, ramo
onlus dell'Abbazia di San Giorgio Maggiore, grazie all'impegno della comunità
benedettina e alla collaborazione della Fondazione Swarovski è stato possibile avviare il
restauro del manufatto, sotto la direzione dell'architetto Massimo Rigo. «La statua è alta
circa 3,85 metri ed è rivestita da circa 563 lastre di rame ha spiegato Tonini -. Per poter
ricollocare il braccio è stato necessario asportare 108 lastre di rame e circa 1058
stropparioli (chiodi di rame). In questo intervento è stato utilizzato un materiale mai
prima d'ora impiegato nel settore del restauro: la fibra di basalto».
LA NUOVA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 24 Vendita dei presepi, oggi si entra nel vivo di m.a.
Seicento pezzi in vendita per beneficenza della collezione di don Franco De Pieri
È iniziata ieri, ma entrerà nel vivo nella giornata di oggi, – durante la quale i fedeli si
recano alla Santa Messa – la vendita dei presepi di don Franco De Pieri, ben 600.
L’iniziativa ha origine da una precisa volontà testamentaria del sacerdote scomparso lo
scorso 23 dicembre, l'iniziativa che coinvolge due parrocchie mestrine in cui don Franco
ha svolto il suo ministero e dove ogni cosa parla ancora di lui. Seicento presepi, seicento
ricordi di don Franco, altrettante possibilità di aiutare famiglie bisognose e di portare a
casa con sé qualche cosa di appartenuto al sacerdote tanto amato e rispettato in città.
Fino all'11 dicembre, nelle comunità di San Paolo in via Stuparich a Mestre e del Corpus
Domini in Rione Pertini, è esposta la ricca collezione di presepi messa insieme dal
sacerdote veneziano. Una vera passione, la sua, sostenuta dalla curiosità di come l'uomo
rappresentasse in maniera diversa la natività: una passione coltivata negli anni e
accresciuta grazie ai viaggi compiuti nel mondo e ai regali di tanti amici, è così che don
Franco ha raccolto oltre seicento scene della natività realizzate in ogni angolo del globo,
ma soprattutto in America Latina. Alla sua morte, don De Pieri ha lasciato scritto di
vendere i suoi presepi con l'obiettivo di raccogliere una somma consistente da donare
alla San Vincenzo delle parrocchie di San Paolo e del Corpus Domini. Quanti riusciranno
a portarsi a casa uno dei seicento presepi, oltre a fare del bene, avranno la possibilità di
conservare un oggetto che parla del Natale e di don Franco. Oggi i presepi possono
essere visti e acquistati nella parrocchia del Corpus Domini dalle 10.30 alle 12 e dalle 16
- alle 18.30, nella parrocchia di San Paolo in via Stuparich, invece, dalle 10 alle 12 e
dalle 16 alle 19.
Torna al sommario
3 – VITA DELLA CHIESA
IL GAZZETTINO
Pag 13 Il Papa: “A Natale lasciamo successo, potere e piacere”
Dal Pontefice un invito alla “conversione”: recuperare il senso spirituale della festa
Città del Vaticano. «Il Natale è un giorno di grande gioia anche esteriore, ma è
soprattutto un avvenimento religioso per cui è necessaria una preparazione spirituale».
Occorre «un cambiamento della nostra vita, cioè una conversione»: «si tratta di lasciare
le strade, comode ma fuorvianti, degli idoli di questo mondo: il successo a tutti i costi, il
potere a scapito dei più deboli, la sete di ricchezze, il piacere a qualsiasi prezzo». È la
riflessione del Papa all'Angelus recitato dallo studio su piazza San Pietro davanti a circa
cinquemila persone. «Si tratta di lasciare questi atteggiamenti che sono del diavolo, - ha
detto papa Francesco, elencando ancora una volta successo, potere, ricchezze e piacere
- e di aprire invece la strada al Signore che viene: Egli non toglie la nostra libertà, ma ci
dona la vera felicità. Con la nascita di Gesù a Betlemme, è Dio stesso che prende dimora
in mezzo a noi per liberarci dall'egoismo, dal peccato e dalla corruzione». Il Papa nella
seconda domenica d'avvento, quando si pensa già ai regali di Natale, ha insistito molto
sulla «preparazione spirituale» alla festa. «Quando un missionario, un cristiano - ha
detto in un precedente inserto a braccio - va ad annunciare Gesù non va a fare
proselitismo come se fosse un tifoso che cerca per la sua squadra più aderenti, no, va
semplicemente ad annunciare il Regno di Dio è in mezzo a voi e così prepara la strada
all'incontro di Gesù con il suo popolo». «Ma che cos'è questo regno dei cieli? - si è
chiesto - Noi pensiamo subito a qualcosa che riguarda l'aldilà: la vita eterna. Certo,
questo è vero, ma la bella notizia che Gesù ci porta è che il regno di Dio non dobbiamo
attenderlo nel futuro, il regno di Dio è in mezzo a voi», dove la sua parola «viene accolta
con fede e umiltà germogliano l'amore, la gioia e la pace». «La condizione per entrare a
far parte di questo regno - ha spiegato papa Francesco - è compiere un cambiamento
nella nostra vita, cioè convertirci. Convertirci, ogni giorno un passo avanti, ogni giorno».
AVVENIRE di domenica 4 dicembre 2016
Pag 22 Il cardinale Tagle: gli ultimi sono stati i miei insegnanti di Monica Mondo
“Al centro della dottrina sociale c’è la dignità dell’uomo”
È un giovane cardinale, guida la diocesi più grande dell’Asia, cucina benissimo, ama i
libri gialli e il canto, ha una voce da tenore. Luis Antonio Gokim Tagle, arcivescovo di
Manila, è un raffinato teologo, presidente di Caritas internationalis. Abbiamo imparato a
conoscere il suo sorriso, spesso accanto a papa Francesco, che gli è amico.
Sorride perché è felice, sorridere e far sorridere è missione del cristiano?
La felicità non è solo un’emozione, ma una condizione spirituale: la gioia che la fede
porta a noi. E la gioia è una missione che dobbiamo condividere: la Chiesa ha ricevuto la
missione di annunciare una bella notizia, cioè che il Signore ha trionfato sul peccato e la
morte.
In questi giorni è in libreria in Italia un libro di cui è autore, “Ho imparato dagli ultimi”,
edito dalla Emi. Che cosa significa concretamente?
Ho imparato dagli ultimi in senso ampio, per avere non solo una sapienza mondana, ma
anche una saggezza spirituale. Mi ricordo un Natale di quando ero seminarista, ho
celebrato con una comunità di poveri. Il giorno prima avevano ricevuto l’ordine di
lasciare il terreno perché non era loro. Durante la preghiera del Padre Nostro una donna
mi ha detto: «È facile dire Padre Nostro per voi, perché quando voi tornate a casa siete
sicuri che c’è pane, riso e cibo. Per noi poveri, la preghiera è una fatica e una lotta
contro l’incredulità. È un atto di fede dire “Padre Nostro”». Un esempio semplice per cui
mi chiedo chi sia stato l’insegnante, il professore di fede, e chi l’allievo. Questa donna
per me è stata il mio insegnante.
Lei è presidente della Caritas, spesso definita erroneamente un ente benefico. Perché si
resta ancorati a una visione più assistenziale o emergenziale?
La Caritas è la portavoce della Chiesa e con parole attive dell’amore del Signore. È ben
conosciuta come agenzia di aiuto umanitaria, ma c’è una campagna contro le radici della
povertà e della sofferenza. La parola “avvocato” Gesù la usa per sé e pure per lo Spirito
Santo paraclito, qualcuno che parla per gli altri, qualcuno che è accanto degli altri e che
sapendo la condizione alza la voce per farla sentire. La Caritas è un’ambasciatrice di
giustizia e di pace.
Una metropoli, tanto più in Asia, è luogo di forti contraddizioni. La globalizzazione pone
modelli di vita irraggiungibili, ma aiuta anche ad appianare le differenze. Lei ha detto
però che «con a globalizzazione c’è il rischio di escludere Dio dall’orizzonte della società,
e svilire l’identità della Chiesa».
Il tipo di globalizzazione che abbiamo sperimentato in questi decenni non è solo
finanziaria ed economica, ma anche culturale, di valori. Ci sono “valori” che nascondono
la fede o la presenza del Signore e sono penetrati tra i confini delle generazioni e delle
nazioni. Sviliscono l’identità della Chiesa, specialmente attraverso i social media, il
cinema e le canzoni: qui la presenza della fede e di una comunità credente è quasi
abbandonata. Anche in un contesto un po’ religioso come quello delle Filippine, per i
giovani, i più vulnerabili, queste suggestioni sono molto forti: nella scuola si insegna
catechesi, ma radio e cinema promuovono un messaggio contrario.
Che famiglia è la sua? Una famiglia in cui ha respirato la fede da piccolo?.
La mia è una famiglia normale, ordinaria. I miei genitori erano impiegati di banca, dove
si sono incontrati. Una famiglia molto semplice, ci siamo concentrati sulle cose
essenziali: famiglia, chiesa, fede, scuola, lavoro. La nostra vita circolava su questi punti.
Perché ha scelto il sacerdozio? Voleva fare il medico: sono entrambi segni di una
passione per l’uomo?
Come giovane ho partecipato a un progetto giovanile della parrocchia, in cui mio padre
mi ha forzato a entrare. E ha fatto bene! In questo gruppo ho incontrato grandi
personaggi e specialmente un grande prete che mi ha stupito col suo atteggiamento
verso la vita. Aveva impensati talenti e mi sono chiesto perché un uomo così avesse
“scartato” la sua vita e quale fosse il senso di questo “scarto”. Per me è stata
l’ispirazione: ho scoperto che si trattava di un dono, un atto di donazione e non di
scarto. La mia famiglia e questi modelli di missione mi hanno ispirato.
Lei da giovane si è innamorato della teologia, tanto da approfondire in America i suoi
studi, per diventare a 40 anni parte della Commissione teologica internazionale, per
volontà di Giovanni Paolo II. Ma contemporaneamente faceva volontariato dalle suore di
Madre Teresa. C’è una teologia dei poveri, una sapienza che nessuno studioso può
raggiungere?
Credo che ci sia una sapienza dei poveri. Ho imparato la teologia non come professione
o specialità, ma come una realtà viva, una parola su Dio. È dire Dio con un senso
profondo che nasce dalle viscere della sofferenza: i poveri. È stata una grazia scoprire la
comunità delle Missionarie della Carità a Washington Dc, mentre scrivevo la tesi di
dottorato. La mattina ero in mezzo ai libri e al pomeriggio avevo un contatto diretto con
le persone che per me sono quasi sacramento della presenza del Signore.
A questo proposito la pietà, la religiosità popolare,molto vissuta nel suo Paese,non è solo
folclore, come spesso si pensa.
La fede popolare è sbagliato vederla solo come folclore: nella mia esperienza e cioè nel
mio paese, la trasmissione della fede in un modo semplice accade attraverso la
religiosità popolare. Certamente c’è il rischio di sentimentalismo e superstizione, però è
un ricco campo di evangelizzazione. Troviamo in questo ambito la presenza dello Spirito
Santo.
Lei è cresciuto in anni durissimi di dittatura, ma la posizione della Chiesa è stata chiara.
Io devo dire che nei primi anni della dittatura alcuni vescovi e molti filippini che avevano
influenza nella società credevano che la “dittatura”, con l’imposizione della disciplina,
fosse utile, giusta. Pian piano, però, abbiamo scoperto che non era così, era anzi come
rubare i diritti e il futuro alla gente del Paese.
Anche oggi la Chiesa deve difendere l’uomo, dall’aborto e dalla difesa della legalità con
mezzi drastici e inaccettabili.
Al centro della Dottrina sociale della Chiesa c’è una visione e un’eredità grande: la
dignità di ogni persona umana, qualunque essa sia, piccola o grande, colpevole o
sbagliata. È figlio o figlia di Dio, mio fratello o mia sorella.
I vescovi filippini hanno fatto una scelta di campo anche sulla controversa questione
della riapertura delle centrali nucleari.
Le Filippine sono un Paese ferito da tanti terremoti, tifoni e altre catastrofi naturali.
Dobbiamo essere realistici e cooperare a questa missione, di custodire il Creato e anche i
poveri, perché i soldi bisogna prima usali per loro.
Il ricordo più forte del viaggio del Papa nelle Filippine?
La memoria più toccante per me è stato l’incontro con il padre di una ragazza morta
proprio in quei giorni. A Takloba venne un tifone e durante la Messa una ragazza
volontaria della Caritas è morta sul colpo perché un’impalcatura è crollata su di lei. Il
giorno seguente il Papa ha incontrato il padre di questa ragazza. È stato un incontro
intimo di due padri. Io ho fatto da traduttore per il Papa, e il padre ha detto: «Santo
Padre, prima della sua venuta avevo deciso di non partecipare alle Messe e agli incontri
perché sono anziano e non mi piace partecipare agli incontri. Però, la mia unica figlia è
morta e mi ha dato la grazia di incontrare il Santo Padre». Il Papa si è stupito della fede
profonda di quest’uomo. È bello vedere un padre che insegna la profondità della fede al
Santo Padre e io sono un testimone di questo incontro sacro.
Che amico è per lei papa Francesco? Lo conosceva anche prima? È cambiato?
È la stessa persona, uguale. Anzi devo stare attento a quel che faccio, perché sono
abituato a parlare con lui come prima e mi devo ricordare che è il Papa. Non cambia
nulla però perché lui mi ripete: «Sono Bergoglio!».
Sa bene che l’avevano messa tra i papabili nel 2013.
Sono i giornalisti che parlano così e non gli elettori.
In Italia la presenza dei cattolici filippini è significativa quanto a numeri e a integrazione.
Quale apporto danno alla Chiesa italiana?
Giovanni Paolo II ha dato la risposta giusta anni fa in una Giornata mondiale dei
migranti, quando mandò un messaggio alla comunità filippina a Roma. Diceva: «Voi
siete qui a Roma, in Italia, per cercare posti di lavoro, per le vostre famiglie nelle
Filippine. È una bella cosa lavorare per le proprie famiglie. Voi non avete solo trovato
posti di lavoro qui in Italia, ma una missione: portare la semplicità della fede filippina
nelle case degli italiani, ai bambini e ai ragazzi». Per i filippini migranti, la seconda casa
familiare è la parrocchia. L’anno scorso il cardinale Angelo Scola mi ha invitato a Milano
per conferenze e una Messa nel Duomo di Milano con la comunità filippina: erano
ventimila. Il cerimoniere mi ha detto: «Ecco il futuro della Chiesa a Milano». Gli risposi:
«Non solo il futuro, ma anche il presente».
È vero allora che è l’Asia il futuro della Chiesa?
C’è futuro per la Chiesa in Asia, anche per tutta la sofferenza, la povertà e la
testimonianza nelle persecuzioni che sono segno di speranza. Voglio credere che in
questa situazione pur drammatica c’è il seme del futuro.
Lei ama cantare e ha una bellissima voce, ma non ha mai studiato canto.
Da bambino ho sentito tanta musica da mia mamma e da tutta la famiglia. Non sono
“tifoso” della musica ma ne ho un grande amore. Non sono andato a scuola di canto, mi
è naturale.
Lei ha ricevuto dalle mani del Papa la Lettera apostolica «Misericordia et misera» che ha
chiuso l’Anno Santo della misericordia.
Devo dire che è stata una sorpresa per me. Sono stato informato durante la processione
all’inizio della Messa che il Papa mi avrebbe consegnato la Lettera, come rappresentante
delle grandi città del mondo, per evangelizzare. È una bella Lettera non per chiudere
l’Anno della misericordia, ma per continuare una cultura di misericordia.
Che cosa pensa delle sottili o palesi contestazioni al Papa dall’interno della Chiesa?
Penso che il Vangelo porta una verità sconveniente e scandalosa. Come peccatori siamo
contenti nella nostra zona di comfort, non vogliamo parole che ci disturbano.
La città di Manila, le sue piaghe.
Sono tanti i problemi, ma per me la povertà è il più grande. La Chiesa cerca vie per
avvicinarsi a i poveri, non solo per trovare soluzioni: la Chiesa non è un governo o uno
Stato parallelo. Lo scopo è la vicinanza, anche per testimoniare un amore che è sempre
presente.
Perché ama tanto i libri gialli, i polizieschi?
I libri gialli sono un esercizio della verità tramite i segni: insegnano a leggere i segni dei
tempi, per questo sono preziosi. Mi piace tantissimo Agatha Christie o Sherlock Holmes,
ma ora purtroppo mi manca il tempo…
Se dovesse esprimere il suo desiderio più grande...
Vorrei che noi, non solo come Chiesa ma come umanità, continuassimo a cercare le
porte aperte nelle ferite del mondo. Per me le ferite dei poveri e di coloro che soffrono
sono come porte sante in cui entrare. Gesù risorto ha detto ai discepoli, specialmente a
Tommaso : «Vieni e tocca le mie ferite». Si chiude la porta di San Pietro, ma le ferite
rimangono aperte per entrare nella via di Gesù.
L’autorità personale verso la gente è una grande e forse pesante responsabilità?
Essere cardinale è una grande responsabilità, ma è anche una chiamata all’umiltà. Io
credo che Gesù è il Salvatore, non sono io! Gesù non ha bisogno di un altro salvatore,
per questo con calma e tranquillità posso professare “Io Credo in Gesù Salvatore”,
facendo quello che posso, e il resto a Lui.
L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 La compassione del Dio vivente di Bartolomeo
Nell’ “Amoris laetitia”
Quando parliamo di Dio, il linguaggio descrittivo che adottiamo è quello dell’amore. E
quando parliamo di amore, la dimensione fondamentale attribuitagli è quella divina. Per
questo l’apostolo dell’amore definisce Dio come amore (cfr. 1 Giovanni 4, 8). Quando
all’inizio dell’anno il nostro caro fratello e vescovo di Roma, Sua Santità Francesco, ha
pubblicato l’esortazione apostolica Amoris laetitia, era più o meno il periodo in cui ci
siamo recati insieme nell’isola di Lesbo, in Grecia, per manifestare la nostra solidarietà
con i rifugiati perseguitati provenienti dal Medio oriente. Il documento papale sulla «gioia
dell’amore», sebbene si occupi di questioni pertinenti alla vita familiare e all’amore,
riteniamo che non sia scollegato da quella storica visita ai campi profughi. Di fatto, ciò
che è subito apparso chiaro a entrambi mentre guardavamo i volti tristi delle vittime
ferite della guerra è stato che tutte quelle persone erano singoli membri di famiglie,
famiglie spezzate e lacerate dall’ostilità e dalla violenza. Ma come nostro Signore ci ha
detto esplicitamente riguardo al rapporto tra potere e servizio (cfr. Matteo 20, 26), non
dovrebbe essere così tra noi! L’immigrazione non è altro che il rovescio della stessa
medaglia dell’integrazione, che certamente è responsabilità di ogni credente sincero.
Naturalmente Amoris laetitia tocca il cuore stesso dell’amore e della famiglia, proprio
come tocca il cuore di ogni persona vivente nata in questo mondo. Ciò accade perché le
questioni più delicate della vita familiare rispecchiano le questioni più fondamentali
dell’appartenenza e della comunione. Sia che riguardino le sfide del matrimonio e del
divorzio, sia che riguardino la sessualità o l’educazione dei figli, sono tutti frammenti
delicati e preziosi di quel sacro mistero che chiamiamo vita. Negli ultimi mesi sono stati
numerosi i commenti e le valutazioni su questo importante documento. Le persone si
sono chieste in che modo la dottrina specifica è stata sviluppata o difesa, se le questioni
pastorali sono state modificate o risolte, e se norme particolari sono state rafforzate o
mitigate. Tuttavia, alla luce dell’imminente festa dell’Incarnazione del Signore - tempo in
cui commemoriamo e celebriamo il fatto che «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in
mezzo a noi» (Giovanni 1, 14) - è importante osservare che Amoris laetitia ricorda
anzitutto e soprattutto la misericordia e la compassione di Dio, e non soltanto le norme
morali e le regole canoniche degli uomini. Indubbiamente, ad avere soffocato e
ostacolato le persone è stata in passato la paura che un “padre celeste” in qualche modo
detti la condotta umana e prescriva le usanze umane. È vero esattamente l’opposto e i
leader religiosi sono chiamati a ricordare a loro stessi, e poi agli altri, che Dio è vita e
amore e luce. Di fatto, sono queste le parole ripetutamente sottolineate da Papa
Francesco nel suo documento, che discerne l’esperienza e le sfide della società
contemporanea al fine di definire una spiritualità del matrimonio e della famiglie per il
mondo attuale. I padri della Chiesa non hanno paura di parlare apertamente e
onestamente della vita cristiana. Tuttavia, il loro punto di partenza è sempre la grazia
amorevole e salvifica di Dio, che risplende su ogni persona senza discriminazione o
disprezzo. Questo fuoco di Dio - diceva nel VII secolo abba Isacco il Siro - porta calore e
consolazione a quanti sono abituati alla sua energia, mentre brucia e consuma quanti si
sono allontanati dal suo fervore nella loro vita. E questa luce di Dio - aggiungeva nel X
secolo san Simeone il Nuovo Teologo - serve da salvezza per quanti l’hanno desiderata e
permette loro di vedere la gloria divina, mentre porta condanna a chi l’ha rifiutata e
preferito la propria cecità. Nei primi mesi dell’anno giubilare della misericordia, è stato
davvero opportuno che Papa Francesco abbia sia incontrato le famiglie dei rifugiati
sconfortati in Grecia sia abbracciato le famiglie che sono sotto la sua cura pastorale in
tutto il mondo. Così facendo ha non solo invocato l’infinita carità e la compassione
incondizionata del Dio vivente sulle anime più vulnerabili, ma ha anche suscitato una
risposta personale da parte di chi ha ricevuto e letto le sue parole, nonché di tutte le
persone di buona volontà. Di fatto egli ha invitato la gente ad assumersi la
responsabilità personale per la propria salvezza, cercando modi in cui poter seguire i
comandamenti divini e maturare nell’amore spirituale. La conclusione dell’esortazione
papale è dunque anche la nostra conclusione e riflessione: «Quello che ci è stato
promesso è più grande di quanto possiamo immaginare. Non scoraggiamoci mai a causa
dei nostri limiti, e non cessiamo mai di cercare quella pienezza di amore e di comunione
che Dio ci mostra».
Pag 8 Il terzo articolo
Iniziate in Vaticano le prediche d’Avvento
«Lo Spirito Santo è la novità teologica e spirituale più importante del dopo concilio
Vaticano II e la sorgente maggiore della speranza della Chiesa». Su questa
constatazione il cappuccino padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa
pontificia, ha centrato la sua prima predica di Avvento, tenuta venerdì mattina, 2
dicembre, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo apostolico, alla presenza di Papa
Francesco. «Beviamo, sobri, l’ebrezza dello Spirito» il tema scelto per il ciclo di
riflessioni. Certo, ha fatto notare il religioso, «il concilio non aveva ignorato l’azione dello
Spirito Santo nella Chiesa, ma ne aveva parlato quasi sempre en passant,
menzionandolo spesso ma senza metterne in luce il ruolo centrale, neppure nella
costituzione sulla liturgia». Tanto che Yves Congar scelse «un’immagine forte: uno
Spirito Santo sparso qua e là nei testi, come si fa con lo zucchero sui dolci, che però non
entra a far parte della composizione della pasta». «L’intuizione di san Giovanni XXIII del
concilio come “una novella Pentecoste della Chiesa” ha trovato la sua attuazione solo in
seguito, a concilio concluso» ha osservato il predicatore. E proprio cinquant’anni fa ha
avuto inizio nella Chiesa cattolica l’esperienza del Rinnovamento carismatico, «uno dei
tanti segni, il più evidente per la vastità del fenomeno, del risveglio dello Spirito e dei
carismi nella Chiesa». Il concilio, del resto, «aveva spianato la via alla sua accoglienza
parlando nella Lumen gentium della dimensione carismatica della Chiesa, insieme a
quella istituzionale e gerarchica, e insistendo sull’importanza dei carismi». E «la
rinnovata esperienza dello Spirito Santo ha anche stimolato la riflessione teologica»,
mentre «da parte del magistero c’è stata l’enciclica di san Giovanni Paolo II Dominum et
vivificantem». Padre Cantalamessa ha proseguito con un riferimento a Karl Barth, il
quale ha fatto «un’affermazione provocatoria», prevedendo che «in futuro si sarebbe
sviluppata una diversa teologia, la “teologia del terzo articolo” e nello stesso senso si
espresse Karl Rahner». Per “terzo articolo” «intendevano l’articolo del Credo sullo Spirito
Santo». Quel «suggerimento non è caduto nel vuoto: da esso ha preso avvio l’attuale
corrente denominata appunto “teologia del terzo articolo”» che affianca e vivifica la
teologia tradizionale, proponendosi «di fare dello Spirito Santo non soltanto l’oggetto del
trattato che lo riguarda, la pneumatologia, ma l’atmosfera in cui si svolge tutta la vita
della Chiesa e ogni ricerca teologica, “la luce dei dogmi”, come un antico padre della
Chiesa definiva lo Spirito Santo». «Le ragioni che giustificano questo nuovo
orientamento teologico — ha spiegato il predicatore — non sono soltanto di ordine
dogmatico ma anche storico». Si deve infatti tener «conto di come si è formato l’attuale
simbolo niceno-costantinopolitano», rileggendolo «alla rovescia, cioè partendo dalla
fine». Quel simbolo, ha ricordato, «riflette la fede cristiana nella sua fase finale, dopo
tutte le chiarificazioni e le definizioni conciliari; riflette l’ordine raggiunto alla fine del
processo di formulazione del dogma, ma non corrisponde al processo con cui la fede
della Chiesa si è storicamente formata e neppure corrisponde al processo con cui si
giunge oggi alla fede viva». «Nel Credo attuale — ha proseguito — si parte da Dio Padre
e creatore; da lui si passa al Figlio e alla sua opera redentrice e infine allo Spirito Santo
operante nella Chiesa». Nella realtà «la fede seguì il cammino inverso: fu l’esperienza
pentecostale dello Spirito che portò la Chiesa a scoprire chi era veramente Gesù e quale
era stato il suo insegnamento e con Paolo, e soprattutto con Giovanni, si arriva a risalire
da Gesù al Padre. È il Paraclito che, secondo la promessa di Gesù, conduce i discepoli
alla “piena verità” su di lui e sul Padre». In altre parole, ha detto il religioso citando
anche san Basilio, «nell’ordine della creazione e dell’essere, tutto parte dal Padre, passa
per il Figlio e giunge a noi nello Spirito; nell’ordine della redenzione e della conoscenza,
tutto comincia con lo Spirito Santo, passa per il Figlio Gesù Cristo e ritorna al Padre». E
«nella tradizione occidentale tutto questo è espresso sinteticamente nella strofa finale
dell’inno Veni creator». Ma «questo non significa minimamente che il Credo della Chiesa
non sia perfetto o che vada riformato» ha detto padre Cantalamessa: «È il modo di
leggerlo che qualche volta è utile cambiare, per rifare il cammino con cui si è formato».
Insomma, «tra i due modi di utilizzare il Credo — come prodotto compiuto oppure nel
suo stesso farsi — c’è la stessa differenza che fare personalmente, di buon mattino, la
scalata del monte Sinai partendo dal monastero di Santa Caterina oppure leggere il
racconto di uno che ha fatto la scalata prima di noi». Proprio «con questo intento — ha
annunciato il predicatore — vorrei, nelle tre meditazioni di Avvento, proporre delle
riflessioni su alcuni aspetti dell’azione dello Spirito Santo, partendo appunto dal terzo
articolo del Credo che lo riguarda e comprende tre grandi affermazioni». In particolare,
padre Cantalamessa ha rimarcato che «lo Spirito Santo non è un parente povero nella
Trinità, non è un semplice “modo di agire” di Dio, una energia o un fluido che pervade
l’universo come pensavano gli stoici; è una “relazione sussistente”, dunque una
persona». E «non tanto la “terza persona singolare” quanto piuttosto “la prima persona
plurale”: il “noi” del Padre e del Figlio». Così lo Spirito Santo, «nonostante tutto, resterà
sempre il Dio nascosto, anche se ne conosciamo gli effetti: è come il vento, non si sa da
dove viene e dove va, ma si vedono gli effetti del suo passaggio; è come la luce che
illumina tutto ciò che sta davanti, rimanendo essa stessa nascosta». Per questo. ha
concluso, «è la persona meno conosciuta e amata dei tre, nonostante sia l’amore in
persona. Ci è più facile pensare al Padre e al Figlio come “persone”, ma ci è più difficile
per lo Spirito: non ci sono categorie umane che possono aiutarci a comprendere questo
mistero».
AVVENIRE di sabato 3 dicembre 2016
Pag 1 Quelli che non fuggono di Gerolamo Fazzini
I beati martiri e la parola del Papa
«Quando arriva il pericolo il pastore non può fuggire». Questa frase di padre Francis
Rother Stanley (che troviamo parafrasata nel titolo di una raccolta di sue lettere e in
quello di una recente biografia) ben si presta a riassumere il senso della vita e della
missione del sacerdote, ucciso in Guatemala nel 1981. Di padre Stanley ieri il Papa ha
solennemente riconosciuto il martirio, spianando così la strada alla beatificazione di
quello che diventerà a breve il primo martire statunitense. Insieme con lui, papa
Francesco ha additato alla Chiesa come testimone coraggioso fino al sangue anche
l’arcivescovo lituano Teofilo Matulionis, vittima del regime comunista sovietico,
deportato e ammazzato in Siberia nel 1962. Infine, ecco un gruppo di 21 martiri, uccisi
negli anni roventi della guerra civile spagnola: Vincenzo Queralt Lloret, sacerdote della
Congregazione della Missione e venti compagni: sei sacerdoti suoi confratelli, cinque
preti diocesani, due religiose e sette laici. Tre istantanee di martirio in tre diverse
epoche storiche e altrettante differenti situazioni geografiche. Eppure un filo rosso che le
lega c’è e possiamo chiamarlo, parafrasando Bonhoeffer, «fede a caro prezzo». In tutti i
casi citati i protagonisti ben sapevano i rischi che stavano per correre. Non erano ingenui
o sprovveduti, nemmeno teste calde in cerca di gloria effimera. No: pur consapevoli che
restare fedeli al Vangelo in circostanze così buie avrebbe potuto costare molto caro, non
si sono tirati indietro. Come scrive Papa Francesco in Evangelii Gaudium «il discepolo sa
offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo».
Prendiamo il caso di padre Francis Rother Stanley, il più temporalmente vicino a noi.
L’hanno ammazzato in uno dei momenti più duri della repressione voluta da Rios Montt,
costata la vita a moltissimi fedeli, soprattutto laici (i vescovi del Guatemala presentarono
a Giovanni Paolo II e alla commissione Nuovi martiri, in vista del Giubileo del 2000, una
lista di 77 nomi, in larga parte catechisti). Ebbene: padre Stanley avrebbe potuto
salvare la pelle, lasciando il Paese. Al contrario, è rimasto fino alla fine a fianco della
popolazione a lui affidata. Scriveva padre Stanley in un’altra lettera: «Di recente mi è
stato fatto un bel complimento quando un sedicente capo della Chiesa e della città ha
protestato che 'Padre Stan difende la gente'. Voleva che fossi espulso per il mio peccato.
Questo è uno dei motivi che ho per rimanere, nonostante i rischi». Quando, nell’estate
2014, Francesco beatificò a Seul 124 martiri coreani disse che «i martiri ci ricordano che
bisogna mettere Cristo al di sopra di tutto e non scendere a compromessi con la fede».
Un simile monito, in questi ultimi anni, lo ha ripetuto in molteplici occasioni. Papa
Bergoglio – il Pontefice «preso quasi alla fine del mondo», in un Paese molto cattolico
come l’Argentina – è lo stesso che, fin dai primi mesi di pontificato, ha ricordato alla
Chiesa che «non esiste un cristianesimo low cost ». E di recente, riferendosi a padre
Jacques Hamel, trucidato in Francia, è tornato a far memoria del fatto che «oggi nella
Chiesa ci sono più martiri cristiani dei primi tempi». Il martirio quindi – se la fede è affar
serio e non 'vernice' che sancisce una mera appartenenza sociologica – è da intendere
come costitutivo dell’identità cristiana, sebbene – certo – non tutti siamo chiamati, come
avviene per i martiri, all’offerta suprema ed eroica per Cristo. In ogni caso, mentre
indica alla Chiesa e al mondo questi nuovi martiri del Novecento, papa Francesco non fa
che richiamare tutti e ciascuno a quel passo radicale del Vangelo dove Cristo dice «Non
c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici». Anche nel 2016 dopo
Cristo, nell’era della globalizzazione e del virtuale, della tecnologia e del post-moderno,
questa antica e sempre attuale verità viene riaffermata con forza dai martiri. Non come
sterile formula o come slogan sentimentale, bensì come incrollabile certezza scritta col
sangue.
Torna al sommario
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 34 Lavoro e risorse umane, il Jobs Act non ha fallito di Andrea Ichino
Era prematuro cantare vittoria nel 2015 sugli effetti del Jobs act , ma non vi sono motivi
oggi per dire che la riforma abbia fallito l’obiettivo di rendere più efficiente l’allocazione
delle risorse umane nel mercato del lavoro. Se mai il contrario. Se confrontiamo il
biennio 2015-16 (fino ad agosto 2016, ultimo dato disponibile) con il corrispondente
biennio 2013-14 (fino ad agosto 2014), le nuove assunzioni a tempo indeterminato e le
trasformazioni di contratti a termine in contratti a tempo indeterminato sono aumentate
di 818.306 unità. Questa è la variabile principale sulla quale era lecito attendersi effetti
del Jobs act . Gli incentivi fiscali alle assunzioni in vigore nel 2015 hanno solo anticipato
al primo anno del biennio 2015-16 l’effetto potenziale del Jobs act , che altrimenti si
sarebbe spalmato su tutto il periodo. Ma nulla in questa anticipazione autorizza ad
affermare che la diminuzione di questa variabile nel 2016 rispetto al 2015 indichi un
fallimento della riforma. Per altro verso, molte altre variabili si sono modificate nello
scenario economico tra 2013-14 e 2015-16: per esempio una timida ripresa, subito
frenata da incertezze sul fronte europeo (Brexit, euro) e interno (crisi bancaria). Quello
che è certo è che non possiamo attribuire quegli 818.306 nuovi contratti al solo Jobs act.
Possiamo però confrontare questa variazione con quella osservata, nello stesso arco
temporale, per i contratti a tempo determinato, il cui andamento può essere considerato
come una approssimazione di quel che sarebbe accaduto per effetto dei soli scenari
economici in assenza di Jobs act e incentivi fiscali alle assunzioni. I contratti a termine
sono aumentati di sole 396.356 unità tra 2013-14 e 2015-16 (senza alcuna discontinuità
evidente nell’aprile 2014, a seguito del decreto Poletti che ha allargato le maglie della
disciplina dei contratti a termine). La differenza tra l’incremento dei contratti a tempo
indeterminato e quello dei contratti a termine è di 448.950 unità. Questo dato
certamente non consente di dire che il Jobs act abbia fallito nel promuovere i contratti di
lavoro stabili, anche se è comunque ancora troppo presto per confermare un successo.
Ancora meno si capiscono le accuse al Jobs act basate sull’andamento delle cessazioni di
rapporti di lavoro. Sempre guardando alla variazione tra 2013-14 e 2015-16, queste
cessazioni sono addirittura diminuite di 27.429 unità per quel che riguarda i rapporti di
lavoro a tempo indeterminato, mentre sono aumentate di 188.696 unità nei contratti a
termine. E non poteva che essere così dato che il Jobs act ha ridotto i costi di
licenziamento per i soli nuovi assunti: nulla è cambiato per i rapporti di lavoro iniziati
prima. Inoltre, data la forte decontribuzione per gli assunti con le nuove regole del Jobs
act , applicabile per i primi tre anni di durata del rapporto, perché mai un imprenditore
dovrebbe licenziare maggiormente questi neo-assunti quando i tre anni non sono ancora
passati? I dati, infatti, dicono che gli imprenditori non stanno licenziando lavoratori a
tempo indeterminato né più né meno che in passato. Anche riguardo a questo dato è
dunque quanto meno prematuro trarre conclusioni. Questo anche perché la teoria
economica afferma che una riduzione dei costi di licenziamento ha come principale
effetto una migliore allocazione delle risorse umane tra imprese in espansione e imprese
in recessione. Questo guadagno di efficienza passa per un aumento delle assunzioni da
parte delle prime e un aumento dei licenziamenti nelle seconde. Solo nel periodo mediolungo questo aumento di efficienza può tradursi in un aumento dello stock di occupati, e
comunque solo se gli scenari economici consentono l’esistenza di imprese in espansione.
Senza una prospettiva di espansione, un’azienda non ha motivi per assumere nuovi
dipendenti, neanche se i costi di licenziamento sono nulli. Il Jobs act deve essere
considerato come un moltiplicatore degli effetti di una ripresa economica, quando
finalmente arriverà, non come una bacchetta magica capace di cambiare la propensione
degli imprenditori ad assumere se gli scenari della propria impresa e/o globali restano
immutati. Piuttosto, dovremmo prestare attenzione al rischio di «restare in mezzo al
guado», con gli effetti negativi sia del sistema flessibile sia di quello rigido. Se gli
imprenditori avessero buone ragioni per temere che in futuro il governo possa fare
marcia indietro sul Jobs act, quello che farebbero sarebbe interrompere ogni assunzione,
per evitare di rimanere con troppi dipendenti in caso di choc negativo senza poi poterli
licenziare, e anzi licenzierebbero prima possibile anche nei casi incerti prima che diventi
troppo tardi. Questo è uno scenario da evitare. Diamo alle riforme il tempo di avere gli
effetti per i quali sono state disegnate prima di valutarle, e non lasciamoci influenzare
dai dati mensili sull’occupazione che dipendono da infiniti fattori. Il governo, piuttosto,
alla prossima occasione, pensi a realizzare riforme disegnando anche, contestualmente,
gli esperimenti necessari per valutarne gli effetti in modo attendibile, come accade per le
terapie in campo medico.
LA NUOVA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 10 Natale, più regali per se stessi. In calo i prodotti tecnologici
Lo shopping di fine anno
Il budget degli italiani per le spese di Natale sarà in linea con lo scorso anno, e ancora
ben più alto della media europea. Al top cibo e vino, ci sarà qualche smartphone in
meno, mentre aumentano le persone che faranno regali a se stesse. La “sfida” delle
stime su come andrà lo shopping di Natale è partita con il primo fine settimana di
dicembre, con le prime indagini. Confcommercio prevede un budget di 300 euro per il
93,3% dei consumatori, che potrebbe salire grazie all’abolizione della Tasi. Coldiretti
prevede per tutte le spese, dai doni ai viaggi, una spesa complessiva di 614 euro in
media per famiglia. E Confesercenti è certa che gli italiani punteranno sui regali utili.
Quali sono i regali più gettonati? Per un’indagine di Confcommercio con Format Research
sono nel cibo & bevande (73,7%), poi giocattoli (46,7%), abbigliamento (46,3%) e libri
(41,7%); in leggero calo telefoni cellulari, smartphone, tablet e articoli informatici (0,5%). Si acquisterà soprattutto presso i punti vendita della grande distribuzione
(75,6%) e negozi tradizionali (56%), ma è in forte crescita l’e-commerce, con gli
acquisti sul web che balzano dal 3,8% del 2009 al 44%. Meno regali per parenti e amici
mentre, sempre per Confcommercio, è in aumento la percentuale delle persone che
acquistano regali per se stesse. Abbigliamento (37%), libri (35%), cibo e vino (32%), e i
prodotti tecnologici sono, per un’indagine Confesercenti Swg, i regali che gli italiani
vorrebbero trovare sotto l’albero: il 72% del campione intervistato ha tagliato le proprie
spese durante l’anno (ma a risparmiare erano di più nel 2015, l’87%), soprattutto per
l’abbigliamento, e questo spiega la preferenza per doni utili. Tra le curiosità, il 6% degli
intervistati ha detto che desidererebbe una «busta di denaro», la stessa percentuale di
chi preferirebbe un viaggio. Quasi tre italiani su quattro, evidenzia invece una analisi di
Coldiretti su dati Deloitte, effettuano entro la metà dicembre lo shopping di Natale, che
comporterà in media una spesa complessiva di 614 euro per famiglia, destinata per il
38% ai regali, per il 26% ai viaggi, per il 24% al cibo e per il 12% ai divertimenti, dal
cinema, al teatro, concerti e discoteche. Per Coldiretti le spese sono «stabili rispetto al
2015 (-1%), ma superiori del 19% rispetto alla media europea, dove sono inferiori solo
a quelle di danesi e spagnoli.
CORRIERE DELLA SERA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 25 I millennial più poveri dei loro nonni. L’Italia che accumula ma non
investe di Alessandra Arachi
Siamo un Paese che non riesce a guardare in avanti, ad avere fiducia nel futuro. E basta
guardare nelle tasche dei più giovani per capire cosa ci vuole dire il Censis con il suo
cinquantesimo rapporto sulla condizione dell’Italia e degli italiani: i ragazzi hanno un
reddito del 26,5 per cento più basso rispetto ai loro coetanei di venticinque anni fa. Non
solo: oggi le famiglie composte da giovani con meno di 35 anni hanno introiti del 15,1
per cento più bassi rispetto alla media e anche una ricchezza del 41,1 per cento
inferiore. Cifre che non reggono certo il confronto con i loro nonni. Per capire: il reddito
degli over 65 è aumentato del 24,3 per cento. I nuovi pensionati hanno redditi
pensionistici migliori: per chi ha percorsi retributivi superiori ai 40 anni l’incidenza si
quadruplica, passando dal 7,6 al 28,8 per cento. Sarà anche per questo che il 61,4 per
cento degli italiani è convinto che il proprio reddito non aumenterà nei prossimi anni e,
di conseguenza, il 57 per cento ritiene che i figli e i nipoti non potranno vivere meglio di
loro. Eppure siamo un Paese di benestanti, «rentier» ci definisce il Censis segnalando
che dall’inizio della crisi, il 2007, gli italiani hanno accumulato liquidità aggiuntiva per
114,3 miliardi di euro, un valore superiore al Pil dell’Ungheria. La liquidità totale di cui
dispongono al secondo semestre del 2016 era di 818,4 miliardi. Ma gli italiani non
investono. Quasi il 36 per cento tiene regolarmente contante in casa e con un’incidenza
di investimenti sul Pil pari al 16,6 per cento, il nostro Paese si colloca a grande distanza
dalla media europea che è del 19,5 per cento e a svariate lunghezza dalla Francia
(21,5), dalla Germania (19,9) e dalla Spagna (19,7).
LE NUOVE FAMIGLIE - L’amore ai tempi di Internet è fatto di coppie «temporanee,
reversibili, asimmetriche ma autentiche», ci spiega il Censis segnalando il boom delle
coppie di fatto, con un milione 200 mila libere unioni (+108 per cento). Il picco riguarda,
tra queste, le coppie tra celibi e nubili (+155,3 per cento) e anche le famiglie cosiddette
ricostruite non coniugate (+66,1 per cento) a fronte di una diminuzione delle coppie
coniugate (-3,2 per cento) e, ancora di più, di quelle coniugate con figli (-7,9 per cento).
Ma non è l’unico cambiamento della nostra società che registra una vera e propria
rivoluzione nelle forme di convivenza: ci sono infatti 4,8 milioni di single non vedovi
(+52,2 per cento nel periodo 2003-2015), 1,5 milioni di genitori soli (con un incremento
del 107 per cento per i padri e del 59,7 delle madri).
LE VITE DIGITALI - Forse non ci sarebbe stato bisogno di dati statistici per sapere che i
giovani nel nostro Paese vivono connessi a tablet e smartphone. Comunque: è il 95,9
per cento degli under 30 che lo fa. Ma non sono da soli, visto che la media nazionale
degli italiani «sempre connessi» è arrivata quest’anno al 73,7 per cento. Anche in questo
caso non ci sarebbe bisogno di dirlo: spopolano i social network. WhatsApp, in pole
position: lo usa il 61,3 per cento della popolazione e l’89,4 per cento dei più giovani.
Facebook questa volta arriva secondo: 56,2 per cento della media nazionale, 89,3 per
cento dei ragazzi. Fanalino di coda è Twitter: vi accede solo l’11,2 per cento degli italiani
(il 24 per cento degli under 30). E Youtube? Lo guarda quasi un italiano su due (46,8 per
cento), ma fra gli under 30 la percentuale sale al 73,9.
GLI ADOLESCENTI - Nell’era digitale si chiama cyberbullismo, ma non è certo meno
doloroso del tradizionale bullismo dei tempi andati. E secondo il Censis ha una diffusione
subdola e allarmante: è infatti il 52, 7 per cento dei ragazzini tra gli 11 e i 17 anni che
ne è rimasto vittima, ma se restringiamo la fascia agli 11-13 anni la percentuale sale al
53,3. Sono le ragazzine le più colpite, il 55,6 per cento. Comportamenti offensivi,
violenti che fanno soffrire molto i ragazzi. Ma i genitori non li prendono sul serio. Almeno
a giudicare da quanto riferiscono gli insegnanti: secondo l’80,7 per cento dei dirigenti
scolastici, quando i loro figli sono coinvolti in episodi di bullismo-cyberbullismo i genitori
tendono a minimizzare. Solo l’11, 8 per cento di loro aprono gli occhi e chiedono aiuto
alla scuola e agli insegnanti.
LA DEMOGRAFIA - Il rapporto Censis lo dice a chiare lettere: oggi l’Italia è un Paese che
non ha fiducia nel futuro. E cosa c’è di più importante di un figlio per poter guardare
avanti? Ecco perché in Italia continuano a diminuire la nascite e per la prima volta come ci ha segnalato l’Istat - diminuiscono anche i bambini nati da coppie di stranieri,
con ben 5 mila mamme immigrate in meno in un solo anno. L’allarme demografico è
pesante, basterebbe dire che i minori in Italia sono il 16,5 per cento contro il 22 per
cento della popolazione anziana. Ma aggiungiamo che nel 2015 la popolazione ha
raggiunto il minimo storico dall’Unità d’Italia con 485 mila 780 bambini nati in meno.
Anche l’indice di natalità ha raggiunto il minimo storico, arrivando a toccare la quota di
1,35 figli per donna.
AVVENIRE di sabato 3 dicembre 2016
Pag 5 L’Italia resiste ma i giovani sono più poveri di Alessia Guerrieri
Si va avanti, stringendo i denti, con l’impegno quotidiano nell’economia e nel sociale.
Certo si è sfiduciati, insicuri, con i risparmi sotto il materasso senza nessun progetto
d’investimento per il futuro. Italiani popolo di rentier – l’etichetta che si affibbia a chi
vive di rendita – e quindi incapace di investire sul domani, malato d’immobilismo sociale
che in anni di crisi ha generato insicurezza. Un Paese «ruminante», insomma, che vive la
«seconda era del sommerso» orientata a fare più reddito per difendersi dall’assenza di
prospettive; un luogo in cui i millennial sono vittime di «un ko economico»: per la prima
volta nella storia recente i figli cioè sono più poveri dei genitori. La società italiana
analizzata dal Censis, l’annuale rapporto giunto alla cinquantesima edizione illustrato ieri
a Roma dal direttore generale Massimo Valeri e dal presidente Giuseppe De Rita,
racconta di un’Italia che funziona bene nel quotidiano, «resiste alla crisi», ma assomiglia
sempre più a «una macchina molecolare », dove ognuno è rintanato in se stesso, senza
un orientamento complessivo di sviluppo. Accanto a questo, la crisi delle istituzioni ha
portato ad un grave scollamento tra potere politico e corpo sociale, che adesso si
guardano «rancorosi» e si lanciano reciprocamente accuse di populismo. Al minimo
storico, così, la fiducia nei partiti (1,6%) e nelle banche (1,5%), mentre cresce quella
nei confronti delle associazioni di volontariato (42%) e della Chiesa (16,7%). Immobilità
sociale e insicurezza. Se provano a guardare dentro un binocolo perciò, 6 italiani 10 non
vedono un miglioramento del proprio reddito nel futuro e quasi altrettanti sono convinti
che in futuro il tenore di vita si dovrà inevitabilmente ridurre. Con l’Italia nella palude,
insomma, ai suoi abitanti non resta che fare scorte di cash in vista di un domani
nebuloso. Rispetto al 2007, infatti, hanno accumulato liquidità aggiuntiva per 114,3
miliardi di euro, un valore superiore al Pil di nazioni come l’Ungheria. Non meno da
apnea la vita dei giovani, con redditi del 26% più bassi dei loro coetanei nel 1991. Una
tendenza che si conferma anche considerando le famiglie composte da under 35: il loro
reddito è inferiore del 15% e la loro ricchezza è più bassa del 41%. Colpa anche di
un’occupazione sì in crescita ma a bassa produttività, a cui si aggiunge il boom dei
voucher: 277 milioni di contratti stipulati tra il 2008 e il 2015 e 70 milioni di nuovi
voucher emessi nei primi sei mesi del 2016. La domanda flessibile e l’abbattimento dei
costi, in sostanza, alimentando l’area delle professioni non qualificate e il mercato dei
«lavoretti». Ed è così che «la struttura sociale si allunga», facendo perdere potere al
ceto medio, impoverito e spesso costretto a tagliare anche sulla salute (11 milioni nel
2015 hanno rinunciato a curarsi). Le relazioni. In una società sempre meno definita così,
continua il dossier Censis, anche l’amore sembra più fluido e la crisi economica non aiuta
nella scelta di metter su famiglia. I rapporti perciò sono sempre più temporanei,
reversibili ma non meno autentici, con la tendenza ad «abbassare sempre più le barriere
di ingresso e di uscita nelle relazioni affettive». Anche se aumenta la convivenza, i
matrimoni calano solo del 3,2% e quelli con figli del 7,9%; più profonda invece la
differenza nei ragazzi che nell’80% dei casi scelgono la vita da single. A non passare di
moda è tuttavia la generosità degli italiani, che persino nella crisi continuano a donare
alle organizzazioni no profit al ritmo di aumenti a tripla cifra. Le tendenze. Al netto
dell’autoflagellazione, il nostro Paese comunque continua a conquistare punti nell’export
– siamo al decimo posto nel mondo con una quota di mercato del 2,8% –
nell’alimentare, moda e design. Così come prosegue ad attrarre turisti – come pure
studenti amanti dell’arte nelle proprie accademie – aumentati in cinque anni del 31%.
L’ospitalità alberghiera però è sempre più polarizzata: crescono gli hotel di lusso (+50%)
e all’opposto le sistemazioni low cost, come b&b e case vacanze (+32%). Una delle
tante strategie di «valorizzazione del patrimonio immobiliare» più utilizzate nell’era del
«sommerso dei redditi » attuale. A non conoscere crisi, inoltre, è il comparto digitale con
un +41% dell’acquisto di computer e +191% di smartphone, sintomo anche della
volontà dei cittadini di «fare da sé, saltando gli intermediari», sia per informarsi che per
comunicare con il mondo. L’accoglienza dei migranti è l’ultimo dei quattro flussi che
hanno caratterizzato il nostro Paese, con il record di arrivi del 2015 già stato superato al
30 novembre di quest’anno con 173mila migranti sbarcati. Ad aumentare
esponenzialmente anche i minori non accompagnati, 24mila nel 2016 cioè il 14%,
cresciuti del 363% in tre anni. Pure se l’Europa latita nella governance sul tema e
Bruxelles è vista come uno dei motivi che portano lo Stato tirar la cinghia, il 67% degli
italiani ripone ancora fiducia nell’Ue.
IL GAZZETTINO di sabato 3 dicembre 2016
Pag 5 Italia, 114 miliardi sotto il materasso di Valeria Arnaldi
«Prolungata e infeconda sospensione». Sono parole pesanti, che poco o nessuno spazio
sembrano lasciare alla speranza, quelle usate nel cinquantesimo Rapporto Censis sullo
stato sociale del Paese per descrivere la condizione dell'Italia. E proprio la parola
prolungata regala ancor più dure prospettive a un'attualità che pare ben lungi dall'essere
momento. Il Paese è sostanzialmente fermo, si sostiene sui risparmi degli anni
precedenti ma non li investe. Dal 2007 a oggi gli italiani hanno accumulato 114 miliardi
di euro di liquidità aggiuntiva tenuta come riserva nell'incertezza del domani. E più delle
cifre, sono le età dei patrimoni a ritrarre il potenziale - perso o sprecato che dir si voglia
- del Paese. Le risorse sono perlopiù nelle mani degli anziani. Il Rapporto registra il ko
economico dei Millennials. Per la prima volta, i figli sono più poveri dei genitori. E perfino
dei nonni. L'esperienza lo mostra nelle storie di singoli e famiglie. La statistica di
quell'impressione fa dato certo. I giovani hanno «un reddito inferiore del 15,1% rispetto
alla media dei cittadini». La ricchezza familiare, per i nuclei under 35, è pari al -41,2%
della media. Non solo. I redditi di oggi sono più bassi del 26,5% a quelli dei coetanei di
venticinque anni fa. La ricchezza degli anziani, invece, è aumentata dell'84,7%. In
generale, si registra un calo dell'8,3% nei redditi della popolazione, ma il ribasso, per i
giovani, è vertiginoso, specie se raffrontato all'eccezione degli over 65 per i quali si
rileva un aumento del 24,3%. Il perché è presto detto. Il reddito medio da pensione è
salito del 5,3% tra 2008 e 2014, anche per le carriere contributive più lunghe e
continuative - Tra 2004 e 2013 è passata da 7,6% a 28,8% l'incidenza di quanti sono
andati in pensione con oltre quarant'anni di contributi - tanto che 4,1 milioni di
pensionati hanno dato aiuti economici ad altri. Il fatto che l'Italia non sia un Paese per
giovani è ormai storia nota, testimoniata dalla fuga delle nuove generazioni - e non solo:
il numero di italiani che si sono trasferiti all'estero è quasi raddoppiato negli ultimi
quattro anni e salito del 15,1% nell'ultimo - ma le percentuali mostrano trend e filosofia
di una nazione che pare aver dimenticato il suo domani. L'incidenza degli investimenti
sul Pil, nel 2015, è scesa al 16,6%, a fronte di una media europea del 19,5%. Il lavoro è
stato sostituito dai lavoretti, segnando l'inizio di una seconda era del sommerso, in cui si
va alla ricerca di più redditi e non come strumento di sviluppo ma come arma di pura
difesa. È l'Italia dell'arrangiarsi, del giorno per giorno, dell'oggi forse domani chissà,
della stasi. E dei giovani imprigionati nel limbo del lavoro quasi regolare, dove si fa
tutto, non di rado tanto, pur di avere qualcosa. Il fenomeno interessa molti, con un
aumento delle professioni non qualificate del 9,6% tra 2011 e 2015. In tale contesto non
stupisce il calo di nascite. L'80,6% dei Millennials è celibe o nubile - era il 71,4% dieci
anni fa - i coniugati, che erano il 28,2%, sono il 19,1%. Nel 2015 le nascite hanno
toccato il minimo storico. È allarme. «Dobbiamo dare un segnale che lo Stato è vicino
alla famiglia e che attua delle misure concrete. Lo abbiamo fatto con questa legge di
stabilità», commenta Enrico Costa, ministro Affari Regionali con delega alla Famiglia:
«Sono necessarie politiche a lungo termine, pluriennali, non improvvisate ma in grado di
invertire il trend. Secondo i dati Eurostat da qui al 2080 saremo 20 milioni in meno in
Italia, con un aumento di dieci anni dell'età media». Il futuro sembra non avere più
numeri.
Torna al sommario
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag V Messa solenne per i Vigili del fuoco di Tullio Cardona
Celebrata ieri ai Carmini la protettrice Santa Barbara
La chiesa dei Carmini è stata affollata, ieri mattina, dai vigili del fuoco, giunti a celebrare
la loro patrona: Santa Barbara, protettrice, oltre che dei pompieri, dei genieri e dei
marinai della Marina Militare. Insomma di quanti possono incorrere nella morte
improvvisa svolgendo un servizio per la collettività. È la santa, infatti, nata a Nicomedia
(Turchia) nel III secolo e sepolta nella chiesa di San Martino a Burano, che rappresenta
la capacità di affrontare il pericolo con fede, coraggio e serenità. I vigili del fuoco sono
stati salutati calorosamente dal celebrante della funzione eucaristica, don Silvano
Brusamento; la Messa si è svolta alla presenza di Loris Munaro, comandante provinciale
del Corpo, del prefetto Domenico Cuttaia, del questore Angelo Sanna e del
rappresentante del sindaco, il consigliere comunale Paolo Pellegrini. «Vi ringrazio per il
bene che fate alla società - ha elogiato don Silvano - siete sempre chiamati e sempre
presenti». In onore di santa Barbara, sempre ieri mattina, l'associazione nazionale
Marinai d'Italia ha organizzato la ventesima regata in caorlina nel Bacino di San Marco.
In ogni equipaggio c'era un allievo della scuola militare della Marina F. Morosini. Vince il
verde di Giuliano Pagan, Mirko Pagan, Nicolò Trabuio, Ivan Bognolo, Gaetano Bregantin
e Matteo Valenti.
Pag VII Don Fausto Bonini: “Hanno trasformato la piazza in una discarica” di
Alvise Sperandio
«Una grande cavolata». L'aveva detto qualche giorno fa, sul Gazzettino, il presidente del
Centro studi storici Roberto Stevanato, con un gioco di parole che faceva riferimento agli
alberelli collocati nel tentativo di abbellire un po' il contesto. Lo ribadisce anche mons.
Fausto Bonini, già parroco del Duomo e voce autorevole della chiesa mestrina, che
boccia sonoramente il nuovo piazzale Donatori di Sangue peraltro contestandone il nome
che ha sostituito il vecchio piazzale Sicilia per l'arrivo del nuovo eco-compattatore. Lo fa
con un articolo pubblicato sul nuovo numero de L'Incontro, il settimanale della
Fondazione Carpinetum, sul quale mons. Bonini cura ora una rubrica fissa. «Hanno
trasformato quel piazzale non in una piazza vera e propria, ma in una discarica è il
giudizio netto del sacerdote Durante il giorno c'è un via vai di gente con i sacchetti in
mano o con i carrelli della spesa pieni di immondizie. C'è anche un cattivo odore». Non
solo: mentre alcune calotte devono già essere cambiate perché troppo strette per
inserirvi i rifiuti della raccolta differenziata, si inizia a vedere la spazzatura abbandonata
direttamente in strada. «Quel piazzale è già brutto di suo continua mons. Bonini Su tre
lati è chiuso da brutti fabbricati, sull'ultimo c'è villa Erizzo, la biblioteca con centinaia di
giovani che salgono e scendono la scalinata d'ingresso. Un punto bello e giovane della
città, chiuso da una strada a forte scorrimento e da una discarica a cielo chiuso».
Conclude l'ex parroco del Duomo: «Quello poteva essere un grande spazio verde
d'incontro, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro. Ringraziamo chi ha avuto
questa bella idea e l'ha realizzata con i soldi della comunità. Anch'io, cittadino di Mestre
e amante della mia città, sottoscrivo le parole del professor Stevanato: hanno fatto una
grande cavolata».
LA NUOVA
Pag 15 Si getta dalla finestra del dormitorio, trovato morto di f.fur.
Ospite della Caritas
A Castello un uomo di 72 anni è morto dopo essersi lanciato dalla finestra al secondo
piano del dormitorio Betlemme della Caritas, nel quale aveva trascorso la notte e del
quale era ospite da molti anni. È successo verso le 8 di ieri. L’uomo è morto per le
lesioni riportate nella caduta: il decesso è avvenuto poco dopo il ricovero d’urgenza
all’ospedale di Mestre dove era stato trasferito d’urgenza. Non ci sono dubbi sul fatto che
si sia trattato di un gesto volontario. La vittima da molti anni, almeno otto, era un ospite
della struttura gestita dalla Caritas. Al piano terra si trova la mensa, ai piani superiori il
dormitorio con 24 posti letto. Originario di Chioggia, è ricordato come una persona
schiva. Parlava poco sia con gli altri ospiti della mensa e del dormitorio che con gli
operatori della struttura che ieri non avevano numeri di telefono per avvisare eventuali
familiari.
LA NUOVA di sabato 3 dicembre 2016
Pagg 2 – 3 Si vendono case ma i prezzi calano di Mitia Chiarin
Compravendite in aumento a Mestre, sul litorale e nel Veneto Orientale
Venezia. Compravendite di abitazioni, il primo semestre 2016 è con il segno positivo in
tutto il Veneto (più 24,4 per cento a livello regionale rispetto allo stesso periodo del
2015) e Venezia è seconda per reattività del mercato immobiliare con un incremento del
27,7 per cento. Un buon risultato ma rispetto al raffronto con il secondo semestre 2015
resta la perdita che equivale a meno 1,3 per cento. Oltre 5.200 compravendite. Le
transazioni immobiliari in provincia di Venezia sono state, nei primi sei mesi di
quest’anno 5.214, il 22,4 per cento delle transazioni della regione Veneto, in tutto
23.205. Delle oltre 5.200 transazioni della nostra provincia, ben 1.642 riguardano il
capoluogo, Venezia centro storico e terraferma. Le altre 3.572 negli altri 43 Comuni
veneziani. Fa meglio di Venezia, in fatto di transazioni, Treviso con un aumento annuale
del 32,3 per cento. La ricerca. I dati sono quelli dell’ Osservatorio del mercato
immobiliare dell’Agenzia delle Entrate che analizza l’andamento delle compravendite in
provincia di Venezia. La provincia è prima in Veneto per il valore delle quotazioni medie,
con 1.919 euro al metro quadro e con Venezia “regina” delle quotazioni dei capoluoghi
con 2.667 euro al metro quadro come nei Comuni minori con 1.603 euro al metro
quadro. Da notare anche che le province di Verona, Venezia e Padova, assieme, oggi si
dividono oltre il 60 per cento del mercato immobiliare regionale. La replica dell’Ance. «Il
mercato immobiliare mestrino sta registrando una certa vivacità», commenta Ugo
Cavallin, presidente di Ance Venezia. «Gli scambi immobiliari sono in aumento, segnale
sicuramente positivo. Tuttavia questo non si traduce necessariamente in un aumento
dell’attività edilizia in quanto le transazioni riguardano quasi esclusivamente il
patrimonio esistente», dice il presidente dei costruttori veneziani. Cavallin chiarisce:
«All’acquisto non seguono, almeno nell’immediato, interventi di trasformazione e
ammodernamento. E questo significa che non si può parlare ancora di una vera e propria
ripresa del settore delle costruzioni». Quotazioni in calo. Se le transazioni crescono è per
due effetti, fanno notare dalle agenzie immobiliari, che confermano la maggiore vivacità
del settore ma comunque non cantano vittoria: i prezzi delle case in vendita che restano
bassi, ad eccezione del centro storico veneziano, e la maggiore facilità di accedere ai
mutui bancari per finanziare l’acquisto. La situazione in provincia. Tutte le aree della
provincia registrano un incremento di scambi: si va dal più 19,4 per cento della cintura
veneziana al più 33,2 per cento del Veneto orientale. Le maggiori compravendite si
registrano a Mestre e nella zona balneare (28,6 per cento). Le transazioni qui sono state
rispettivamente 1.642 e 1.409. Si vende pochissimo a Fossò e Stra mentre si fanno
affari, in questo periodo, nei due centri del Veneto orientale, San Donà di Piave e
Portogruaro. Poche transazioni invece a Gruaro e Cinto Caomaggiore. Tirano le spiagge.
E anche se non si riescono a vendere i grattacieli di Jesolo, le spiagge del Veneziano
vedono le migliori vendite in questi sei mesi, tra chi è a caccia della seconda casa per le
vacanze estive, proprio a Jesolo seguita da Chioggia. Fanalini di coda sono invece
Cavallino-Treporti ed Eraclea. Dai dati dell’osservatorio, la zona balneare è la seconda
macroarea per numero di compravendite in provincia di Venezia con una quota pari al 27
per cento e una quotazione media degli immobili di poco sotto i 2 mila euro al metro
quadro. Ma anche qui, rispetto ai dati del secondo semestre 2015, tutti i Comuni sono in
decremento mentre solo o Cavallino Treporti resta stabile. Il minor numero di
compravendite nella zona sud della provincia, dove si concentra il 3 per cento delle
vendite ma che ha visto un incremento di transazioni del 19 per cento. Qui le case sono
quotate 1.218 euro al metro quadro, con un calo del 2 per cento rispetto al secondo
semestre 2015.
Mestre. Mille e 642 transazioni immobiliari, il 31,4 per cento del totale delle
compravendite della provincia di Venezia e un incremento rispetto al primo semestre
2015 del 32,8 per cento. Dai dati dell’Agenzia delle Entrate emerge che è la terraferma
mestrina ad essere maggiormente interessata dalla ripresa del mercato immobiliare:
1.047 transazioni, il 63,7 per cento di tutte quelle siglate nel Comune in sei mesi. Il
centro storico veneziano si ferma a 379, il 23 per cento del dato comunale, con un
incremento del 55,5 per cento in un anno. Le quotazioni degli immobili però continuano
a calare se raffrontate con il secondo semestre 2015 che si traduce in una perdita di
valore degli immobili, a livello comunale, del 1,5 per cento. Il prezzo medio comunale è
di 2.668 euro a metro quadro con il picco, noto e comprensibile visto che si parla del
centro storico di una città d’arte nota in tutto il mondo, di 4.446 euro al metro quadro di
centro storico e Giudecca. Al Lido di Venezia la media è di 3.468 euro al metro quadro;
nelle isole minori si scende a 2.709 euro al metro quadro. In terraferma, dove si fanno
gli affari, il valore medio del mattone è di 1.719 euro al metro quadro. Complice il
patrimonio edilizio fatto spesso di palazzi oramai vetusti, da recuperare in toto. Chi
compera cerca abitazioni di media grandezza: il 35 per cento delle transazioni
interessano questo tipo di alloggi; il 27,2 per cento alloggi medio piccoli; il 23,8% alloggi
piccoli. Il 9,4 per cento compra abitazioni grandi mentre i monolocali interessano solo il
4,5% delle transazioni. La nota dell’Osservatorio del mercato immobiliare indica che le
zone che hanno espresso il maggior numero di transazioni sono finora quelle di Mestre
Centro, la zona semicentrale di Mestre, la periferia di Chirignago. Le quotazioni massime
si riscontrano a San Marco e a San Polo, nel centro storico veneziano. Le solite due facce
di una città atipica. In terraferma l’incremento maggiore di compravendite si è visto a
Marghera (102,4 per cento) e Malcontenta (400 per cento, ma solo per 5 transazioni);
incremento del 75,5 per cento nella periferia di Mestre e del 32,8 per cento attorno a
piazza Ferretto. Dati negativi a Favaro periferia, che perde quasi il 47 per cento di
transazioni e ai margini di Zelarino (meno 23,8 per cento). Per il centro storico, di
pregio, la variazione maggiore nelle compravendite si è avuta nei primi sei mesi del
2016 a Cannaregio Nord ( più109 per cento), Dorsoduro Ovest (più 158,8%), San Marco
(più 118 per cento). Segni negativi a Santa Croce (meno 15,4 per cento) e Giudecca
(meno 25,7 per cento). Nella zona del Lido l’incremento maggiore si nota a Malamocco
Alberoni (più 77,5 per cento) mentre nelle isole il boom è di Sant’Erasmo e Vignole
(quasi 260 per cento, ma per sole 6 transazioni). Segno negativo a Pellestrina, Murano,
Burano (meno 25 per cento).
Mestre. La ritrovata vitalità del mercato immobiliare, viene confermata da due
professionisti del settore che operano a Mestre. Franco Laghezza dell’omonima agenzia
immobiliare conferma: «La ripresa c’è perché i valori degli immobili restano bassi e
perché molti investitori hanno deciso di togliere i soldi dalle banche e investirli nelle
case, ritenendoli un bene più sicuro». Un effetto, dice Laghezza, della crisi del sistema
bancario che ha colpito durissimo anche nel Veneto. Per Guido Moriotto dell’agenzia
“Casapiù” di Riviera XX Settembre a Mestre, «sono i prezzi che restano bassi e la più
facile accessibilità ai mutui a risvegliare il mercato. Ci sono case in vendita anche ad 800
euro al metro quadro nella zona di Marghera. Nel centro di Mestre ad attirare sono le
zone di pregio come viale Garibaldi a Carpenedo, via Allegri oppure la riqualificata
Riviera XX Settembre», spiega Moriotto, «ma l’accesso facile ai mutui spinge ora molti
cittadini stranieri, che vivono e lavorano in città, a comperare casa. Loro preferiscono le
zone come via Piave, via Cappuccina e Corso del Popolo, senza garage ma molto servite
dai mezzi pubblici. Non stiamo assistendo alla nascita in queste zone di veri e propri
quartieri di nuovi cittadini, arrivati con l’immigrazione, ma certo il fenomeno comincia a
farsi sentire». Laghezza aggiunge: «La ripresa si sente ma dipende anche dal prodotto
che si vende e da dove è localizzato. In zone come viale Garibaldi a Carpenedo, per
esempio, è indubbio che anche il nuovo, ad alti prezzi, trova compratori. In genere gli
acquirenti sembrano privilegiare non grandi complessi abitativi, modello alveare, ma
piccoli edifici». E dove si compera a meno attualmente? Le quotazioni più basse nella
cintura veneziana sono a Fossò (1.219 euro al metro quadro), ad Annone e Cinto
Caomaggiore (1.190 euro al metro quadro) per il Veneto Orientale, nel centro di
Zelarino nel Comune di Venezia (1.433 euro) o nelle zone rurali della terraferma (1.450
euro) e Marghera (1.470) dove il valore delle case ha perso il 2,6 per cento. Nella
periferia di Mestre le case hanno perso, invece, il 7 per cento di valore rispetto al
secondo semestre 2015.
Pag 25 Aperture festive dei negozi, a gennaio un tavolo etico di Marta Artico
Don Torta e Tiziana D’Andrea incontrano gli assessori regionali Marcato e Lanzarin. La
Regione si impegna: bisognerà cambiare la legge e limitare il calendario
«Un primo passo per cambiare la legge Monti». Tiziana d'Andrea (Domenica No Grazie
Veneto), definisce così l'incontro che si è svolto ieri in Regione, con l'assessore allo
Sviluppo economico, Roberto Marcato e l'assessora Manuela Lanzarin. Con lei don Enrico
Torta, che da anni, oramai, sostiene la causa dei lavoratori della grande distribuzione
costretti a lavorare no-stop, parecchi anche senza percepire alcuna maggiorazione,
l'imprenditore Roberto Aggio e il direttore della Sme di Marghera. «È stato un incontro
davvero propositivo», spiega, «abbiamo chiesto un calendario etico e chiesto che
vengano messi dei paletti alle festività, giorni in cui scatta il cartellino “rosso” e non si
lavora. Giorni che non sono solo legati alla religione come Natale, Santo Stefano,
Pasqua, Capodanno, ma anche alla cultura, alla storia del Paese, alle conquiste, alla
tradizione, come il Ferragosto, il Primo Maggio, il 25 aprile». Prosegue: «L'assessore
Marcato ci ha assicurato che a gennaio verrà dato il via al tavolo etico, che vuole venga
esteso anche a tutti i parlamentari veneti, che verrà anticipato da un incontro con la
stampa e le categorie il 14 dicembre. Per noi questo è il primo passo per cambiare la
legge Monti». «Noi crediamo in una certa politica verso il personale», spiega lo storico
direttore della Sme, Massimo Carrer, «vogliamo che il personale sia motivato, che faccia
bene, creare le condizioni perché ciò accada, il che significa stare in famiglia e riposarsi
e oggi per come la vita è organizzata, ciò avviene la domenica. Siamo convinti che
tenere aperto la domenica non faccia aumentare i consumi ma li spalmi e basta sui sette
giorni». Prosegue: «L'incontro è stato positivo, ancora una volta l'assessore Marcato ha
dato dimostrazione di essere favorevole e disponibile verso la nostra causa. Sarà lui a
convocare un tavolo etico al quale cercheremo di far sedere tutte le rappresentanze che
hanno a che vedere con commercio e distribuzione in Veneto, per far capire che il
problema è importante, che bisogna fare qualche cosa, siamo l'unico Paese in Europa
ridotto così, anche i magazzini La Fayette la domenica chiudono». Ribadisco: «Per
lavorare bene si deve stare bene, se si sta male al lavoro non si può vivere bene, perché
al lavoro passiamo l'80 per cento della vita». La conferma proviene dall'assessore
Marcato: «È un tema di civiltà, lo dico serenamente, sono uno dei primi firmatari contro
le aperture festive e domenicali quando non necessarie, e qui ci sono ipotesi di centri e
catene aperte a Natale e primo dell'anno, non è che ne abbiamo davvero bisogno,
proprio no. I piani sono due, quello normativo, su cui dobbiamo lavorare, e c'è la
conferenza stato-regioni per questo. Ma qui serve in realtà un movimento d'opinione che
coinvolga sindacati, categorie, dipendenti, aziende e soprattutto parlamentari di destra e
sinistra veneti. Perché c'è solo un organo che fa le leggi e si chiama Parlamento, e
siccome siamo tutti d'accordo su questo tema, le leggi si cambiano, non c'è nulla di
iscritto, non sono tavole bibliche. Rivediamo queste posizioni. Che io citi Woytila è tutto
dire, ma ricordo che Giovanni Paolo II diceva che il capitalismo deve essere etico, ed è
vero. Il capitalismo deve avere un volto umano che non contempli solo il profitto. Su
questo tema serve una riflessione profonda».
Torna al sommario
… ed inoltre oggi segnaliamo…
IL GAZZETTINO
Pag 20 Il populismo non è una fatalità in Europa di Marina Valensise
In Europa, il populismo non è una fatalità, almeno non sembra esserlo. Di sicuro, non lo
è in Austria, dove l'ecologista liberale Alexander Van der Bellen, candidato indipendente
ma ex presidente dei Verdi, sostenuto da gran parte del mondo politico e intellettuale sia
di destra sia di sinistra (malgrado l'assenza di un appoggio esplicito del partito
socialdemocratico, SPÖ, e del partito cristiano conservatore ÖVP), ha stravinto al
ballottaggio delle presidenziali contro Norber Hofer, il candidato della FPÖ, il Partito della
liberà, e cioè l'esponente dell'estrema destra xenofoba e antieuropeista, che aveva fatto
ponti d'oro al Fronte nazionale di Marine Le Pen e sognava di replicare a Vienna la
doppietta della Brexit e del successo di Donald Trump, per conquistare tra due anni il
governo come Cancelliere, dopo le legislative del 2018. Di fatto, in Austria, il professor
Van der Bellen ha vinto con un'ampia maggioranza. Dunque, ha non solo confermato,
ma moltiplicato quello scarto di appena 31 mila voti con cui il 22 maggio scorso aveva
già vinto una prima volta il ballottaggio delle presidenziali sconfiggendo Hofer, il quale
poi, in seguito a irregolarità nel voto estero, è ricorso alla Corte costituzionale ottenendo
l'annullamento del voto e nuove elezioni. Per vincere una seconda volta con tanto
distacco, però, questo sapido settantenne, professore di economia e appassionato di
letteratura russa, non privo di ironia e, famoso per le lunghe pause nel rispondere agli
intervistatori, ma anche per l'arte molto viennese del non mandarle a dire con esplosioni
d'inaspettata aggressività (Lei di economia non capisce niente, ha replicato al
flemmatico Hofer, per farlo uscire dai gangheri) ha dovuto versare non poca acqua del
patriottismo identitario nel suo europeista. Figlio di rifugiati, nato a Vienna nel 1944
(madre estone, padre aristocratico russo, discendente da una famiglia di luterani
olandesi già scampata alle guerre di religione, e costretta nel 1917 a riparare in Estonia
ancora indipendente, per sfuggire l'avanzata dell'Armata rossa e poi in Germania nel
1940, quando l'Urss invade l'Estonia, e da lì a Vienna, ancora annessa al Terzo Reich),
quando a Vienna arrivano i sovietici, Sasha Van der Bellen si trasferisce con la famiglia
in Tirolo dove trova il suo Heimat, la sua patria, nel Kaunertal. Quest'uomo austero,
pacato, disponibile all'amore (si è appena risposato con una militante ecologista) non ha
avuto difficoltà a tirar fuori la bandiere, a indossare gli abiti tradizionali tirolesi in una
festa di paese, a insistere sui diritti e i doveri dei rifugiati, che devono adattarsi al modo
di vita locale. Per conquistare il voto dei conservatori, doveva correggere l'immagine di
candidato della sinistra agnostica e multiculturale, perciò tolleranza zero in fatto di
sicurezza, restrizioni nell'asilo ai migranti economici. Dunque sconfitto dalle urne Hofer,
il candidato della paura che inseguiva il sogno dell'Öxit, l'uscita dell'Austria dalla Ue, e
mostrava la faccia feroce verso i profughi che continuano a affluire in massa dai Balcani,
non è detto che la destra populista non finisca dettare o quantomeno condizionare
l'agenda europea. Le istituzioni dovranno tenerne conto. Se la vittoria di Van der Bellen
è una boccata d'ossigeno, urge uno sforzo comune per riqualificare l'Unione e l'idea
stessa di Europa.
CORRIERE DELLA SERA di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 I tormenti dell’Europa di Franco Venturini
Dall’odierno voto degli italiani e da quello concomitante degli austriaci verranno forse (è
d’obbligo una scaramantica prudenza) gli episodi conclusivi dell’ennesimo annus
horribilis vissuto dall’Europa. Insanguinata dal terrorismo jihadista, avvilita dalle
crescenti divisioni interne sul fenomeno migratorio e sui rapporti con la Russia, offesa
dalla Brexit e da una marea populista fortemente presente anche al di qua della Manica,
intimorita infine dall’elezione di Trump e dai suoi scomodi propositi, in questi undici mesi
del 2016 l’Europa ha giocato sempre in difesa senza peraltro riuscire a contenere le
minacce che l’assediavano. Non deve accadere lo stesso quando le urne italiane e quelle
austriache avranno emesso i loro verdetti. Le due votazioni, beninteso, sono assai
diverse l’una dall’altra. In Italia si vota pro o contro una riforma costituzionale che in
ogni caso non cambierà più di tanto il volto del Paese. In Austria è in gioco l’elezione del
primo presidente di estrema destra dalla fine della Seconda guerra mondiale, può
vincere il rappresentante di un partito creato da un gruppo di ex nazisti negli anni
Cinquanta, si dovrà verificare fino a che punto Norbert Hofer sarà riuscito nella sua
operazione doppiopetto. Mentre sono fuori gioco i due partiti tradizionali socialista e
popolare, possono esserci conseguenze per l’Italia (di sicuro un «muro» al Brennero,
forse persino una richiesta di «riunire» il Tirolo) e possono cambiare gli equilibri europei
se l’Austria andrà a raggiungere il gruppo di Visegrad guidato dal duo polaccoungherese. E soprattutto, la lente di osservazione europea valuterà con una certa ansia
l’effetto Brexit e l’effetto Trump in vista dei prossimi esami elettorali in Olanda e in
Francia. Riflettori tutti sull’Austria, dunque? No di certo, perché a riequilibrare la
contabilità dei rischi c’è l’incomparabile peso specifico dei due Paesi, le loro dimensioni
assai diverse, il fatto che la popolazione austriaca è meno di un sesto di quella italiana,
la consapevolezza che la nostra economia è la terza dell’eurozona e che un naufragio
dell’Italia potrebbe far crollare l’intera costruzione europea. Dall’Italia una Ue con i nervi
a fior di pelle si aspetta una garanzia di stabilità per il «dopo», ed è questo il vero
auspicio che ha indotto alcune capitali europee (e anche quella statunitense) ad
esprimere fugaci preferenze di schieramento. Diventa possibile, allora, l’individuazione
delle responsabilità di ognuno dopo che le urne del 4 dicembre avranno parlato. Le
istituzioni e le forze politiche italiane (tutte) avranno la responsabilità di non spingere il
Paese verso una imprevedibilità politica ed economica che non possiamo permetterci se
vogliamo continuare ad avere una voce in Europa e continuare a riceverne i benefici (sì,
i benefici, malgrado le strumentalizzazioni menzognere in Italia e la catastrofica
comunicazione di Bruxelles). E avranno anche la responsabilità, le nostre forze politiche
(tutte) di farci superare le parole troppo forti pronunciate in una pessima campagna
elettorale, le volgarità troppo avvilenti, le spaccature troppo profonde che certamente
ostacoleranno la ripresa di un dialogo nel dopo referendum. E non ci consoli
l’accostamento al devastante esempio americano, perché semmai dovremmo marcare
una differenza che invece si è vista poco. In Austria, a giochi fatti e indipendentemente
dal risultato, si porrà il problema di una nuova leadership e di nuovi programmi nei due
partiti che hanno dormito sugli allori fino al suicidio. Anche perché, chiunque vada ad
insediarsi nella Hofburg che fu sede e simbolo del potere imperiale di Vienna, nel 2018 ci
saranno elezioni legislative che potrebbero proiettare il nazionalpopulista Heinz-Christian
Strache (il vero ispiratore di Hofer) verso la Cancelleria. E allora l’Oxit (versione
austriaca della Brexit) diventerebbe una concreta possibilità. Paradossalmente, mentre il
temuto afflusso o transito di migranti è praticamente cessato con il blocco della «via dei
Balcani». E l’Europa, quali responsabilità avrà da domani? Intanto quella di prendere
atto dei risultati senza prestarsi a catastrofismi autolesionisti e senza chiudersi come fa
da tempo in una fortezza sbrindellata e destinata a cadere. Più che mai ora che Angela
Merkel ha deciso di essere nuovamente candidata alla cancelleria di Berlino, e che a
Parigi sarà François Fillon ad affrontare Marine Le Pen nella corsa per l’Eliseo, l’Europa
può ragionevolmente sperare in un 2017 meno traumatico di quanto si era paventato.
Ma se il credo della Ue continuerà ad essere una sopravvivenza senza azione e senza
reazione la condanna a morte sarà soltanto rinviata. Ovunque in Europa, anche in Italia
e in Austria, sono emerse istanze popolari che non sono tutte distruttive e che non
devono essere ignorate. Un progetto per una difesa più coordinata non può bastare se si
continua a litigare sull’unione bancaria e sulle garanzie per i risparmiatori, se continua a
mancare una politica coerente sui flussi migratori che investono Grecia e Italia, se
l’Europa continua a mostrarsi distratta mentre all’interno è in forse il consenso dai suoi
popoli e all’esterno minacciano di sgretolarsi l’ordine del Dopoguerra e quello, in realtà
mai nato, del dopo Muro. Italia e Austria siano uno stimolo per l’Europa, l’ennesimo
avvertimento che paura e paralisi non possono durare fin dopo le elezioni tedesche in
calendario tra dieci mesi.
Pag 29 Una sintesi da trovare tra crescita e democrazia di Mauro Magatti
Il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump hanno reso evidente la torsione che la
transizione di questi anni sta producendo sull’asse destra-sinistra. A destra, il
neoliberismo di Reagan e Thatcher cede il passo al neoconservatorismo di Trump e
Theresa May. Con uno stile molto diverso, i due leader anglosassoni sono accomunati
dalla stessa preoccupazione: contrastare gli effetti negativi della globalizzazione liberista
tornando a mettere al centro la crescita dell’economia nazionale. Con lo slogan «nessun
inglese/americano verrà più lasciato indietro», essi di fatto invertono la visione dei loro
predecessori, anche se non è affatto chiaro quale linea politica economica vogliano
davvero seguire. Di sicuro, la base sociale che li sostiene è frutto di un’alleanza alquanto
contraddittoria tra super ricchi intenzionati a non mettere in discussione l’attuale
distribuzione delle risorse, ceto medio impoverito e reazionari religiosi (di norma bianchi)
convinti che alla base dei problemi della società attuale ci sia il disordine morale. Quale
sarà il baricentro di questa nuova configurazione ancora non è chiaro, come la sfida che
si profila in Francia tra Fillon e Le Pen lascia intendere. Tutto ruota al modo in cui essa
proverà a ricostruire il senso del limite - se muri chiusi o frontiere porose - e soprattutto
a ridisegnare l’idea di autorità: se un «padre» problematico («perverso» direbbe Freud)
che non solo non rispetta la legge (né i valori che dice di difendere), ma che alimenta e
sfrutta il risentimento diffuso, orientandolo contro qualche capro espiatorio per
sostenere la propria legittimazione; oppure un «padre» capace di essere garante di
equilibrio e equità nel gestire i necessari processi di trasformazione nei quali le nostre
società sono immerse. Al di là di qualche tentativo marginale, poco incisivo e per di più
datato (Corbyn o Sanders), la sinistra neoprogressista sembra avere più difficoltà a
trovare una via nuova. Nonostante tutto quello che è successo, essa sembra prigioniera
dell’immaginario degli ultimi decenni, fondamentalmente centrato sul mix tra
individualismo e cosmopolitismo. Immaginando un mondo finalmente libero da ogni
norma morale dove ognuno può decidere da solo, essa porta alle estreme conseguenze il
sogno di una società orizzontale. E tuttavia, la sparizione del Nome del padre,
implicitamente si regge sui vantaggi (e le complicità) garantiti da un modello «materno»
che si pensa onnipotente, dove tolleranza e accoglienza si possono dare senza produrre
tensioni in quanto vi sono risorse sufficienti per soddisfare tutto e tutti. Ma ciò é
possibile solo in una situazione di espansione, secondo il modello messo a punto da
Clinton e trasformato da Blair in paradigma culturale. Così, nel tempo, la sinistra
neoprogressista è diventata la paladina di un progetto che punta a tecnicizzare e
burocratizzare porzioni sempre più grandi della vita sociale e personale. Su questa via,
essa ha finito con il perdere contatto con la società e le sue fatiche, producendo élites
fredde e distaccate e combattendo solo battaglie di principio che difendono un’idea di
giustizia e uguaglianza astratta e meramente procedurale, lontanissime dai bisogni reali
della gente. Semplicemente perché, come dice Slavoj Žižek, «l’altro reale» - che è
sempre brutto sporco e cattivo - è di fatto rimosso e tenuto alla larga dietro la coltre
delle retoriche del politically correct. Una sinistra che, raccogliendo i propri consensi
ormai quasi esclusivamente tra i ceti medi istruiti e professionalizzati, sembra non avere
più alcuna idea di «popolo». In realtà, la sinistra ha ragione nel pensare che tornare
indietro sulla strada della libertà é impossibile. E che si può - e si deve - solo andare
avanti. D’altra parte, la destra ha ragione quando dice che libertà non vuol dire
negazione del limite: per quanto possiamo tendere alla costruzione di un mondo sempre
più integrato, unito e giusto, la questione della diversità e del conflitto rimane un nodo
ostico. Il problema è che questi due mezze ragioni non fanno una verità. Anzi, essi
rischiano di annullarsi reciprocamente in uno scontro che tende a radicalizzarsi ogni
giorno di più. Con una destra che gioca sull’equivoco tra i diversi gruppi sociali che la
sostengono e una sinistra che sembra (incredibilmente) incurante di quello che succede,
bloccata com’è dal tema (pur importante) dei diritti individuali senza però una vera
riflessione sul fatto che non esiste individuo, né tantomeno società, fuori dalle relazioni.
Con le implicazioni che ne conseguono. Così, destra e sinistra - con le loro tradizioni
culturali - stentano a dare risposte adeguate alle domande del tempo in cui viviamo. Che
mi sentirei di riassumere così: come riannodare sviluppo economico e sviluppo sociale
senza distruggere quella parte di eredità positiva lasciata dall’epoca della globalizzazione
espansiva? E quale idea di libertà ci serve oggi per trovare una sintesi nuova (e urgente)
tra crescita e democrazia? Gli ultimi eventi hanno messo in moto processi che suscitano
non poche preoccupazioni. Ma il gioco è ancora aperto e c’è ancora spazio per esiti
positivi. A condizione che, tanto a destra quanto a sinistra, si smetta semplicemente di
reagire a quanto sta accadendo e si torni finalmente a pensare e, prima ancora, a
ascoltare.
AVVENIRE di domenica 4 dicembre 2016
Pag 25 Laicismo, l’anti-religione contraria alla laicità di Fabrice Hadjadj
La parola “laico” è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in quella italiana. È
vero che l’udibile spicca meno del visibile; ecco perché il suono della parola “laico” ci
colpisce meno della visione di un crocifisso. Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi
sa ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno strano spettacolo:
alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo che si tratta invece di un martello
– o del segno più dell’addizione; si esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e
ci spiegano che è per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle religioni;
ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono persuasi di intonare un
ritornello del loro repertorio. Essi infatti dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò
che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza
accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall’eredità cristiana. Perché è in
primo luogo la teologia cattolica che distingue il laico dal chierico. Ed è sempre la
teologia cattolica che pone quella «separazione dei poteri» ben più fondamentale di
quella di Montesquieu, la separazione del potere temporale e del potere spirituale. A dire
il vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del
cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo aperto per la
bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili». Il vero teologo non può essere
fondamentalista: egli sa che, se Dio è trascendente, non fa parte delle evidenze
mondane (la verità «erra coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto
interessante che mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza
trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale pretende di
esibire la verità islamica, affermarla come un’evidenza di quaggiù). Allora, l’accesso a
tale trascendenza non può avvenire attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un
movimento intimo del cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede. Ora,
questa esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto. Ecco perché il campo della
fede è «aperto alla bestemmia». Si può dirlo in un altro modo prendendo il punto di
vista del bestemmiatore. Che cosa c’è dietro al piacere di bestemmiare? Da una parte ci
vuole che l’idea di Dio sia ancora abbastanza viva nella società. Se Dio – ahimè! – non
c’è, che divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie? Di questo si lamenta il Marchese
de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste
un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo più positivamente». Ma per
godere della bestemmia, non occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è
anche necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una società
completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato islamico è vietata. L’unica
configurazione perfetta per il blasfemo è quella di una società ancora cristiana. In una
tale società, Dio è ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato
come blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non condannare
troppo rapidamente uno che bestemmia. Ecco il paradosso implacabile con cui siamo
confrontati noi francesi e noi europei: affermare un «principio di separazione della
società civile e della società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame
privilegiato con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l’esistenza ebraica che le
è legata intimamente – la permanenza del popolo ebraico è un principio di pluralità
irriducibile all’interno del pensiero stesso della Chiesa). O, per dirlo in altro modo, la
neutralità dello stato a riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione
per l’eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o quella neutralità
diventa impotente, perché il neutro in sé non può produrre una qualsiasi
determinazione; o si trasforma in neutralizzazione e diventa la religione dell’antireligione, il laicismo. Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può affermarsi
che distinguendosi da un clero di cui riconosce l’esistenza. Può essere anticlericale, nel
senso di una diffidenza critica nei confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro
comportamenti, come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal
dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa costituendosi come un
nuovo e supremo clero. Quanti sedicenti difensori della laicità salgono in tribuna, più che
in cattedra, per pronunciare scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e
riduttore del dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di
fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare dell’enciclopedia, nel
quale D’Alembert deplora l’«abuso dell’autorità spirituale riunita a quella temporale» ma
commette egli stesso quell’abuso nel senso opposto.
IL GAZZETTINO di domenica 4 dicembre 2016
Pag 1 Petrolio, cosa frena la svolta di Romano Prodi
In questi giorni si parla molto di petrolio, per capire quello che è successo e per
prevedere quello che avverrà in futuro. Parlare del passato è facile, mentre esibirsi in
previsioni è più complicato. In poche righe proveremo a tentare un compromesso, cioè
di richiamare alcuni punti fondamentali del passato per tentare sensate ipotesi sul
futuro. Senza che questo si trasformi in vere previsioni. Il momento determinante del
crollo del prezzo del petrolio è fatto risalire alla riunione Opec del 27 novembre 2014 a
Vienna, dove l'Arabia Saudita decise di non calare la produzione nonostante l'eccesso di
offerta di greggio sul mercato, pur sapendo benissimo che questo avrebbe fatto crollare i
prezzi. Questa decisione, per molti osservatori incomprensibile, aveva obiettivi
molteplici: mettere alle corde il nemico Iran, gettare fuori mercato i nuovi protagonisti
del mercato del petrolio (cioè i produttori americani di Shale Oil) e rallentare il ritmo di
estrazione dei nuovi giacimenti che stavano entrando in produzione per effetto
dell'impressionante mole di investimenti realizzati in precedenza dalle grandi compagnie
multinazionali. In parole molto semplici l'Arabia Saudita, paese fornito di enormi riserve
finanziarie e produttore a costi più bassi di tutti, voleva mettere fuori gioco il più elevato
numero possibile di concorrenti, in modo da non intaccare le proprie quote di mercato.
Naturalmente il prezzo del petrolio è crollato, passando da oltre centodieci dollari al
barile a un minimo sotto i trenta all'inizio di quest'anno. Come prevedevano i sauditi,
molti dei nuovi produttori americani sono andati fuori mercato ma, nel frattempo, si
sono migliorate tecnologie e produttività così da diminuire in modo impressionante i
costi di estrazione sia dello Shale Oil che del petrolio convenzionale. In alcuni giacimenti
il crollo è stato di oltre il 40%: chi è sopravvissuto si è rafforzato, nuovi protagonisti
stanno entrando nel mercato e sono ora gli Stati Uniti, e non l'Arabia Saudita, i più
grandi produttori di idrocarburi nel mondo. Il concorrente iraniano, anche in
conseguenza di una prospettata distensione dei rapporti politici, sta lentamente
recuperando il ruolo che aveva avuto in precedenza e le grandi compagnie
internazionali, pur avendo fatto drasticamente calare i nuovi investimenti (da 700
miliardi di dollari del 2014 a 400 miliardi nel 2016: calo mai registrato) hanno continuato
a fare funzionare a ritmo elevato i giacimenti già in produzione. L'equilibrio fra la
domanda è l'offerta di petrolio si è andato gradualmente stabilizzando ad un livello dei
prezzi molto più basso di quello che i governanti sauditi avevano previsto al momento in
cui avevano deciso di continuare a spingere al massimo la loro produzione, mentre le
loro pur immense riserve di denaro si sono andate rapidamente assottigliando con la
necessità di attingere alla finanza internazionale. Da qui il cambiamento di rotta
avvenuto negli scorsi giorni alla riunione Opec di Algeri dove l'Arabia Saudita ha
annunciato, insieme ad altri paesi consociati, la decisione di ridurre la produzione di
grezzo. A questa decisione si sono uniti anche paesi produttori estranei all'Opec, tra i
quali la Russia, fortemente colpita dal ribasso dei prezzi degli idrocarburi. I prezzi sono
subito balzati sino a 54 dollari al barile, circa 15 in più di metà novembre, e molti
pensano che sia cominciata una nuova corsa al rialzo. Sempre che l'intesa di Algeri
tenga. A consolazione dei paesi importatori come l'Italia non credo che questo avvenga
perché un prezzo stabilmente sopra i 50 dollari spingerebbe migliaia di produttori
americani di Shale Oil a ricominciare a pompare mentre gli investimenti delle grandi
compagnie, anche se più lentamente, comincerebbero a risalire, impedendo un ulteriore
forte aumento dei prezzi. Pur restando fedele al fatto che descrivere il passato è più
facile che prevedere il futuro, è ragionevole quindi pensare che il prezzo del greggio non
dovrebbe spingersi oltre i 55 dollari al barile, stabilizzandosi in una possibile fascia di
equilibrio tra i 45 e i 55 dollari, rimanendo quindi sotto la metà del prezzo raggiunto
prima della recente crisi. Si tratta naturalmente di ragionamenti che prescindono dalla
possibilità di nuovi sconvolgimenti politici o di ulteriori radicali cambiamenti delle
tecnologie. Questa prudenziale riflessione si spinge naturalmente nel futuro per un
limitato numero di anni perché, guardando più lontano nel tempo, l'implementazione
dell'Accordo di Parigi per la limitazione delle emissioni clima-alteranti dovrebbe portare
alla progressiva marginalizzazione dei combustibili fossili tra i quali, ovviamente,
primeggia il petrolio. Naturalmente quando si legge nel nuovo piano quinquennale la
decisione della Cina di aumentare al 2020 la potenza elettrica a carbone del 20% per
200 Gwe (pari a quella della Germania) o che in Germania si aprono nuove miniere a
lignite (ancora più inquinante del carbone) non possono che nascere seri dubbi sulla
concretezza delle nuove politiche ecologiche decise nel grande summit che voleva
salvare il mondo. Penso infatti che le cose cambieranno veramente solo quando i sindaci
delle metropoli più inquinate del mondo, a partire dalla Cina e dall'India fino ad arrivare
alla pianura padana, saranno costretti a proibire il traffico delle automobili non elettriche
dal loro territorio. A questo punto però ci allontaniamo dalle pur incerte previsioni per
rifugiarci nei desideri o nei sogni.
CORRIERE DELLA SERA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 29 Il dramma della sinistra, perché si deve rifondarla di Aldo Cazzullo
Con l’umiliazione di Hollande, primo presidente della Quinta Repubblica a rinunciare di
propria volontà a ricandidarsi - Pompidou era morto -, il crollo della sinistra mondiale è
pressoché completo. Mancherebbe un solo tassello: la vittoria del No e la caduta del
governo Renzi. In Francia la Gauche con ogni probabilità sarà assente al ballottaggio per
le presidenziali, giocato tra le due destre di François Fillon e Marine Le Pen. I democratici
americani hanno appena perso ignominiosamente la Casa Bianca contro un miliardario
dal parrucchino arancione, che in un colpo solo ha distrutto Hillary e smitizzato Obama. I
socialdemocratici tedeschi sono docili cerbiatti che mangiano nelle mani della Merkel,
disposta a lasciare all’Spd la presidenza della Repubblica - che non conta molto più di
nulla - in cambio di un prolungamento dell’alleanza, che ormai non è più una Grande
Coalizione ma un centrosinistra saldamente guidato dal centro. I laburisti inglesi si sono
arroccati in una posizione radicale che li condanna alla sconfitta e all’irrilevanza. I
socialisti spagnoli si sono divisi tra la base, contraria a un accordo con la destra e
tentata dal patto con i guevaristi di Podemos, e il vertice, che sostiene con l’astensione il
governo Rajoy: una svolta imprevedibile in un Paese dove sino a due generazioni fa la
destra affidava gli oppositori di sinistra alla garrota. Se poi si guarda a Oriente, il quadro
è uniforme: la stagione dei socialisti alla Kwasniewski è alle spalle; l’Est europeo è
passato di fatto dal comunismo sovietico a una forma postmoderna di destra populista e
nazionalista, che domani potrebbe vincere le Presidenziali anche a Vienna. Il tutto
mentre a Mosca Putin regna indisturbato e tra Ankara e Istanbul gli oppositori
dell’islamico Erdogan riempiono le prigioni. Nell’America Latina impoverita dalla crisi
negli ultimi dodici mesi i peronisti di sinistra hanno perso il potere a Buenos Aires, Dilma
ha subito l’impeachment a Brasilia, Lula rischia pure lui la galera; e a completare il
quadro è arrivata pure la morte di Fidel Castro, che con la socialdemocrazia non
c’entrava molto ma ha gettato nella depressione una parte dell’opinione pubblica
europea, a lungo sensibile alla suggestione dei comunismi altrui, meglio ancora se
remoti e caraibici. Ovviamente ogni Paese rappresenta un caso a sé. Ma la tendenza è
mondiale: il vento della storia soffia a destra, nelle due varianti populista e liberista,
Trump e Wall Street (che spesso finiscono per mettersi d’accordo). La sinistra è
chiamata a rifondarsi, a ritrovare il rapporto con i ceti deboli e con le classi medie,
destrutturate dal crollo della produzione industriale e dalla rivoluzione digitale che
cancella posti di lavoro nei servizi. In questo momento drammatico arriva la sfida del
referendum italiano. Una trappola che Renzi si è costruito con le proprie mani: dopo aver
rotto con Berlusconi sull’elezione di Mattarella, ha perso per strada anche la minoranza
del suo partito, tentata dalle vendette personali e dalla possibilità di sbarazzarsi del
rottamatore, percepito fin dall’inizio come un alieno, un barbaro. E in effetti Renzi, a
catalogarlo con le categorie classiche della politica, è più un uomo di centro che di
sinistra. Ma l’idea che, tolto di mezzo l’usurpatore, tocchi a Speranza e a Pippo Civati,
con D’Alema che fa le riforme in cinque mesi insieme con Quagliariello, sarebbe
divertente se non fosse patetica. Il No di sinistra esiste, e potrebbe rivelarsi decisivo; ma
- come ha scritto Michele Serra - sarà sparutamente minoritario rispetto ai veri vincitori:
Grillo, Salvini, Meloni e lo stesso Berlusconi, cui si deve l’unica battuta decente della
campagna elettorale, il paragone Renzi-Balotelli. Bersani e i suoi, che hanno detto sei
volte in Parlamento Sì alla riforma e adesso voteranno No, vanno umanamente capiti:
finora sono stati regolarmente fregati da Renzi; la tentazione di essere loro a fregare lui
è apparsa irresistibile. Ma sulle prospettive che una vittoria del No apre per la sinistra
italiana - un accordo con Berlusconi con ritorno al proporzionale, o l’avvento di Grillo, o
un commissariamento del Paese tipo trojka - non splende certo il sol dell’avvenire.
LA REPUBBLICA di sabato 3 dicembre 2016
Pag 53 Tutti all’università del dialogo religioso di Raffaella De Santis
Da un’idea di Alberto Melloni, nasce domani a Bologna un’accademia europea per un
confronto tra fedi. Aderiscono ventimila studiosi da ogni parte del mondo
«La paura è la lingua franca del mondo globale. Un mondo in cui la violenza religiosa
occupa la scena pubblica da protagonista». Alberto Melloni parte da questa
considerazione per spiegare perché oggi più di ieri sia necessario non fuggire, non
rifugiarsi in facili semplificazioni: noi e loro, radicali e moderati, guerre terroristiche e
guerre giuste. E dato che la paura si alimenta con i luoghi comuni ed è nemica della
conoscenza, Melloni ha pensato di coinvolgere una rete internazionale di studiosi per
discutere di religioni. Una community ispirata all'American Academy of Religion ma ad
ingresso libero, che non richiede iscrizioni, dove un teologo di Casablanca potrà
confrontarsi con un'esegeta cristiano senza pregiudizi: «Puntiamo sulla funzione
levitante del pensiero. Siamo stanchi di una diplomazia delle autorità religiose troppo
spesso ostentata a favore di telecamera». Così, dopo tre anni di lavoro, domani e lunedì
verrà presentata a Bologna la European Academy of Religion, un network di intellettuali,
istituzioni e associazioni con radici in Europa ma diramazioni planetarie. «Il grande
assente sulla scena contemporanea è il sapere. E si sa che il fondamentalismo si
avvantaggia dell'ignoranza», spiega Melloni, soddisfatto della partecipazione di grandi
organizzazioni come il Forum di Davos e l'Unesco. Ad oggi l'Academy ha registrato oltre
cinquecento adesioni, ma ogni giorno se ne aggiungono nuove: università, centri di
ricerca, associazioni, organi di comunicazione (tra cui Repubblica, Ansa, Le Monde des
Religions e Rai). Hanno aderito più di 20 mila studiosi, confessionali e laici, dalle sponde
del Mediterraneo, alla Russia, dal Medio Oriente agli Stai Uniti. L'Academy si riunirà una
volta all'anno (primo appuntamento il prossimo maggio a Bologna). In questo colto
simposio che mette insieme filosofi, studiosi di religioni, sociologi, professori di diritto,
antropologi, esperti di media data, teologi, ognuno porterà in dote il proprio sapere. E se
oggi un confronto sereno su questi temi sembra un'utopia, Melloni scommette che «le
incompatibilità tra discipline e metodologie possano essere superate». Studioso di storia
del cristianesimo, Melloni aveva già perimetrato questo universo nel Dizionario del
sapere storico-religioso del '900. «Avevamo bisogno di un posto in cui incontrarci e
discutere», dice Silvio Ferrari. Il professore, che insegna diritto e religione all'università
di Milano ed è presidente onorario dell'International Consortium for Law and Religion
Studies, non è preoccupato della prossimità tra prospettive confessionali e scientifiche,
né del fatto che la facoltà di teologia di Atene si troverà a fianco dall'École Pratique des
Hautes Études di Parigi o il Centro Schuman condividerà lo spazio con un'associazione
religiosa iraniana o israeliana. Tutt'altro, è qui la sfida: «Sono molto interessato a
conoscere come parleranno di libertà religiosa le facoltà di teologia musulmane». Non
cadere in facili generalizzazioni. È senza dubbio questo il contributo più serio che
l'Academy può dare: la conoscenza come antidoto al linguaggio dell' odio e alle
generalizzazioni di cui si nutre. Tra cui, secondo Melloni, la contrapposizione tra
musulmani "radicali" e "moderati": «È una distinzione assunta acriticamente. Come se
un uso sanguinario della fede fosse più "radicale" di una pratica "spirituale"». Peter
Hünermann, teologo cattolico alla facoltà di Tübingen, ne fa una questione politica e
culturale: «Viviamo anni difficili, in cui si è inasprito lo scontro tra secolarismo e
religione. L'unica via per uscirne è affidarsi ad un processo di educazione della società».
Tra gli aderenti all' Academy c'è anche una battagliera teologa femminista, Marinella
Perroni: «La religione non è solo una questione privata. La Germania e la Francia hanno
università islamiche, in Italia invece stiamo ancora discutendo sul diritto dei musulmani
ad avere propri luoghi di culto». Dello stesso parere Susanna Mancini, professoressa di
Diritto costituzionale comparato: «Negli Stati Uniti ci sono le Divinity Schools, dove si
formano i rabbini o i pastori protestanti. Da noi invece non esiste niente di simile. Mi
auguro che l'Academy contribuirà ad avvicinare le nostre accademie alle scienze
religiose». Anche i dati aiutano ad erodere qualche luogo comune. Si prenda l'ultimo
dossier statistico del 2016 Idos-Confronti, diretto da Paolo Naso. Scopriamo che in Italia
ci sono più di 5 milioni di stranieri, vale a dire l'8,3% della popolazione residente, che è
di oltre 60 milioni. Tra questi, il primato numerico non è dei musulmani (1 milione e 600
mila), come erroneamente si pensa, ma dei cristiani ortodossi, protestanti e cattolici (2
milioni e 700 mila). Disinformazione, paura dello straniero e odio sono legati. Scrive
Bauman in Amore per l'odio: «Sembra che l'odio e la paura siano prigionieri di un circolo
vizioso, che si alimentino vicendevolmente e traggano l'uno dall'altra l'animosità e
l'impeto che li infiammano». È anche per questo che l'Academy punta a rimettere in
gioco la carta del sapere: per togliere finalmente alla paura il ruolo di decision maker.
AVVENIRE di sabato 3 dicembre 2016
Pag 3 L’ “atto dovuto” che meritiamo di Ferdinando Camon
Non solo caso Saronno: memoria, benzina, fiducia
La storia del medico anestesista di Saronno e dell’infermiera sua amante, che hanno
ucciso (così pare) numerosi pazienti con metodo e (questa è la parola più difficile da
aggiungere) con gioia, i lettori la leggono con emozione, perché un dubbio li tormenta: e
se capitasse a noi? come potremmo salvarci? Un giorno ci sentiamo male, ci portano
all’ospedale, ci scaricano in un reparto, siamo nelle mani di qualche medico e qualche
infermiere, e se questi sono pazzi? Se ci ammazzano? Questo è lo stato d’animo dei
lettori che ogni mattina leggono nuovi particolari sui cosiddetti 'amanti diabolici', che
programmavano ed eseguivano delitti a catena. Di chi possiamo fidarci? Perché è chiaro:
se siamo nelle mani di qualcuno, e quel qualcuno ci ammazza, allora il colpevole è lui, e
lui solo. Magari fosse così! Magari bastasse, in questo ospedale di Saronno, processare e
condannare il duo medicoinfermiera per poter dire che l’ospedale è bonificato! Ma qui il
problema non è 'perché un medico' o 'perché un’infermiera uccidevano', ma 'perché
nessuno li fermava'. Un funzionario di una struttura, ospedale esercito scuola…, può
impazzire, ma la struttura non può impazzire, deve funzionare in modo da bloccare la
pazzia, in un tempo ragionevolmente breve. Non deve succedere che, se in un ospedale
si ripetono a catena morti sospette, gli utenti di quell’ospedale se ne accorgano e si
facciano ricoverare in sedi più lontane, ma i dirigenti e gli amministratori non trovino
niente di sospetto. Qui il medico assassino aveva autorità e potere, era viceprimario,
stabiliva le terapie e dava ordini, ma qualcuno di questi ordini era così palesemente
insensato (per esempio, prescriveva una combinazione di farmaci troppo potenti e in
dosaggio troppo elevato), che c’era nel personale chi si rifiutava di eseguire la terapia.
La domanda (da semplice utente di ospedali, quale sono, che ogni tanto si ammala e si
fa curare) è: perché chi sta più in su non interveniva? Un caso mortale, può sfuggire.
Non dovrebbe sfuggire, perché anche un solo caso mortale (un omicidio volontario), in
un ospedale, dovrebbe allarmare tutta la catena dirigenziale, di quell’ospedale e dell’Usl
a cui appartiene. Però due morti sospette non devono passare. Tanto meno tre.
Impossibile quattro. Assurdo cinque o più. Adesso stanno spulciando una cinquantina di
casi. Allora qui si genera la psicosi. Non verso un medico o un’infermiera, ma verso la
struttura della Sanità. E la Sanità non lo merita, perché ha tanto personale eroico che
lavora e supplisce con fatica e sacrificio a carenze di ogni genere. L’utente non deve
sperare nella buona fede e nella capacità di un medico o di un infermiere, ma
nell’efficienza della struttura e nella bontà dei controlli. Qui il cervello m’impone un paio
di voli pindarici, che possono apparire non pertinenti, ma invece una relazione ce
l’hanno. È appena caduto quell’aereo in Colombia, e le registrazioni dei dialoghi tra la
torre di controllo e il pilota fanno pensare che sia caduto per mancanza di benzina.
Avrebbe finito la benzina 8 miglia prima dell’atterraggio. Qui non c’è da prendersela col
pilota, ma con le procedure: un aereo che parte per un volo ma ha un carico di benzina
insufficiente, non dovrebbe 'tecnicamente' poter partire. Un computer dovrebbe
bloccarlo. Io uso computer Apple, che all’inizio erano piccolini e delicati. Una volta ho
caricato un lungo elenco di titoli di libri e gli ho chiesto: 'Mettilo in ordine alfabetico'. Il
computer ha aperto una finestra e mi ha risposto: 'Ho scarsità di memoria, non avvierò
questa operazione'. Al pilota che accendeva i motori per quel volo, l’aereo doveva
rispondere: 'Ho scarsità di benzina, non partirò per questo volo'. E l’ospedale di Saronno
doveva dichiarare alla mattina: 'Ho scarsità di fiducia, non aprirò questo reparto'. È quel
che si dice 'un atto dovuto'.
IL FOGLIO di sabato 3 dicembre 2016
Pag 3 Anche il Vaticano contro l’Unesco
La Santa Sede prende posizione contro le risoluzioni antiebraiche
Poco più d'un mese dopo l'approvazione da parte dell'Unesco delle ultime (le ennesime)
risoluzioni che negano ogni legame del popolo ebraico con i luoghi santi di Gerusalemme
- vicenda segnalata dal Foglio, che per l'occasione aveva promosso una manifestazione
sotto la sede italiana dell' agenzia onusiana dedita a occuparsi di cultura - anche la
Santa Sede è intervenuta sulla questione. E i toni usati sono netti. La presa di posizione,
come è consuetudine quando la chiesa interviene in controversie che hanno a che fare
con la diplomazia, è giunta non nei giorni della polemica e dell'indignazione corale, bensì
quando le acque si sono calmate. A fare testo è il comunicato congiunto tra Vaticano e
Israele diffuso ieri. A emetterlo è stata la commissione bilaterale di cui fanno parte le
delegazioni del Gran rabbinato d'Israele e la commissione della Santa Sede per i
Rapporti religiosi con l' ebraismo, che si è riunita a Roma in questi giorni (tra i firmatari,
il rabbino Ratzon Arusi, il cardinale Peter Turkson e mons. Pierbattista Pizzaballa,
amministratore apostolico di Gerusalemme). Il testo critica "con forza il tentativo di
negare la storia biblica e il legame del popolo ebraico al proprio luogo più santo, il Monte
del Tempio". Cioè la parte delle risoluzioni che più aveva indignato il governo israeliano
e le varie comunità ebraiche all' estero.
Torna al sommario