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RASSEGNA STAMPA
lunedì 3 agosto 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
WELFARE E SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Redattore sociale del 03/08/15
Rosarno, giovani al lavoro per bonificare un
sito confiscato alle ‘ndrine
Protagonisti 18 giovani scout emiliani. L’iniziativa, rientra nel progetto
“Mestieri legali” sostenuto dalla Fondazione con il Sud e promosso sul
territorio da Arci e consorzio “Terre del sole”
REGGIO CALABRIA. Inizia domani a Rosarno il campo di lavoro organizzato dall’Arci
Calabria che è partner del progetto “Mestieri legali”, promosso dal consorzio “Terre del
sole” e sostenuto dalla Fondazione con il Sud. Ad animare il campo saranno 18 ragazzi
scout provenienti dall’Emilia Romagna, di età compresa tra i 18 e i 21 anni. Obiettivo del
campo di lavoro è quello di bonificare un sito confiscato alla ‘ndrangheta; un’area che vede
già impegnati anche i migranti del luogo e la cooperativa sociale Alba. L’esperienza del
campo di Rosarno rientra nell’iniziativa nazionale dell’Arci www.campidellalegalita.it,
giunta alla nona edizione e che, anche quest’anno dalla Lombardia alla Sicilia,
promuoverà campi e laboratori antimafia. Saranno dunque giorni caldissimi, non solo per
le alte temperature, ma soprattutto per il grande spirito di volontariato e l’impegno che i
ragazzi scout esprimeranno per rendere pubblico e fruibile a tutti, un luogo in cui si
annidava la cultura dell’illegalità.
I ragazzi del campo di lavoro saranno sostenuti, oltre che dai responsabili dell’Arci Reggio
Calabria, Dario Grilletto, Peppe Fanti e Alessandro Milardi, dai tecnici di Legambiente.
Tutte le mattine, domani fino al 9 del mese, gli scout emiliani saranno impegnati a
rassettare l’area che diverrà un parco fluviale. “Per i giovani volontari – afferma Davide
Grilletto, presidente dell’Arci reggina – sarà un’occasione privilegiata per interagire
criticamente con il territorio, rielaborandone gli stimoli e i messaggi con lo spirito di chi
sappia cogliere, leggere e scegliere il bello dei luoghi e delle persone”. Grilletto aggiunge:
“Il campo dà opportunità per osservare le tante contraddizioni del nostro territorio ma, al
tempo stesso, fa incontrare chi ostinatamente, in terra calabrese, si adopera per
un’autentica sfida al cambiamento. Uomini e donne che aspirano ad abitare uno spazio di
cittadinanza sostenibile e responsabile, dove l’economia, lo sviluppo, il lavoro diventino
leve per scardinare l’esistente e non rappresentino invece drammi quotidiani”.
Le attività del campo partiranno domani, prima domenica di agosto, nei locali della scuola
dell’infanzia di Rosarno con l’incontro di presentazione del progetto “Mestieri Legali”.
Durante il loro soggiorno nella Piana, i giovani ospiti emiliani visiteranno sia i terreni della
cooperativa “Valle del Marro” che il porto di Gioia Tauro. “Questa prima esperienza dei
campi di lavoro – spiega Nuccio Quattrone, presidente del consorzio “Terre del Sole” –
alimenta sia lo spirito positivo del lavoro volontario per trasformare un bene confiscato in
uno spazio di condivisione, sia l’attenzione che tutto il Paese deve riservare a queste
dinamiche di cambiamento partendo dal basso. La presenza di questi ragazzi emiliani che
arrivano da Faenza, è uno stimolo affinché altrettanti giovani calabresi vogliano
impegnarsi in prima persona in questa che è una grande azione culturale, prima ancora
che lavorativa”. (msc)
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Da la stampa.it del 01/08/15
Musica da ascoltare e vedere a Conturbia
Festival con il trasformista Michele Tomatis
Stasera lo show dalle 22 al circolo Arci, domani alle 22 sfida tra band
Il trasformista Michele Tomatis vestirà i panni di personaggi famosi o
fantastici
chiara fabrizi
agrate conturbia
Con «Mt Live» la musica si ascolta e si vede. Il cantante-trasformista Michele Tomatis
stasera alle 22 al «Conturbia Festival» sarà mattatore sui maggiori successi dagli Anni 60
a oggi sul grande palco nell’area del circolo Arci in via del Castello ad Agrate Conturbia.
Nei 90 minuti di show, Tomatis si cambierà d’abito per ben 40: personaggi famosi o
fantastici, interpreti di successi italiani e stranieri. Il cartellone del «Conturbia Festival»
prosegue sempre con tanta musica e divertimenti: il binomio ha consentito alla festa,
organizzata dal Circolo Arci di Conturbia, di diventare un festival per persone d’ogni età.
Quattro band in gara
Anche quest’anno ci sarà uno spazio per le band emergenti. Domani alle 22 il «Conturbia
Contest»: sfida a quattro con i «Frozen Sand», «2nds Out», «Matchbox», «Men at work».
Prima, un momento per giovanissimi e famiglie. «E’ una delle novità dell’edizione - dice
Davide Sacchi, uno degli organizzatori -. Vogliamo allargare il nostro pubblico e
diversificare l’offerta. Per questo motivo alle 19 proporremo lo spettacolo dei “Violetta
Mania”, la prima tribute band italiana a Violetta, idolo dei teen ager». «Violetta Mania» si
compone di band ed ensemble di ballo del quale fanno parte artisti che vantano
collaborazioni importanti come Veronica Appeddu che sarà Violetta. Con la «Shary Band»
lunedì 3 agosto si chiude il «Conturbia Festival»: alle 22 parte lo show interamente
dedicato alla dance degli ultimi decenni. Tutti i concerti e gli spettacoli sono a ingresso
libero e si tengono in un’area attrezzata e coperta: si può cenare dalle 20 con ricca scelta
di piatti.
http://www.lastampa.it/2015/08/01/edizioni/novara/spettacoli/musica-da-ascoltare-evedere-a-conturbia-festival-con-il-trasformista-michele-tomatis8hh3RLa286NRB4134SZjhN/pagina.html
Da Repubblica.it (Roma) del 03/08/15
Roma: le iniziative di "Accogliamoci" per i
campi rom
Il Comitato Promotore della campagna lanciata da alcuni organismi (Associazione 21
luglio, Radicali Roma, A Buon Diritto, Cild, Possibile, ASGI, ZaLab, Arci, Un Ponte Per) ha
illustrato alla comunità rom di Castel Romano due iniziative popolari per le quali è stata
avviata una raccolta di firme. Una riguarda il superamento dei campi rom nella capitale
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attraverso l'inclusione sociale; l'altra, invece, è relativa alla riforma del sistema di
accoglienza per i rifugiati
http://video.repubblica.it/mondo-solidale/roma-le-iniziative-di-accogliamoci-per-i-campirom/208650/207752
Da Redattore Sociale del 31/07/15
"Ramazzatori di Roma uniamoci!": lettera
delle associazioni a Gassmann
L’associazionismo romano risponde all’appello dell’attore e di altri
personaggi dello spettacolo per il risveglio civico della città “Diamo vita
a una rete di cittadini, ripuliamo ognuno il suo pezzo di territorio e
chiediamo di essere amministrati meglio”
ROMA - “Ramazzatori di tutta Roma uniamoci. Impugniamo scopa e sacchetti: pulire il
proprio pezzo di territorio significa la partecipazione di chi ama la propria città e non
accetta il degrado etico-morale e culturale e l’abbandono che vive Roma”. Lo scrivono le
associazioni romane in una lettera aperta indirizzata ad Alessandro Gassman e altri
personaggi dello spettacolo (Massimo Wertmuller, Luca Barbarossa, Gigi Proietti, Carlo
Verdone) che in queste settimane hanno lanciato vari appelli per il risveglio civico della
città. Il più discusso è stato quello di Gassman che in un tweet dall’hastag #Romasonoio
esortava: “Noi romani dovremmo metterci una maglietta con su scritto “Roma sono io”,
armarci di scopa, raccoglitore e busta per la mondezza, e ripulire ognuno il proprio
angoletto di città. Roma è nostra da settembre scendo in strada anch’io, voglio vederla
pulita. Diffondete questa notizia, fatelo anche voi. Basta lamentarsi, basta insulti,
FACCIAMO!
“Non vogliamo che quell’idea cada nel vuoto – spiega Pino Galeota, dell’associazione di
quartiere Corviale domani – Serve una battaglia culturale non per evitare che rimanga solo
un’iniziativa di un minuto, un episodio isolato. Pensiamo che ripulire, da parte di chi vuole
e rivendica fortemente una rinata voglia di partecipazione e senso civico, può stimolare la
Pubblica amministrazione a compiere il proprio dovere per il bene comune. Dobbiamo
pulire Roma per dire, ad alta voce, non sporchiamo la città che amiamo e amministrateci
con il mandato che vi abbiamo affidato. Rimuovere i rifiuti per affermare: ognuno lavori con
professionalità e responsabilità per ciò che è pagato”.
Nella lettera le associazioni propongono anche un incontro con l’attore romano per la
costruzione di “una rete sempre più ampia di cittadini nella quale si costruiscano iniziative
utili al nostra città. L’associazionismo romano - aggiungono - conferma, come ogni giorno,
la sua presenza a fianco delle migliaia di cittadini, che hanno risposto all’appello di
Alessandro Gassman e di tanti altri artisti e operatori culturali. C’è bisogno di amore e
pulizia in ogni momento e in ogni settore della nostra vita” conclude la lettera. Tra i
firmatari: Acli, Arci, Agci, Assoutenti, trasporti lazio, Azione civile, Carte in regola, Centro
astalli, Cesv, Cilap, Cittadinanza attiva, Corviale domani, Casa diritti sociali, Forum terzo
settore lazio, Fish, e molte altre. (ec)
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Da Redattore Sociale del 31/07/15
"Prendiamoci cura di Roma": arriva il
Manifesto per il Giubileo delle associazioni
Ventiquattro realtà insieme per costruire un nuovo Patto di Comunità
nella Capitale. “Condividiamo l’urgenza di metterci la faccia per dare
concrete risposte a questa crisi etica e morale che ha investito Roma”.
Una serie di proposte e iniziative saranno sottoposte
all’amministrazione
ROMA – Una cabina di regia inclusiva e operativa per rispondere ai problemi quotidiani
che si verificano a Roma, un censimento delle principali attività presenti nei municipi e
nelle periferie, fondi per la ristrutturazione e la manutenzione dei territori e presidi
strutturati per il contrasto della povertà, basati sul “principio del non si butta via nulla”
ovvero del riuso, riciclo e della sicurezza alimentare. Sono questi i punti principali del
Manifesto per il giubileo proposto da un cartello di ventiquattro associazioni: dall’Arci alle
Acli, passando per il Cesv, il Centro Astalli, Cittadinanzattiva, Forum Terzo settore, e molte
altre, sia nazionali che locali.
“Prendiamoci cura della nostra città” è lo slogan scelto dai promotori dell’iniziativa. “Il
nostro obiettivo – spiegano – è recuperare un ritardo nei confronti della comunità cittadina,
e un’inspiegabile assenza che la vedrà coinvolta direttamente. Noi ci siamo –aggiungono –
come ogni giorno, insieme a tante altre realtà associative e ai cittadini con senso civico”.
Già nel 1998, in vista del Giubileo del 2000, fu costituita un’iniziativa per mettere insieme
comitati di quartiere, associazioni volontariato e cittadini. Ora l’idea è quella di replicare
l’esperienza in vista del Giubileo della misericordia. “Ventiquattro associazioni, mondi e
realtà diverse, giorno dopo giorno, danno risposte alle necessità, ai bisogni, al disagio
sociale e ad una migliore qualità del vivere dei nostri concittadini, oggi condividono
l’urgenza di “metterci la faccia” per dare concrete risposte a questa crisi etica e morale che
ha investito Roma, la nostra Roma – aggiungono -C’è bisogno di amore e pulizia. Ben
vengano tanti altri cittadini ramazzatori portatori di una rinata voglia di partecipazione e
senso civico. Questo percorso lo faremo, quotidianamente come siamo abituati,
insieme.La presenza di milioni di pellegrini e visitatori inciderà sulla qualità e quantità dei
servizi pubblici - trasporti, sanità e rifiuti tanto per citarne alcuni - che sono già in grande
sofferenza. Queste presenze, se non gestite in uno spirito di condivisione con i residenti
romani - rischiano di entrare in rotta di collisione con una Comunità cittadina esasperata e
incattivita.
Roma, da sempre, città dell’ospitalità e dell’accoglienza - non può permetterselo e non
merita questo. Dobbiamo uscire da una situazione difensiva, subalterna e di
rassegnazione: è tempo di ricostruire - dopo gli anni dell’abbandono della città e della
corruzione mafiosa – un tessuto partecipativo e l’immagine della Capitale d’Italia”.
I promotori del Manifesto sottoporranno agli amministratori locali un “Patto di Comunità”:
una serie di “proposte e progetti fattibili inseriti una visione di città da trasformare e
rivendicheremo una partecipazione diretta del mondo dell’associazionismo e delle decine
di migliaia di cittadini che in parte rappresentiamo”. Le varie iniziative verranno
comunicate, giorno dopo giorno. “Far crescere i contatti e i cittadini attivi è un impegno
serio e costruttivo. Per conto nostro metteremo a disposizione i nostri rapporti, apriremo
un giornale on-line, dialogheremo con i social e le altre testate presenti in rete, apriremo
un sito accessibile e linkabile, insomma faremo in modo che sia un Giubileo 2.0”. (ec)
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 03/08/15, pag. 14
Censimenti. Dal 2016 l’Istat avvierà un monitoraggio annuale sui dati
relativi al mondo del volontariato
Un Terzo settore più aggiornato
Con le rilevazioni si potranno indagare nuove dimensioni della
generosità
Finito il tempo delle lunghe attese per l’aggiornamento dei dati sul settore non profit. Nel
corso del 2016 l’Istituto nazionale di statistica provvederà alla realizzazione del nuovo
censimento, che segue quello pubblicato nel 2012 (su dati 2011) e atteso per dieci anni.
Sempre dal prossimo anno il «censimento diventerà continuo », come annuncia Roberta
Piergiovanni dell’Istat, grazie ad «aggiornamenti annuali e indagini multiscopo» che
consentiranno di monitorare con regolarità l’andamento del Terzo settore.
Le prime reazioni all’annuncio, avvenuto a Milano nel corso di un incontro di Assif
(Associazione italiana fundraiser), sono molto positive e confermano la fame di dati sicuri.
Quelli di Istat sono dati reali e accertati. Inoltre, se rilevati su base regolare, potrebbero
essere confrontati con i dati dello stesso Istituto sui cittadini e relativi alle dimensioni del
benessere sociale, per indagare nuove dimensioni della generosità.
Un altro elemento accolto con grande favore è la disponibilità pubblica - attraverso il sito
dell’Istituto - dei metadati su cui si basano le rilevazioni. Una riflessione condivisa e
ampiamente accettata degli stessi potrebbe portare a una migliore definizione delle
classificazioni utilizzate - le tipologie di istituzione, le modalità di donazione, tra gli altri favorendo il confronto e restituendo una fotografia più accurata del settore.
Attualmente non è così semplice fare chiarezza sui numeri del non profit, tra stime e
realtà, soprattutto riguardo alla raccolta fondi.
Tutte le ricerche confermano il fatto che gli italiani sono generosi e che ci sono nuove
possibilità da perseguire per le donazioni da privati: testamenti, collaborazioni con le
aziende, nuovi strumenti e canali web e social.
Occorre però tenere bene a mente la differenza tra dati reali e previsioni, soprattutto per
chi di mestiere deve trasformare una disponibilità a donare in euro effettivi.
Con riferimento alle organizzazioni del non profit si affiancano al censimento di Istat le
ricerche basate sui dati di bilancio e la rilevazione dell’Istituto della donazione sugli iscritti,
che ha il vantaggio della regolarità e della possibilità del confronto periodico e che, al di là
delle performance, conferma un’accresciuta concorrenza all’interno del settore non profit.
Dal lato dei donatori c’è un’oggettiva difficoltà all’accesso di dati reali da fonte diretta e
prevalgono le analisi basate su stime.
Doxa realizza dal 2001 l’indagine su un campione di circa mille “Italiani solidali”, integrata
dalle rilevazione sugli internauti (Donare 3.0) e in futuro dal monitoraggio su web relativo
alla propensione a donare.
La vera sfida per il futuro consiste nella possibilità di una valutazione incrociata per
verificare la generosità degli italiani, cittadini e imprese, con quanto effettivamente raccolto
dal non profit, evitando pericolose duplicazioni.
Il punto di arrivo ideale sarebbe la verifica con i dati ufficiali del ministero delle Finanze
sulle dichiarazioni dei redditi.
Rispetto alla destinazione dei fondi tutte le fonti concordano che l’area della sanità attira
più donazioni, anche perché è una buona causa facilmente comprensibile, ma ci sono
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ampi spazi di crescita per chi è in grado di lavorare su esperienza e relazioni con il
donatore e facendo leva sulle nuove volontà di essere protagonisti attivi, occuparsi di
cause vicine e di partecipare a comunità riunite attorno a valori.
Venendo agli strumenti della raccolta fondi, attualmente quella che l’Istat individua come
“contatto diretto” è di gran lunga la scelta più efficace, ma si tratta di una definizione
eccessivamente generica.
Nel frattempo si vanno affermando anche i contorni della figura del fundraiser di
professione. Si tratta in prevalenza di profili sviluppati all’interno dello stesso settore non
profit, con una forte formazione specifica e un grande impegno nella raccolta fondi da
aziende e istituzioni. Una figura professionale destinata a crescere, anche in
considerazione del numero relativamente piccolo di addetti e di organizzazioni che
attualmente dichiarano di fare raccolta fondi (circa 60mila, il 20% del totale).
Antonella Tagliabue
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ESTERI
del 03/08/15, pag. 1/12
Lo scrittore interviene sulle violenze degli ultimi giorni: “Com’è
possibile che il governo ignori il legame tra il fuoco che attizza e le
fiamme di oggi? Contro i fanatici bisogna combattere come contro il
terrorismo”
Il mio appello alle destre israeliane
DAVID GROSSMAN
QUEL BAMBINO, Ali Saad Dawabsheh, non mi esce di mente. Nemmeno la scena mi
esce di mente: la mano di un uomo apre una finestra in piena notte e lancia una bottiglia
incendiaria in una stanza dove dormono madre, padre e due bambini. I pensieri, le
immagini, sono strazianti. Chi è la persona, o le persone, capaci di un simile gesto? Dopo
tutto loro, o i loro complici, questa mattina girano ancora fra noi. È forse possibile veder
loro addosso un segno di ciò che hanno fatto? E cosa hanno dovuto cancellare dentro di
loro per voler annientare così un’intera famiglia?
Benjamin Netanyahu e alcuni ministri di destra si sono affrettati a condannare con
fermezza l’omicidio. Netanyahu si è anche recato in ospedale per una visita di
condoglianze e ha espresso sgomento per l’accaduto. La sua è stata una reazione umana,
sincera, e la cosa giusta da fare. Ciò che è difficile capire è come il capo del governo e i
suoi ministri possano ignorare il legame tra il fuoco da loro attizzato per decenni e le
fiamme degli ultimi avvenimenti. Come non vedano il nesso tra l’occupazione della
Cisgiordania che dura da quarantotto anni e la realtà buia e fanatica creatasi ai margini
della coscienza israeliana.
Una realtà i cui sostenitori e propugnatori aumentano di giorno in giorno, che si fa sempre
più centrale, accettabile e legittima agli occhi dell’opinione pubblica, della Knesset e del
governo.
Con una sorta di ostinata negazione della realtà il primo ministro e i suoi sostenitori si
rifiutano di capire nel profondo la visione del mondo che si è cristallizata nella coscienza di
un popolo conquistatore dopo quasi cinquant’anni di occupazione. L’idea, cioè, che ci
sono due tipi di esseri umani. E il fatto che uno sia assoggettato all’altro significa,
probabilmente, che per natura è anche inferiore all’altro. È, come dire, meno “umano” di
chi l’ha conquistato. E questo fa sì che persone con una certa struttura mentale prendano
la vita di altri esseri umani con agghiacciante facilità, anche se quell’essere umano è un
bambino di solo un anno e mezzo.
In questo senso, gli episodi di violenza dello scorso fine settimana (l’aggressione al Gay
Pride e l’omicidio del bambino) sono interconnessi e scaturiscono da una simile visione del
mondo: in entrambi l’odio — l’odio in sé, essenziale, istintivo — è per alcuni un motivo
legittimo e sufficiente per uccidere, per distruggere la persona odiata. Chi ha dato fuoco
alla casa della famiglia Dawabsheh non sapeva nulla di loro, dei loro desideri, delle loro
opinioni. Sapeva solo che erano palestinesi e questo per lui, per i suoi mandanti e
sostenitori, era una ragione sufficiente per ucciderli. In altre parole la loro stessa esistenza
giustificava, a suo vedere, l’omicidio e la loro scomparsa dalla faccia della terra.
Da oltre un secolo israeliani e palestinesi girano e rigirano in una spirale di omicidio e
vendetta. Nel corso della lotta i palestinesi hanno trucidato centinaia di bambini israeliani,
sterminato intere famiglie e commesso crimini contro l’umanità. Anche lo stato di Israele
ha compiuto azioni analoghe contro i palestinesi utilizzando aerei, carri armati e armi di
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precisione. Ricordiamo bene ciò che è successo un anno fa durante l’operazione “Margine
di protezione”.
Ma il processo in atto in questi ultimi anni all’interno di Israele, la sua forza e le sue
ramificazioni maligne sono pericolosi e devastanti in un modo nuovo e insidioso. Si ha la
sensazione che nemmeno ora la leadership israeliana capisca (o rifiuti di ammettere una
realtà che le è insopportabile) che elementi terroristici al suo interno le hanno dichiarato
guerra e che essa non è in grado, oppure teme, oppure è incerta se sia il caso di decifrare
questa dichiarazione in maniera esplicita.
Giorno dopo giorno escono allo scoperto forze brutali e fanatiche, oscure ed ermetiche nel
loro estremismo. Forze che si esaltano alla fiamma di una fede religiosa e nazionalista e
ignorano completamente i limiti della realtà e le regole della morale e del buon senso. In
questo turbinio interiore la loro anima si intreccia inesorabilmente con le linee più radicali,
e talvolta più folli, dello spirito umano.
Più la situazione si fa pericolosa e incerta, più queste forze prosperano. Con loro non ci
può essere nessun compromesso. Il governo israeliano deve combatterle esattamente
come combatte il terrorismo palestinese perché non sono né meno pericolose né meno
determinate. Sono forze massimaliste e in quanto tali, si sa, potrebbero anche commettere
errori madornali. Per esempio colpire le moschee sulla Spianata del Tempio, un atto che
potrebbe avere conseguenze disastrose per Israele e per tutto il Medio Oriente.
È possibile che l’orribile fine del bimbo bruciato vivo riscuota i leader della destra e li porti
a capire finalmente ciò che la realtà grida alle loro orecchie da anni? Ovvero che
l’occupazione e la mancanza di un dialogo con i palestinesi potrebbero avvicinare la fine di
Israele in quanto stato del popolo ebraico e paese democratico? Come luogo con il quale i
giovani si identificano, dove vogliono vivere e crescere i loro figli?
Netanyahu capisce veramente, nel profondo, che in questi anni, mentre si dedicava anima
e corpo a ostacolare l’accordo con l’Iran, si è creata qui una realtà non meno pericolosa
della minaccia iraniana? Una minaccia dinanzi alla quale lui appare smarrito e si comporta
di conseguenza?
È difficile vedere come sia possibile sbrogliare questo groviglio e riportare le cose a una
situazione di razionalità. La realtà creata da Netanyahu e dai suoi amici (nonché dalla
maggior parte dei suoi predecessori), la loro acquiescenza all’attivismo dei coloni, la loro
profonda solidarietà con loro, li hanno catturati in una rete che li ha resi impotenti e
paralizzati.
Da decenni Israele mostra ai palestinesi il suo lato oscuro. L’oscurità, da tempo ormai, è
filtrata al suo interno e questo processo si è accelerato notevolmente in seguito alla vittoria
di Netanyahu alle ultime elezioni dopo la quale nessuna forza contrasta più l’arroganza
della destra.
Episodi orrendi come l’omicidio del bambino bruciato vivo sono in fondo il sintomo di una
malattia molto più grave e segnalano a noi israeliani la serietà della nostra situazione
dicendoci, a lettere di fuoco, che la strada per un futuro migliore ci si sta chiudendo
davanti.
© David Grossoman 2015 Traduzione di Alessandra Shomroni
del 03/08/15, pag. 12
Attacco al Gay pride,muore 16enne
Netanyahu: “Ora arresti preventivi”
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GERUSALEMME.
Dalle parole ai fatti. Dopo l’annuncio della morte della ragazza di 16 anni accoltellata al
Gay Pride, il premier israeliano Benjamin Netanyahu si è trovato — per la terza volta in
pochi giorni — a condannare «l’ennesimo delitto con cui si tenta di minare i valori
fondamentali della società israeliana». Sotto la spinta del ministro della Difesa Moshe
Ya’alon, il governo di Gerusalemme ha deciso ieri di usare la mano dura contro gli
estremisti ebrei e le frange religioso-messianiche che lo stesso primo ministro ha
qualificato “terroristi”. Yishai Schlissel, il fanatico accoltellatore, si rifiuta di riconoscere
“l’autorità del tribunale di Israele” ed è questa un’altra sfida che il mondo ultra-ortodosso (i
loro rabbini invitano da sempre i giovani a rifiutare il servizio militare) lancia al governo
della destra. Che oltre che col “terrorismo ebraico” deve continuare a fare i conti con le
proteste che incendiano i Territori palestinesi dopo l’assassinio del piccolo di 18 mesi Ali,
bruciato vivo in un villaggio palestinese (con i genitori e il fratellino ancora in condizioni
critiche). Gli scontri più violenti si sono avuti davanti alla moschea di Al Aqsa, nella Città
vecchia della capitale, quando gruppi di giovani palestinesi col volto coperto hanno iniziato
a lanciare sassi e altri oggetti contro le forze di polizia che da giorni presidiano i punti
nevralgici di Gerusalemme. Ieri Moshe Ya’alon ha autorizzato la “detenzione
amministrativa” contro i leader dei gruppi dell’estrema destra ebraica e per i militanti
sospettati di farne attivamente parte. Nei loro confronti verranno applicate (cosa che finora
non era mai stata fatta) le stesse procedure di sicurezza adottate contro i palestinesi
sospettati di compiere attacchi terroristici. E alla riunione settimanale dell’esecutivo
Netanyahu ha ribadito la nuova linea contro gli estremisti: “tolleranza zero”.
(a.f.d’a.)
del 03/08/15, pag. 17
Iran, in carcere sei anni per un blog «Quella
Rete non c’è più»
Lo spirito aperto e decentrato è perduto, sui social vincono «like» e
intrattenimento E ora le autorità non hanno paura del web
di Hossein Derakhshan
Sette mesi fa mi sono seduto al tavolo di cucina nel mio appartamento anni Sessanta,
annidato all’ultimo piano in un vivace quartiere del centro storico di Teheran, e ho ripetuto
un gesto che avevo fatto già migliaia di volte in passato. Ho aperto il mio pc portatile e ho
pubblicato le mie osservazioni nel mio nuovo blog. Ma era la prima volta da sei anni a
questa parte, e ho provato un colpo al cuore.
Qualche settimana prima, ero stato amnistiato e scarcerato dalla prigione Evin, a nord di
Teheran. Pensavo che avrei passato il resto della mia vita in quelle celle. Nel novembre
del 2008 ero stato condannato a quasi vent’anni di carcere, per quello che avevo scritto
nel mio blog. Ma il momento della liberazione è giunto del tutto inatteso. Ho fumato una
sigaretta in cucina con uno dei miei compagni di prigionia e siamo tornati insieme nella
stanza che condividevo con una decina d’altri uomini. Una voce si è diffusa in tutte le celle
e per i corridoi, in un tono privo di particolari emozioni: «Cari amici detenuti, l’uccello della
buona sorte si è posato sulle spalle di un nostro compagno di prigione. Signor Hossein
Derakhshan, lei è un uomo libero».
Quella sera, per la prima volta, ho varcato la porta del carcere da uomo libero. Ogni cosa
mi appariva nuova, la fredda brezza autunnale, il rumore del traffico, gli odori e i colori
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della città in cui ero sempre vissuto. Nuovi palazzi, spudoratamente lussuosi, avevano
preso il posto delle casette che ricordavo. Immensi cartelloni con la pubblicità di orologi
svizzeri e di schermi televisivi piatti prodotti in Corea. Donne con sciarpe e soprabiti
colorati, uomini con capelli e barbe tinte, e centinaia di caffè con cameriere e musica
occidentale. Questi cambiamenti avvengono gradualmente, ma ti balzano all’occhio
quando sei stato tenuto lontano per tanto tempo dalla vita quotidiana. Due settimane più
tardi mi sono rimesso a scrivere. Alcuni amici mi hanno consentito di cominciare un blog in
una rivista d’arte. L’ho chiamato Ketabkhan, «lettore di libri». Sei anni di galera sono stati
lunghi, ma nella vita online rappresentano un’era geologica. Scrivere e pubblicare su
internet non è cambiato ma leggere — e farsi leggere — è mutato drasticamente. Ho
provato a postare su Facebook un link a una delle mie storie, e ho scoperto che Facebook
restava indifferente. Il mio link finiva per somigliare a una pubblicità. Ha ricevuto tre «mi
piace». Tre! Ed è finita lì. In quel momento, ho capito chiaramente che le cose erano
cambiate.
Nel 2008, quando mi hanno arrestato, i blog erano oro puro e i blogger vere e proprie rock
star. Malgrado il fatto che il governo avesse bloccato l’accesso al mio blog in Iran, potevo
contare su un pubblico di ventimila persone ogni giorno. Dove mi connettevo, scattava un
balzo di traffico: potevo dare voce a chi volevo, o discutere e criticare a piacimento. La
gente leggeva i miei post e lasciava una quantità di commenti interessanti, e persino quelli
che si dichiaravano fortemente in disaccordo venivano a curiosare. Altri blog si
collegavano al mio per discutere su vari argomenti. Mi sentivo un re. A quell’epoca
l’iPhone era comparso da poco più di un anno, ma gli smartphone erano usati soprattutto
per telefonare, inviare brevi messaggi, aprire l’email. Non esisteva Instagram, né
SnapChat, né Viber, né WhatsApp. I blog erano il luogo ideale dove reperire il pensiero
alternativo, assieme a notizie e analisi di vario genere. Erano la mia vita.
Tutto era cominciato con l’11 settembre. Mi trovavo a Toronto e mio padre era appena
arrivato da Teheran. Stavamo facendo colazione quando il secondo aereo si è schiantato
contro il World Trade Center. Sono rimasto sbigottito e confuso e, in cerca di idee e
spiegazioni, mi sono imbattuto nei blog. Dopo averne letto qualcuno, ho pensato: Ecco,
anch’io dovrei aprirne uno e incoraggiare tutti gli iraniani a partecipare. Ho cominciato a
scrivere su hoder.com, servendomi della piattaforma editoriale di Blogger, prima che fosse
acquistata da Google. Poi, il 5 novembre del 2001, ho pubblicato una guida su come
iniziare un blog. La cosa ha innescato quella che poi è stata definita la rivoluzione del blog.
Ben presto centinaia e migliaia di iraniani si sono dedicati a questa attività, facendo salire il
Paese tra i cinque principali per numero di blog. Ero orgoglioso di aver contribuito a questa
democratizzazione della scrittura senza precedenti. Appena ventenne, ero stato
soprannominato il «blogfather», il padrino del blog, nomignolo sciocco, è vero, ma che
lasciava intuire quanto fosse profondo il mio coinvolgimento.
C’è una storia nel Corano a cui ho riflettuto molto durante i miei primi otto mesi di
isolamento in carcere. Un gruppo di cristiani perseguitati si rifugia in una grotta, dove tutti
cadono in un sonno profondo. Quando si svegliano, hanno l’impressione di aver fatto un
sonnellino, in realtà hanno dormito per trecento anni. Uno di loro si azzarda all’esterno per
procurarsi da mangiare — immaginiamo la fame dopo tre secoli di digiuno — e scopre che
il suo denaro è diventato un reperto da museo. Solo allora capisce davvero la durata del
loro lungo sonno. L’hyperlink, o link ipertestuale, era la mia moneta corrente sei anni fa.
Nata dall’idea dell’ipertesto, l’hyperlink forniva quella diversità e decentralizzazione che
mancavano nel mondo reale. Incarnava lo spirito aperto e interconnesso della Rete, nella
visione del suo inventore, Tim Berners-Lee. I blog davano forma a quello spirito di
decentralizzazione, erano finestre nella vita di persone di cui non sapevi nulla; erano ponti
che collegavano esperienze diverse le une alle altre e le cambiavano. Ma da quando sono
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uscito di galera, ho capito fino a che punto l’hyperlink sia stato svalutato. Quasi ogni social
network oggi tratta il link come qualsiasi altro oggetto, come un’immagine o un testo. Ti
incoraggiano a postare un unico hyperlink e sottoporlo a un processo simil-democratico di
«mi piace», di «più» e «cuoricini». Gli hyperlink sono stati spogliati dei loro poteri. Ancor
prima di andare in prigione, avevo notato che la forza degli hyperlink stava subendo una
contrazione. Il suo nemico era una filosofia che combinava due dei valori più diffusi e
sopravvalutati dei nostri tempi: la novità e la popolarità. Quella filosofia è Stream . Lo
streaming oggi domina il modo in cui la gente riceve informazioni sul web. Un numero
sempre minore di utenti utilizza direttamente le pagine web specializzate, mentre la
stragrande maggioranza riceve un flusso continuo e inarrestabile di informazioni
selezionate da algoritmi tanto complessi quanto segreti. Non c’è alcun dubbio che la
diversità di temi e opinioni online oggi è meno ricca. Le idee più insolite e stimolanti
vengono soppresse dai social network perché le loro strategie di classificazione
privilegiano ciò che è noto e popolare.
La conseguenza più preoccupante della centralizzazione dell’informazione nell’epoca dei
social network è che ci rende sempre più impotenti nei nostri rapporti con i governi e i
poteri economici. È in atto un’operazione sempre più estesa di sorveglianza sulla vita
civile. L’unico modo per sottrarsi potrebbe essere quello di ritirarsi in una grotta e di
addormentarsi, anche se dubito che riusciremmo a svegliarci fra trecento anni. Purtroppo,
questo non ha nulla a che vedere con il Paese di residenza. Per ironia della sorte, gli Stati
che collaborano con Facebook e Twitter ne sanno più sui loro cittadini rispetto a quelli,
come l’Iran, in cui il governo tiene in pugno Internet ma non ha accesso legale ai gestori
dei social media.
Talvolta penso di essermi irrigidito, sarà l’età che avanza. Forse tutto questo altro non è
che la naturale evoluzione di una tecnologia. Ma non posso chiudere gli occhi davanti al
declino nella diversità e alla sparizione dei potenziali che la Rete potrebbe avere per la
nostra epoca travagliata. In passato, la Rete era tanto seria e potente da farmi sbattere in
prigione. Oggi si è ridotta a poco più di una forma di intrattenimento, al punto tale che
persino l’Iran non prende più sul serio alcune sue manifestazioni — Instagram, per
esempio — e non si scomoda nemmeno di bloccarle. Mi mancano i giorni in cui la gente si
premurava di ricercare le opinioni più diverse e si sforzava di leggere più di un paragrafo di
testo scritto o 140 caratteri. Penso con nostalgia ai giorni in cui scrivevo qualcosa sul mio
blog senza preoccuparmi di farmi pubblicità su un’infinità di social network, quando
nessuno si preoccupava di «mi piace» e condivisioni. Questa è la Rete che ricordo prima
di finire in prigione. Questa è la Rete che dobbiamo salvare.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
del 03/08/15, pag. 12
Messico-horror: fosse con migliaia di morti
Con la complicità delle autorità locali, hanno reso il Paese come uno dei
più pericolosi al mondo: ogni giorno i parenti scavano per cercare i tanti
dispersi
di Roberta Zunini
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Appena scendo dal pullman sotto un sole già spietato alle 10 di mattina, vedo il viso
rabbuiato di Alejandro. Un giornalista trentenne che lavora per un giornale locale. Il motivo
della sua preoccupazione e tristezza giace a 300 metri da noi. Il cadavere di un suo
collega è ancora steso a terra, sotto il lenzuolo della scientifica. “L’hanno ammazzato con
quattro pallottole in faccia mentre scendeva dalla macchina. Era un cronista coraggioso”.
Anche Alejandro lo è , come la maggior parte dei cronisti del Guerrero, uno degli Stati più
violenti del Messico. Ero partita tre ore prima da Città del Messico e ora che sono arrivata
a Iguala in questo frangente, mi salgono a galla tutte le raccomandazioni degli scrittori,
esperti e attivisti che avevo incontrato nella capitale per cercare di capire come mai il
Messico sia diventato un collage di Stati mafia. Un inferno di violenza e soprusi ai danni
dei più deboli. È proprio sul Periferico Norte, la superstrada di Iguala che nel settembre
dello scorso anno furono sequestrati dalla polizia municipale i 43 studenti della scuola
Ayotzinapa annidata nella campagna di Tixtla, un pueblo distante un’ottantina di
chilometri. Ayotzinapa fa parte delle cosiddette scuole normali. Termine con cui si
definiscono le scuole statali di stampo marxista create nel secolo scorso per i figli dei
contadini più poveri.
Dopo la dichiarazione del procuratore federale Murillo Karam in cui è stata rivelato,
nonostante l’indagine non fosse stata chiusa, che gli studenti erano stati sequestrati dalla
polizia municipale di Iguala su ordine del sindaco Luis Abarca – colluso con un cartello di
narcotrafficanti – e quindi consegnati ai narcos che li avrebbero bruciati in una discarica
vicino a Iguala, i loro familiari hanno iniziato a cercarne i resti. Perlustrando la discarica di
Cocula e i boschi attorno a Iguala, i genitori e parenti dei 43 anziché trovare ciò che ne era
rimasto, hanno scoperto decine di fosse comuni affollate di corpi di altri desaparecidos. I
dati ufficiali pubblicati dalla federazione confermano la scomparsa di 30mila persone dal
2006 al 2014, ma le Ong e associazioni umanitarie messicane sostengono che la cifra
reale sia ben diversa: 200mila cittadini finiti nel nulla in meno di dieci anni. Numeri
agghiaccianti che non possono non mettere sotto accusa le istituzioni, infiltrate a tutti i
livelli dalla criminalità. “Quando abbiamo saputo che erano state scoperte delle fosse
comuni, abbiamo deciso di fare come i genitori degli studenti. Da ottobre a oggi abbiamo
trovato 60 fosse solo nei dintorni di Iguala”. Mario Vergara mi accoglie nella cucina della
Chiesa di San Francesco, dove è stata istituita la sede del comitato los otros
desaparecidos (gli altri scomparsi). “Mio fratello è scomparso due anni fa senza lasciare
un biglietto, un segnale, nulla. Era un taxista. La sua macchina è stata ritrovata intatta.
Sono certo non avesse legami con il narcotraffico. Forse si è rifiutato di fare qualcosa per
degli affiliati che volevano trasportasse droga. Ma sono tutte congetture”, mi spiega con le
lacrime. Mentre una anziana signora mi offre una limonata per smorzare l’afa
insopportabile, entra Carmela Abarca annunciando che la gendarmeria è in ritardo e
bisogna aspettare ancora prima di andare a buscar las fossas. Come ogni domenica, dopo
la messa delle 9, i familiari, confortati dalla benedizione del parroco, si incamminano alla
ricerca delle spoglie dei loro cari. “Mio marito era un ex poliziotto, quando è scomparso
lavorava part time perché aveva deciso di studiare legge”. Carmela ha 43 anni, come il
padre dei suoi tre figli, che ora non sa come sfamare perché ha dovuto lasciare il lavoro.
“Sono troppo piccoli per stare a casa da soli. I nonni abitano lontano e qui non abbiamo
parenti. Quando c’era mio marito ci davamo il cambio. Faccio le pulizie due volte la
settimana e per fortuna ci sono queste amiche che se ne prendono cura”, dice indicando
tre signore di mezza età dallo sguardo pietrificato sedute attorno al grande tavolo. Sono le
mamme di altri fantasmi di questa guerra silenziosa. “Dopo la sua scomparsa, ho ricevuto
una sua chiamata di pochi secondi in cui mi diceva che stava bene e sarebbe tornato
presto. Ora non ci spero più, vorrei solo dargli una degna sepoltura”. Carmela, come altre,
aveva ricevuto la chiamata di un anonimo che chiedeva un riscatto impossibile.
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“Gli investigatori dicono che gli autori dei sequestri sanno benissimo che non possiamo
pagare migliaia di pesos. Chi sequestra chiederebbe il riscatto solo per farci credere che i
nostri cari sono ancora vivi e indurci a non denunciare, altrimenti, dicono sempre, li
ammazzeremo”, piange la signora De la Cruz, sessantenne ex impiegata municipale che
da tre anni cerca la figlia ventenne. Sua nipote è stata freddata la settimana scorsa
davanti ai sui bambini nella piazza centrale di Iguala. Si tratterebbe di una vendetta contro
il marito che aveva denunciato alcuni poliziotti coinvolti nel sequestro dei 43. La
sensazione è di essere finiti in un film horror. Sensazione che diventa tangibile quando ci
incamminiamo per andare a cercare le fosse. Solo la forza della disperazione può
spingere questa processione di esseri umani dolenti a sfidare il caldo, i narcos e i poliziotti
municipali, molti dei quali la notte si trasformano in sicari e per ritrovare i congiunti. Mentre
avanziamo tra gli sterpi e i rovi, circondati da cactus giganteschi, improvvisamente l’uomo
vestito di bianco, che ci guida, si ferma. In una mano tiene un lungo bastone e nell’altra un
foglio di quaderno con una mappa. “Un anonimo ci ha fatto recapitare questo foglio che
indica le coordinate per trovare le fosse. Non è la prima volta. Ma non posso spiegarvi nei
dettagli come veniamo in possesso di queste mappe perché chi ce le dà rischia grosso”,
dice Daniel, il campesino esperto di ritrovamenti. Grazie a quarant’anni di lavoro nei campi
questo minuscolo cinquantenne è in grado di capire quando il terreno è stato smosso e
ricoperto artificialmente.
Nonostante non abbia familiari scomparsi, dall’ottobre scorso ha dedicato tutte le sue
domeniche a buscar las fossas . Mario, il coordinatore dell’associazione lo guarda con
gratitudine mentre lui alza gli occhi verso le cime della Sierra. Lassù, nascoste dalla fitta
vegetazione tropicale, ci sono le piantagioni di marijuana, di papavero da oppio, coltivate
da una schiera di schiavi guardati a vista dai narcos. Nessuno può avvicinarsi, neanche
l’esercito. Talvolta i signori dei cartelli ordinano ai loro cecchini di scendere per impedire ai
buscatores di continuare le ricerche. Dopo aver constatato che non c’è nessuno in vista,
Daniel inizia la sua macabra operazione. Alza il bastone fin sopra la testa, poi, con una
mossa rapida e precisa lo ficca in profondità nella terra. Con una manovra altrettanto
rapida lo riporta in superficie e lo annusa. L’odore della decomposizione è inconfondibile.
Intanto i familiari attorno a lui pregano, mentre piantato una bandierina sul punto in cui è
stato estratto il bastone. Servirà a medici e antropologi forensi per dare il via alla
riesumazione.
del 03/08/15, pag. 14
Mentre Angela Merkel può puntare a un quarto cancellierato, François
difficilmente potrà ricandidarsi nel 2017: il suo consenso è ai minimi e la
disoccupazione al 10 percento
La sfida di Hollande il guerriero francese che
è rimasto senza la Francia
BERNARDO VALLI
PARIGI
SENZA UN “ribasso credibile” della disoccupazione entro l’anno prossimo François
Hollande non si proporrà nel 2017 per un secondo mandato. Se ne andrà sconfitto. È una
sfida pubblica che assomiglia a una scommessa. Angela Merkel può invece già puntare,
con naturale superbia, su un quarto cancellierato. Il Reno divide due realtà diverse. Sulla
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sponda francese per ora il numero stagna sulle due cifre, 10%, ed è oggetto di numerose
contestazioni. Secondo l’opposizione senza i calcoli amichevoli la massa dei disoccupati
sarebbe più cospicua.
L’annuncio delle imminenti dimissioni del ministro del lavoro, François Rebsamen,
assomigliano a un primo sacrificio propiziatorio, visto che alla vittima, nonostante sia un
fedelissimo del presidente, viene rimproverato, senza dirlo, di non avere ottenuto i risultati
indispensabili a Hollande, stando a quel che afferma egli stesso, per tentare la riconquista
della massima carica dello Stato. Il rispettabilissimo Rebseman lascia per sua volontà il
dicastero. Vuole ridiventare sindaco di Digione, ma sullo sfondo, ben visibile, resta la
missione fallita. Non tanto per la fiacchezza della sua azione quanto a causa della crisi
che appesantisce il dramma dei senza lavoro. Dramma tanto importante da porre per la
prima volta nella Quinta Repubblica il problema della ricandidatura del presidente in
carica. Tutti i predecessori di François Hollande, ad eccezione di Georges Pompidou
(1969-1974) morto per malattia durante il primo mandato, hanno tentato non sempre con
successo di essere rieletti. Charles de Gaulle (1958-1969) dette le dimissioni, quando era
già stato riconfermato da quattro anni come presidente, in seguito a un referendum perso
(sulla riforma del Senato), che non lo riguardava direttamente.
Hollande è un caso a parte. L’oscillante 19% dei consensi che l’accompagna è il quoziente
più basso raccolto dai presidenti della Quinta Repubblica al terzo anno del primo mandato.
Eletto con il clamoroso annuncio di un 75% di tasse da imporre ai più alti redditi (annuncio
subito disinnescato come atteso dal Consiglio costituzionale) e con la promessa di creare
posti di lavoro, vale a dire con il piglio di un deciso presidente di sinistra, Hollande si è
rivelato un attivissimo presidente dedito alla politica estera. Sia come promotore di
iniziative militari sia come animatore di azioni diplomatiche. Né il suo passato di primo
segretario del partito socialista, un ruolo sedentario, né quello di presidente del consiglio
provinciale della Corrèze rurale, meno ancora il carattere dimostrato come insegnante di
economia, lasciavano pensare al sesto capo della Quinta Repubblica come a un
appassionato di politica internazionale, capace di tenere in quel campo la Francia in prima
linea. Proprio come voleva de Gaulle.
Ma Hollande, nonostante l’attivismo, e i non rari successi, raccoglie soltanto indifferenza
tra i concittadini. Non suscita grande interesse. Non sprigiona autorità. Né orgoglio.
Ricorda l’ Economist , non senza perfidia, che dove un leader tedesco, come Schaeuble, il
ministro delle Finanze, riceve il 70% e più di consensi quando sostiene la Grexit, Hollande
non arriva al 20 quando sostiene il contrario, anche se l’idea usufruisce di un ben più alto
sostegno nell’opinione pubblica francese.
Se si ripercorre, sia pure velocemente, l’attività internazionale di François Hollande si resta
colpiti dal dinamismo. E dall’indifferenza che lo avvolge come una nebbia. Negli ultimi
giorni, mentre i francesi andavano in vacanza, lui si è dedicato alla conferenza sul clima in
programma per dicembre a Parigi. Una riunione planetaria con grandi e giuste ambizioni.
Sempre in luglio il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, ha seguito la conclusione dei
negoziati sul nucleare iraniano a Vienna imponendo misure severe di controllo e di
ritorsione, ad esempio l’automatica riattivazione delle sanzioni contro Teheran nel caso gli
accordi non fossero rispettati. L’atteggiamento intransigente francese al tavolo dei
negoziati ha dato un importante contributo alla formulazione del documento finale, adesso
allo studio del Congresso americano, e al tempo stesso ha favorito la Francia nei negoziati
in corso nei paesi sunniti, quali l’Arabia Saudita, il Qatar e in generale i Paesi del Golfo,
irritati dal dialogo tra gli Stati Uniti e l’avversario sciita iraniano. Gli aerei Rafale,
made in France , hanno trovato acquirenti ben disposti tra gli amici delusi di Barack
Obama. I soli jet costruiti da Dassault e ordinati dal Qatar valgono sette miliardi di dollari.
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Queste vendite non dovrebbero complicare troppo i rapporti commerciali con Teheran,
dove Laurent Fabius ha già compiuto una visita politica senza perdere tempo.
Sempre in luglio Hollande era in Angola, e in maggio era a Cuba, appena perfezionata
l’intesa tra Washington e l’Avana. Non ha perso tempo. Ma la Grecia ha impegnato
soprattutto negli ultimi tempi i diplomatici parigini ed anche gli esperti del ministero delle
Finanze accorsi ad Atene per aiutare i colleghi greci. Nella lunga crisi europea Hollande ha
svolto un ruolo di grande rilievo con Angela Merkel. La quale non era sempre in sintonia
con i falchi tedeschi ed era pronta a utilizzare la posizione francese solidale con Alexis
Tsipras. In una precedente stagione, a Minsk, durante i negoziati sull’Ucraina, Hollande si
era mosso all’ombra della cancelliera. Ma era pur sempre presente a un appuntamento di
grande rilievo non solo per l’Europa, eppure non è riuscito a dissipare l’indifferenza sulla
sua persona in patria. Soltanto l’intelligente e audace reazione all’attentato terrorista
contro Charlie Hebdo ha aumentato per qualche giorno i consensi. Ma poi è ritornata
l’indifferenza. Non hanno suscitato il meritato interesse neppure le spedizioni in Mali e
nella Repubblica centrafricana contro jihadisti che minacciavano e minacciano quelle ex
colonie diventate alleati. Né ha particolarmente interessato la disponibilità di Hollande a
punire la Siria di Bashar el Assad che aveva usato gas tossici contro i ribelli. Soltanto la
rinuncia di Barack Obama ha fermato navi e aerei francesi. È come se François Hollande
non riuscisse a smuovere i sentimenti dei suoi connazionali. Né odio né amore. È come se
la società fosse sensibile all’essenziale: al lavoro. Che dà, oltre ai mezzi per vivere, anche
la dignità. Guerra e diplomazia contano. Sono a volte obbligate o essenziali. Ma Hollande
ha capito che se mai ha una possibilità di restare presidente quel che conta è vincere la
disoccupazione.
del 03/08/15, pag. 21
IL TABÙ DELL’EUROPA
LUCIO CARACCIOLO
C’È VITA oltre l’euro? La domanda che non avremmo voluto porci appartiene ormai al
discorso pubblico. La crisi greca ha infranto il tabù dell’europeismo. Il quale funzionava
finché dava per scontato se stesso. L’orizzonte era fisso. Variazioni del paesaggio
geopolitico-economico potevano configurarsi solo nel rassicurante perimetro dell’Unione
Europea e/o dell’Eurozona. Una comunità “sempre più stretta” (parola del Trattato di
Roma), ovvero l’incompiuta permanente. La fine della nostra storia sancita dall’ideologia
europeista non escludeva scarti e turbolenze, ma non dubitava fossero sempre trattabili
entro il piano cartesiano dei trattati europei. Ogni rischio era misurabile. La prassi
incrementale, per cui si gestisce l’esistente e si reagisce solo in caso di emergenza,
nell’illusione che si possa ricominciare da dove ci si era lasciati prima dell’incendio,
dominava pensiero e (in)azione dei leader veterocontinentali.
Fu quindi senza accorgercene che sviluppammo, nel felice passaggio dei decenni, una
patologia sociale battezzata sindrome di callosità emotiva. Come il contadino zappando la
terra sviluppa calli cutanei, così l’ homo
europaeus , nella defatigante ricerca della bonaccia eterna, produce calli cerebrali per non
soccombere all’allagamento emotivo sollecitato dalle irritazioni diuturnamente
somministrate dai media. Strategia difensiva, volta a proteggerci dall’energia negativa
sprigionata dal contatto fra il nostro credo e le dure repliche della storia — questa belva
che pensavamo ingabbiata. Forma di rimozione destinata a esplodere al contatto con una
crisi seria, tanto più potente in quanto parte di una sequenza.
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È il caso dell’eurocrisi accesa dalla scintilla greca. Per la quale ci sentiamo precipitati nella
galassia degli unknown unknowns : ciò che non sappiamo di non sapere. Condizione di
insicurezza, nella quale sentiamo di non possedere le informazioni necessarie ad
affrontare il rischio, perché questo non è misurabile. Nessuno può pretendere di calcolare
le conseguenze del Grexit, il cigno nero fino a ieri impensabile — e impensato, perché
tabù — oggi inscritto nella sfera del possibile, se non dell’auspicabile, dal perno stesso
dell’Eurozona, la Germania di Merkel e Schäuble. Nessuno può dunque escludere che
l’eventuale Grexit, specie se sommato al Brexit su cui i britannici decideranno entro la fine
del 2017, possa indurre il collasso dell’Eurozona e della stessa Unione Europea.
È moda inveire contro il populismo. Sarebbe forse opportuno chiedersi da dove derivi
l’eurofobia così diffusa nelle nostre opinioni pubbliche. Scopriremmo allora che essa è
figlia dell’elitismo europeista. Il paternalismo illuminato dei fondatori è scaduto nei loro
epigoni a brutale autoritarismo. Si è perso il senso dell’Europa, ridotto a ripetitive
formulette che non parlano a nessuno. A che serve evocare i valori liberali e democratici
se si è disposti a calpestarli in ossequio a un malinteso obbligo di ordine fiscale?
L’umiliazione cui abbiamo sottoposto il popolo greco, della quale siamo tutti
corresponsabili, dimostra che l’idea europea non è più.
Nel 1985 i capi di Stato e di governo europei hanno adottato il tema dell’Ode alla Gioia,
arrangiato da Herbert von Karajan, quale inno ufficiale comunitario, a esprimere “gli ideali
di libertà, di pace e di solidarietà incarnati dall’Europa”. Peccato ne abbiano espunto le
parole. Forse il pudore li ha frenati dal riprendere l’esaltazione schilleriana della fraternità.
Avrà dunque avuto ragione l’autore di quella maltrattata musica, Ludwig van Beethoven:
«Si deve essere qualcosa se si vuol sembrare qualcosa».
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INTERNI
del 03/08/15, pag. 1/21
La post-democrazia fondata sul premier
ILVO DIAMANTI
IL PREMIER Matteo Renzi prosegue nella sua marcia solitaria. Un giorno dopo l’altro, una
parola dopo l’altra, disegna una democrazia personale e immediata. Centrata sulla sua
persona. Refrattaria alle “mediazioni”.
SEGUE A PAGINA 21
DIFFIDENTE verso i “mediatori”. Si tratti di organizzazioni, associazioni o di soggetti
istituzionali. Così, in pochi giorni, è intervenuto “direttamente” contro i sindaci e, prima
ancora, contro il sindacato. Colpevoli, entrambi, di ostacolare, in modo diverso, il turismo
e, quindi, l’economia italiana. Il sindacato. Con le iniziative che hanno reso difficile
l’ingresso agli scavi di Pompei. E con lo sciopero dei piloti Alitalia, che ha generato disagio
ai passeggeri. A Pompei come negli aeroporti le iniziative sono state condotte da sigle
autonome e singoli comitati. D’altronde, nei servizi, poche persone, collocate in posizione
strategica, possono generare grandi disagi pubblici. Tuttavia, il premier ha polemizzato,
esplicitamente, contro il sindacato. Senza specificazioni. D’altronde, Renzi, da tempo,
conduce la sua polemica contro il sindacato. Che ha il volto di Landini, leader della Fiom e
di “Coesione Sociale”, che nello scorso autunno ha promosso manifestazioni e scioperi
contro il Jobs act e le politiche del lavoro del governo. Il sindacato evocato da Renzi.
Chiama in causa Susanna Camusso, che, non per caso, ieri, su
Repubblica , ha replicato che la «la Cgil non ci sta a essere usata in modo strumentale dal
premier per recuperare il voto moderato».
Ma l’intento di Renzi non sembra semplicemente “politico” ma “di strategia istituzionale”.
Anche se le preoccupazioni di “marketing politico” sono sempre presenti negli interventi
del premier. Che, per questo, agisce e inter- agisce in rapporto diretto con gli elettori. E
dialoga di continuo con l’Opinione Pubblica. Che contribuisce, a sua volta, a modellare e a
orientare. Intervenendo sui temi sensibili. Per esempio, in questa stagione, sui servizi e i
disservizi pubblici, appunto. In un periodo nel quale i flussi turistici sono il principale
antidoto contro gli altri flussi che affollano e attraversano l’Italia. Ad opera dei migranti. Il
turismo, attratto dall’immensa risorsa artistica e ambientale offerta dal nostro Bel Paese.
Non sempre valorizzato adeguatamente. Come ha rammentato, di nuovo, il premier, in
visita a Tokio. Da dove ha auspicato che «nei prossimi mesi i nostri sindaci lavorino di
più». Per rendere le nostre città più attraenti. Per restituire appeal a un territorio troppo
spesso degradato. Più che un invito: un rimprovero. Un messaggio e un ammonimento
esplicito. Rivolto ai primi cittadini. Fra i principali protagonisti della democrazia
rappresentativa. Eletti direttamente su base territoriale. Renzi stesso, d’altra parte, è stato
sindaco. Di Firenze. Anzi, il sindaco è la più importante carica elettiva che abbia ricoperto.
Visto che la sua ascesa alla guida del governo è avvenuta attraverso le primarie del Pd.
Una consultazione di partito — per quanto aperta. E ciò ribadisce la singolare fase che
attraversa la nostra democrazia rappresentativa.
Ribadita, polemicamente, dalla minoranza del Pd, che ha minacciato di contrastare le
riforme costituzionali in Senato, nel prossimo settembre, scatenando una sorta di “Vietnam
parlamentare”. Una formula che è stata apertamente condannata dal presidente del Pd,
Matteo Orfini. Tuttavia, si tratta di una sfida significativa. Sul piano del linguaggio, oltre che
della pratica e dell’azione. Perché sposta, decisamente, in ambito “parlamentare” un
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confronto che, nel frattempo, si è trasferito altrove. All’esterno. Nelle piazze e sui media —
vecchi e nuovi.
D’altronde, il capo del governo — e del partito di maggioranza — è un leader “non eletto”
in Parlamento. Come i suoi principali oppositori. Beppe Grillo, leader — pardon: portavoce
e megafono — del M5s. E Matteo Salvini, segretario della Lega: parlamentare europeo.
Insomma, Renzi è, per ora, il premier di una Repubblica extra-parlamentare. Impegnato a
costruire uno specifico modello di democrazia. Maggioritaria e personalizzata. Come
prevedono le riforme istituzionali (in particolare, il monocameralismo) e la stessa riforma
elettorale. L’Italicum. Che non delineano un “presidenzialismo di fatto” (come ha
sottolineato il costituzionalista Stefano Ceccanti sull’ Huffington Post ).
Piuttosto, una Repubblica ancora “indistinta” (per citare Edmondo Berselli). Ma fondata sul
premier. Renzi, d’altronde, nel frattempo agisce “come se” fosse già premier-presidente.
Agisce e decide — o meglio: promette di agire — in fretta. Veloce. Così, dal Giappone
annuncia l’approvazione della riforma della pubblica Amministrazione. «Entro giovedì». E
si rivolge ai cittadini e agli elettori. Saltando mediazioni e mediatori. Sindacati e
sindacalisti. Sindaci e governatori. Scavalca perfino il Parlamento e, soprattutto, i partiti.
Compreso il “proprio”. Che, d’altronde, costituisce il principale luogo, il principale soggettooggetto del suo esperimento.
Il Pd. Tradotto e trasformato nel PDR. Il Partito Democratico di Renzi. O, più
semplicemente, nel PdR. Il Partito di Renzi. Un post-partito, veicolo e portabandiera della
PDR. La Post-Democrazia di Renzi. Fondata sul premier.
del 03/08/15, pag. 10
Discariche nei centri urbani e disservizi nei
trasporti ecco la mappa del disagio
L’INCHIESTA
CORRADO ZUNINO
ROMA . Dice Matteo Renzi che «quando uno fa diecimila chilometri per vedere l’Italia», e
allude ai giapponesi, «ha bisogno di trovare le città pulite». Dice pulite prima, poi
aggiunge: «funzionanti». E il primo pensiero va alla fin troppo citata capitale d’Italia, dove il
premier vive da quando è premier e che recentemente ha dato il peggio di sé su tre
versanti sensibili: la pulizia, appunto, con l’infausta citazione del Financial Times , la
mobilità interna con il vagone della metropolitana B che ha viaggiato a porte aperte e la
mobilità esterna con l’aeroporto di Fiumicino collassato da un incendio in pineta. Nel
weekend che ha seguito i giorni del disastro Roma è stata un po’ più pulita ed efficiente,
ma ancora una volta ha avuto bisogno di essere schiaffeggiata.
La questione città sporche s’affaccia anche sulla seconda città d’arte italiana, Venezia,
dove l’elemento del sacchetto per strada si fonde con un’idea del decoro quasi impossibile
da far rispettare. Con 26 milioni di turisti l’anno che insistono su un centro storico emerso
di neppure 800 ettari, il “porta a porta” tra le calli si sta rivelando uno spianto. Il sacchetto
lasciato fuori dall’uscio ogni sera viene spesso ritirato la mattina successiva sventrato e
sparpagliato nel contenuto dai gabbiani. Sono di questi giorni i bivacchi con tende in
centro di turisti che non accettano i prezzi degli alberghi cittadini e i picnic a torso nudo a
San Marco, alla Marciana, al Rialto. C’è poca vigilanza in città, il Ponte di Rialto è stato più
volte imbrattato dai writer , i negozi che vendono paccottiglia avanzano e pure l’Actv
(trasporti) è sotto schiaffo per i vaporetti continuamente a massimo carico.
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L’altro giorno i residenti della Sacca di Sant’Alvise hanno ripulito da soli gli accumuli di
bottiglie e lattine un po’ portati dalla laguna, un po’ abbandonati. È vero che fanno rabbia
le foto — diverse nel tempo — di stranieri che orinano nei secchi della spazzatura, ma è
anche vero che la maggior parte dei ristoratori consente l’uso della toilette solo a chi
ordina (e paga) e che l’ingresso agli undici bagni pubblici presenti nella città storica costa
un euro e mezzo. Alle venti, poi, chiudono.
A Firenze, che il premier conosce anche meglio di Roma, l’ultimo nubifragio ha abbattuto
migliaia di rami. Restano lì, accatastati almeno fino a giovedì: l’azienda rifiuti locale non è
autorizzata a portar via legna.
Genova invece è una città che ha visto crescere l’appeal turistico: il Porto vecchio restituito
a residenti e viaggiatori, uno splendido acquario, successive pedonalizzazioni. Eppure,
non è mai stata pulita. Non lo era con Marta Vincenzi sindaco, non lo è con Marco Doria.
Lo scorso ottobre la discarica di Scarpino è stata chiusa dalla Provincia su pressione della
magistratura, che ne aveva constatato la pericolosità del percolato per le falde ac- quifere.
Non ci sono inceneritori e nel territorio provinciale non si trovano i 40 mila metri quadrati
necessari per costruire un impianto per il trattamento a freddo dell’indifferenziato. I rifiuti,
così, vanno in altre regioni e all’estero con un sovraccosto di due milioni il mese. Il sindaco
ha detto che quest’anno non aumenterà la tassa sulla spazzatura, ma che nel 2016 sarà
costretto a farlo. La raccolta differenziata viaggia a percentuali basse, quella dell’umido è
iniziata da pochi mesi. Il chimico ambientalista Federico Valerio sostiene che questo stato
di “smaltimento in loco impossibile” può diventare l’opportunità per trasformare Genova
nella prima città a rifiuti zero in Italia: produci, usa e ricicli. Cinque municipi genovesi su
nove, tuttavia, non hanno attivato isole ecologiche per gli scarti ingombranti.
Palermo (come d’altronde Napoli) vive sull’orlo della crisi da rifiuti da sempre e la costa
occidentale, le spiagge sotto la strada che costeggia l’aeroporto, ne è un evidenziatore. Il
sindaco Leoluca Orlando la scorsa settimana ha inviato una lettera dura al presidente
della Rap, municipalizzata dell’ambiente, chiedendo più pulizia e nuovi dirigenti. Le
vecchie strutture “Ato rifiuti” dei tempi di Cuffaro sono fallite sotto il peso di costi
insostenibili e cda pletorici. Il governatore Crocetta chiede poteri speciali, che Renzi
puntualmente gli nega. Le vecchie discariche sono in saturazione e l’ultima commissione
bicamerale passata da Palermo ha definito la situazione «disastrosa».
A Bari in queste ore è diventata virale la foto della discarica di mobili con sfondo
Cattedrale. Il sindaco Antonio Decaro il primo agosto è andato all’Amiu e ha sbattuto i
pugni sul tavolo: «Riceviamo decine di fotografie così, la città è sporca e voi ci costate 64
milioni l’anno». Ieri sono arrivate le prime sanzioni per chi non differenzia la raccolta e per
alcune strade centrali il sindaco pretende lo spazzamento anche il pomeriggio. A Bari non
piove da un mese e i cassonetti emanano odori terribili.
del 03/08/15, pag. 13
«La verità su Bologna emerga per intero»
Le parole di Mattarella a 35 anni dalla strage. Grasso: appurare se nello
Stato ci furono traditori
DAL NOSTRO INVIATO Bologna Non ci sono fischi alle autorità dello Stato. Ma richieste
di verità, sì, tante. Sotto l’orologio fermo alle 10.25 di quel 2 agosto 1980, mentre i tre
fischi della locomotiva rinnovano un rito laico che mai dovrà spegnersi, ci sono occhi lucidi
e labbra serrate dall’emozione tra le centinaia di familiari delle vittime della strage alla
stazione (85 morti, 200 feriti).
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Sembra banale dire «Bologna non dimentica», ma non è così semplice in un mondo che
tutto centrifuga e troppo anestetizza. Scene già viste altre 35 volte: il consiglio comunale, il
corteo in via dell’Indipendenza, i discorsi nel piazzale della stazione, gente alle finestre,
negozi che si fermano. I parenti delle vittime con le gerbere appuntate al petto. Tutto come
sempre. Tutto così diverso. Anche la voce del capo dello Stato quest’anno è diversa. Dopo
i tanti anniversari firmati da Napolitano, tocca a Sergio Mattarella inviare un messaggio
che non può che insistere su quello che per tutti è un dovere, ma per lo Stato un dogma:
«Non dimenticare quella strage e quelle vittime innocenti che ormai fanno parte della
memoria nazionale» scrive. Nomi, volti e storie che si stagliano da un fondale spesso
cupo, «da lunghi anni di indagini difficili — prosegue il presidente della Repubblica —
contrassegnate da reticenze e tentativi di depistaggio: la verità emerga nella sua interezza
e la battaglia per introdurre il reato di depistaggio è una risorsa».
Un percorso solo apparentemente concluso dalla sentenza definitiva che ha condannato
all’ergastolo Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (da tempo a piede libero): «Su quella
tragica vicenda – conclude Mattarella – rimangono angoli bui, specie per quanto riguarda
mandanti ed eventuali complici». Impossibile perdonare. Paolo Bolognesi, presidente
dell’Associazione dei familiari delle vittime e deputato pd, ha la foga di sempre: «In un
Paese normale due stragisti non avrebbero già scontato la loro pena». Dietro a Mambro e
Fioravanti, Bolognesi punta il dito contro «uno Stato che avrebbe dovuto proteggerci e
invece ci ha ostacolato». Uno Stato che ora promette di esserci.
Il presidente del Senato, Pietro Grasso, da ex magistrato, si dice certo che «la verità non
va mai in prescrizione, non va temuta per quanto atroce possa essere» e aggiunge che
«bisogna pretendere chiarezza al di là di interessi di parte». Poi ci sono le questioni
pendenti, non per questo secondarie.
Il governo ha spedito a Bologna il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Claudio
De Vincenti. Che ammette ritardi e promette risultati: «A giorni saranno sciolti gli ultimi
nodi per la desecretazione degli atti e la procedura per la pensione ai familiari delle vittime,
mentre il ddl sull’introduzione del reato di depistaggio è in commissione giustizia al
Senato». Il sindaco pd Virginio Merola (in pista per la ricandidatura) vuole crederci: «Ora
parlino i fatti».
Francesco Alberti
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 03/08/15, pag. 8
Ius soli, i leghisti attaccano
“Pronti ad alzare le barricate”
Domani prima tappa alla Camera. Dopo l’estate l’ostacolo degli
emendamenti
Ilario Lombardo
È tutto pronto per il nuovo match, a settembre, tra i due Matteo. Al ritorno dall’estate,
l’incontro politico Renzi vs Salvini si giocherà di nuovo sull’immigrazione: «Con il massimo
della disoccupazione giovanile, mi sembra una follia che il parlamento dia la priorità alla
cittadinanza facile agli stranieri». A parlare è Massimiliano Fedriga, capogruppo della Lega
Nord alla Camera e volto tra i più battaglieri della truppa padana.
In Commissione
Non ne vuole proprio sapere della legge sullo ius soli che domani avrà la sua prima tappa
in commissione: il voto sul testo base. Una sintesi di 24 proposte di modifica alla legge
sulla cittadinanza prodotte in due anni e mezzo di legislatura, alcune prima ancora che
Enrico Letta scegliesse Cécile Kyenge, un ministro nero, il primo della storia italiana, nata
e cresciuta in Congo, per dare una spinta anche simbolica alla battaglia dei diritti. Sull’altro
fronte però la Lega ha alzato prima le banane, in un’irrisione feroce e stolta, poi i propri
principi: «La cittadinanza non è un mezzo per integrare, ma è la certificazione
dell’integrazione avvenuta nel nostro Paese. Bloccheremo la legge» dice Fedriga. Il testo
firmato da Marilena Fabbri, Pd, si concentra solo sui minori e introduce un superamento
dello ius sanguinis, cioè per discendenza, con una versione temperata dello ius soli: è
cittadino chi nasce in Italia da genitori che soggiornano qui legalmente da 5 anni. Per
capire, se ci sono da tre anni, il bambino avrà la cittadinanza a due anni. Per chi invece
qui non è nato ma è arrivato prima dei 12 anni, la legge prevede il riconoscimento dopo 5
anni di ciclo scolastico (ius culturae).
Le posizioni
Gli schieramenti si stanno posizionando. E c’è da giurarsi che il dibattito si polarizzerà. La
stagione dei diritti - cittadinanza, unioni civili - servirà a Renzi, in autunno, per sanare le
ferite alla sinistra del partito. La campagna leghista, invece, trascina gli alleati di Forza
Italia, e provoca già qualche spaccatura. La correlatrice del testo Annagrazia Calabria si è
dimessa. Era al lavoro sulla legge da quando gli azzurri erano ancora in maggioranza. Ora
Fi si è tirata fuori: «Dopo le aperture degli ultimi anni, all’improvviso ho visto prevalere un
atteggiamento di chiusura nel mio partito» racconta Renata Polverini che ha fatto una sua
proposta, accolta nel testo: «Stiamo indurendo le nostre posizioni sulla scia di una
sudditanza con la Lega. Non lamentiamoci se gli elettori moderati vanno con Renzi». Il ddl
è frutto di una mediazione tra anime diverse. C’era chi come Sel e il M5S chiedeva meno
anni per i riconoscimento, e chi, più da destra, come i popolari, i centristi di Ncd o anche
Polverini, proponeva che la cittadinanza fosse legata a un percorso scolastico. Un altro
compromesso prevede che tra i 12 e i 18 anni, oltre a un ciclo completo a scuola, sia
provata anche la residenza di almeno 6 anni. Carlo Giovanardi aveva proposto di
concedere la cittadinanza contestualmente all’iscrizione in prima elementare. A settembre
partirà il balletto degli emendamenti. «Non credo che alla Camera avremo problemi risponde Khalid Chaouki, Pd - In Senato sarà un’altra storia...».
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SWELFARE E SOCIETA’
del 03/08/15, pag. 9
Sui giovani aumenta il carico degli anziani
Sfiora il 22% la percentuale degli over 65 - Il saldo tra nascite e decessi
nel 2014 ha chiuso in negativo: -96mila
Sono sempre in corso i lavori sulle pensioni: dopo la riforma Dini del 1995, quella Fornero
del 2011 e altri misure prese nel corso del tempo, è di recente arrivata la proposta del
presidente dell’Inps Tito Boeri. Obiettivo ultimo: la sostenibilità del sistema. Ma tra i
principali fattori che incombono sulla tenuta della previdenza c’è lo stallo demografico,
conseguente all’invecchiamento della popolazione e alla ritirata della natalità: le
generazioni più giovani, sempre meno folte, alle prese con difficoltà occupazionali e con
redditi limitati, dovranno farsi carico di un crescente numero di anziani. Di sicuro più
longevi, ma anche più bisognosi di cure sanitarie e di assistenza. «Un’evoluzione
drammatica – osserva Gian Carlo Blangiardo, docente di Demografia all’Università
Bicocca di Milano - scongiurabile con una crescita sostenuta del tasso occupazionale o
con un taglio altrettanto forte degli importi pensionistici». Scenari - il primo improbabile e il
secondo non auspicabile - che si delineano analizzando gli ultimi dati demografici
dell’Istat.
A partire dall’“indice di dipendenza anziani” - ossia il rapporto tra over 65 e soggetti in età
attiva (15-64 anni)- che esprime quanti sono gli anziani (presumibilmente ritirati dal mondo
lavorativo) che “pesano” ogni 100 giovani. Erano 27,9 nel 2002 ma sono saliti a 33,7 a
inizio 2015. «Circa un punto ogni biennio. È una quota crescente di Pil che se ne va in
pensioni. Alcune regioni sono più “avanti” - osserva Blangiardo -. Il Nord Ovest si trova a
36,3 e rischia di essere il “modello” cui sono destinate altre aree del Paese se non cambia
la dinamica demografica». Sono dieci le regioni oltre la media nazionale: la Liguria è a
46,3, il Friuli Venezia Giulia e la Toscana intorno a 40. E la quota di anziani si allarga
anche rispetto alla popolazione totale, mentre altre fasce d’età arretrano: oltre un italiano
su cinque (21,7%) ha almeno 65 anni, con forti divari territoriali (in Campani sono il 17,6%,
in Liguria il 28%).
Che l’Italia si stia “ingrigendo” lo dice anche la natalità. A inizio 2015 il saldo naturale
(differenza tra nati e morti) è negativo rispetto a un anno prima «accomunando Nord e Sud
- osserva Blangiardo -,con l’eccezione di Bolzano e Trento e i maggiori cali in Liguria,
Molise, Friuli Venezia Giulia, Piemonte». La perdita sfiora le 96mila persone, come se una
città medio-piccola (tipo Lecce o Alessandria) fosse sparita dalla cartina geografica. E solo
il contributo degli stranieri ha evitato un salasso più pesante: con 75mila nati e 6mila
decessi ha chiuso in attivo il 2014. «Ma anche gli immigrati si sono adeguati al modello
nostrano - precisa Blangiardo - ora fanno meno di due figli per coppia». Se il tasso di
crescita naturale chiude a -1,6 per mille, solo per un soffio è positivo il tasso di crescita
totale (che include i flussi migratori di italiani e stranieri residenti), attestandosi sullo 0,2
per mille.
A salvarsi con il segno “più”, oltre alle solite Bolzano Trento, Lazio, sono Lombardia,
Emilia Romagna, Toscana e Veneto, tutte regioni maggiormente interessate dai flussi di
stranieri. Questi infatti (limitandoci sempre ai residenti) chiudono il saldo 2014 a +200mila
(tra 248mila arrivi e 48mila partenze). Invece il bilancio del movimento degli italiani (tra
29mila ritorni e 89mila abbandoni) segna meno 60mila. Aggravando i rischi di squilibri
generazionali e di crescita zero.
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Rossella Cadeo
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 03/08/15, pag. 1/14
La sfida di Obama alle industrie Per il clima
di Massimo Gaggi
Un video di tre minuti zeppo di dati allarmanti e immagini della nostra Terra ferita: il
messaggio agli americani sulla lotta all’inquinamento e all’«effetto serra» Barack Obama
l’ha messo su Facebook. «Non possiamo consegnare ai nostri figli un pianeta divenuto
ormai incurabile: il momento di agire sul clima è questo». Oggi il presidente lancerà il suo
nuovo piano per la riduzione delle emissioni delle centrali elettriche, più severo di quello
proposto un anno fa dall’Agenzia federale per l’ambiente, che aveva provocato una
sollevazione dei conservatori, degli Stati carboniferi e delle aziende.
«Non possiamo consegnare ai nostri figli un pianeta divenuto ormai incurabile: il momento
di agire sul clima è questo». Il messaggio agli americani sulla lotta all’inquinamento e
all’«effetto serra» Barack Obama l’ha messo su Facebook alla mezzanotte di ieri: un video
di tre minuti zeppo di dati allarmanti e immagini della nostra Terra ferita. Con la voce
profonda del leader che promette di correre ai ripari. Oggi il presidente Usa lancerà il suo
nuovo piano per la riduzione delle emissioni delle centrali elettriche, più severo di quello
proposto un anno fa dall’Epa, l’Agenzia federale per l’ambiente, che aveva provocato una
sollevazione dei conservatori, degli Stati carboniferi Usa e delle aziende che consumano
molta energia.
Il nuovo piano non è concettualmente molto diverso, ma politicamente è molto più
importante perché non solo spinge a chiudere molte centrali a carbone, ma sposta
l’asticella della transizione verso fonti più pulite, dal gas metano (poco inquinante e oggi
abbondante negli Usa, ma pur sempre un combustibile fossile) alle rinnovabili: sole e
vento. Scelte che fanno insorgere la destra e gli Stati guidati dai repubblicani, con molti
governatori che già annunciano la ribellione: non rispetteranno i nuovi limiti federali e si
appelleranno alla magistratura.
Obama è deciso a lasciare come sua eredità politica agli americani, oltre alla riforma
sanitaria, una svolta sulla tutela dell’ambiente. Come per la sanità, questo gli costerà anni
di contenziosi giudiziari che arriveranno fino alla Corte Suprema: battaglie legali destinate
a protrarsi per molti anni e che verranno sicuramente ereditate dal suo successore, che
verrà eletto alla fine del 2016.
Ma per il presidente è importante fissare le regole e partire con chi ci sta, anche perché il
piano americano gli servirà per cercare di tirarsi dietro gli altri grandi inquinatori del mondo
— soprattutto i Paesi emergenti come Cina, India, Brasile e Indonesia — alla conferenza
ambientale di Parigi del prossimo dicembre.
Obama, che ha fatto il primo passo in questa direzione nel novembre scorso, quando ha
firmato un accordo sulle emissioni di CO2 con la Cina di Xi-Jinping, spera di poter essere il
regista di un patto planetario: una sorta di «protocollo di Parigi», più efficace di quello di
Kyoto, ormai in scadenza e mai accettato dagli Usa e dai Paesi in via di sviluppo.
L’ironia di tutto questo è che mentre gli Stati Uniti — il Paese che più inquina, quello che
spreca più energia — provano a rimettersi in riga, l’Europa «virtuosa» — l’unico sistema
economico che ha cercato di applicare le regole di Kyoto — ora è alle prese con un
rigurgito di «global warming»: dipende dall’incremento del consumo di carbone nelle
centrali elettriche di molti Paesi del Nord, dalla Polonia alla Gran Bretagna. Carbone
diventato improvvisamente a buon mercato perché gli Stati Uniti, che già da tempo lo
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stanno sostituendo col gas, abbondante grazie all’estrazione con il «fracking» e poco
inquinante, stanno esportando il loro surplus.
Insomma, la riforma di Barack Obama si sovrappone a un processo di sostituzione che è
già iniziato sotto la spinta del mercato. Ma la Casa Bianca punta, oltre ad un taglio
aggiuntivo delle emissioni entro il 2030 (il calo sale dal 30 al 32 per cento), anche, come
detto, ad una maggiore sostituzione del carbone con energia eolica e solare anziché con il
gas (dal 22 per cento del vecchio piano al 28). E la destra già attacca a testa bassa
Obama: «Vuole uccidere l’economia del carbone: per colpa sua l’energia costerà di più e
perderemo posti di lavoro».
Massimo Gaggi
del 03/08/15, pag. 3
Difficile liberarsi di quelle centrali
poco costose e facili da costruire
La Cina produce la metà del carbone estratto nel mondo, ma ne
consuma tanto da doverlo importare. E per molti Paesi emergenti è una
voce primaria dell’export
Roberto Giovannini
L’unico carbone buono - dicono gli scienziati che si occupano di clima - è quello che
rimane sottoterra. La scienza - ma anche Papa Francesco, o i fiorentini che sabato hanno
subìto quaranta minuti d’inferno, con fulmini a decine, pioggia a litri e grandine da tre
centimetri - non ha dubbi: dopo due secoli di Era industriale nell’atmosfera ci sono già 400
parti per milione di anidride carbonica. Il clima è già cambiato, e non è certo che l’umanità
possa limitare l’aumento della temperatura globale a due gradi centigradi (il che sarebbe
«accettabilmente disastroso»). L’81% del sistema energetico mondiale ancora oggi si
basa sui combustibili fossili. Bruciarli genera CO2, il più diffuso dei gas ad effetto serra. Un
chilometro percorso in auto ne libera in atmosfera 10 grammi; sommando tutte le
emissioni derivate dal carbone, si arriva a 13,9 miliardi di tonnellate di anidride carbonica
(dati Iea 2012). Ovvero, il 44% di tutta la CO2 emessa in un anno.
L’inquinamento
In realtà andrebbe ridotta in modo drastico anche la combustione di petrolio (il 35,3% delle
emissioni) e di gas naturale (il 20,3%). Tuttavia, a parità di energia resa disponibile, le
emissioni del carbone sono del 30% superiori a quelle del petrolio, e del 70% superiori a
quelle del gas. Per non parlare degli impatti sulla salute (polveri sottili e anidride solforosa)
e sul territorio. E in più - ed è questa la ragione vera della sua pericolosità - il carbone è
abbondante e poco costoso.
Alla fine del XX secolo, caratterizzato dal predominio del petrolio, nei paesi industrializzati
come in quelli emergenti e in via di sviluppo ci si è resi conto che il carbone è il
combustibile di gran lunga più conveniente per generare energia elettrica. Tra il 1990 e il
2010, un terzo della nuova capacità di generazione elettrica è stata coperta dal carbone.
Spesso costruire una centrale a carbone (semplice dal punto di vista ingegneristico, e
poco costosa se non si bada all’ambiente) garantisce il fabbisogno elettrico di un paese
africano. Così, Cina, Sudafrica, India hanno alimentato la loro crescente fame di energia
proprio con il carbone. Tra il 2000 e il 2010 Cina ed India hanno incrementato i consumi di
carbone dell’80%.
Le resistenze
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Non è facile per l’umanità «disintossicarsi» dal carbone, che rappresenta un business
gigantesco per i paesi produttori, o una materia prima difficile da sostituire. Anche Obama
faticherà: Cina e Usa sono allo stesso tempo i i primi due paesi produttori e i primi due
consumatori. Alla Cina - che produce il 47,4% del carbone estratto al mondo - ne serve
talmente tanto da essere costretta a importarne. Il terzo e il quarto produttore al mondo
sono Australia (6,9%) e Indonesia (6,7%), paesi le cui economie sono fortemente
dipendenti dalle esportazioni di carbone, convinti di poter continuare anche in futuro. Ma
gli esperti di energia dicono che presto i paesi emergenti ed emersi, che stanno
investendo tantissimo in fonti rinnovabili, potranno fare a meno di tutto questo carbone.
Seguono Russia e Sudafrica, che hanno una forte eccedenza di produzione sui consumi
interni. Nella lista dei consumatori, dopo Cina e Usa (50,3 e 11,9% del consumo globale)
ci sono invece due paesi importatori, come India (8,5%) e Giappone (3,4%).
Anche la nostra (teoricamente ambientalista) Europa fa fatica a rinunciare al carbone.
Nonostante tanti progressi green, la Germania continua a consumare molti milioni di
tonnellate di carbone. E lo stesso vale per la Polonia, ricca di giacimenti, e per questo
protagonista di battaglie in sede Ue per annacquare gli obiettivi su fonti rinnovabili ed
emissioni.E in Italia vanno a carbone - tra le proteste - diverse centrali elettriche, e l’Ilva di
Taranto.
del 03/08/15, pag. 18
“Allarme trombe d’aria
Firenze è solo l’inizio tutta l’estate a rischio”
Le bombe d’acqua colpa del caldo record di luglio Gli esperti: come
terremoti,impossibile prevedere
ELENA DUSI
ROMA. Per i meteorologi questi nubifragi sono l’equivalente di un piccolo terremoto.
Impossibili da prevedere, in pochi minuti di vento e pioggia scaricano tutta l’energia
accumulata in mesi di caldo record. La tromba d’aria di Firenze, che arriva dopo un luglio
che ha sfondato la temperatura media di oltre due gradi, ha scatenato più di 50 millimetri
di pioggia (l’equivalente delle precipitazioni di un mese) in un’ora e mezza, con picchi di 22
millimetri in 15 minuti e raffiche fino a 140 km all’ora. Ha colpito intensamente un’area di
un chilometro quadrato o poco più, ma i danni che ha causato sono paragonabili a quelli di
un uragano tropicale.
«Queste trombe d’aria si formano in una ventina di minuti. Prevederle è impossibile. Era
stato anticipato un temporale, ma nessuno poteva dire quel che sarebbe successo»
spiega Giampiero Maracchi, climatologo dell’università di Firenze e presidente del
consorzio meteorologico Lamma del Cnr. «Eventi simili stanno diventando sempre più
frequenti» aggiunge Bernardo Gozzini, che dirige il Lamma e il centro meteo della Regione
Toscana. «Negli ultimi 15 anni sono triplicati e la loro forza è aumentata del 30-40%. Il
cambiamento climatico ormai è in atto e l’intensità del nubifragio di due giorni fa è diretta
conseguenza del luglio appena passato, fra i più torridi di sempre. Ed è tutto il 2015,
ormai, a candidarsi come anno più caldo dell’ultimo secolo e mezzo».
In Toscana la scena di sabato si è ripetuta tre volte in meno di un anno: nell’autunno del
2014, a marzo e ancora oggi. A farne le spese a settembre furono gli alberi dell’orto
botanico di Firenze e a marzo la pineta di Forte dei Marmi. «Il 5 marzo si registrarono
raffiche di 160 chilometri orari» aggiunge Gozzini. «Toscana e Liguria sono regioni
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particolarmente colpite perché le perturbazioni provenienti da ovest si scontrano con le
Alpi Apuane e quelle Liguri» spiega Maracchi. «Quest’anno, oltre all’Atlantico più caldo per
via del cambiamento climatico, abbiamo avuto anche un Mediterraneo sottoposto a quasi
un mese di anticiclone libico. L’energia che si è accumulata nell’acqua e nell’aria è
intensissima».
A differenza dell’anticiclone delle Azzorre, che tradizionalmente accompagna le estati
italiane e funge da baluardo contro le perturbazioni, quest’anno in Italia si è installato
l’anticiclone libico, «che oltre a portare con sé temperature superiori anche di quattro o
cinque gradi è permeabile alle perturbazioni provenienti da ovest» spiega Maracchi. Caldo
intenso e instabilità meteorologica creano il giusto mix per nubifragi e trombe d’aria. Ecco
allora che sabato una perturbazione proveniente dalla Francia ha portato aria fresca verso
un Tirreno carico di calore e umidità. «Intorno alle 16 e 30 in Toscana un temporale molto
intenso ha iniziato a spostarsi a gran velocità dalla costa fino a Firenze» descrive Gozzini.
Eppure quel che i meteorologi si aspettavano per sabato pomeriggio era un temporale
estivo o poco più. Le previsioni registravano un livello di allerta giallo, quindi basso:
“temporali localmente intensi con forti venti e grandine”. «In questi giorni l’instabilità
pomeridiana è alta ovunque, specialmente vicino alle montagne. Ci aspettiamo dei
temporali estivi, ma non abbiamo strumenti per prevedere fenomeni intensi come quello di
Firenze, tantomeno per lanciare allarmi in tempo utile» spiega il tenente Stefania De
Angelis del servizio meteorologico dell’Aeronautica Militare. «Questa sorta di previsioni a
brevissimo termine, che in inglese si chiamano “nowcasting” richiedono strumenti e calcoli
davvero troppo complicati».
Il caldo di questa estate record renderà il tempo turbolento anche ad agosto. «Per i
prossimi tre o quattro giorni è prevista un’altra ondata di calore. Poi arriveranno nuove
perturbazioni e si ricreeranno condizioni non diverse da quella di Firenze. E così si
dovrebbe andare avanti per tutto il mese» prevede Maracchi.
del 03/08/15, pag. 19
Trecento alberi ko un’ecatombe verde
Nardella mobilita anche i profughi
Milioni di danni, chiusa una parte dei lungarni La Toscana chiede a
Renzi lo stato d’emergenza
MASSIMO VANNI
FIRENZE. Il giorno dopo la città si sveglia con il sole. E i danni del tornado di sabato sera
appaiono chiari a tutti. Sono 330 gli alberi abbattuti in soli 45 minuti di pioggia e vento a
150km orari che ha devastato la zona sud della città. Sul viale d’ingresso in città, sbarrato
fino a giovedì, quasi una pianta su due è a terra.
In più, 6 scuole colpite, 7 impianti sportivi stravolti. Un totale di 10 feriti, di cui uno grave:
un ragazzo di 19 anni sorpreso a pescare in Arno dalla bufera è finito sotto un albero ed è
stato operato alla testa. Sono 6 le palazzine scoperchiate, 28 le famiglie evacuate. La
stima dei danni? Siamo ancora lontani, ma si conterà in milioni.
È lo stesso tornado responsabile dell’odissea notturna per i tremila viaggiatori rimasti
bloccati al di qua o al di là di Firenze, perché a Campo di Marte le linee aree
dell’alimentazione sono crollate sotto un pezzo di tetto. Col risultato che per almeno
cinque ore i passeggeri a terra o nei convogli non hanno avuto informazioni né hanno
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ricevuto una bottiglietta d’acqua. Almeno i treni, durante la mattinata, sono tornati regolari.
Ma proprio il sole svela una città ferita.
Il sindaco Dario Nardella rientra da Londra, dove stava trascorrendo qualche giorno di
vacanza: «Un tornado eccezionale, come un bombardamento chirurgico. Un evento non
prevedibile», dice lanciando una sottoscrizione popolare per far rinascere i parchi sud
della città ormai desertificati. Nardella annuncia anche che già da stamani si ricorrerà alle
braccia dei 900 migranti ospitati in città: «Sotto il coordinamento dei nostri tecnici, li
impiegheremo per i primi interventi sul verde». Mentre il governatore toscano Enrico Rossi
ricorda «la convenzione attivata con Inail per l’assicurazione per lavori di pubblica utilità».
In compenso il prefetto fiorentino Alessio Giuffrida ha già chiesto al Viminale di
sospendere l’accoglienza in città di altri profughi per alcuni giorni, «almeno fino al 10
agosto».
Nardella e Rossi sono d’accordo anche sulla richiesta dello stato di emergenza al governo
Renzi: «Ho parlato con il sottosegretario Lotti, c’è una prima disponibilità», sostiene
Nardella. Stato di emergenza, non di calamità. Perché se quest’ultimo riguarda
l’agricoltura, lo stato d’emergenza è per danni a cose e persone. Il governatore Rossi lo
firmerà oggi per tutta la Toscana (c’è anche l’Elba colpita dal maltempo). E se il governo lo
seguirà, agli stanziamenti della Regione si aggiungeranno quelli dello Stato. Una speranza
di rimborso in più per i tanti privati danneggiati.
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INFORMAZIONE
del 03/08/15, pag. 8
Rai,una donna al vertice ma al premier serve
il sì di Berlusconi o Grillo
La Soldi o Dall’Orto per il Dg. Si tratta sul presidente in Vigilanza il
governo ha 22 voti,ne mancano 5
TOMMASO CIRIACO
ROMA . Una donna al vertice della Rai. Per dare un segnale di novità e convincere anche
i dubbiosi a sostenere il pacchetto di nomine di viale Mazzini. Matteo Renzi segue dal
Giappone il rebus della tv pubblica. Decidesse di colorare di rosa la direzione generale, il
nome sarebbe già pronto: Marinella Soldi, ad di Discovery Italia. È possibile però che
preferisca affidare il timone manageriale dell’azienda ad Antonio Campo Dall’Orto, ricevuto
a Palazzo Chigi solo quarantotto ore fa. A quel punto, il premier riserverebbe a una donna
l’altra poltrona di prestigio, quella di Presidente di garanzia. Che, va ricordato, dovrà
comunque strappare il gradimento di Silvio Berlusconi o dei grillini.
L’ex Cavaliere ha delegato ai capigruppo il primo tempo della partita. Per questo Paolo
Romani e Renato Brunetta, affiancati da Augusto Minzolini, si ritroveranno oggi stesso per
stilare il dossier preliminare. Subito dopo saranno ricevuti da Berlusconi e Gianni Letta:
spetta a loro il via libera definitivo al pacchetto azzurro. Tra i possibili consiglieri
d’amministrazione in quota FI circolano i nomi di Enzo Iacopino - presidente dell’Ordine
dei giornalisti - del direttore del Giorno Giancarlo Mazzuca e di Arturo Diaconale, alla
guida dell’Opinione della libertà. Ma la partita più delicata, come detto, si gioca sulla
Presidenza.
Equilibri politici così precari trasformano la definizione dell’organigramma di viale Mazzini
in una sfida ad alto coefficiente di difficoltà. E costringono Renzi a fare i conti con un
pallottoliere sfavorevole. «Il nome del Presidente, alla fine, dovrà essere gradito a FI giura Maurizio Gasparri - Insomma, sarà un moderato». Informalmente, gli emissari
berlusconiani hanno già recapitato a Palazzo Chigi un paio di proposte: si parla dell’ex
sottosegretario a Palazzo Chigi Antonio Catricalà e dell’ex direttore di Rai 1 Fabrizio Del
Noce. Senza suscitare particolari entusiasmi, riferiscono. «Penso che la sfida sia quella di
trovare un candidato di alto profilo», rilancia Michele Anzaldi. Lui e gli altri dem in Vigilanza
si vedranno oggi per decidere i nomi del cda. Comunque vada, un patto complessivo con
le opposizioni va siglato. E mentre pare che Paolo Mieli si sia sfilato dalla corsa per la
Presidenza, il momento della verità si avvicina.
Per nominare definitivamente il Presidente - indicato mercoledì dal Tesoro assieme al
direttore generale - occorre il via libera dei due terzi della Vigilanza, in agenda per giovedì.
Servono quindi 27 membri su 40, mentre l’area di maggioranza può contare al massimo su
22 consiglieri (ai quali in extremis potrebbero aggiungersi i due verdiniani). Comunque
troppo pochi. Per questo sottotraccia le trattative con Forza Italia e grillini sono già avviate.
La composizione della commissione, tra l’altro, subirà nelle prossime ore un paio di
modifiche: per rispettare la rappresentanza dei gruppi, un parlamentare azzurro e uno
pentastellato dovranno fare posto a un fittiano e a un esponente di Gal.
Sul cda si combatte una sfida nella sfida. Ai tre membri della minoranza dem in Vigilanza
(Gotor, Martini e Fornaro) spetterà l’indicazione di uno dei consiglieri di amministrazione
del Pd (circola il nome di Beppe Giulietti), mentre i renziani starebbero valutando le ipotesi
Nino Rizzo Nervo, Mario Morcellini (dipartimento comunicazione della università La
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Sapienza) e Stefano Balassone, già in passato nel cda Rai. Quanto ai cinquestelle, si
fanno i nomi di Milena Gabanelli - giornalista di Report - e Carlo Freccero. Nel bel mezzo
della trattativa si fa sentire anche l’Usigrai: «Se per ogni riga sul totonomine Rai ne
dedicassimo una alla missione di servizio pubblico - ironizza Vittorio Di Trapani - avremmo
il dibattito più ampio d’Europa».
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 03/08/15, pag. 2
«Una centrale di sesso e droga»
Perché è stato chiuso il Cocoricò
ROMA Tre ragazzi morti, sette ricoverati in coma, uno sottoposto a trapianto di fegato. Al
Cocoricò ci si diverte così. Sballati fino a perdere i sensi, a volte addirittura la vita. Storditi
da ecstasy e anfetamine mescolati ai superalcolici. Ragazzi, spesso anche minorenni, che
si drogano, fumano, partecipano a spettacoli porno. Senza bisogno di andare in giro,
perché tutto quello che cercano lo trovano nel locale della riviera romagnola, dove i pusher
si mescolano ai clienti che spesso si trasformano poi in spacciatori.
Simbolo di eccessi
La relazione del questore di Rimini Maurizio Improta che ha disposto la chiusura della
discoteca per quattro mesi, descrive nei dettagli quello che sembra un vero e proprio
girone infernale. La conclusione è netta: «I fatti dimostrano in maniera ineluttabile come il
Cocoricò sia divenuto nel tempo un punto di riferimento per persone pericolose, orbitanti
nell’ambiente dello spaccio e del consumo smodato — ovvero dell’abuso — di sostanze
stupefacenti e psicotrope con gravi e ricorrenti ripercussioni, oltre che per l’ordine e la
sicurezza pubblica, anche e soprattutto per la salute e l’incolumità dei giovani
frequentatori. Il locale è ormai percepito e incontestabilmente considerato negli ambienti e
circuiti reali e virtuali del mondo giovanile, un simbolo degli eccessi, un luogo dove è
ammissibile abbandonarsi a forme estreme e incontrollate di divertimento che portano i
giovani avventori a perdere il contatto con la realtà e a non percepire più i segnali di
allarme del proprio organismo».
La prima volta accade il 20 dicembre 2004. Gli operatori del 118 entrano nella discoteca e
trovano un giovane privo di sensi che ha preso diverse pasticche. Provano a rianimarlo,
non ci riescono. Lo trasferiscono al Pronto soccorso, ma è inutile, muore poche ore dopo
senza mai riprendere conoscenza. «Decesso da metanfetamine», stabilisce l’autopsia.
Succede di nuovo il 2 gennaio 2014. Un napoletano di 32 anni viene trovato cadavere
nella stanza dell’hotel Miramare di Rimini. «Le indagini dei carabinieri — è scritto nella
relazione che dispone la chiusura del Cocoricò — attribuiscono il decesso ad arresto
cardiocircolatorio che è risultato essere stato provocato dall’abuso di una mistura letale di
alcol e droga ingerita durante la serata precedente trascorsa con gli amici al Cocoricò ».
La nuova tragedia avviene il 19 luglio scorso quando Lamberto Lucaccioni, 16 anni, sviene
mentre sta ballando. Lo trasferiscono con l’ambulanza all’ospedale di Riccione ma anche
per lui non c’è nulla da fare. Muore poche ore dopo. Il cuore non regge all’abuso di
metanfetamine. L’indagine accerta che «si è procurato la sostanza stupefacente in due
distinte occasioni: la prima a Città di Castello, dove abita, e la seconda al Cocoricò dallo
stesso fornitore. E ciò dimostra che pur avendo a disposizione le pasticche da giorni,
abbia preferito consumarla in uno “spazio emotivo” ben definito perché nella sua
concezione di divertimento le serate organizzate nel locale rappresentano il luogo
“perfetto” dove assumerla».
Coma e trapianti
Il 27 novembre 2011 un ragazzo finisce in coma e per salvarlo i medici gli trapiantano il
fegato. Pochi mesi dopo, nell’estate del 2012, ci sono ben tre giovani trasportati in
rianimazione. Altri due episodi vengono denunciati nel 2013. Evidenzia il questore:
«Presso la discoteca risulta attivato, a richiesta dei gestori, un presidio di soccorso
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sanitario garantito dalla società “Croce Azzurra” operativo dal 2013 specialmente nel fine
settimana o soltanto durante taluni eventi organizzati da mezzanotte alle 5. Il presidio,
composto da un tecnico d’emergenza e un infermiere professionale, con ambulanza,
interviene sia all’interno, sia all’esterno del locale. Il servizio non ha predisposto un
sistema di tracciamento sulle prestazioni erogate e sulle generalità delle persone assistite,
ma nel 2014 ha documentato 14 interventi che hanno richiesto il trasporto del paziente in
ospedale di Riccione per abuso etilico, traumi o lesioni personali derivanti da terzi».
L’attrazione porno
C’è la droga, ci sono gli alcolici venduti anche a chi ha meno di 18 anni. E poi c’è il sesso.
Il 12 maggio 2014 ai gestori del Cocoricò viene notificata una diffida «per aver organizzato
nella discoteca “spettacoli teatrali” contrari al buon costume cui hanno potuto assistere
avventori minorenni (ammessi in sala nonostante l’espresso divieto contenuto nella
licenza), realizzati mediante l’esibizione di figuranti e artisti completamente nudi, collocati
a coppie ai lati di alcuni portali attraverso i quali i frequentatori erano costretti a passare
per poter accedere in sala e senza poter evitare di strisciare sui loro corpi».
Non succede nulla e il 12 agosto dello stesso anno scatta un nuovo provvedimento che
sollecita i gestori a «interrompere gli spettacoli osceni». Anche questa volta il risultato non
arriva, ma evidentemente ciò non è sufficiente per prendere misure più drastiche. Quelle
che il nuovo questore ha invece ritenuto indispensabili.
del 03/08/15, pag. 2
La stretta sulla movida
I punti Il Viminale intende tenere fede alla stessa linea tenuta nel caso di
Riccione: in caso di irregolarità il locale dovrà chiudere subito La stretta
sulla movida 94,5 Chili Nel mese di giugno sono stati sequestrati dalle
squadre antidroga della polizia di Stato 94,565 chilogrammi di eroina. La
quota più importante, pari a 41, 415 chili, è stata ritirata nella provincia
di Forlì.
Chiusura immediata in caso di irregolarità, più controlli antidroga
dentro i locali La direttiva per combattere spaccio e abusi nelle «piazze»
del divertimento notturno
ROMA La linea tracciata dai vertici del Viminale è quella adottata a Rimini: di fronte a
irregolarità dovrà scattare immediata la chiusura. Niente rinvii o ripensamenti perché in
gioco c’è la vita dei giovani e dunque bisognerà agire con il massimo rigore. La direttiva
era stata imposta già alla fine di maggio, proprio in vista dell’estate, quando il capo della
polizia Alessandro Pansa si era confrontato con i questori e aveva concordato con loro
sulla necessità di intensificare i controlli in tutte quelle «piazze» del divertimento che
troppo spesso si trasformano in luoghi di morte.
Discoteche, ma anche luoghi dove si organizzano rave party, punti di ritrovo che troppo
spesso vengono governati da spacciatori italiani e stranieri.
Test su chi guida
Molta attenzione è puntata sul lavoro della Stradale con i controlli sperimentali che nel fine
settimana vedono lavorare le pattuglie miste di agenti e ufficiali medici. L’obiettivo è
evidente: impedire che possano guidare o comunque andare in giro persone sotto effetto
di alcol o stupefacenti, o addirittura entrambi. Il primo accertamento si fa con l’etilometro,
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poi scattano le nuove verifiche. E allora la procedura prevede il prelievo di tre campioni di
saliva. La prima analisi si fa sul posto, se c’è reazione alla presenza di droghe scatta il
ritiro preventivo della patente. Il secondo campione viene sottoposto al test il giorno
successivo: se il risultato è nuovamente positivo, la patente viene inviata in prefettura e
scatta anche la sanzione. Il terzo, viene tenuto per eventuali contestazioni, ma anche per i
provvedimenti che il prefetto può prendere se si tratta di consumatori abituali.
Sms gratuiti
La direttiva del prefetto Pansa non lascia equivoci rispetto alla necessità «di combattere il
fenomeno dello spaccio che colpisce fortemente i cittadini e le loro famiglie».
Non a caso viene sollecitata «la possibilità di incentivare tutte le modalità di acquisizione di
elementi informativi da parte dei cittadini come la direttiva che nel settembre 2014 ha
introdotto il servizio di sms telefonico, gratuito per i denuncianti, con il quale poter
segnalare episodi di spaccio negli istituti scolastici e nelle adiacenze degli stessi».
Quanto previsto per le scuole si applicherà dunque anche alle discoteche e a tutte le altre
zone dove i giovani si incontrano. Perché, questo sottolinea Pansa «allo scopo di
contribuire all’innalzamento degli standard di sicurezza della comunità è stata prevista la
promozione di campagne di sensibilizzazione nei confronti dei cittadini che saranno invitati
a fornire ogni informazione ritenuta utile ai fini preventivi e repressivi e a interloquire con le
forze di polizia anche mediante gli strumenti informatici di cui le stesse dispongono».
Licenze e orari
Si punta alla prevenzione, ma si agisce anche con la repressione. Sono stati pianificate
attività in tutti i locali maggiormente frequentati dai ragazzi. Oltre alle verifiche
amministrative sulle licenze, grande attenzione è stata raccomandata per la vendita di
alcolici: chi consente ai minori di poter bere, rischia i sigilli immediati. Uguale
provvedimento deve scattare se non si rispettano gli orari di chiusura. Non solo. Le
discoteche dovranno garantire di poter contare su un servizio di vigilanza che impedisca
l’ingresso e l’attività di chi vende droga, ma anche di chi organizza festini con minorenni o
comunque agevola la prostituzione.
A Rimini e Riccione, ma anche in altre zone della penisola dove maggiore è la
concentrazione di discoteche, si è deciso di «predisporre un articolato sistema di controlli,
che partendo dalle stazioni, dai caselli autostradali e dalle principali arterie stradali e
arrivando sino ai locali di divertimento vigila sul percorso che i giovani normalmente
attraversano nei fine settimana, garantendo loro sicurezza e incolumità».
F.Sar.
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ECONOMIA E LAVORO
del 03/08/15, pag. 7
Rappresentanza,legge più vicina
ROMA.
L’idea è quella di legare rappresentanza ed esercizio del diritto di sciopero: chi meno
rappresenta ha meno possibilità di dichiarare astensioni dal lavoro che rischiano di
bloccare i servizi pubblici anche con pochi aderenti. Il governo sta studiando le possibilità
di intervento anche se, fanno sapere dal ministero del lavoro, della questione non si
parlerà prima della ripresa dopo la pausa esiva.
Le parole di Renzi e la reazione di Susanna Camusso hanno innescato il dibattito. La
polemica del premier contro gli scioperi organizzati dai piccoli sindacati e contro le
organizzazioni dei lavoratori che avrebbero «più tessere che idee» ha provocato la
reazione della segretaria della Cgil: «Renzi ci attacca sperando di riconquistare consensi
nell’elettorato moderato». Uno dei nodi da sciogliere è quello sulla rappresentanza. Il
ministro Delrio propone di varare una legge che stabilisca quali sindacati hanno titolo a
trattare in base al numero degli iscritti e al voto nelle elezioni di fabbrica. La Cgil è
d’accordo, la Cisl si oppone a una legge. Ma in questa direzione vanno anche gli
esponenti della sinistra dem come l’ex ministro del lavoro Cesare Damiano. « Condivido
l’opinione di Susanna Camusso, espressa nell’intervista a Repubblica - dice Damiano quando afferma che “lo scorso anno Cgil, Cisl e Uil hanno firmato insieme alle
associazioni degli imprenditori un accordo che stabilisce delle regole. Determina come si
misura la rappresentanza e come si rendono validi gli accordi con il voto dei lavoratori.
Basta tradurre quell’accordo in legge”». Secondo l’esponende del Pd, che da tempo ha
presentato proposte di legge alla Camera, si potrebbe utilizzare lo stesso criterio di
rappresentanza anche per stabilire quando è possibile dichiarare uno sciopero. Per
Damiano dovrebbe essere necessario il sì di almeno il 30 per cento dei lavoratori
interessati: «Ipotizzare la metà più uno - spiega - sarebbe irragionevole e significherebbe
nei fatti impedire l’esercizio del diritto di sciopero».
Per Maurizio Sacconi, ex ministro del lavoro nei governi Berlusconi, la legge sulla
rappresentanza non sarebbe invece utile. Al contrario servirebbero «regole più efficaci
sulla conciliazione tra il diritto di sciopero e altri diritti più rilevanti». Secondo Sacconi il
governo dovrebbe ascoltare le parti sociali collaborative «e non quelle che vogliono la
legge solo per poter andare in tribunale». Nella discussione interviene anche il leader della
Uil, Carmelo Barbagallo, che respinge la battuta di Renzi: «Noi abbiamo sia le tessere sia
le idee. Se Renzi vuole ascoltare le nostre proposte venga a bari all’assemblea nazionale
della Uil, il 17 settembre». Sarcastico il commento di Stefano Fassina, già viceministro
dell’economia poi esponente della minoranza dem e recentemente uscito dal partito:
«Renzi dice che i sindacati hanno più tessere che idee? Almeno loro le tessere le hanno
mentre mi pare che il Pd neanche a tessere, oltre che a idee, sia particolarmente in
salute»
(p.g.)
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del 03/08/15, pag. 7
Landini raccoglie l’assist di Palazzo Chigi
“Sì alla legge sulla rappresentanza”
Il leader della Fiom: se non recupera la democrazia, il sindacato è senza
futuro
Fabio Martini
Stavolta Maurizio Landini va a «vedere» il gioco di Matteo Renzi. accetta la sfida del capo
del governo, che è tornato a caldeggiare una legge per la rappresentanza dei sindacati.
«Certo - dice il leader della Fiom - una legge di questo tipo può essere pensata con
significati diversi, bisogna capire bene quale obiettivo c’è dietro, ma se si vuole davvero
fare una legge semplice, non invasiva, che garantisca diritti e trasparenza, può aprirsi una
discussione. E d’altra parte se il sindacato non fa della democrazia il terreno del suo
rinnovamento, non vedo un grande futuro». La più recente provocazione del presidente
del Consiglio («Nel sindacato molte tessere, poche idee») era un involucro che conteneva
una proposta importante, quella di una legge sulla rappresentanza, sulla carta destinata a
democratizzare la vita nei posti di lavoro e all’interno delle organizzazioni sindacali.
Quella di Renzi è soltanto una provocazione o coglie una debolezza del sindacato?
«Che esista una crisi della rappresentanza sociale e delle organizzazioni sindacali è
assolutamente vero. Così come la maggioranza degli italiani non va a votare, così la
maggioranza dei lavoratori non è iscritta a nessuna organizzazione sindacale. In
particolare tra i giovani e i precari. Per esser buoni c’è un ritardo gravissimo delle
organizzazioni sindacali e questo impone di cambiare le politiche e anche il modo di fare».
Perché Renzi si è preso a cuore la rappresentatività del sindacato?
«Il premier non deve pensare che è lui che riforma il sindacato. Se vuole fare una cosa
buona, metta nelle condizioni chi lavora di partecipare di più, se vuole, alle scelte che lo
riguardano e al tempo stesso di riformare il sindacato».
Renzi potrebbe essere interessato ad una legge più democratica e anti-apparati che
favorisca l’ascesa alla guida della Cgil di Maurizio Landini, dunque un modo per
tenere un personaggio di peso come lei lontano dalla guida di un partito alla sinistra
del Pd...
«Questa prospettiva non esiste. La mia esperienza è - e resterà - tutta di lavoro. Sono
metalmeccanico quasi dalla nascita e la mia stessa proposta di una coalizione sociale
nasce per cercare di superare la crisi del sindacato e di un mondo del lavoro che non è
mai stato così diviso. E d’altra parte è stata la Fiom, nel 2010, a raccogliere le firme per
una legge di iniziativa popolare sulla rappresentanza».
Per lei quali sono i capisaldi di una buona legge?
«Penso ad una legge semplice, che misuri la reale rappresentanza dei sindacati, che dia
diritto ai lavoratori di potersi scegliere il proprio sindacato, che dia la possibilità ai lavoratori
di esprimersi sugli accordi, che diventano validi dopo il voto. Penso ad una legge che non
indebolisca la contrattazione nazionale e penso che nei posti di lavoro non debbano votare
soltanto gli iscritti ai sindacati ma tutti i lavoratori. È come se in politica si dicesse: alle
elezioni possono votare soltanto gli iscritti ai partiti. In Fiat, oggi Fca, non avendo condiviso
l’accordo, non siamo rappresentati alle trattative, ma nelle votazioni per i delegati alla
sicurezza, si sono già espressi 55.000 lavoratori e la Fiom è risultato il primo sindacato
con il 35%».
Una legge che potrebbe ridare trasparenza anche alla vita interna dei sindacati?
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«Penso di sì. Ho già denunciato la scarsa democrazia e la logica della cooptazione che
vige nel sindacato, la Cgil ha 5 milioni e mezzo di iscritti ma all’ultimo congresso votò
soltanto un milione e mezzo».
Gli iscritti tra i lavoratori attivi stanno diminuendo...
«È vero che gli iscritti sono diminuiti, bisogna essere onesti e riconoscerlo, ma è altrettanto
vero che organizzazioni come la Fiom vivono sul contributo degli iscritti, ognuno dei quali
versa al sindacato l’1% del proprio stipendio»
I tre sindacati confederali finora hanno fatto resistenza passiva verso una legge di
questo tipo? Dicono: trasformiamo in legge l’accordo con Confindustria...
«Un conto è l’accordo tra le parti, ma una legge deve esprimere i principi costituzionali,
deve garantire la libertà a tutti. Ai sindacati minori, per esempio, deve essere garantita la
libertà di potersi presentare, indipendentemente dal numero di voti che abbiano preso fino
a quel momento. E non si deve limitare il diritto di sciopero che la nostra Costituzione
riconosce quale diritto del cittadino lavoratore».
del 03/08/15, pag. 4
Sud,il governo accelera sui fondi Ue
Task force al lavoro per le aree di crisi
Approvati da Bruxelles 40 su 50 programmi,entro settembre gli altri
Renzi: “Ora basta con i piagnistei, rimbocchiamoci le maniche”
Un’immagine dello stabilimento siderurgico dell’Ilva a Taranto, un
simbolo della crisi industriale e economica del Mezzogiorno
ROBERTO PETRINI
ROMA . Matteo Renzi apre il fronte del Sud. Da Tokyo lancia l’«ok ricevuto» ai molti
allarmi (a cominciare da quello di Roberto Saviano su Repubblica ) che si sono susseguiti
negli ultimi giorni sullo stato dell’economia meridionale. Un’economia da sette anni in
recessione e anche quest’anno con il Pil, secondo la Svimez, in discesa (-0,7 per cento)
contro una crescita che al Nord potrebbe segnare l’1,3 per cento (lo 0,7 è la stima
nazionale). «Sul Sud basta piangersi addosso — ha detto Renzi — Certo è un grande
problema il fatto che il Sud cresce meno del resto del Paese, sicuramente il governo deve
fare di più, ma basta piagnistei, l’Italia è ripartita, lo dicono tutti i dati. Ora rimbocchiamoci
le maniche ».
Nonostante le polemiche suscitate dalla sortita del premier dall’Estremo Oriente (la
Carfagna di Fi lo ha subito accusato di aver liquidato «con fastidio» il caso-Sud) i motori
del governo e della maggioranza sono accesi: venerdì prossimo una direzione del Pd sarà
dedicata alla questione meridionale, la ministra Guidi annuncia una riunione degli
imprenditori e si attende il 12 settembre per il tradizionale appuntamento della Fiera del
Levante per rilanciare l’iniziativa di autunno.
Le carte in mano all’esecutivo tuttavia non sono molte, visti i vincoli di Maastricht. Dal
punto di vista delle risorse, devono essere giocate sul nuovo Accordo di parteniariato
2014-2020 per l’accesso ai Fondi strutturali europei: circa 30 miliardi cui va aggiunto il
cofinanziamento nazionale di 20 miliardi. Ma c’è anche da recuperare il vecchio
programma 2007-2013 che al 30 aprile del 2015 ha raggiunto impegni per il 77 per cento
(dal 70 per cento di fine 2014): l’obiettivo del governo è è di arrivare al 100 per cento
utilizzando la riprogrammazione da concordare con Bruxelles. Quanto al nuovo piano di
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finanziamento 2014-2010 sono stati già approvati dalla Commissione 40 programmi
nazionali e regionali: da oggi alla fine di settembre, spiega Palazzo Chigi, c’è l’intezione di
far approvare i 10 programmi che ancora mancano all’appello. «Sarebbe la più importante
operazione meridionalista dai tempi della Cassa per il Mezzogiorno: facciamo sul serio»,
fa sapere Matteo Renzi.
Sono molte le zone critiche dove nell’agenda del governo. A cominciare da Taranto dove
dove il 20 luglio è stato insediato il Tavolo istituzionale che si concluderà con
l’approvazione del Cipe ad ottobre e con la firma a novembre: un impegno di 600 milioni
per bonifiche, recupero ambientale , infrastrutture portuali, pistra logistica valorizzazione
turistica.
A Termini Imerese c’è l’accordo di programma per il rilancio del sito ex Fiat finalizzato ad
attrarre nuovi investimenti industriali. Al momento il Gruppo Ginatta ha rilevao lo
stabilimento e i 700 lavoratori sono in cassa integrazione. Si lavora al piano industriale con
Invitalia.
Nel mirino anche Gela: c’è il protocollo d’intesa con la regione e l’Eni per la riconversione
della rafineraia a raffineria« verde » con effetti invariati per l’occupazione. L’obiettivo è
quello di dichiarare la zona area di crisi industriale . Protocolli d’intesa sono stati raggiunti
nel Sulci (Eurallumina e Portovesme), Porto Torres (Eni-Novamont), Murge (distretto del
mobile).
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