2 - Antonio e Teresa

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2 - Antonio e Teresa
Mariano Barletta – Tra marosi e nebbie – Seconda parte
Mariano Barletta
Tra marosi e nebbie
Memorie di un sopravvissuto all'eccidio di Cefalonia
Seconda parte
Indice
Psomì ché tirì
Col bordone e la bisaccia
Da Socràtis
Dall'inverno alla primavera
Marius
Sulla via del ritorno
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Mariano Barletta – Tra marosi e nebbie – Seconda parte
Signore, fa ch'io mi ricordi!
... Nulla è più soave,
Dio, che la fine del dolor; ma molto
duole obliarlo; ché gettare è grave
il fior che solo odora quando è colto.
(G. Pascoli)
8 - Psomì ché tirì
Con il ritorno, dopo appena un giorno, a quel villaggio rupestre dal quale eravamo partiti con tanta speranza, ebbe inizio un nuovo corso della mia odissea che, pur riservandomi privazioni, sofferenze, ore d'indicibile tristezza e profondo sconforto, segnò tuttavia la svolta decisiva affinché un giorno, purtroppo ancora lontano, potessi ritornare a casa.
Continuare a ritenere possibile un rimpatrio più o meno prossimo, come ci aveva fatto
intendere il partigiano incontrato per primo a Spilea, era ormai pura illusione dopo le inequivocabili prove di disinteresse della nostra sorte da parte di chi avrebbe dovuto condurci ad uno dei
commandi inglesi che, ad onta della presenza delle truppe tedesche, erano sparsi un po' dovunque sul suolo greco. Per il momento, quindi, l'unica cosa che potevamo fare era di tenerci nascosti in una località recondita, lontana dai grandi centri urbani e raggiungibile con una lunga marcia a dorso di mulo e Achirà, per la sua ubicazione del tutto rispondente a questi requisiti, ci
parve che facesse proprio per noi.
I tre soldati - Giuseppe Arrigo, Domenico Curci ed Ernesto Settimio - che con me e De
Angelis avevano fatto ritorno al villaggio, senza troppe difficoltà trovarono conveniente lavoro
agricolo sul posto in cambio di vitto, alloggio e qualche indumento usato; Giuseppe ed Ernesto
presso contadini benestanti, Domenico presso il pope che aveva anche lui qualche campicello da
coltivare. Pertanto, soltanto per me e De Angelis si presentò il duplice problema: dove trovare
ricetto e come provvedere al quotidiano sostentamento. Il primo fu risolto mercé la magnanimità
di Travalos, proprietario della capanna, che ci autorizzò a farne la nostra dimora; il secondo fu
risolto da noi stessi: affidandoci alla divina Provvidenza.
Cominciò così una nuova vita tra quei montanari; contadini e pastori che spesso, con
certi occhi neri e penetranti, avevano un aspetto burbero, forse anche truce, ma quasi sempre
l'animo generoso.
Ad ogni levarci al mattino, ci si domandava: chi ci darà da mangiare? Non era certamente facile prevederlo ed a volte pareva proprio che fossimo condannati al digiuno, ma, in verità, per oltre un anno, non ci fu un giorno senza che qualcuno spontaneamente non venisse a
noi col pane quotidiano.
Non appena la luce del nuovo dì si diffondeva nella capanna attraverso i numerosi spiragli, balzavamo in piedi dal nostro giaciglio di foglie di granturco; come buone massaie mettevamo un po' d'ordine e quindi salivamo al villaggio. Giunti a quel larghetto rupestre che, con un
po' di fervida immaginazione, poteva ritenersi la piazza principale, andavamo a sederci in un ritrovo sui generis che gli abitanti del luogo chiamavano "magasì".
Era questo un vano rettangolare, circa tre metri per cinque, al quale si accedeva attraverso una porta situata in un angolo. L'interno, imbiancato a calce, riceveva luce da tre piccole finestre, due nella parete più corta a sinistra di chi entrava, la terza nella stessa parte della porta.
L'arredamento, in legno grezzo, era costituito da un paio di tavoli, da panche aderenti alle pareti
e, in fondo a destra, da un banco di vendita dietro il quale, connessa alla parete c'era una scaffalatura. Sul banco, immancabilmente, stava una bottiglia di anice con qualche bicchierino, oltre
un annerito bricco per preparare la scura infusione che veniva detta caffè. Sui ripiani della scaffalatura, incredibile a dirsi, erano in mostra numerosi astucci azzurro scuro di "Super iride" un
prodotto italiano abbastanza noto in quel tempo, consistente in polvere colorante per tingere indumenti. Il ritrovo era gestito da due giovanotti, due fratelli molto garbati, con la collaborazione
della vecchia madre, ma quale utile ricavassero da quell'attività era difficile capire.
Quando io e De Angelis si entrava, scandendo un deferente "kalimèra" l'attività commerciale del magazzino era già bene avviata; dietro il banco di vendite, il più atletico dei due
fratelli era affaccendato con l'anice, col bricco, con i coloranti e sulle panche - se non era un
giorno di pienone, per la ricorrenza di una festività o perché la pioggia imponeva di stare al
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chiuso - i pochi frequentatori abitudinari erano già ai consueti posti. Più o meno avanti negli anni, portavano il copricapo tondo e floscio a mo' di papalina, la corta cappa appesa alla spalla sinistra, la pipa abilmente ricavata da un ramo di noce, un sacchetto con le foglie di tabacco ed il
"macheri", l'immancabile coltello dalla lama curva, spesso di fattura pregiata, atto a tutti gli usi,
custodito nella guaina mantenuta al fianco sinistro dalla fascia che girava intorno alla vita.
Poi, col progredire del mattino, venivano altri ancora, meno anziani o giovani, unicamente per incontrarsi, per parlare dei fatti del giorno o per giocare a poker, mentre le loro donne
erano impegnate in duri lavori: attingere l'acqua che sgorgava a monte, da un anfratto della roccia; trasportare fascine per il focolare domestico; lavare il grano nelle acque del torrente che
scorreva in fondo alla valle.
Di preferenza, noi si andava a sedere presso la seconda finestra a sinistra, non lontano
da una carta dell'Europa attaccata alla parete e grande quanto un comune atlante scolastico, e
rimanevamo lì lungo tempo, ora cercando d'identificare, sulla minuscola rappresentazione del
continente insanguinato, le posizioni dei belligeranti, ora cercando di capire qualche cosa dell'incomprensibile conversare di quei lontani discendenti degli Achei.
Le discussioni su argomenti di poco conto, rivelando facilmente una sostanziale convergenza di opinioni, erano serene, ma quando si affrontavano questioni spinose come il futuro assetto sociale del paese, allora il divario delle idee a poco a poco riscaldava gli animi e il tono
delle voci raggiungeva altezze inusitate. Qualcuno balzava in piedi, arringava con veemenza e,
gesticolando, pareva che volesse rafforzare l'espressione verbale del suo pensiero servendosi del
bastone; l'oppositore reagiva in uguale misura e a volte sembrava che la contrapposizione delle
argomentazioni stesse per degenerare in una zuffa; invece niente di questo: gradualmente le voci
riprendevano la normale tonalità, il gesticolare veemente scemava, ciascuno ritornava alla sua
panca ed infine i protagonisti di quella buriana, da buoni amici, lasciavano insieme il magazzino.
Poco dopo il mezzodì, gli avventori, annoiati della prolungata inerzia fisica e forse anche perché sollecitati dal richiamo del desco, a uno o a due la volta prendevano la via di casa ed
era a tal punto che qualcuno, leggendoci in viso la grande pena che ci avvinceva, sommessamente domandava:
"Psomì?" - oppure, ricorrendo ad un italiano storpiato, ma più intelligibile - "Mangeria?"
No, non avevamo nulla da mangiare e allora il buon'uomo c'invitava a seguirlo e giunti
alla casa, facendo uso dell'inseparabile coltello col quale poco prima aveva triturato foglie di tabacco e raschiato internamente il fornello della pipa, ci dava quanto poteva di "psomì ché tirì", il
pane di granturco poco lievitato ed il formaggio pecorino pazientemente lavorato a mano con la
zangola, i due commestibili di grande consumo locale.
Nei rari casi di una maggiore disponibilità di generi alimentari, il nostro benefattore
c'invitava ad entrare nel suo alloggio, a sedere alla turca insieme a lui, davanti al rudimentale
camino per cuocere le vivande, e lì la buona donna di casa ci dava da mangiare un piatto caldo,
quasi sempre il tradizionale "draganà", un miscuglio di grano e latte essiccato al sole e conservato per l'inverno.
In quel primo periodo della nostra permanenza clandestina ad Achirà, oltre Travalos,
che ci concesse l'uso della capanna, ci dimostrarono una particolare benevolenza due giovani,
Vassili e Pips, appartenenti entrambi ad un'organizzazione segreta per la liberazione della Grecia, ma con finalità politiche non molto chiare. Spesso si allontanavano dal villaggio per breve
tempo, ma quando erano al magazzino e pareva che per quel giorno le vie della provvidenza
fossero ostruite, l'uno o l'altro, se non poteva provvedere di persona, sapeva a chi rivolgersi perché non ci mancasse il pane.
Se non pioveva, il pomeriggio lo trascorrevamo lontano dal magazzino e dalla capanna,
sdraiati a terra in qualche posticino appartato tra le rocce, al cospetto della valle che intristiva
sempre più col declinare dell'autunno. Quando potevano, si univano a noi i tre soldati e lì, in
cinque, le ansie e le pene di ognuno trovavano conforto nelle ansie e nelle pene degli altri.
Ernesto e Giuseppe, due ragazzi di gran cuore, molto bravi nei lavori campestri, se la
passavano abbastanza bene, ma ancor meglio Domenico in casa del pope, un brav'uomo dal viso
schietto sul quale, nella cornice nero ebano della folta chioma e della lunga barba, spiccavano
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gli occhi lucidi e sereni ed i baffi spioventi; questo ministro della religione greco-ortodossa
l'aveva come di famiglia e forse non sarebbe stato alieno di dargli in moglie una delle figlie.
Verso sera, scendendo a valle per rinchiuderci nel rifugio, passavamo davanti alla chiesetta che veniva aperta al culto nelle ore antimeridiane della domenica e dei giorni di particolare
ricorrenza, e di lì costeggiavamo il cimitero, una radura circoscritta da un muretto a calce ove,
tra sterpi ed erbacce, non sempre era facile identificare le tombe.
Giunti alla capanna, accendevamo con le dovute cautele un bel fuoco a piè della parete
di fronte alla porta d'ingresso. A volte la legna non era sufficiente ed allora, mentre De Angelis
s'industriava a mantenere viva la fiamma, io mi avventuravo nei dintorni a raccogliere rami secchi e quant'altro potesse essere utile; una sera, mosso dall'ansia di fare una buona provvista di
legna, mi spinsi molto più lontano e da una baracca in legno la cui costruzione appariva sospesa
da lungo tempo, sfilai una trave di circa tre metri e la portai alla capanna. Il mio compagno di
sventura ne fu compiaciuto, ma con qualche riserva perché, giustamente, bisognava evitare di
arrecare danni a quanto apparteneva a quella brava gente.
Per quanto fossimo sul finire dell'autunno ed immersi nell'umidità notturna della valle,
l'accensione del fuoco, più che per riscaldarci, era dovuta alla necessità d'illuminare la capanna
e di impegnarci in un passatempo. Seduti uno per lato accanto alla fiamma, rimanevamo lì lungo
tempo ad attizzare, a parlare di quanto ci era occorso durante il giorno, a rinvangare, se eravamo
in vena, cose del nostro passato, a vagheggiare disegni per l'avvenire.
"Quando sarò a Roma, scriverò un romanzo intitolato: Psomì ché tirì." - disse una di
quelle sere De Angelis alludendo alla quotidiana elemosina di pane e formaggio che costituiva
una delle cose più caratterizzanti il nostro tenore di vita ad Achirà. Invero, non sapevo quanta
credibilità si potesse accordare a quel manifestato proposito, ma sta di fatto che anch'io pensavo
che il ricordo di quel duro periodo della mia vita non dovesse disperdersi nelle nebbie dell'oblio;
a questo fine, anziché affidare tutto alla memoria, sarebbe stato utile stendere un diario, cosa che
mi avrebbe anche tolto dall'assoluta inerzia cerebrale, ma dove trovare un quadernetto e una
matita?
Durante uno di quei colloqui accanto al fuoco, improvvisamente la porta venne aperta e
sullo sfondo buio della notte che tetra incombeva sulla valle, apparve un giovane, un pastore
ben piantato che non conoscevamo, ma che sapeva di noi. Entrò proferendo il rituale "kalinikta"
e, come se ci conoscessimo da lungo tempo, venne a sedere fra noi, davanti al fuoco, e mentre
s'informava ancor meglio delle nostre cose passate e presenti, tirò fuori dalla bisaccia che portava a tracolla una schiacciata di granturco e, staccatene tre grosse fette, su entrambi i lati di ciascuna, con la punta del coltello, praticò lunghe e profonde incisioni che s'incrociavano ed infine,
sostenendole con mucchietti di cenere, le dispose verticalmente a breve distanza dalla brace.
Quando, dopo avere invertito ciascuna faccia gli parve che le tre fette fossero abbrustolite al
punto giusto, ne diede una a ciascuna di noi perché gli facessimo compagnia nella cena.
Quel pastore, che aveva nome Iorg, curava un gregge di sua proprietà di oltre cento pecore che, secondo la consuetudine locale, erano tenute all'aperto giorno e notte con continui
spostamenti da un pascolo all'altro; rifornito di pane e formaggio ogni tre quattro giorni da un
galoppino, egli rimaneva lontano dalla casa anche due settimane, senza mai svestirsi e dormendo avvolto nella cappa accanto al gregge, quando i lupi gli consentivano di dormire.
Dopo quella prima visita, altre ne seguirono, sempre alla stessa ora, sempre con l'offerta
di fette di schiacciata e qualche volta anche di tabacco che il pastore triturava minuziosamente,
prima di darne parte a De Angelis perché ne facesse una sigaretta. Tutto questo, naturalmente,
mentre si parlava degli ultimi eventi bellici di cui vagamente si sapeva; dei tedeschi che ancora
non si accingevano a ritirarsi dalla penisola balcanica; della sua vita randagia con le pecore, e
quando tutto ciò veniva a noia allora il pastore si compiaceva d'insegnarci la numerazione in
lingua greca: éna, dìo, trìa … déca … ecaton
Trascorsi i primi giorni ci accorgemmo che nella capanna non eravamo soli; attratti forse da qualche avanzo di granaglie, un imprecisato numero di grossi topi si aggirava soprattutto
fra le secche foglie di granturco quando non si avevano sortite all'aperto.
"Vai via!" - gridava talvolta De Angelis quando, col suo udito fine, avvertiva che l'intraprendenza di uno di quei roditori stava per passare ogni limite. Alla perentoria intimazione
seguivano alcuni secondi di silenzio assoluto, poi quell'immonda bestiaccia riprendeva a tramestare le foglie. Si andava avanti così per circa un paio d'ore poi, sia perché stanchi, sia perché le
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braci erano per spegnersi, coprivamo quel fuoco residuo con uno strato di cenere ed infine andavamo a distenderci sulle foglie, sempre allo stesso posto per non renderle tutte poco gradite al
palato dei cavalli e dei muli ai quali erano riservate. Cominciava così il tormento delle interminabili ore al buio.
Il pope, sollecitato da Pips, aveva donato a ciascuno di noi un piccolo consunto tappeto,
di quelli che nei giorni di particolare solennità religiosa venivano distesi sul pavimento della
chiesa, noi l'usavamo a mo' di coperta per difenderci alquanto dal freddo umido che cominciava
a farsi sentire durante la notte.
Giacendo su di un fianco sotto quel ruvido drappo alquanto rigido, che invano cercavo
di tenere aderente al corpo, dopo il primo sonno propiziato da una giornata di pensieri assillanti,
tante volte mi svegliavo con la poco lieta constatazione auditiva che un topo, tra la massa delle
foglie, non era lontano dalla mia testa. Atterrito al pensiero di trovarmelo da un momento all'altro sul viso, cominciavo a tempestare di pugni il giaciglio, sperando che l'importuno roditore,
spaventato, si allontanasse, ma, purtroppo, il mio battere aveva scarsa efficacia. Mi venne allora
l'idea di munirmi di un vincastro di sufficiente spessore da infilare verticalmente tra le foglie
quando avvertivo che quella specie di perforatrice animale era in azione; passai così alla difesa
attiva, ma non senza trepidazione perché sapevo che, se la punta del vincastro avesse casualmente colpito il topo, c'era da temere la sua violenta reazione aggressiva, tanto più temibile in
quanto ero nell'assoluta oscurità.
Purtroppo quei roditori, oltre a turbare la quiete notturna, ci procuravano anche danni
materiali senza che potessimo in alcun modo contrapporre adeguati accorgimenti protettivi. Un
pezzetto di sapone per la barba, donato da Vassili e subito, con grande cura, posto in una cavità
a mezza altezza di una delle pareti, il mattino seguente non c'era più, come non trovammo più
un grosso pezzo di pane che ponemmo sospeso come un lampadario al centro della capanna, all'estremità di un groviglio di fil di ferro spinato. Come se non bastasse, ci accorgemmo un mattino che durante la notte i tappeti erano stati qua e là abbondantemente rosicchiati.
La forzata convivenza con quegli esseri ripugnanti mi condusse ad una singolare constatazione: all'alba, quando il giorno si annunziava radioso, la loro attività era frenetica; agilissimi e fulminei si rincorrevano con acuto squittire da un capo all'altro sulle travi che reggevano
il tetto, senza alcun timore di noi che, esterrefatti, stavamo a guardare; quando invece l'alba era
cupa o senz'altro pioveva, se ne stavano tranquilli e silenziosi nelle loro tane. In seguito constatai che anche nelle notti di pioggia non si udiva il tramestare delle foglie; indubbiamente quei
nostri indesiderati coabitanti erano sensibilissimi allo stato del tempo.
Una notte, dopo il primo breve sonno, profittando che i topi non m'importunavano, me
ne stavo zitto zitto sotto la rigida coltre e rimuginare il passato, quando De Angelis, che come
me non riusciva a riaddormentarsi, accortosi che ero sveglio, mi rivolse all'improvviso una domanda scellerata:
"Che ne dici, mangeresti due uova al tegame?"
E qui - senza che mi desse il tempo di rispondere che, date le circostanze, due soltanto
erano poche, ma che comunque le avrei trangugiate - mettendo in mostra una certa conoscenza
di buona cucina, con una meticolosità da gastronomo, De Angelis prese a dirmi come inizialmente si debba sciogliere il burro nel tegamino e con quali accorgimenti si ottenga il tuorlo
molle e caldo nel bianco ben rattrappito.
Da quella notte, quando non si riusciva a dormire, il mio amico non fu avaro di disquisizioni gastronomiche ed io, spinto dal ricordo di tanti intingoli che per la privazione prolungata
cominciavano a farmi gola, a poco a poco provai piacere ad interessarmi a quelle particolareggiate esposizioni, degne di un'esperta donna di casa, fino a farmene un'ossessione al punto che,
quando non era De Angelis a montare in cattedra perché dormiva, ero io a ripetere mentalmente
quanto ricordavo di quelle ricette di culinaria apprese in circostanze così singolari.
Ma più che per le assidue visite del pecoraro, più che per l'incessante attività subdola
dei topi e le appetitose disquisizioni di De Angelis, le mie notti di quel primo periodo trascorse
in quella recondita capanna della valle solitaria ai piedi di Achirà, si distinsero dalle altre che
seguirono per il costante impegno del mio inconscio a voler raccontare ai miei familiari la terrificante disavventura. Sempre che mi addormentavo, in un modo o in un altro, sognavo di arrivare a casa dopo lungo cammino e di trovarvi tutti i miei cari, anche quelli che dai lontani giorni
della mia giovinezza non erano più di questo mondo; stavano tutti lì come se si fossero riuniti
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nell'attesa del mio ritorno, immobili e muti, ma non appena mi accingevo a raccontare, iniziando
il mio dire sempre con le stesse parole:"Voi non sapete quanto mi è capitato …" istantaneamente dal sogno passavo alla realtà e sul momento ci restavo male.
Mentre andavamo lentamente abituandoci a quel tenore di vita che, tra la capanna ed il
magazzino, era terribilmente monotono e tetro anche per il sopraggiungere dei primi acquazzoni
invernali, il mercoledì 8 dicembre, sul tardi di un malinconico pomeriggio, avviandoci io e De
Angelis alla dimora, c'imbattemmo nei pressi del cimitero in Travalos il quale, dopo i consueti
convenevoli, sempre sulla bocca di quegli uomini semplici, premurosamente c'informò che al
villaggio erano giunti dei militari inglesi. Essendo Achirà un aggregato di poche decine di casupole sparse qua e là sul declivio di una montagna, ci parve strano che un siffatto avvenimento ci
fosse sfuggito e mostrammo pertanto una certa incredulità, ma l'altro fu categorico nel confermare, anzi ci consigliò di presentarci ad essi perché ne avremmo potuto trarre qualche insperato
aiuto.
Rientrati al rifugio e messici come di consueto accanto al fuoco, stemmo un bel po' col
pensiero intorno a quella nuova del tutto inaspettata. Indubbiamente, trattatasi di un commando
venuto a stabilirsi ad Achirà con chi sa quali compiti specifici non aventi nulla a che vedere con
la tragedia di Cefalonia; presentandoci, come saremmo stati accolti da questi ex-nemici? D'altra
parte, se era vero che gl'inglesi provvedevano al rimpatrio degli ufficiali italiani datisi alla macchia, come non potevamo non approfittare della favorevole occasione per un primo approccio?
Sebbene con scarsa propensione, stavamo cercando il momento propizio a presentarci,
quando nel pomeriggio del giorno seguente, mentre ce ne stavamo seduti all'aperto nei pressi del
magazzino, vedemmo un tenente inglese, biondo e mingherlino, sulla soglia di una delle capsule
sottostanti ove abitava il capo del villaggio; in breve decidemmo di parlargli e, detto fatto, percorso il breve tratto di viottolo in discesa ci avvicinammo all'ufficiale. Dapprima, ritenendo che
fossimo greci, ci guardò benevolmente in attesa che gli dicessimo cosa si voleva, ma non appena ci qualificammo, i muscoli facciali gli si contrassero e gli occhi limpidi e chiari divennero
irati tra le palpebre aggrottate.
"Ah … ah, siete italiani!" - disse sogghignando -"Noi non abbiamo più nulla da dirci:
molt'acqua è passata sotto i ponti del Tamigi …"
A queste dure parole, parte in italiano, parte in francese, dette enfaticamente come se
fossimo stati noi gli autori della reboante dichiarazione di guerra fatta dal famoso balcone, ci
sentimmo raggelare ed augurata la buona notte a quel fiero figlio di Albione, battemmo in ritirata.
Dopo quell'infelice approccio, venimmo alla determinazione di lasciar perdere gl'inglesi
venuti al villaggio, ma quel dignitoso proposito non poté reggere a lungo alle sollecitazioni di
quanti, giorno dopo giorno, ci davano di che campare i quali, non potendo comprendere quanto
male ci avessero fatto quelle parole, non sapevano capacitarsi perché fossimo tanto riluttanti a
tentare ancora un approccio con chi poteva aiutarci.
Naturalmente, non era neanche da pensarci di riprendere il discorso col tenente biondo e
mingherlino che poi, come ci fu riferito, non era neanche il più alto in grado, dell'esiguo gruppo
di ufficiali e sottufficiali paracadutato perché spiasse le mosse del nemico. Il commando era agli
ordini di un maggiore che, con luccicanti monete d'oro, aveva allontanato da una casupola solitaria, posta in alto sul declivio della montagna, quanti vi dimoravano e vi si era installato con i
suoi uomini e la potente radio ricetrasmittente: era dunque al maggiore che dovevamo presentarci, poco curandoci dell'acqua defluita sotto i quindici ponti di Londra.
Quando, con ancora una certa perplessità, io e De Angelis varcammo l'ingresso della casupola, contrariamente a quanto si temeva, fummo accolti con bonarietà da un ufficiale alto e
ben piantato il quale, con fare da gentleman, fugò subito dal nostro animo ogni titubanza. Era
costui il maggiore Le Brocq, nativo di una di quelle isolette di nazionalità britannica molto prossime alla costa francese del Golfo di Saint Malo; con l'ausilio di un sergente che conosceva abbastanza l'italiano, per essere stato a lungo nel nostro paese al sevizio dello spionaggio inglese,
al tempo dei balenanti discorsi all'ombra degli otto milioni di baionette, gli dicemmo chi eravamo, donde venivamo e come fossimo scampati all'eccidio e giunti poi ad Achirà. Il maggiore,
che certamente già sapeva del dramma di Cefalonia, dopo averci ascoltato con comprensione,
domandò cosa intendessimo fare.
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"Vorremmo rimpatriare." - rispondemmo senza esitazione.
Sapevamo che non era cosa facile, ma il maggiore non fece obiezioni; ci disse anzi che
ad intervalli più o meno brevi, col favore della notte, un sommergibile inglese imbarcava ufficiali italiani al largo di Parga e li trasportava in patria. Occorreva quindi che con più giorni di
marcia ci recassimo nei pressi di quel piccolo porto di pescatori, all'imbocco dello Stretto di
Corfù, transitando per Brianza ove, da un altro commando inglese, avremmo ricevuto ulteriori
istruzioni. A noi non pareva vero; soltanto, sentendoci in obbligo di avvertire i soldati che avevano riposto tanta fiducia in noi, ci riservammo di fissare il giorno della partenza.
Rimanendo ancora a parlare del più e del meno, ci fu offerto un bicchierino di gin molto
forte e, tra un sorso e l'altro, venni a sapere che il maggiore, da civile, era ufficiale della marina
mercantile e che prima di essere incorporato nei paracadutisti, allo scoppio della guerra era stato
arruolato nei carristi ed inviato sul fronte cirenaico ove gl'inglesi, inizialmente, non avevano più
di quattro carri armati; quindi, all'inizio delle ostilità, se avessimo avuto una preparazione militare efficiente, avremmo potuto spingerci facilmente fino ad Alessandria.
Il fatto che gl'inglesi avessero assegnato ufficiali di marina ai carri armati destinati ad
operare nel deserto, m'indusse, pur nelle angustie che mi tormentavano, a considerare ancora
una volta quanto alcune delle nostre massime gerarchie, dalle quali dipendeva la condotta delle
operazioni belliche, fossero prive di attitudine all'alto posto occupato. Un carro armato che si
muove nel deserto sconfinato è come una nave in pieno oceano; sempre che sia necessario, chi
lo guida deve essere in grado di fare il punto e di determinare, altresì, la direzione da seguire per
raggiungere la meta prestabilita e ciò è possibile soltanto a chi possiede il corredo delle cognizioni dell'ufficiale di marina. Per siffatto motivo i nostri eroici carristi, nel corso delle varie
battaglie manovrate tra Bengasi ed El Alamein, spesso si trovavano in difficoltà e di ciò ne ebbi
una prova quando, qualche anno prima di partire per Santa Maura, a nome del Prof. Guerra, mio
collega presso l'Istituto Nautico di Trieste, si presentò a casa un ufficiale della Divisione Ariete
e mi pregò d'indicargli un metodo spiccio per non smarrirsi nel deserto.
Dopo l'incontro con il maggiore Le Brocq, la nostra immaginazione, che cominciava ad
abbandonarsi al torpore della vita vegetativa, ebbe un risveglio di vivacità ed anche le forze fisiche, fiaccate dalla scarsa alimentazione e dai duri disagi, come per incanto parvero rinvigorite.
Senza indulgere al facile ottimismo, non riuscivamo a non cullare l'idea che forse la nostra odissea volgeva all'epilogo.
I tre soldati, che con me e De Angelis godevano della benevola ospitalità del villaggio,
venuti a conoscenza di quanto si era convenuto col maggiore inglese, si dichiararono pronti a
partire e, ritenendo certo che fosse vicino il ritorno a casa, ne informarono, non so come, alcuni
commilitoni che avevano trovato rifugio in lontani sperduti casolari e questi sventurati, alla notizia, si affrettarono a confluire su Achirà per unirsi a noi quando avremmo iniziato il cammino
della speranza.
Presi ormai dall'ansia di passare all'azione, nel pomeriggio del giorno seguente ritornammo alla sede del commando per ricevere le necessarie istruzioni. Il maggiore Le Brocq,
sempre con fare compito, fece mettere in tavola una bottiglia di gin con bicchierini, alti invero
più del normale, e, tra una sorsata e l'altra, c'informò dettagliatamente dei successivi itinerari da
seguire nel corso dei cinque giorni fino a raggiungere Brianza. Ci raccomandò di essere particolarmente guardinghi durante le prime due tappe ed infine, consegnataci una luccicante sterlina, buona a superare, se ce ne fosse stato bisogno, particolari difficoltà, cortesemente ci congedò
perché aveva un inderogabile lavoro da compiere.
Quella notte nella capanna si dormì meno del solito; con me e De Angelis c'erano anche
due soldati, di quelli venuti dai casolari lontani, e tutti eravamo in preda ad una latente eccitazione che poi, a lungo andare, si manifestò con una inconsueta loquela. Il maestro elementare
che, in De Angelis, da tempo era caduto in letargo, quella notte si destò all'improvviso e, non ricordo come, prese a sostenere la superiorità del "Pinocchio" rispetto al "Cuore", cosa che m'indusse a fargli osservare che, trattandosi di due libri aventi finalità diverse perché destinati a lettori con un diverso grado di maturità, ogni raffronto era da escludersi. Si scivolò poi su questioni politiche, sul futuro assetto politico dell'Europa e qui De Angelis profetizzò la costituzione di
un unico stato comprendente tutte le nazioni europee.
Mentre si facevano queste chiacchierate, che poi altro scopo non avevano che porre la
sordina al pensiero dominante, cominciai ad avvertire una crescente sensazione dolorosa alla rewww.anpi.it
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gione anale; purtroppo siffatto male l'avevo già sofferto altre volte e sempre per una causa bene
identificata, ma con un'alimentazione così scarsa e primordiale, con un regime di vita come
quello, quale la causa? Non mi ci volle molto a trovarla: quel benedetto gin ad alto grado alcolico, sorseggiato più che altro per compiacere gl'inglesi, aveva ridestato l'antico male contro il
quale, lo sapevo bene, non avevo nulla per combatterlo se non il riposo assoluto ed invece, di lì
a poche ore, dovevo iniziare il lungo cammino. Se fossi stato solo, certamente avrei potuto rimandare la partenza, ma, stando con altri, manco a pensarci.
Finalmente fu giorno; dolorante, mi levai dal giaciglio e cominciai a muovere i primi
passi domandandomi sconfortato come avrei fatto, in quello stato, a percorrere le notevoli distanze lungo strade tutt'altro che pianeggianti. De Angelis ed i soldati, euforici al pensiero che
stava per avere inizio il sospirato ritorno, non mettevano affatto attenzione alla mia penosa condizione, ma del resto era logico che fosse così; come su di una nave che affonda, ciascuno aveva
in mente il perentorio dettame: si salvi chi può!
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9 - Col bordone e la bisaccia
Era domenica 12 dicembre; la temperatura fresca ed il dolce sole invernale di quel giorno era quanto di meglio potessimo desiderare nell'intraprendere il lungo viaggio a piedi. Quando
a metà della mattinata fummo tutti riuniti, noi due ufficiali, abituali ospiti del rifugio, e sette
soldati, spegnemmo il fuoco, chiudemmo la capanna e con De Angelis in testa, perché di noi
tutti era il più intraprendente e fiducioso, ci avviammo verso Trifos prima tappa del nostro lungo
cammino. A pensarci bene ora, quel gruppo di uomini nell'aspetto stanchi e dimessi, coperti
d'indumenti raccogliticci e sbrindellati, che procedevano parlottando per un deserto sentiero tra
burroni e montagnole, se avesse avuto una croce da innalzare al puro cielo dicembrino, quel
gruppo avrebbe richiamato alla mente i pellegrini del Tannhauser che, col bordone e la bisaccia,
vanno a Roma implorando l'eccelso Creatore.
Poco dopo aver perso di vista le bianche casupole di Achirà, incontrammo un pastore
che, sapendo di noi, ci guardò strabiliato.
"Dove andate?" - domandò col tono di chi, avendo intuito che ci trasferivamo altrove,
pensa: non stavate bene qui? Uno dei soldati che si era aggregato a noi, manifestando il suo facile ottimismo, rispose che andavamo a casa, ma l'altro non capì e continuò a guardarci con aria
interrogativa.
"Andiamo a Trifos" - tagliò corto Ernesto senza aggiungere altro anche perché non conveniva che si diffondesse troppo dove e perché si andava.
Lasciato il sentiero, c'immettemmo in una strada tutt'altro che facile per me che pativo;
stringendo i denti ad ogni fitta, lungo i tratti più sconnessi arrancavo come meglio mi riusciva
con l'unica preoccupazione di non fare pesare sui miei compagni le conseguenze della mia infermità. Eravamo già al tardo pomeriggio quando, trovandoci impegnati in una lunga salita,
scorgemmo un gruppetto di persone che, da una piccola spianata molto più in alto, incuriosite ci
guardavano: lassù stava Trifos.
Quell'aggregato di case basse che si susseguivano senza soluzione di continuità su due
file, l'una di fronte all'altra, abbozzando così una strada con qualche rudimentale bottega, fu una
piacevole sorpresa per noi che si proveniva da un villaggio rupestre. Saputo in breve chi eravamo e perché fossimo lì in quel tardo pomeriggio domenicale, pietose persone del posto ci diedero da mangiare e quindi ci condussero alla scuola perché vi trascorressimo la notte. Ma, prima di
distendermi sul nudo pavimento insieme agli altri, ebbi il piacere di essere accolto, insieme a De
Angelis, in una bottega ove, per merito di un caro giovine, mi liberai della zazzera e della barbaccia.
Stando sul duro, la notte non fu certamente di piacevole riposo e fu proprio per questo
che quando mi parve che già fosse giorno, perché attraverso qualche spiraglio filtrava una discreta luce che pareva dell'alba, non potendone più per le membra intirizzite e indolenzite, balzai in piedi ed aprendo cautamente la porta per non svegliare chi, malgrado tutto, dormiva sodo,
andai sulla strada; no, non era l'alba: era il nostro satellite che, al plenilunio, sullo sfondo terso
del cielo, si avviava al tramonto, dando ad ogni cosa un aspetto nivale.
Malgrado che fosse ancora troppo presto per rimetterci in cammino e che la temperatura
fosse alquanto pungente, preferii rimanere all'aperto per sgranchirmi e respirare aria pura in attesa degli altri che, invero, non tardarono molto a levarsi dal duro gelido pavimento.
Il Sole non era ancora sorto quando ci avviammo per raggiungere Kekhrinià, seconda
meta del nostro lungo penoso andare. Dapprima andammo facilmente per stradette e sentieri
pianeggianti, ma, dopo poco, dovemmo affrontare la discesa di un ripido canalone dal fondo ricoperto di massi franati dalle pareti. Soprattutto per quel male che ancora m'infastidiva, l'andare
in giù saltando di qua e di là non fu cosa da poco per me, comunque non tardai molto a raggiungere il grosso del gruppo che, dopo avermi preceduto con molta bravura, si era poi fermato, non
perché era stanco, né per attendere i ritardatari tra i quali ero l'ultimo, bensì perché occorreva
prendere, di comune accordo, una decisione.
Dal punto ove ci trovavamo, si vedeva la parte restante del canalone da superare gradualmente allargarsi ed infine confluire dolcemente in una larga strada trasversale della quale
vedevamo un breve tratto. Su quella strada, che attraversa l'Acarnania da nord a sud, congiungendo Anfilochia e Missolungi, quel giorno, oltre a transitare frequenti mezzi motorizzati tedewww.anpi.it
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schi, sul tratto a noi visibile, un paio di squadre di prigionieri italiani fiaccamente lavoravano a
rabberciare il manto di terriccio.
Noi dovevamo attraversare la strada per inoltrarci poi fra i rilievi montuosi del lato opposto; ora, come compiere l'attraversamento senza inciampare in qualche pattuglia, senza essere
riconosciuti dagli italiani che involontariamente avrebbero potuto richiamare l'attenzione di chi
li sorvegliava? Io, ispirandomi a quella prudenza raccomandata dal maggiore Le Brocq, asserivo
che convenisse attendere la notte; De Angelis, invece, spinto soprattutto dall'assillo che non si
dovesse perdere un giorno, asseriva che l'attraversamento si poteva fare anche subito; fra le due
opposte opinioni i soldati, titubanti, non sapevano che dire.
In verità, ognuno aveva la sua parte di ragione, ma era innegabile che la riuscita o meno
dell'attraversamento immediato dipendeva dal caso: valeva la pena di rischiare? Ad un certo
punto, mentre il traffico nei due sensi continuava, De Angelis, stanco di quel discutere senza costrutto, si levò in piedi e, lasciandoci in asso, si avviò verso il basso, saltando da un masso all'altro con l'agilità di un camoscio. Terminata la discesa, dopo avere alquanto esitato in attesa
del momento propizio, lo vedemmo attraversare la strada ed inoltrarsi in salita sul lato opposto
fin quando poi lo perdemmo di vista.
Quell'improvviso voltarci le spalle non suscitò naturalmente favorevoli commenti: non
era così che si poteva sperare di raggiungere Parga senza che qualcuno ci rimettesse le penne.
Decisi ad attendere la notte, rimanemmo per un bel po' acquattati, pensando come procurarci frattanto un pezzo di pane quando, all'improvviso, vedemmo De Angelis risalire il canalone. Compiuto l'attraversamento, egli pensava che, incoraggiati, l'avremmo seguito, ma visto
poi che nessuno di noi si muoveva, ritornò sui suoi passi. Con maggiore convinzione ci esortò a
non attendere la notte e tante ne disse che infine ci decidemmo a rischiare. Per non dare nell'occhio saremmo passati uno alla volta, fino a raggiungere un posto convenuto, visibile dal nostro
punto di osservazione. De Angelis, che già aveva rischiato due volte, sarebbe passato per ultimo, ma, dei rimanenti, chi sarebbe passato per primo? Non ebbi esitazioni: ero stato il più deciso oppositore di quel transito immediato ritenendolo un rischio che si doveva evitare, ora però,
avendo deciso altrimenti, toccava a me l'onere di passare per primo.
Senza alcuna titubanza, mi avviai per l'ultimo tratto di discesa impervia e, giunto in basso, m'inoltrai lungo il raccordo con la grande arteria carrozzabile quando vidi venire un uomo.
Un greco anziano con barba e papalina. A pochi metri, come se fossimo stati amici di vecchia
data, egli proruppe in un sonoro "kalimèra" e fermatosi prese a parlarmi nella sua lingua che per
me, purtroppo, era tanto incomprensibile. Evidentemente, mi credeva della sua terra; fingendomi sordo, non risposi neanche al saluto e mantenendo l'andatura gli passai accanto mentre qualche auto procedeva a velocità moderata e, ad una certa distanza, gl'infelici prigionieri miei connazionali, con badili e carriole, s'industriavano a come far passare un altro giorno col minimo
danno. Il vecchio s'impermalì e, seguendomi con lo sguardo, vomitò una sequela di parole certamente poco benevoli e ne aveva ben donde.
Quando tutti fummo nel punto convenuto, riprendemmo il cammino dopo un altro piccolo rattristante incidente; un soldato che a Trifos si era aggregato a noi e rivelatosi abituale bestemmiatore per un nonnulla, non ricordo perché uscì in una volgarità blasfema che, credenti o
non credenti, infastidì gli altri. Io lo rimproverai al che egli, con rabbia, si allontanò dal gruppo
e fuori di sé si avviò per un'altra strada; molto tempo dopo sapemmo che era morto dopo mesi di
stenti.
Raggiunto Kekhrinià poco prima del tramonto, l'indomani ci portammo a Yannopoulon
e l'indomani ancora, mercoledì 15 dicembre, a Malasciada e di lì poi, attraversato il torrente
Vargas, giungemmo finalmente a Brianza.
Furono lunghe tappe sempre più dure; si partiva all'alba e quando a sera, dopo aver valicato alture, dirupi, boscaglie, si giungeva alla meta e la pietosa solidarietà umana di un pope o di
un contadino ci dava qualche cosa da mangiare ed un cantuccio per dormire, la resistenza fisica
di ognuno era agli estremi ed appena possibile ci si gettava sulla nuda terra e lì, come cosa
inerte, si rimaneva per tutta la notte. All'alba, per i piedi ancora gonfi, stentavo a calzare le scarpe e con muto grande sgomento pensavo al cammino che mi attendeva.
Anche moralmente, a misura che si andava avanti, le tappe erano sempre più penose per
la benevolenza degli indigeni che si rivelava più tiepida e la generosità più raffrenata. Dapprima, questo graduale cambiamento di umore dei greci nei nostri riguardi ci parve strano, inspiewww.anpi.it
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gabile, ma poi finimmo col trovare il motivo: andando verso settentrione ci avvicinavamo a
quelle regioni ove, contro le nostre truppe, si era combattuto con grande accanimento; si andava
tra quelle popolazioni che maggiormente avevano sofferto per la nostra invasione e ne avevano
ancora tanto triste ricordo.
"Vedete questa terra bruciata?" - ci disse con malcelato rancore un viandante che, cavalcando un mulo, ci aveva raggiunto un giorno ai margini di un bosco di cui, in quel punto, del
folto verde di un tempo altro non rimaneva che avanzi di tronchi e rami carbonizzati che, nell'insieme, avevano un non so che di spettrale. "Tutto questo è opera di lanciafiamme italiani." soggiunse; poi, tentennando il capo, diede di sprone e si allontanò di gran carriera.
Nel corso di quelle lunghe tappe estenuanti, si rimaneva sempre lontano dai centri abitati e se ciò ci garantiva dal pericolo di cattivi incontri, d'altro canto non ci offriva altra possibilità per sfamarci se non bussando a qualche sperduto casolare intravisto lontano che poi spesso,
o era disabitato o dava ricetto a contadini indigenti che nulla potevano per noi.
Fu durante la marcia verso Yannopoulon che, scorgendo alcuni casolari in diverse direzioni, sostammo per cercare qualche cosa da mangiare; io, particolarmente stanco ed ancora sofferente, ebbi il torto di non partecipare alla questua e di starmene seduto in attesa che gli altri
ritornassero e ciò mi procurò un'aspra rampogna di De Angelis. Punto nell'orgoglio, per tutto il
resto del cammino non dissi parola né accettai una briciola e quando a sera, ospitati in una
scuola, con parte della sterlina che il maggiore Le Brocq aveva donata a noi due, De Angelis riuscì ad ottenere da una buona donna un piatto caldo per tutti, sdegnosamente ricusai la mia razione: colui che il destino mi aveva messo accanto in quella dolorosa odissea, mi aveva rimproverato di voler trarre profitto dalle fatiche degli altri. Malgrado tutto però, fu quello uno screzio
che, come tanti altri, durò poco; il giorno seguente tutto era già dimenticato.
Il guado del torrente Vargas, durante la tappa che ci portò a Brianza, per me non fu facile. Nel punto prescelto, le limpide acque poco profonde defluivano sopra una bianca ghiaia
dalla quale, qua e là, si levavano affiorando piccoli massi levigati; imitando gli altri che erano
già sull'altra sponda, presi ad attraversare il torrente poggiando i piedi sui massi, ma ben presto
scivolai e fortunatamente il bagno non fu totale. Decisi allora di levarmi le scarpe e rimboccarmi
i calzoni, ma uno dei soldati insistette perché gli montassi sulle spalle e così, a cavalcioni di
quel giovine, che poi non aveva proprio una costituzione erculea, passai sull'altra sponda.
Pur senza scivolare, tutti gli altri, chi più chi meno, avevano le scarpe pregne d'acqua; fu
così che prima di proseguire ci mettemmo in tondo con al centro un mucchio di sterpaglie al
quale era stato appiccato il fuoco. Quando si riprese la marcia, avemmo la ventura d'immetterci
in un grande bosco ove abbondavano i fragoloni selvatici che, per quel giorno, valsero a rendere
meno languido lo stomaco.
Il giovedì 16 dicembre, molto per tempo, ci presentammo al commando inglese installatosi a Brianza, ma non ci fu consentito di entrare e prima di poter dire cosa si volesse dovemmo attendere un bel po' ed il motivo c'era: per gli inglesi, popolo dai cinque pasti, era quello il
momento del primo sostanzioso spuntino. Infatti, durante l'attesa, da una vicina casupola ove si
provvedeva alle necessità gastronomiche del commando, venne fuori un uomo che si apprestava
a servire la colazione, sorreggendo una tavoletta, a guisa di vassoio, sulla quale erano alcuni
piatti di terracotta con altrettante uova al tegame che, superfluo dirlo, fecero dilatare le nostre
pupille.
Quando finalmente ci fu possibile esporre ad un ufficiale inglese la nostra intenzione di
andare a Parga per rimpatriare, ci accorgemmo ben presto di avere a che fare con una persona di
mentalità ben diversa da quella del maggiore Le Brocq. Non che l'ufficiale ci trattasse con la
burbanza del vincitore, ma si limitò a dirci con molto distacco che del rimpatrio degli italiani se
ne occupavano i generali Tom e Infante, l'uno inglese e l'altro italiano, e che, pertanto, non per
Parga dovevamo proseguire bensì per Agnanda, nella regione montuosa dell'Epiro, ove i due ufficiali clandestinamente operavano.
Queste notizie così diverse da quelle apprese ad Achirà, furono per noi una doccia fredda. Ci aspettavamo nuove concrete istruzioni ai fini del vagheggiato rimpatrio ed invece quell'ufficiale, pago di quanto aveva detto, si disinteressava di noi; ancora una volta venivamo abbandonati a noi stessi, con i pochi indumenti per coprirci consunti e lerci, con le scarpe che cominciavano a spaccarsi, con l'energie fisiche e morali fiacche, con l'inverno che da un momento
all'altro poteva erompere in pioggia e saette.
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Che fare? Alcuni proposero di abbandonare il suadente pensiero di un prossimo ritorno,
altri, e tra questi De Angelis, asserivano che bisognava persistere nel tentativo. Io ero convinto
che, nelle condizioni in cui eravamo, non convenisse mettere a più dura prova le nostre forze
andando alla ventura, ma non volli che, ancora un volta, prevalesse la mia opinione e così, dopo
lungo valutare il pro e il contro, fu deciso di proseguire con l'intesa che saremmo ritornati sui
nostri passi non appena la meta ultima si fosse chiaramente rivelata irraggiungibile.
Ma qual'era la strada che si doveva percorrere? Ci demmo pertanto a chiedere informazioni e finalmente, un po' da questo e un po' da quello, riuscimmo a sapere che per andare ad
Agnanda, occorreva raggiungere prima Embesò, uno dei pochi villaggi di quella regione povera
e montuosa.
Ci rimettemmo in cammino e mai tappa fu più dura di quella; dapprima ci fu facile l'andare lungo una rotabile, poi, da un solitario viandante, avemmo indicazioni poco chiare che, mal
comprese, finirono col portarci fuori strada. Superammo ripide mulattiere, scoscesi sentieri, attraversammo un bosco, valicammo alture e sempre che c'imbattevamo in qualche viandante ci
sentivamo ripetere che fra qualche ora al massimo saremmo giunti alla meta. Ma l'ora passava,
ne passavano altre, e di Embesò neanche il miraggio. La sera era ormai prossima e noi ci trovavamo sopra un pianoro, coperto di piante d'alto fusto, che si estendevano in lunghezza nella
stessa direzione di una stretta valle che lo fiancheggiava; quando finalmente, da un montanaro
del posto, avemmo indicazioni esatte: il villaggio era prossimo, dietro alcune elevazioni del terreno che si vedevano a ponente; per giungervi facilmente bastava seguire un sentiero che si snodava in fondo alla valle.
Per discendere dal pianoro non vi era altro mezzo che calarsi mani e piedi lungo il ripido pendio, cosa che cominciai a fare cautamente, ma poi, mancatomi un appiglio, andai giù
sdruccioloni ma senza gravi conseguenze.
Quando giungemmo ad Embesò, una languente luce proveniente dall'occaso vermiglio
conchiudeva il giorno. La povera gente si era già rinchiusa nelle casupole che qua e là sorgevano isolate: non ombra di uomo si vedeva, non una voce si udiva. Trovammo finalmente la piccola chiesa e con essa la pietà del pope che ci offrì tutto quello che aveva: un po' di pane ed una
stanza vuota ove trascorrere la notte.
Il mattino seguente, rimessici alquanto in sesto, tenemmo un altro consiglio, ma questa
volta, provati dalla dura marcia del giorno precedente ed ammoniti dalla gelida tramontana, la
maggior parte del gruppo si dichiarò contraria a proseguire. Sulle prime, pareva che De Angelis
e qualche altro dissenziente fossero intenzionati a proseguire verso Agnanda, ancora molto lontana, ma poi, anche perché il primitivo ottimismo si era affievolito, non se la sentirono di affrontare da soli altre dure prove. Così, senza defezioni, iniziammo il ritorno al Achirà, quel villaggio che per la seconda volta si rivelava il rifugio più ospitale e sicuro.
Evitando di ripassare per Brianza, allo scopo di abbreviare il cammino, poco prima di
sera di quello stesso giorno giungemmo a Malasciada, dopo una marcia senza notevoli difficoltà, con il cielo terso ma con un vento persistente freddo e secco. Il 18 dicembre eravamo a
Kekhrinià e il giorno a Trifos. Prima di concludere quest'ultima tappa, sostammo per qualche
ora lungo un ruscello ed ottemperammo alle più elementari norme d'igiene personale: ne avevamo proprio bisogno!
Secondo la nostra tabella di marcia, il 20 dicembre, lunedì, avremmo dovuto riprendere
il cammino e rientrare ad Achirà, ma ciò non avvenne perché, dopo l'inutile maratona fino ad
Embesò io e De Angelis avevamo cominciato a considerare che non si poteva vivere di elemosina, tra quelle poche case, per lungo tempo ancora, fino a quando una decisiva svolta degli
eventi bellici non ci avesse consentito di rimpatriare alla luce del sole. Occorreva quindi che
cercassimo un lavoro per guadagnarci il pane quotidiano, ma quale lavoro, necessariamente manuale, se noi eravamo abituati alla sola fatica cerebrale della cattedra? E poi, dove trovarlo? Non
certamente ad Achirà perché - a parte il fatto che lì era ben noto che non avevamo alcuna dimestichezza con quelle cose che ordinariamente riempiono la giornata di un contadino o di un pastore - quella povera gente, che molto spesso traeva i mezzi di sussistenza per un anno intero dal
modesto raccolto che poteva dare un piccolo campo scarso di humus e cosparso di pietrame,
quella povera gente aveva già fatto tanto per noi. Era quindi opportuno che cercassimo altrove
un'attività che ci procurasse quanto strettamente occorreva al nostro sostentamento.
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Durante quel mattino trascorso a Trifos, dopo aver girovagato con i soldati soffermandoci a parlare con questo e con quello, soprattutto per un cauto sondaggio delle possibilità di lavoro, ci recammo al magazzino, un locale analogo a quello di Achirà, ma alquanto più grande e
con più generi da smerciare. Quando entrammo, destammo subito la curiosità dei tanti seduti
tutt'intorno con la schiena alla parete; qualcuno che forse era assente dal villaggio durante la nostra precedente apparizione, chiese chi fossimo; qualche altro, che già sapeva di noi, ci manifestò considerazione e simpatia.
Mentre io e De Angelis, per l'impossibilità d'intavolare una scorrevole conversazione, ce
ne stavamo taciturni, l'uno seduto accanto all'altro, Giuseppe, sempre pronto a prodigarsi per chi
più degli altri era privo del bisognevole, venne a riferirci che uno dei presenti era disposto a
prenderci al suo servizio per un lavoro al quale avremmo potuto assuefarci facilmente perché
non richiedeva una particolare perizia.
Ci avvicinammo a questo greco, un uomo di mezza età, piuttosto alto e asciutto, poco
loquace, e chiarito quale genere di lavoro richiedesse da noi, fu convenuto, non senza nostre
perplessità, che l'avremmo aiutato a governare un branco di numerosi animali che possedeva nei
pressi di Aetòs, un altro grosso villaggio, ed in compenso ci avrebbe dato vitto e alloggio, se così può dirsi l'angoletto di una stalla o di una stamberga ove potersi distendere a dormire.
Concluso quell'accordo, rimanemmo ancora un poco al magazzino: il greco al suo posto
con viso enigmatico e noi in disparte, più dubbiosi che mai; infine egli si levò in piedi, noi tacitamente capimmo che bisognava andare e, salutato frettolosamente i soldati lo seguimmo.
Raggiungemmo ben presto una strada carrozzabile tra alture dall'uno e dall'altro lato e
senza ombra di anima viva: il greco procedeva più taciturno che mai e noi, uno di qua ed uno di
là, con l'animo turbato da quel silenzio. Dopo un certo tratto egli accelerò il passo e, accelerando
anche noi, ritenemmo dapprima che quel cambiamento di andatura fosse dovuto ad un qualche
motivo che richiedesse di giungere a destinazione il più presto possibile. Ma il greco, dopo poco, accelerò ancora come un atleta che, impegnato in una gara podistica, cerca con uno sprint di
staccare gli avversari; noi gli tenemmo dietro fin quando fu possibile ma poi, tutt'altro che allenati a quella prova, col fiato grosso ci fermammo mentre l'altro, con incalzante ritmo del passo,
si allontanava sempre più senza curarsi di noi. Gli gridammo che si fermasse, ma quello strano
individuo non si voltò neppure e continuò imperterrito, con passo da maratoneta, fino a quando
lo vedemmo sparire in lontananza ad una svolta della strada. Il nostro inqualificabile individuo,
prima ancora di metterci alla prova, ci aveva ripensato: non facevamo per lui e, per svincolarsi,
aveva escogitato l'espediente di piantarci in asso su quella deserta strada di campagna.
Fummo presi da un vago sgomento: che fare? Comunque, l'accaduto ci rivelava quanto
fosse illusorio il nostro intendimento di cercare, fuori di Achirà, come guadagnarci il pane quotidiano: in quelle terre scarsamente abitate erano molto apprezzati e richiesti i nostri soldati dalle
mani incallite dai lavori campestri; le nostre invece erano aduse soltanto al modesto uso della
penna. In quel frangente quindi, malgrado le valide considerazioni che ci avevano consigliato di
trovare lavoro altrove, non potevamo non ritornare tra i contadini ed i pastori del villaggio rupestre dal quale eravamo partiti.
Per non ripassare per Trifos, ove inevitabilmente avremmo dovuto raccontare l'accaduto, dopo un certo tratto di strada deviammo per Katoùna pur sapendo che ciò comportava un
certo rischio perché, trattandosi di un centro urbano di una certa importanza, allacciato al settentrione e al meridione da una strada carrozzabile, i tedeschi vi facevano frequenti scorrerie.
Vi giungemmo intorno al declinare del giorno e non tardò molto che qualcuno ci notasse, che si fermasse intorno a noi un capannello di curiosi ai quali fu d'uopo raccontare in breve
la nostra odissea. Su quei volti intenti al nostro parlare, necessariamente lento e stentato per la
difficoltà di esprimerci in greco, leggemmo la commiserazione per quanto avevamo sofferto, la
compassione per il nostro stato: qualcuno ci offrì da mangiare, altri, infine, ci condussero in un
granaio perché vi passassimo la notte.
Il giorno seguente, con un cielo plumbeo che infondeva nell'animo una più acuta tristezza, ci avviammo verso Achirà. Prima di lasciare l'abitato, notammo un negozietto e De Angelis
volle entrarvi per acquistare alcune cosucce di prima necessità assottigliando così ancora un poco quanto rimaneva della sterlina; io, notato che erano in vendita modesti oggetti di cancelleria,
mi fornii di un piccolo blocco notes e di una matita: potevo cominciare così un succinto diario.
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Mariano Barletta – Tra marosi e nebbie – Seconda parte
Eravamo da poco in una gola che, stando a quanto riferitoci, ci avrebbe portato in breve
alla meta, quando constatammo che un giovane ci seguiva ad una certa distanza; il suo aspetto
non ispirava fiducia tanto più che, portato a tracolla, ostentava un fucile di quelli che avevano
fatto la guerra nei decenni a cavallo dei due secoli. Per poco si andò taciturni, noi avanti e lui
indietro di alcuni metri, nel silenzio profondo della tetra ed umida gola rocciosa.
"Tu sei carabiniere?" - mi chiese all'improvviso quando, accelerando il passo, fu alle
nostre calcagna.
Intuito che avevo a che fare con un malintenzionato, gli risposi docilmente che era in errore perché fino a tre mesi innanzi indossavo la divisa della marina.
"Ma io ti ho visto a Missolungi: tu sei carabiniere." - insisté quel provocatore di baruffe
che si faceva forte del fucile e della cupa solitudine che regnava tutt'intorno.
Gli replicai con umiltà che non ero carabiniere, che a Missolungi non c'ero mai stato e
per levargli ancor meglio quelle nebbie dalla testa, gli accennai che eravamo ufficiali sopravvissuti all'eccidio di Cefalonia.
"Allora sei tu che ho visto a Missolungi." - disse rivolto a De Angelis, senza raccogliere
le mie parole -"Tu sei finanziere."
Questa subdola ostinazione nel voler riconoscere in noi carabinieri e finanzieri, aveva il
suo recondito motivo nel fatto che, durante la nostra occupazione, carabinieri e finanzieri avevano ottemperato al precipuo compito di combattere la delinquenza comune ed i fermenti eversivi antitaliani e, di conseguenza, erano quelli più malvisti da certi ambienti greci.
Gli ripetemmo, con quanto vigore era possibile, che non eravamo né carabinieri né finanzieri, che a Missolungi mai avevamo messo piede e quando finalmente quel ceffo credette
opportuno non insistere più con le sue cervellotiche invenzioni, tirò fuori una bella pretesa: con
l'arroganza consentitagli dalle circostanze, chiese che uno di noi gli cedesse le scarpe; lui ne
aveva diritto, oltre che bisogno, perché era un combattente e noi che non lo eravamo più avevamo il dovere di dargliele.
Presi da sgomento al pensiero che se quella prepotenza fosse stata soddisfatta, uno di
noi due non avrebbe avuto più la possibilità di usare il cavallo di San Francesco, cercammo in
tutti i modi di fargli intendere che le nostre ciabatte, tanto prossime a sfasciarsi, non potevano
essere utili ad un partigiano costretto, ad ogni mutar di vento, a valicare monti, ad attraversare
valli, mentre noi, con le accortezze suggerite dal nostro misero stato, avremmo potuto usarle, sia
pure ancora per poco, per difendere i piedi dal freddo e dalle asperità del terreno.
Convintosi forse che le nostre calzature non valevano granché, quel rompiscatole in armi cambiò obiettivo e perentoriamente chiese uno dei piccoli tappeti donatici dal pope di Achirà
e che il mio compagno di sventura portava sulle spalle, a guisa di scialle, per difendersi dal
freddo umido. A quella nuova pretesa, De Angelis reagì con una certa vivacità, ma l'altro non si
diede per vinto ed in breve la concitata discussione degenerò in litigio e quell'individuo da galera, che con tanto impegno dava prova del suo spirito combattivo affrontando noi, fiacchi ed
inermi, visto che con le parole non otteneva nulla, fece all'improvviso un passo indietro e imbracciato il fucile mandò il proiettile in canna.
"Se non me lo dai, ti ammazzo!" - disse con volto truce.
Temendo che quella brutta faccenda sfociasse nel sangue, incitai De Angelis a cedere,
ma inutilmente; gli strappai allora dalle spalle il paramento ecclesiastico, oggetto di tanta contesa, e lo consegnai a quell'individuo che per malasorte avevamo incontrato sulla nostra strada.
Rimasti noi due, De Angelis non mancò di rimproverarmi di aver ceduto a quel cattivo
soggetto che, a suo giudizio, mai e poi mai avrebbe fatto uso del fucile. Dal canto mio, convinto
che sarebbe stato del tutto inutile non mi ci provai neanche a convincerlo che, così com'eravamo
ridotti, potevamo soltanto chinare il capo di fronte ai prepotenti.
Il resto del cammino lungo la gola sempre più aspra fu fatto senza scambiarsi una sola
parola, non perché fosse sorta fra noi una certa animosità, bensì perché entrambi eravamo moralmente depressi. In alcuni punti bisognò decidere se proseguire o avviarci per un sassoso sentiero confluente e ogni volta, non avendo come identificare la via giusta, ci lasciammo guidare
dal nostro senso di orientamento che però non sempre c'indusse per la giusta via.
Cominciarono poi a venire giù minutissime gocce di pioggia e noi continuammo ad andare di qua e di là sotto quello sgocciolio apparentemente inconsistente, ma che, a lungo andare,
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Mariano Barletta – Tra marosi e nebbie – Seconda parte
non si poteva non avvertire. Finalmente sulla sinistra vedemmo in alto un casolare ed un caratteristico gruppo di alberi a noi ben noto: era lì che bisognava andare.
Con rinnovata lena iniziammo l'ultima arrampicata che ci portò ad una spianata dalla
quale riuscimmo a scorgere le vicinanze del nostro rifugio; ci dirigemmo da quella parte mentre
dal cielo plumbeo la minuta pioggia continuava a cadere e tutt'intorno, nella quiete agreste, non
si udiva l'eco di una voce, lo squittire di un uccello. Vedemmo infine la capanna; ci avvicinammo con l'animo di chi, dopo peripezie, ritrova il focolare domestico: tra poco, lì dentro, avremmo acceso un bel fuoco e, come nei giorni andati, ci saremmo messi a riposare, a riscaldarci, a
meditare le ultime disavventure, ma non fu così: quella porta sempre pronta a dischiudersi, prima che ne uscissimo l'ultima volta con l'illusoria speranza di un prossimo ritorno a casa, quella
porta, per noi, era chiusa per sempre.
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10 - Da Socràtis
Durante la nostra assenza, il buon Travalos, credendo forse che fossimo ormai bene incamminati sulla lunga tortuosa strada in fondo alla quale, di ognuno di noi, c'era la casa, aveva
adibito la capanna, oltre che a deposito di attrezzi agricoli, anche a ricovero di un limitato numero di pecore e capre. Non era quindi più lecito servircene come nostro ricetto e questo ci pose
inaspettatamente di fronte ad un difficile problema da risolvere, mentre il giorno declinava e la
pioggerella continuava a cadere monotona, uguale: dove avremmo potuto trovare un altro rifugio?
Dopo essere rimasti per un po' disorientati e delusi, a guardare quella modesta costruzione che fino a pochi giorni innanzi era stata la nostra dimora, ci recammo lassù, tra le sparse
casette più in alto, ove aveva sede il commando.
Il maggiore, con la tradizionale flemma che distingue gl'inglesi, ascoltò il succinto racconto della nostra escursione fino ad Embesò, esternò il suo rincrescimento per il fallito scopo
della maratona e, quasi per darci ristoro fisico e morale, ci offrì un bicchierino dell'immancabile
gin che io, fatto accorto dalla recente esperienza, cortesemente rifiutai.
Mentre sorseggiava quell'acquavite di ginepro, De Angelis, spinto dall'ansia di liberarsi
dallo stato d'indigenza, manifestò la sua propensione ad operare al servizio degli inglesi, così
come faceva un altro ufficiale italiano, da noi scorto da lontano, ma mai potuto avvicinare, il
quale, con alcuni muli a sua disposizione, curava i servizi logistici del commando. A quella offerta, anche per me inaspettata, il maggiore si limitò a prenderne atto, riservandosi di accoglierla
nel caso che ne avesse ravvisata l'opportunità.
Andammo poi nei pressi del magazzino e lì sostammo, rimuginando dove trascorrere la
notte quando c'imbattemmo in una nostra conoscenza, un vecchietto alto e ancora vigoroso, un
po' barbuto, vestito alla maniera classica dei contadini delle montuose regioni interne della Grecia i quali, perché lontani da ogni centro urbano, conservano consuetudini e tradizioni immuni
dagli influssi innovatori delle grandi città; era costui Barba Costa, uno di quelli che per la sua
notorietà e per il rispetto che riscuoteva poteva ben dirsi un notabile del villaggio. Egli ci aveva
visto partire con la nostra grande illusione e quindi fu alquanto sorpreso di vederci di nuovo tra
le bianche casupole della sua Achirà, ancora più mal ridotti di prima. Appreso che non potevamo disporre del rifugio che ci aveva ospitati per due mesi, egli mise a nostra disposizione un suo
capanno posto giù nella valle, verso Kombotì.
La pioggia minuta era cessata. Dopo che ci fummo informati dell'ubicazione di quel
nuovo ricetto, ci avviammo in compagnia di Ernesto verso il fondo della valle con tre grosse
fette di schiacciata di granturco che il nostro caritatevole uomo volle dare perché non ci mancasse la cena.
Quando arrivammo al posto indicatoci era già notte. Nel buio scorgemmo una specie di
baracca fatta di pali, frasche e paglia; spinta la porticina appena accostata, constatammo che lo
spazio interno in buona parte era ingombro di cartocci secchi di granturco cosa che, nel timore
che qualche favilla facesse del capanno una grande fiammata, ci fece desistere dal proposito di
accendere un bel fuoco tra quel frascame, per toglierci di dosso l'umidità assorbita durante l'infausta giornata.
Il fuoco l'accendemmo all'aperto; ci accoccolammo intorno e nell'attesa che le fette di
schiacciata si abbrustolissero al punto giusto, come ci aveva insegnato Iorg il pecoraio, parlammo delle vicende per noi non liete di quel martedì 21 dicembre. Sotto la cappa di nubi, la valle
silenziosa e buia sembrava sterminata; soltanto il nostro fuoco era segnacolo di vita ed io, ancora scosso da tanti angosciosi eventi, temevo che quel fiammeggiare attirasse l'attenzione di
qualcuno che, da lontano, stesse a spiare, a tramare meglio la nostra rovina. Ben presto, anche i
miei compagni di cena si convinsero che non era prudente ravvivare a lungo quel fuoco e così,
trangugiata la cena, andammo a rinchiuderci nel capanno.
Il giorno dopo mi svegliai con i piedi più gonfi del solito perché, non avendo avuto la
possibilità di distendermi come conveniva, erano rimasti penzoloni durante la notte. Infilate le
scarpe con grande pena, ci avviammo tutti al villaggio, Ernesto per ripresentarsi al suo padrone
ed io e De Angelis per intrattenerci al magazzino, secondo l'inveterata usanza, ove, col nostro
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dolente aspetto, tacitamente chiedevamo l'elemosina così come sogliono fare i poveri vergognosi che, dimessi e smunti, siedono alla turca sul sagrato delle chiese.
Giunti che fummo al piccolo spiazzo antistante il magazzino, avemmo la gradita sorpresa di vedere il maggiore che ne usciva in compagnia dell'interprete e di alcuni greci tra cui Nico
che aveva la carica di capo del villaggio. Il maggiore si avvicinò e prese ad interessarsi di noi,
poi si appartò a parlare con Nico ed infine si avviò verso il suo rifugio. Sapemmo più tardi che
aveva dato incarico di trovare una famiglia del villaggio disposta a darci vitto ed alloggio, con il
corrispettivo di una sterlina a testa che avrebbe corrisposto mensilmente per tutto il tempo della
sua permanenza ad Achirà. Come si può intuire, noi non speravamo tanta benefica generosità: ci
parve di sognare e le seguenti ore di quel giorno e dell'indomani trascorsero tra congetture, nell'ansiosa attesa che qualcuno rispondesse favorevolmente all'iniziativa del maggiore Le Brocq.
Dopo una notte di vento impetuoso che la paglia e le frasche del capanno a malapena riuscirono a contenere, il mattino del venerdì - vigilia di Natale - mentre de Angelis si spingeva
verso Kombotì in cerca di una fonte di cui si avevano vaghe indicazioni, rimasto solo, m'industriai a riparare con pezzi di filo di ferro le mie povere calzature ridotte ormai allo stato di scarpacce consunte e sconnesse. Rabberciate, come meglio potevo, le crepe e le sdruciture più
preoccupanti, mi dedicai poi agli avanzi di quegli indumenti che un tempo - ahimè, quanto lontano! - a buon diritto erano chiamati calzini e dei due paia residui ne rimediai uno solo, meno
marcito e maleolente.
Ritornato De Angelis, dopo aver trovato la sorgente dalla quale, come ebbi modo di
constatare in seguito, sgorgava una limpida acqua leggera e fresca, ci avviammo sotto un cielo
plumbeo al magazzino, seguendo il sentiero pianeggiante in margine alla valle e quindi l'erto
tratto finale che si snodava tra ciuffi di cardi.
Al magazzino trovammo l'allegra animazione dei particolari giorni di festa; intorno a
due tavoli si giocava a poker con alte poste di dracme svalutate mentre, alle spalle dei giocatori,
occasionali avventori s'indugiavano a sorbire un bicchierino di gin, tra una battuta e l'altra sulle
alterne vicende del gioco. Anche Nico fece la sua apparizione e, più cordiale e premuroso del
consueto, in ossequio forse all'interessamento del maggiore, c'informò che prima di sera saremmo stati accolti in una casa, ma per il momento non poteva dirci altro perché mancava l'accordo
formale tra le due parti contraenti; poco dopo Pips ce ne diede conferma.
Alla notizia del nostro prossimo trasferimento, De Angelis volle ritornare al capanno
per prendere i nostri due tappetini che ci davano un certo tepore durante la notte; il pope, venuto
a sapere della rapina subita dal mio compagno di disavventure, impietosito, gliene aveva dato un
altro.
Frattanto, non reggendo all'inattività, mi accompagnai a Pips e lo seguii fin presso la casupola degli inglesi, ma poi ritenni opportuno ritornare al magazzino ove, ben presto, mi raggiunse De Angelis col prezioso fardello. Insieme rimanemmo lì per buona parte del pomeriggio,
con il gioco che ferveva più che mai tra frequenti esclamazioni di gioia per un tris azzeccato e
scoppi di rabbia per una scala reale mancata, mentre i policromi bigliettoni, da migliaia di
dracme deprezzate, si accumulavano, ora qua ora là, sui tavoli ai quali mancava soltanto il tradizionale tappeto verde.
Anche Vassili era tra i giocatori, ma, dopo aver tentato per un po' la fortuna senza conquiderla si era allontanato dal tavolo. Profittai subito della circostanza e, come già avevo fatto in
altre occasioni senza riuscire nell'intento, lo pregai di prestarmi quanto occorreva per radermi la
barba. Questa volta non seppe trovare un plausibile motivo per rimandare l'operazione ad altro
giorno e, allontanatosi, ritornò di lì a poco con gli ingredienti, ma non volle che fossi io ad adoperare il rasoio: avrebbe fatto lui da barbiere. Usciti all'aperto, ci appartammo in un angolino
conveniente tra i massi rocciosi e, prima che il caro giovine iniziasse l'insaponamento mi accorsi
che si era munito anche di uno specchietto, invero tutt'altro che in buono stato, ma dotato ancora
di una discreta funzionalità; me ne servii per constatare lo stato del mio viso, ma ahimè, quanto
diverso ciò che vidi da quello che ricordavo delle mie sembianze!
Mentre Vassili procedeva alla rasatura tutt'altro che indolore, perché il rasoio non era
affatto adeguato al suo compito, De Angelis m'informò che saremmo stati ospitati in casa di Socràtis Pacapanus, un individuo da noi mai notato né al magazzino né altrove.
Verso sera mi recai alla nuova dimora con i tappetini e un pezzo di pane che la nostra
parsimonia ci aveva indotti a conservare per il giorno seguente. Feci così conoscenza della mowww.anpi.it
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glie del nostro ospite, di nome Statula, e di due suoi figli: Vangelo ed Agata. Poco dopo, in
compagnia di De Angelis che lo aveva rintracciato non lontano dal magazzino, venne Socràtis,
un tipo di statura normale, dal volto piuttosto emaciato e dall'occhio spento: sicuramente prima
di allora non l'avevamo visto. Come i suoi compaesani, non abituato a trattare persone estranee
al suo piccolo mondo, era palese il suo disagio nel vedersi in casa due individui che, pur laceri e
privi di tutto, gl'incutevano soggezione perché intuiva che il loro stato sociale doveva essere
molto diverso dal suo; ma anche a noi l'impatto con quella nuova realtà procurò un certo disorientamento.
Dopo aver consumato la cena che, grazie al maggiore Le Brocq e a Socràtis, quella sera
fu più varia e soddisfacente, andammo a distenderci, per la notte, sull'impiantito di legno, al posto assegnatoci presso la porta d'ingresso. Noi si dormiva così per necessità, ma anche i montanari e i pastori, tra i quali ci trovavamo, non facevano uso del letto; i componenti di una famiglia, così come si trovavano vestiti, si avvolgevano ciascuno in una coperta o più semplicemente
nella cappa se questa era piuttosto ampia, e dormivano così distesi sul pavimento tutti riuniti in
una stanza.
Verso l'alba del giorno seguente, sabato 25 dicembre, sentimmo la campanella della
chiesa che chiamava a raccolta i fedeli: stavano per avere inizio i sacri riti del Natale ortodosso,
Avremmo voluto andarci, ma ce ne astenemmo perché pioveva a dirotto e il cammino da farsi
non era breve. Socràtis e i figli invece, protetti alla meglio da un telo impermeabile, si avviarono
solleciti verso il sacro edificio.
Un po' per quella pioggia scrosciante e un po' per la ricorrenza che richiamava alla
mente struggenti ricordi, la giornata si annunziava quanto mai triste: l'anno prima, nello stesso
giorno, i miei cari mi avevano con loro nella solennità natalizia, ora invece, senza di me ed ignari di ogni cosa, trepidavano.
Levatici con una certa pigrizia ed ammucchiati i pochi stracci tra i quali avevamo trascorso la notte, ce ne stemmo zitti zitti nella stanzetta tuttora in ombra per non disturbare chi
eventualmente dormisse ancora, ma non durò a lungo quel silenzio che induceva alla meditazione perché Statula, che era sveglia da un pezzo, venne a portarci la colazione, di consistenza del
tutto inconsueta per noi: carne di maiale e pane che , malgrado il nostro stato di assoluta indigenza, consumammo con riluttanza.
Quando si ebbe finalmente una buona schiarita, ci recammo al magazzino ove si era ripreso a giocare, poi, vagando qua e là avemmo occasione di entrare per la prima volta in un secondo magazzino più ampio che, ordinariamente chiuso, per la ricorrenza natalizia era stato eccezionalmente aperto al pubblico. Fu qui che incontrammo Pips che ci cercava per consegnarci
un cesto con tanto pane di grano e tanto formaggio offerto da quanti recatisi in chiesa per il sacro rito; quei montanari e quei pastori dal fare semplice e talvolta dall'aspetto rude, non avevano
voluto che a noi, lontani dagli affetti familiari, mancasse in quel giorno ricordevole una più significante solidarietà. E come se non fosse più che sufficiente per molti giorni tutta quella provvista, Travalos, il benefattore della prima ora, ed Attanasio Bacoiorgos, il maestro elementare
che nel tempo di pace teneva a scuola i ragazzetti del villaggio, ci offrirono un piatto di riso cucinato secondo una consuetudine locale.
Ma i doni della provvidenza in quel particolare giorno non erano terminati. Eravamo
ancora lì, presso il grande magazzino, intrattenendoci a parlare con questo e con quello, soprattutto per dominare la grande tristezza tenacemente attaccatasi al più profondo dell'animo, quando uno dei soldati italiani che prestavano servizio per il commando inglese, venne ad avvertirci
che il maggiore ci attendeva per le ore 12 per averci a pranzo.
Era ancora presto per ottemperare a quell'invito tanto gradito; continuammo, pertanto, a
soffermarci qua e là in attesa che scoccasse il mezzodì. Fu così che, trovandoci a passare davanti
alla sua casa c'intrattenemmo a parlare con la moglie di Fotio Janaris: erano nostre buone conoscenze che spesso ci avevano dato da mangiare. Lui, alto, magro e dall'aspetto piuttosto truce,
aveva provato il carcere per una questione d'onore conclusasi nel sangue; lei, di pari complessione, col viso rugoso che palesava una sfiorita bellezza, aveva un naturale incedere da gran
dama, anche se procedeva per un sentiero scosceso e pietroso con una pesante fascina in bilico
sulla testa. La carne di maiale mandata giù ad ora così insolita ci aveva procurato una grande arsura; la buona donna ci dissetò, poi volle che entrassimo in casa e fattici sedere davanti al fuoco
del caminetto, ci offrì un piatto di ciccioli, quanto aveva di prelibato per il banchetto natalizio.
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Era presso a poco l'ora indicataci, quando io e De Angelis giungemmo dagli inglesi.
Dapprima c'intrattenemmo con i due soldati italiani che collaboravano con quel commando poi,
dopo un breve scambio di convenevoli con l'interprete, dal suo covo, appositamente rivestito
internamente di pesanti tappeti affinché dall'esterno fosse impossibile ascoltare o udire quando
si faceva, venne fuori il maggiore. Col suo solito tratto da gentleman, ci diede da bere l'immancabile gin, poi fece apparecchiare per il pranzo e quando in sei - il maggiore, il sergente interprete, noi due ed i due soldati italiani - sedemmo intorno al grezzo tavolo privo di tovaglia, sul
quale erano sparse le poche modeste stoviglie avute in prestito da una casa poco lontana, un
greco, venuto fuori da non so dove, servì un troneggiante tacchino allo spiedo, un piatto di patate lesse che, in conformità di una tradizionale usanza inglese, sostituivano il pane, ad un paio
di bottiglie di vino dei famosi vigneti di Samo. Sul punto di dare inizio a quel banchetto natalizio di eccezione, il maggiore, che mi aveva alla sua destra, dalla guaina, sorretta dal cinturone,
estrasse il coltello greco dalla lunga lama e me lo porse perché facessi le porzioni. Sorpreso che
mi venisse usata tanta deferenza, lo ringraziai con lo sguardo e lo pregai di dispensarmi dall'assolvere quella mansione.
In un clima di diffusa rassegnata mestizia, dalla quale più volte si cercò di evadere con
qualche battuta di spirito, facemmo onore a quel prelibato tacchino innaffiato dall'ottimo vino.
Poi il maggiore diede da fumare a chi ne sentiva il bisogno ed infine, dopo averci invitati al ricevimento serale che offriva ai maggiorenti del villaggio, si scusò di doversi ritirare perché aveva inderogabili impegni.
Ritornammo al grande magazzino. Il desiderio di trascorrere in letizia le ore di quell'eccezionale pomeriggio festivo aveva un po' conquiso i villici che affollavano il locale con insolita
animazione. Seduti ai piccoli tavoli, alcuni giocavano a carte, altri a dama, altri ancora chiacchieravano davanti a bicchieri di vino o di birra e tutto ciò tra rumorose risate, arguti frizzi lanciati anche da un estremo all'altro con voce stentorea, sì che, incrociandosi come stelle filanti,
creavano una risonante allegrezza. Con De Angelis sedetti ad un tavolo, quasi come se mi compiacessi di osservare e di ascoltare, ma in realtà, insensibile a quanto si faceva e si diceva, ero
con la mente ed il cuore molto lontano da quella gaiezza natalizia, ero accanto a chi, tra le mura
della mia casa lontana, stava in ansia per me e pregava.
Uno dopo l'altro, sedettero al nostro tavolo anche Domenico, Ernesto e Giuseppe, i tre
soldati che dalla sera dell'incontro a Pillaro spartivano con noi ansie e speranze. Stemmo lì per
un bel po' tutt'insieme, parlando a volte di quanti apparivano più euforici e fu proprio durante
questo passatempo che conobbi un quarto soldato rifugiatosi ad Achirà, un calabrese che disse
di chiamarsi Antonio Ciaravolo; egli però non faceva parte della guarnigione di Cefalonia e
pertanto le sue peripezie non erano angosciose come le nostre.
Gl'inglesi non disponevano ovviamente di una sala adatta a ricevere gl'incliti invitati;
dovettero pertanto accontentarsi di sgombrare il tavolo da quella prima stanzetta, ove avevamo
consumato il pranzo natalizio, e fece sedere gl'intervenuti tutt'intorno, alcuni sulle poche sedie,
altri su casse, altri ancora seduti alla turca. Eravamo in tutto una dozzina di persone, tutti uomini, tra i quali spiccava Fotio Janaris armato di fucile, pistola e del tradizionale coltello; a vederlo, non so come, mi parve di ravvisare in lui l'Innominato prima del provvidenziale incontro con
il cardinale.
Il maggiore Le Brocq, compitissimo, offrì certi dolcetti molto in uso nel medio oriente,
più uva passita, novelline ed un gustoso vino limpido ed aromatico. Mentre si assaporavano quei
dolciumi fuori delle regola e si sorseggiava il vino prelibato, improvvisamente, da non so dove,
venne fuori un violino ed il maggiore, sembrandogli forse impossibile che uno come me, nato e
vissuto nella Napoli canora, non sapesse in qualche modo arrabattarsi con quel delicato strumento ad arco, fece cenno di darmelo perché suonassi. Ahimè! Pur essendo amante della buona
musica, non ho mai avuto a che fare con il pentagramma e così il violino passò nelle mani del
soldato inglese che aveva le precipua funzione di traduttore dal greco e che, in breve, rivelò una
certa bravura nel sapere trarre dalle quattro corde armoniose successioni di note. Il maggiore,
allegrissimo, si diede a cantare canzonette della sua terra accompagnato dal violino e dai greci
che, non sapendo fare di meglio, s'industriavano a seguire il canto con improvvisati cori a bocca
chiusa; io e De Angelis, seduti l'uno accanto all'altro, guardavamo trasognati.
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Quando per la stancante monotonia dei tradizionali motivi anglosassoni, il flusso canoro
calò di tono, non per questo si affievolì la serena gaiezza di quella eterogenea riunione; i greci
iniziarono un loro canto, poi, quasi per una preordinata intesa, il maggiore ed i suoi ospiti di lingua greca si disposero in circolo per una danza collettiva e, tenendosi l'un l'altro mediante un
fazzoletto impugnato in alto, con mani congiunte, presero a girare in tondo, a suon di musica,
con passi lenti e striscianti. Fotio Janaris, naturalmente, non trovava scomodo e sconveniente
danzare senza prima deporre le vistose armi e, con grande disinvoltura, ancheggiava secondo il
ritmo.
Venne poi il momento che anche la danza cedette alla noia ed allora ognuno tornò a sedere come poteva, a sgranocchiare noccioline, ad assaporare i dolciumi o l'uva passita, a sorseggiare il vino generoso. Il soldato violinista, libero ormai dall'impegno di eseguire motivi conduttori di canzoni o di danze, si sbizzarrì ad evocare successi internazionali, alcuni appena accennati, quasi come se cercasse frasi musicali che, ben note in un tempo lontano, erano adesso
per lui monche reminiscenze.
Dopo una pausa il violino passò nelle mani di Costa, un giovane contadino più evoluto
che, dopo qualche accordo, attaccò con slancio la celebre serenata di Toselli e le maliose note,
che già altra volte, in ben altre circostanze, mi avevano dato un ineffabile godimento, misero in
vibrazione le corde della mia ipersensibilità emotiva procuratami dai dolorosi eventi. Con le
palpebre socchiuse per meglio astrarmi da quanto mi circondava, mi diedi a seguire con tutto me
stesso quel rivo sonoro che, senza parole, esprimeva così bene il desio accorato della casa lontana, la struggente tristezza per l'incerto domani.
Improvvisamente Pips si levò ed accorse verso De Angelis; il mio infelice compagno,
non reggendo forse ai ricordi destati dalla malinconica serenata, era caduto in deliquio. Spruzzatogli un po' d'acqua sul viso, fu portato all'aperto e, investito dall'aria pura e fresca della piovosa notte dicembrina, si riprese del tutto, ma per noi, ormai, il ricevimento era finito. Preso
commiato dal maggiore e dai suoi ospiti, con De Angelis al braccio di Pips, mestamente ci avviammo sotto la pioggia verso la casa di Socràtis.
Nei giorni seguenti continuammo a beneficiare dei doni della provvidenza, tuttavia il
mio animo non smise dal sentirsi attanagliato da un diffuso malessere. L'impossibilità di sopperire a quanto urgentemente mi necessitava e le precarie condizioni dell'igiene personale, soprattutto per gl'insetti parassiti che sempre più mi tormentavano, mi tenevano in una continua inquietudine che talvolta sfociava nella disperazione allorché, stando solo, ero più facilmente indotto a considerare il mio miserevole stato. A ciò aggiungeva la sua nota triste il cielo costantemente ingombro di scuri nuvoloni dai quali spesso veniva giù una pioggia torrenziale, come
quella che si rovesciò a lungo dal tardo pomeriggio della domenica 26 dicembre, con così inusitata violenza da impedire, a me e De Angelis, di partecipare al ricevimento che Barba Costa
offrì in onore degli inglesi.
Altro non ci restò da fare, durante quella interminabile pioggia a rovesci, che rimanere
in casa di Socràtis, in un angolino ancora più appartato rispetto a quello inizialmente assegnatoci perché, durante una nostra momentanea assenza del mattino, Statula aveva ritenuto opportuno
trasferire i due giacigli nella stanzetta interna e buia che ordinariamente serviva da dispensa.
Come tanti altri suoi compaesani, il nostro anfitrione aveva sacrificato un maiale per
solennizzare degnamente le feste di fine d'anno e quella sera, per cena, non trovò altro di meglio
che offrirci pezzi di quella carne i quali, forse perché non proprio commestibili, mi procurarono
nella notte un'improvvisa e violenta indisposizione viscerale che mi costrinse, mal coperto com'ero, di andare fuori all'aperto sotto la pioggia che veniva a catinelle.
Trascorsi gli ultimi cinque giorni dell'infausto anno, durante il quale il 22 settembre, per
singolare prodigio, avevo schivato la falce della morte, alle zero ore del sabato sorse finalmente
il nuovo anno che presagivo risolutivo del mio misero stato. Di buon mattino, io e de Angelis, in
compagnia di Vassili, ci recammo nella piccola chiesa ove, dopo il rito propiziatorio, vi fu
un'abbondante distribuzione ai poveri di pane, formaggio, frittelle, ciccioli ed altre cose del genere; distribuzione di cui ci avvantaggiammo in larga misura. Ad ora conveniente, poi, ci recammo a porgere gli auguri al maggiore che, come si prevedeva, volle averci a pranzo. Nel pomeriggio, infine, c'intrattenemmo nel grande magazzino ove, coadiuvati da uno strimpellatore di
violino, montanari e pastori, ai quali sorrideva l'età lieta, ballarono fino a sera.
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Il giorno seguente, domenica, malgrado che dalle vette dei monti incombenti si affacciassero sulla vallata minacciose nubi e che la temperatura fosse tutt'altro che mite, ci recammo
in riva al torrente: avevamo urgente bisogno di disinfestare il nostro corpo e gl'indumenti che
indossavamo onde ottenere che, almeno per un paio di giorni, fosse meno molesto il prurito dovuto ai pidocchi.
Al ritorno, passando davanti ad una delle prime case che incontrammo venendo dal fondo valle, ci fu offerto pane e formaggio. Ripresa la salita, incontrammo Giuseppe che ci cercava
per dirci che aveva consegnato a Statula un grosso pezzo di carne di maiale donatoci dal maggiore. Tutti questi commestibili che da qualche settimana ci venivano dati in misura abbondante
e che pertanto non potevamo consumare in un solo giorno, spesso erano motivo di dissidio col
nostro ospitante perché, non avendo noi la possibilità di custodire personalmente quanto ci veniva dato in elemosina per il nostro sostentamento, Socràtis non si faceva scrupolo di disporre di
ogni cosa a suo piacimento. Quel giorno, per togliergli ogni possibile iniziativa non conforme
al fine che si era prefisso chi aveva donato, De Angelis, dopo avere acceso un bel fuoco nella
stanzetta a noi destinata, si fece dare da Statula una padella e con la maestria di cui ormai non
potevo dubitare, provvide a cuocere parte della carne, ma, purtroppo, non poté evitare che un
bel pezzo andasse a finire tra i denti di un gatto.
Il lunedì, 3 gennaio, accadde qualche cosa di insolito che bruscamente ci richiamò alla
realtà della guerra. Eravamo da poco in piedi quando Socràtis, al quale qualche informatore degli inglesi aveva passato la notizia, c'informò che una colonna tedesca con muli procedeva verso
Vustri, un villaggio non lontano da Achirà. Questa nuova, veramente inaspettata, ci fece senso
perché, nei tanti giorni da quando eravamo rifugiati in quella remota regione dell'Acarnania, si
era radicata in noi la quasi certezza che, fin quando vi saremmo rimasti, non avremmo avuto alcunché da temere dai tedeschi.
Consumata in fretta la colazione, e ciò anche per le sollecitazioni di Socràtis che giustamente non voleva in casa persone che, con le loro sola presenza, potevano procurargli grossi
guai, ci dirigemmo verso lo spiazzo antistante il piccolo magazzino che, oltre ad essere un buon
posto di osservazione di buona parte della vallata, era il luogo ove avremmo potuto attingere
ulteriori notizie e decidere il da farsi. Presto constatammo che la notizia era sulla bocca di tutti e
che gli uomini, giovani e vecchi ancora prestanti, si tenevano pronti a fuggire.
Osservato da lontano, il covo del commando inglese non mostrava alcuna particolare
animazione ma soltanto un andare e venire di contadini, peraltro poco frequente: erano gl'informatori che, sguinzagliati su ogni possibile via di accesso ad Achirà, tenevano informato giorno e
notte il commando di ogni movimento sospetto dei tedeschi.
A un tratto vedemmo il tenente italiano ed i suoi pochi uomini dei servizi logistici caricare in groppa ai muli alcune casse contenenti indubbiamente la stazione radio e quant'altro
d'importante poteva esserci ed avviarsi verso il fondo valle. Poi, intorno a mezzogiorno, mentre
quella carovana era ancora in vista, il maggiore uscì all'aperto e, montato a cavallo, lo vedemmo
andarsene solo verso Vustri per ritornare di lì a qualche ora; sapemmo in seguito che da un conveniente posto elevato, con un cannocchiale da marina, si era sincerato della consistenza della
colonna nemica. Dopo poco si allontanava definitivamente insieme agl'interpreti.
Mentre dal nostro punto di osservazione stavamo a guardare quanto facevano gl'inglesi,
i greci a noi dattorno ci esortavano a metterci al sicuro, ma purtroppo De Angelis, proprio in
quella preoccupante circostanza, non poteva muoversi per via delle scarpe che, malgrado quanto
si preannunziava, erano state affidate a Vassili per urgenti riparazioni di fortuna e, com'era logico, volli rimanere accanto a lui fin quando fosse stato possibile. Ma, allorché, con la trotterellata
finale del maggiore, fu chiaro che anche per noi rifugiati era ormai inderogabile darci alla macchia, allora per me fu giocoforza lasciare che De Angelis provvedesse da solo a mettersi al sicuro appena fosse stato possibile.
Ma non sapevo proprio dove andare a nascondermi; mi accompagnai pertanto a Spiro,
un giovine amico di Vassili che, essendo del posto, conosceva le località ove meglio ci si poteva
infrascare. Scendendo per un asperrimo sentiero, pervenimmo in breve al fondo che attraversammo fino a giungere alle prime balze di un rilievo che, ricoperto di fitta vegetazione, per alcune centinaia di metri si estendeva nel senso longitudinale della valle. Quando giunsi allo
stretto e lungo pianoro in alto, vidi che quanti mi avevano preceduto erano già bene acquattati
nel verde selvaggio. Trovato anch'io dove rimpiattarmi, fui raggiunto poso dopo da De Angelis
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che, pur con le scarpe non del tutto rabberciate, aveva infine deciso di raggiungere un luogo più
sicuro.
Quella striscia di terreno pianeggiante, in cima alla montagnola bislunga, era un eccellente osservatorio sulla valle inondata di sole: guardando a destra vedevo Vustri, di fronte Achirà e lontano, a sinistra, Kombotì, i tre villaggi abbarbicati ai monti che circoscrivono l'ampia distesa di campi su alcuni dei quali, tenuti a pascolo, ondeggiava il giallo dei greggi. Dopo una
breve attesa, durante la quale con una certa apprensione vidi Fotio Janaris aggirarsi con occhio
torvo armato di fucile, cominciai a vedere la testa della colonna tedesca che lentamente avanzava fiancheggiando il greto del torrente; erano oltre un centinaio con una quarantina di muli e
poiché marciavano per due, formavano una lunga fila di uomini e di animali che serpeggiava a
seconda dell'andamento del sentiero sul quale procedeva.
La colonna cominciò poi ad andare in su e, raggiunto il centro di Achirà, sostò per circa
mezz'ora durante la quale, come seppi in seguito, furono distribuiti volantini propagandistici.
Rimessasi in marcia, parve all'improvviso che i tedeschi volessero dirigere dritto dritto verso
l'altura ove eravamo nascosti; furono minuti di apprensione durante i quali già si considerava
l'opportunità di darsela a gambe dal lato opposto, ma, fortuna per noi, non ce ne fu bisogno perché la colonna accostò poi a destra e si allontanò verso Kombotì.
Nel tardo pomeriggio io e De Angelis ritornammo in casa di Socràtis; purtroppo le pizzelle con verdura che Statula ci diede per cena, pur essendo di nostro gusto, non valsero a dissipare le apprensioni procurateci dall'inaspettata ricognizione di quel reparto tedesco: il pericolo
di finire per la seconda volta nelle grinfie teutoniche era sempre incombente.
Ma io avevo anche un altro motivo per essere di malumore: nel salire al villaggio, attraverso una crepa della suola della scarpaccia destra, una spina si era conficcata profondamente
nella piante del piede e, come si può immaginare, mi causava dolore. Soltanto il giorno seguente, dopo un conveniente pediluvio nelle acque fredde del torrente, mi fu possibile estirpare
l'aculeo lungo poco meno di un centimetro.
L'inverno che durante i primi giorni del nuovo anno aveva alquanto sonnecchiato, il
mercoledì 5 gennaio, improvvisamente si ridestò manifestando la sua congenita natura con una
persistente pioggia gelida che metteva nell'animo un'ancora più cupa tristezza. Andando sotto
l'acqua che dai bassi nuvoloni si rovesciava senza sosta sulla tetra vallata, il pope si recò di casa
in casa nelle ore antimeridiane per la rituale benedizione nella vigilia dell'Epifania, poi, ad una
certa ora del pomeriggio, con lenti rintocchi della campanella installata sul frontone della chiesa, chiamò a raccolta i compaesani per il rito liturgico in preparazione della festa dell'indomani.
Venuto a conoscenza che, secondo la tradizione, a conclusione della cerimonia vespertina, le famiglie benestanti avrebbero distribuito ai poveri cibarie appositamente preparate, De
Angelis, sfidando l'inclemenza del tempo, si avviò sollecito ai primi lenti fievoli rintocchi, ed
invero la sua accettazione non andò delusa perché si guadagnò un bel piatto di orzo spugnato.
Io invece, avendo ormai i piedi privi di una valida protezione, altro non potetti fare che
starmene rincantucciato tutto il giorno in un angolo della casa di Socràtis, in assoluta solitudine,
oppresso dal pensiero angoscioso del mio miserevole stato. Ma il giorno dopo, profittando di un
sensibile miglioramento meteorologico, mi recai al piccolo tempio e stando in piedi accanto a
De Angelis, addossato alla parete di destra, in prossimità della balaustrata, assistetti alla celebrazione di rito ortodosso dei Re Magi. Naturalmente non mi fu possibile capire quanto il pope
e i tre cantori, ciascuno davanti a un leggio, andavano dicendo, né mi fu possibile capire cosa
stessero a significare le due tendine che, con anelli scorrevoli lungo un bastone orizzontale sovrastante la balaustrata, come un velario, venivano aperte o chiuse dal pope in certi momenti del
rito. Tuttavia il mio animo come un diapason investito da onde acustiche, risentì della solennità
della celebrazione e del malioso canto che quella piccola schola cantorum di montanari modulava con insospettata bravura.
Terminata la cerimonia, mentre sul sagrato il pope ed alcuni fedeli distribuivano ai bisognosi formaggio ed uva passita, Vassili scorse sul versante dei monti opposti alcuni uomini a
cavallo che procedevano in giù verso il pianoro della valle. Avvertiti, aguzzammo tutti la vista
verso il punto indicato e poco dopo, fuori del fogliame, scorgemmo un gruppo di cavalieri: era il
maggiore Le Brocq che, con i suoi subordinati ritornava da Achirà.
Il sabato 8 gennaio, prima che i barlumi dell'alba cominciassero a filtrare, essendo sveglio da un bel po', me ne stavo zitto zitto disteso sul giaciglio senz'altro addosso che il tappetino
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quando, nel profondo silenzio della notte, udii abbastanza vicino un colpo di pistola. Nudo com'ero, onde sottrarmi alquanto all'insopportabile prurito che mi procuravano i pidocchi, annidati
fra le pieghe e le cuciture dei miseri indumenti che indossavo durante il giorno, balzai a sedere;
uguale cosa fece De Angelis e mentre sbigottiti ci domandavamo cosa stesse accadendo, Statula
si precipitò nella nostra stanza e con orgasmo ci esortò a fuggire senza indugio: i tedeschi avevano circondato il villaggio e certamente si apprestavano a compiere minuziose perquisizioni in
ogni casa. Con apprensione, io e De Angelis ci guardammo: fuggire? … e come, dove fuggire
se, com'era da presumersi, tutti i sentieri di accesso al villaggio erano bloccati? Comunque, senza perdere tempo, ci affrettammo ad indossare gl'indumenti del giorno e già pensavamo a quello
che poteva capitarci se, varcata la soglia d'ingresso, ci fossimo imbattuti in qualche pattuglia tedesca, allorché sopraggiunse Socràtis che, senza tante spiegazioni, ci sospinse verso una botola
mimetizzata del pavimento di legno la quale immetteva in una intercapedine sottostante avente
per fondo la nuda terra.
Quando, ancora mezzo svestito, mi trovai acquattato lì sotto, pensai che forse ero all'inizio dell'epilogo non lieto dell'odissea che aveva avuto origine dall'immane tragedia di Cefalonia.
Abituatosi l'occhio alla poca luce antelucana, constatammo che l'intercapedine, per l'inclinazione del terreno aveva uno spessore via via crescente, da pochi decimetri, ad uno degli estremi
della casa, a poco meno di un metro all'estremo opposto; ci spostammo allora in un punto più
conveniente che ci consentiva una posizione del busto meno scomoda e lì rimanemmo zitti e
trepidanti in attesa degli eventi.
Trascorse lungo tempo, forse tre, forse anche quattro ore, quando avvertimmo che le tavole del pavimento della casa scricchiolavano sulle nostre teste: i tedeschi erano lì, sopra di noi.
Il povero Socràtis, che nel suo intimo aveva certamente fremiti di paura - figurandosi la rappresaglia alla quale sarebbe andato incontro se si fosse scoperto che dava asilo a due ufficiali italiani traditori - si dette subito da fare in convenevoli improntati a premurosa cortesia, come se
avesse incontrato amici di antica data.
"Kalimèra … kalimèra: thes kapnò?"
Non riuscimmo a capire cosa dicessero quei soldati che certamente guardavano attorno
circospetti, ma l'offerta del tabacco, sicuramente accolta, diede senz'altro a Socràtis il vantaggio
della prima mossa. Il parlottare fra le due parti, intercalato da gravi silenzi che a noi sembravano
più lunghi di quanto lo fossero, continuò per un poco, poi finalmente, dal calpestio che si andò
smorzando, capimmo che la pattuglia si era allontanata. Rimanemmo acquattati ancora per un
certo tempo poi, allorché fummo convinti che non ci fosse più alcun pericolo, strisciando carponi uscimmo all'aperto da un'apertura sul lato retrostante la casa.
Quando ritornammo tra quelle mura che ci davano asilo da quindici giorni, Socràtis, ancora conturbato, con tono fermo ci disse:
"Qui, non potete rimanere."
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11 - Dall'inverno alla primavera
Dopo le due incursioni fatte dai tedeschi nella prima decade di gennaio, un altro anziano
maggiorente del villaggio, da tutti chiamato Barba Tola, venuto a sapere che, in seguito alla decisione di Socràtis, io e De Angelis eravamo nuovamente senza riparo per la notte, spontaneamente ci offrì l'uso di un suo capanno ubicato al limite settentrionale della valle, poco distante
dalla mulattiera per Kombotì. Era una costruzione che, soddisfacendo ad una maggiore solidità
rispetto all'altra da noi precedentemente occupata, risultava costituita da muri a secco in basso e
frasche e paglia in alto, con una porticina a un sol battente tenuta chiusa mediante una serratura
la cui chiave era tenuta nascosta dietro una particolare pietra scura del muretto prospiciente la
valle. In questo capanno, avente una sezione rettangolare di circa due metri per quattro, io e De
Angelis trascorremmo la nostra grama esistenza fino a tutto il mese di marzo.
Nei primi giorni, dopo quell'infausto 8 gennaio, mentre eravamo ancora poco tranquilli
per un'altra scorreria dei tedeschi nella vicina Katoùna, con la cattura di venticinque persone e la
requisizione di coperte ed indumenti di lana, Socràtis continuò a darci da mangiare, ma poi profittando dell'assenza del maggiore inglese che, con tutti gli uomini del commando, per la seconda volta in una settimana, aveva magistralmente tagliato la corda per non rimanere intrappolato,
cominciò ad ignorare sempre più l'obbligo assunto fin quando, il 21 gennaio, prima ancora che
scadesse il mese per il quale aveva intascato due luccicanti sterline d'oro, non si vergognò di
dirci che, avendo già dato fondo a quel capitale, non era più in grado di provvedere al nostro sostentamento. Ci ritrovammo così nella primitiva condizione d'indigenza, resa ancor più dura
dall'aumentato stato di deperimento e dal progressivo irrimediabile logoramento degl'indumenti
necessari a coprirci e a difenderci dal freddo.
Ogni mattina, dal capanno salivamo al villaggio; nei primi giorni per recarci da Socràtis
poi, quando questi si dichiarò libero da ogni impegno, per intrattenerci come un tempo al piccolo magazzino, seduti al solito posto accanto alla finestrella ove non mi stancavo di guardare la
piccola carta dell'Europa attaccata al muro, e quando talvolta quella sosta cominciava a protrarsi
oltre il consueto, senz'alcuna utilità per noi, allora sfiduciati si andava fuori e, senza meta, si
stava un po' qui e un po' lì alla ricerca di quanto ci necessitava per non languire.
Fu durante questo periodo che, per circa una settimana, il pane quotidiano ci giunse inaspettatamente per una via insolita. Girovagando fra case e casolari bianchi di calce, la nostra curiosità era stata richiamata da una costruzione sorgente sopra un pianoro un poco elevato rispetto ad uno spazio antistante, costruzione ancora allo stato rustico con i soli muri perimetrali
ed il tetto incompiuto al centro per cui, guardando in alto dall'interno, si vedeva un bel rettangolo di cielo. Ci fu detto che quella fabbrica, una volta terminata, sarebbe stata adibita a sede
della scuola elementare e che i lavori erano sospesi a causa degli eventi bellici. Ora accadde che,
sul finire di gennaio, recandoci un mattino al magazzino, notammo che tra quelle mura, che si
erigevano come uno scatolo rettangolare senza fondo e senza coperchio, si era installato un falegname con un pancone di fortuna ed attrezzi da lavoro. L'uomo di circa cinquant'anni, piuttosto basso di statura e ben piantato, col mento guarnito di piccola barba, aveva nome Eleuterio
Caravasines ed apprendemmo da lui stesso che, abitualmente, risiedeva a Vonitsa con la famiglia e che si era provvisoriamente trasferito con un figlio, ad Achirà perché, essendosi resa disponibile una certa somma, in seguito ad un'elargizione del maggiore Le Brocq a favore del
villaggio, i competenti capi della piccola comunità gli avevano commissionato l'approntamento
delle porte e delle finestre del progettato edificio scolastico.
Eleuterio, per sua natura socievole, fin dal primo momento mostrò di non disdegnare la
nostra compagnia e pertanto, quando la presenza di noi due al magazzino non era necessaria al
nostro scopo, volentieri c'intrattenevamo intorno al pancone mentre lui e il figlio lavoravano.
Vedemmo così come da assi e tavole grezze si possa ricavare stipiti, architravi, battenti e quant'altro occorre per mettere su una porta o una finestra, ma vedemmo ancora meglio quanta umanità albergasse in quelle anime semplici perché ogni qualvolta Eleuterio e il figlio, stanchi di
usare il pialletto, lo scalpello e gli altri attrezzi, mettevano mano alla sacca con le cibarie, entrambi non tralasciavano di spartire con noi la provvista.
Dopo poco più di una settimana, com'era prevedibile, l'approntamento di porte e finestre
fu nuovamente sospeso per la mancanza della materia prima; Eleuterio, con il figlio, se ne tornò
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a Vonitsa ed io e De Angelis ridiventammo gli assidui procaccianti di chi per un giorno - soltanto un giorno - potesse darci quel tanto necessario per vivere.
Invero, anche se spesso fummo attanagliati da pessimistiche previsioni, da atroce sconforto, non ci fu giorno che presto o tardi non c'imbattessimo anche noi nel biblico samaritano:
oltre a quelli già ricordati, un giorno era Zoes, un altro giorno Euforia, un altro giorno ancora
era la moglie di Belisario, e poi Barba Alessio, Fotio Achiriaz, Costantino Bacoiorgos e tanti
altri ancora il cui nome, purtroppo, mi è rimasto ignoto, ma che, ogn'ora presenti alla mia mente,
qui ricordo con infinita gratitudine.
Ma, anche riuscendo, sia pure fra privazioni e disagi di ogni genere, a tirare avanti giorno dopo giorno, riprendemmo a considerare con angustia la precarietà della nostra condizione.
Purtroppo, l'epilogo dell'immane conflitto era ancora lontano e a noi appariva molto difficile
poter beneficiare, per chi sa quanto altro tempo ancora, della generosità di quei villici che dal
solo raccolto dei campi, spesso poco redditizi perché pietrosi, a mala pena traevano quanto occorreva per vivere un intero anno. Anche nei casi migliori, riguardanti le poche famiglie che, rispetto a tutte le altre, potevano dirsi benestanti, il tenore di vita era dei più bassi. Durante quel
lungo sofferto soggiorno in Achirà, soltanto in una casa mi fu dato di vedere quel mobile di antica origine che ha nome letto e sempre che qualcuno si ammalò, quale che potesse essere l'entità del male, la terapia praticata fu il riposo assoluto: disteso a terra con qualche coperta di lana, in un angolo della casa, il malato era tenuto lì per giorni e giorni fino a quando, senza una
cura appropriata, guariva o moriva. Se poi si riteneva che il male fosse dovuto a uno spirito maligno che aveva invasato lo sventurato, in tal caso lo si teneva segregato in una stanzetta adiacente la chiesa e sottoposto dal pope a quotidiane pratiche esorciste.
Trovandoci ora fra pastori e montanari, generosi sì, ma dalla vita tanto grama e dalla
mentalità così primitiva, dopo quattro mesi di continua beneficenza, non era più possibile per
me e De Angelis accettare ancora passivamente quanto, privandosene loro, ci davano giorno per
giorno, senza che nulla tentassimo per mutare il nostro stato di estremo bisogno. Occorreva,
pertanto, che anche noi, al pari di Giuseppe ed Ernesto, di Domenico ed Antonio, ci impegnassimo in un lavoro affinché non avesse l'amaro sapore dell'elemosina il pane che ci veniva dato.
In sulle prime la nostra domanda di lavoro fu accolta con scetticismo. A quanti confidavamo il proposito, lungamente maturato, sembrava un'assurdità quanto avevamo in animo di fare; Pips e Vassili ci ascoltavano con un'espressione incredula sul viso come per chiederci quale
lavoro pensassimo di poter fare se lì, tutt'intorno, altro non c'erano che mandrie di capre e di
maiali, pascolanti tra vigneti e campi a cereali, e noi, notoriamente, eravamo avvezzi a lavorare
in un ambiente diverso e per tutt'altri fini.
Ma tanto insistemmo che finalmente fummo chiamati a lavorare in una vigna fatta di
bassi alberelli allineati; si trattava di scalzare ogni vite e fare la potatura secca, cose che prima di
allora ignoravo del tutto. Dopo le necessarie istruzioni preliminari, mi dedicai alla prima pianticella con lo stesso meticoloso impegno col quale a tavolino avrei affrontato un difficile problema, ma quale fu la mia umiliazione, quando, nel passare alla seconda pianticella, mi accorsi che
De Angelis, indubbiamente più bravo, era già alla terza potatura e che il padrone della vigna
aveva per me occhiate commiserevoli. Naturalmente, il pranzo di quel giorno non fu di solo pane e formaggio, ma quando ad una certa ora del pomeriggio smettemmo di lavorare, io, in particolar modo, ero tutto indolenzito per essere stato così a lungo accovacciato nella pungente umidità della vigna priva di sole. In seguito, nonostante che il mio fisico ne risentisse, continuai a
lavorare a quel modo fino a quando ogni alberello non fu scalzato e potato, anche senza il valido
contributo di De Angelis che, colto da accesso febbrile di origine imprecisata, per alcuni giorni
se ne stette in assoluto riposo nel capanno.
Andammo poi a lavorare in un'altra vigna, ma, per le nostre condizioni di salute, vi restammo per poco; io, già provato, reggevo male agli sforzi fisici e De Angelis, pur essendo ritenuto di più forte fibra, dopo avere ingerito un piatto di polenta, a compenso di un'intera giornata
di lavoro, fu colto da forti dolori gastrici: era il 3 febbraio. Nei giorni seguenti, anche per il rincrudire dell'inverno, soltanto per inderogabili necessità ci allontanammo dal nostro rifugio ove
la legna che facevamo ardere in una cerchia di pietre, manteneva un benefico tepore. Ma la riluttanza a salire al villaggio, nelle condizioni fisiche in cui eravamo e col vento gelido che soffiava da settentrione, non ci privò del pane quotidiano: quanti ci conoscevano e sapevano di quel
nostro rifugio, trovandosi a transitare per la mulattiera poco lontana, diretti a qualche campo o
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villaggio al di là dei monti, notando forse il tenue fumo che veniva su dal capanno, non disdegnavano di venirsi a riscaldare al nostro fuoco, a ricaricare la pipa tra una chiacchiera e l'altra
con noi, fino a quando poi, nel rimettersi in cammino, traevano qualche cosa dalla sacca delle
provviste perché anche noi avessimo da mangiare.
Con le prime luci del 6 febbraio, domenica, un nordico paesaggio si rivelò ai nostri occhi: sormontati da una bassa volta di nubi di un grigiore cupo ed uniforme, i campi della valle
ed i monti tutt'intorno erano sotto uno spesso manto di neve. La lenta caduta dei candidi fiocchi,
sospinti dalla tramontana, a tratti debole e a tratti rinvigorita, durò per tutto il giorno durante il
quale rimanemmo costantemente nel capanno in compagnia di Giuseppe e di Ernesto che, liberi
da ogni impegno, vollero trascorrere con noi quella insolita domenica glaciale. Il giorno seguente, con il paesaggio sempre meglio ammantato di bianco, avemmo l'inaspettata visita di
Barba Tola, venuto a bella posta ad offrirci un buon piatto di polenta ed un bicchiere di vino, affinché reagissimo meglio al freddo eccezionale. Dopo qualche ora, trovandosi a passare nei paraggi, Barba Costa venne a fare due chiacchiere con noi e, prima di andare via, ci diede quanto
poteva della riserva di viveri che aveva con sé.
Quando dopo alcuni giorni, per le migliorate condizioni meteorologiche, lo strato di
ghiaccio in cui si era tramutato il primitivo manto di neve farinosa si fu completamente dissolto,
io e De Angelis, a parte qualche sporadica apparizione al magazzino, continuammo a trascorrere
le giornate nel capanno, accanto al fuoco, perché non eravamo nelle condizioni fisiche adatte a
sostenere sforzi eccezionali e, d'altra parte, non c'era alcuna possibilità di lavorare in qualche
modo.
Fu in questo periodo di assoluta inattività che, consigliato da Ernesto che mi vedeva
sempre più preoccupato per lo stato delle scarpe, mi diedi da fare per congegnare alla bell'e meglio un paio di zoccoli. Da oltre un mese, chiedevo a Travalos un pezzo di cotenna per ricavarne
le guigge, ma, chi sa perché, egli non si decideva mai a mantenere la promessa con la quale invariabilmente troncava le mie sollecitazioni eppure, dai soffitti della sua casa, come drappeggi
distesi tra pareti opposte, pendevano numerose file di pelle di maiale messe lì ad essiccare. Visto che col chiedere discreto ottenevo soltanto vane promesse, spinto dallo stato di necessità,
cominciai ad assillarlo e finalmente ottenni un pezzo di cotenna sufficiente alla bisogna. La
parte lignea degli zoccoli, non avendo altre risorse, la potevo ricavare soltanto da un buon tronco d'albero; pertanto, favorito da discrete condizioni meteorologiche, un mattino mi avviai tutto
solo verso la parte orientale della valle ove più frequente era la vegetazione arborea ed imbattutomi in un albero alto pochi metri, forse un giovine abete, forse un pioppo, con la piccola accetta che avevamo in prestito affinché potessimo preparare i piccoli ciocchi da ardere, mi diedi
ad assestare, nella parte bassa del tronco, colpi su colpi con tutta la forza di cui i muscoli delle
braccia erano ancora capaci, fino a quando non lo vidi cadere. Staccati i rami, lo trasportai al
capanno ove lo sistemai ad una certa distanza dal fuoco perché si stagionasse senza che si verificassero spaccature. Dopo alcuni giorni, Ernesto, lavorando d'ascia con grande perizia, ricavò
dal tronco le due grosse suole alle quali, poi, furono applicate le guigge ricavate dalla cotenna.
Mi parve così che, per un bel po', non dovessi avere preoccupazioni per la mancanza di
calzature, ma ben presto dovetti ricredermi. Infatti, quando, di lì a qualche giorno, fummo chiamati a lavorare per poche ore nell'unico mulino ad acqua, posto in una gola non lontana da
Achirà, per la prima volta calzai gli zoccoli, ma male me ne incolse perché, a parte il fatto che
non ero abituato a camminare con quegli arnesi, le guigge ricavate dalla cotenna, tutt'altro che
bene essiccata, col calore dei piedi privi di calzini, cominciarono a trasudare grasso di maiale
che, in breve, unse le suole e le piante e di conseguenza, scivolando di qua e di là, mi era difficile tenermi in equilibrio, specie quando mi trovavo sopra un terreno in pendenza. Ritornato al
capanno, dopo che mi fui liberato di tutto quel maleolente viscido intruglio, rimisi le ciabatte
sdrucite e sbrindellate e degli zoccoli, malgrado tutto, non ne volli più sapere.
A conti fatti, il lavoro compiuto nelle vigne ed al mulino era servito più che altro a dimostrare a quei buoni villici che non ci andava a genio nutrirci alle loro spalle, perché in realtà
da quelle fatiche non avevamo ricavato alcun particolare beneficio, ma soltanto qualche malanno in più. Tuttavia, se fosse stato possibile, ci saremmo improvvisati ancora braccianti agricoli,
il massimo che con molta buona volontà eravamo in grado di fare perché, di quant'altro richiedeva la vita dei campi, non era proprio per noi. Ma in quei giorni invernali così tetri e monotoni,
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di braccianti non ce n'era proprio bisogno: le lunghe strisce rilevate di terreno dissodato tra solchi paralleli ed equidistanti, non rivelavano alcunché della germinazione in atto ed i contadini
proprietari di quei campi, fiduciosi di un buon raccolto, trascorrevano la giornata tra partite a
poker ed accese discussioni politiche.
A furia di meditare su quella nostra indigenza senza vie di uscita, ci venne in mente
d'impiegare utilmente quanto ancora rimaneva della sterlina avuta dal maggiore inglese alla vigilia della nostra partenza per Parga. Da uno dei villici che ne aveva ancora a sufficienza, acquistammo un certo quantitativo di granturco che gli lasciammo in deposito con l'intesa che, a nostra richiesta, ci avrebbe fornito pane o farina e che, a compenso della macinazione e di ogni altra cosa, dal granturco da noi acquistato ne avrebbe prelevato una parte per sé.
Conseguita così la sicurezza che, razionando pane e farina, per più di un mese si aveva
di che mangiare di nostro, cominciò per noi, senza che ce ne avvedessimo, un altro periodo della
nostra travagliata esistenza. Ottenuto in prestito un paiolo di rame per cuocervi la polenta, ogni
mattino, dopo avere acceso il fuoco, con l'infinita pazienza richiesta dall'impiego di una pietra
focaia, non difficile a trovarne nei paraggi del torrente, sospendevamo il paiolo con acqua all'estremità di un asse di legno conficcato nel muro a secco, in modo che la fiamma lambisse il
fondo del recipiente, e quando si aveva l'ebollizione, De Angelis, attraverso le dita della mano,
lasciava cadere lentamente la farina mentre io, con un rudimentale mestolo ricavato da un ramo
d'albero, continuamente mescolavo onde evitare che la farina si appallottolasse. Rimanendo seduti accanto al fuoco e facendo uso di cucchiai dello stesso stile del mestolo, ciascuno consumava la sua razione di calda, scipita polenta, l'una contenuta dal paiolo, l'altra da un piatto improvvisato e poiché, per la diversità dei recipienti, non si era mai sicuri che le due razioni fossero uguali, si convenne che a ciascuno di noi, a giorni alterni, spettasse la razione contenuta dal
paiolo. Terminata la lauta colazione, mi recavo ad una vicina fonte che sgorgava lenta da un anfratto e pulivo le stoviglie. A metà del giorno, mangiavamo una parte del pane prestabilito conservando quanto restava per la sera, sempre quando l'inaspettata visita di un contadino o pastore
non ci consentiva di prescindere dal razionamento.
Dopo circa una settimana di questo nuovo regime alimentare, riuscimmo a procurarci un
pugnetto di sale e così, per alcuni giorni, mangiammo una polenta meno ingrata al palato. Ma in
seguito fummo in grado d'interrompere, di tanto in tanto, la consueta ingestione mattutina di
quella mescolanza di acqua calda e farina. Accadde che, durante una delle tante volte che, nei
giorni festivi, ci trovavamo riuniti con i soldati, venne fuori che le tartarughe, non difficile a
trovarne nella valle, sono buone a mangiarsi, tanto che rinomati ristoranti inglesi preparano, per
i loro clienti buongustai, una complessa zuppa con la carne di quei rettili. Bastò questo per indurci a cercare nei cespugli e negli anfratti più reconditi ma senza successo, finché un bel giorno
Ernesto se ne venne al capanno con una tartaruga di oltre venti centimetri di lunghezza; in seguito, quel bravo ragazzo, ce ne procurò altre anche più grandi.
Estrarre il corpo del rettile dal guscio, per pulirlo e poi bollirlo, non fu per noi impresa
facile ed ogni volta vi riuscimmo soltanto dopo fortunosi tentativi. Dapprima pensammo di
rompere il guscio servendoci dell'accetta, ma desistemmo presto da tale proposito perché considerammo che il taglio di quell'arnese si sarebbe rovinato. Risolvemmo allora di separare il piastrone dallo scudo conficcando cunei di legno negli orifizi dai quali fuoriescono il capo e le
zampe, ma soltanto dopo duri sforzi riuscimmo nell'intento, senza dire che la bestiola fece una
fine atroce. Con la seconda tartaruga pensammo di procedere all'apertura del guscio dopo
averla ammazzata in modo sbrigativo, istantaneo, per non farla soffrire troppo e, a tal fine, non
c'era altra possibilità che decapitarla con un colpo netto dell'accetta. Pertanto, apprestandoci a
quella esecuzione capitale, ponemmo il guscio sopra un terreno soffice affinché il taglio dell'arnese, che tenevo pronto per il colpo repentino, non si rovinasse urtando contro una superficie
dura, ed in silenzio ci mettemmo ad aspettare il momento propizio. Finalmente, la bestiola mise
fuori il capo; quando mi parve che il collo fosse tutto proteso, assestai un rapido colpo che però
andò a vuoto perché la tartaruga, intuito il pericolo, con maggiore rapidità si era tutta ritratta nel
guscio. Mi ci provai ancora, ci si provò anche De Angelis, ma in ultimo dovemmo desistere ed
aprimmo il guscio come avevamo fatto la prima volta.
Liberato il rettile dal guscio, asportavamo quanto non era commestibile e dopo un accurato lavaggio con la fresca e limpida acqua della fonte, mettevamo a bollire la carne nel paiolo.
Quando sulla superficie dell'acqua in ebollizione si formava lo straterello biancastro di minute
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bollicine di grasso che via via aumentavano, De Angelis, col mestolo di mia fabbricazione e con
meticolosità e praticità ammirevoli, cominciava a schiumare fin quando, giunta la carne al dovuto grado di cottura, la si toglieva dal paiolo per accingerci alla preparazione dell'altro piatto
del giorno: la polenta con il brodo di tartaruga.
Sia che non fosse gustosa, sia che fosse un poco gradevole al palato, grazie al sale
quando l'avevamo, o alla tartaruga quando si riusciva a trovarla, quella colazione calda, nel clima rigido delle prime ore del giorno invernale, noi la preparavamo con grande impegno perché
serviva soprattutto a riscaldarci lo stomaco e perché era un'occupazione che ci distoglieva alquanto dalla nostra ossessionante vita fatta di privazioni, di strapazzi e di pensieri angosciosi.
Terminata la colazione, se così può chiamarsi l'ingestione di quelle poltiglie comunque
rigirate, mettevamo sulla brace uno strato di cenere e, chiuso il capanno, ci avviavamo con l'accetta verso una delle alture terminali della valle ove potevamo far legna senza tema di arrecare
danni a qualcuno. Se l'aria era particolarmente pungente, De Angelis che, non avendo altro, indossava sempre la giacca di tela a quadrettini bianchi e neri donatagli dalla buona vecchietta
che, col fratello, ci aveva ospitati a Spilea, metteva sulle spalle, a guisa di scialle, il tappetino
donatogli dal pope. Giunti sul posto, De Angelis s'inerpicava sull'erta parete dell'altura fino a
raggiungere quei quattro, cinque alberelli che a suo giudizio conveniva abbattere e cominciava a
lavorare di accetta; quando il fusto, staccato dalla base, precipitava, io che dal basso l'avevo tenuto d'occhio, l'andavo a raccogliere e, pur essendo privo di un qualsiasi arnese adeguato, lo
sfrondavo come meglio potevo. Compiuto il lavoro da boscaiolo, De Angelis veniva giù e quindi, con i fusti sulle spalle, ritornavamo al capanno ove completavamo l'opera riducendoli in
ciocchi che venivano messi ad essiccare.
Le rimanenti ore del giorno le trascorrevamo in vario modo tra il capanno ed il magazzino a seconda delle circostanze ed erano ore senza troppa noia, senza troppa depressione psichica, ma quando poi il Sole, con notevole anticipo rispetto al suo tramonto astronomico, si nascondeva dietro gli alti monti dal lato di Kombotì e, poco dopo, i grigi veli della sera cominciavano a distendersi e poi a diventare man mano sempre più fitti sulla valle solitaria, allora una
struggente tristezza, un angoscioso anelito della quieta casa, dei cari lontani, ci prendeva ineluttabilmente e pareva che le ore si succedessero con un ritmo più lento. Ci rinchiudevamo nel capanno e stando lì, seduti a terra accanto al fuoco, si rimaneva lungo tempo. Immancabilmente il
mio posto era con le spalle alla porta, quello di De Angelis, a me di fronte, con le spalle al muro
a secco del lato sinistro; fra noi due la fiamma, alimentata con grande cautela perché non divampasse pericolosamente troppo in alto, dava ai nostri volti una tetra colorazione rossastra che
risaltava ancora di più tra le fumose ombre di cui era pieno il nostro piccolo rifugio. Talvolta,
immersi nei cupi pensieri, guardavamo la fiamma in silenzio; talvolta, cercando di evadere da
quanto ci opprimeva, parlavamo del più e del meno; talvolta ancora ci abbandonavamo a reciproche confidenze. Di preferenza parlavo dei miei figli, della mia ansia di ritornare alla cattedra,
delle aspirazioni che ancora mi turbinavano nella mente, del dubbio che mi attanagliava di essermi trovato nella tragica vicenda di Cefalonia per avere giustamente bocciato il figlio di un
ammiraglio. Lui amava dire dell'unica figlia da marito, del cognato monsignore che aveva ottemperato a mansioni di un certo rilievo in Vaticano, del fratello proprietario dell'albergo Diana
in Roma, della sua sconsideratezza che l'aveva indotto a chiedere il richiamo alle armi al solo
scopo d'interrompere la vita monotona d'ogni giorno, per un illusorio ritorno agli anni scapigliati
della giovinezza. Gli era andata bene soltanto all'inizio di quella sospirata evasione quando, durante il viaggio, via terra, di trasferimento a Cefalonia, aveva sostato per più giorni a Brioni in
piacevole compagnia.
Una sera che Giuseppe venne ad intrattenersi con noi, si trovò a dire che la sabbia argillosa che d'ambo i lati fiancheggiava il torrente, era senz'altro buona per fabbricare mattoni. Di
qui la sua immaginazione e quella di De Angelis presero le mosse per sbizzarrirsi in un fantastico progetto: impiantare un'artigianale fabbrica di laterizi, cosa che ci avrebbe consentito di sbarcare un po' meglio il lunario dato che di mattoni da costruzione ce n'era proprio bisogno. Ma
com'era prevedibile, l'entusiasmo per l'attuazione dell'impegnativo progetto, dopo alcuni giorni,
si affievolì finché poi tutto andò a finire nel nulla, come una bolla di sapone.
Un altro progetto, ma questa volta audace, cominciammo a carezzarlo quando apprendemmo che Ernesto, insieme al padrone, si sarebbe recato ad Astokos, un porticciuolo dell'Acarnania; gli demmo incarico d'indagare la possibilità di tornare subito in Italia con qualche
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peschereccio locale. Com'era da prevedersi, anche con un munifico compenso, nessuno di quei
pescatori d'alto mare si dichiarò disposto a correre i gravi rischi che comportava l'impresa.
Avvenne intanto che De Angelis cominciò ad avvertire una dolenza, man mano sempre
più accentuata, in corrispondenza di una piccola bolla formatasi non lontana dalla sporgenza
esterna del malleolo destro. In pochi giorni la bolla divenne pruriginosa e si ricoprì di secrezione
maleolente: purtroppo era una piaga che si estendeva sempre più in superficie ed in profondità.
Consapevoli delle conseguenze alle quali si andava incontro senza l'opportuno trattamento terapeutico, cominciammo a cercare come far fronte a quella malaugurata circostanza, ma l'unica
cosa che poté fare De Angelis fu quella di coprire la piaga con una pezzuola, mantenuta da una
striscia annodata, e di non affaticare la gamba stando in piedi o, peggio ancora,andando su e giù
per i sentieri scoscesi di Achirà. Mentre il male continuava a progredire, un pastore capitato al
capanno, sentito da De Angelis quanto gli stava accadendo, consigliò di applicare sulla piaga la
foglia di una certa pianta non difficile a trovare nei paraggi. Con un certo scetticismo gli chiedemmo delucidazioni: dov'era possibile trovarla, che forma aveva la foglia, quante volte in un
giorno occorreva fare la medicazione. I chiarimenti, invero, furono un po' vaghi, comunque, il
giorno seguente, dopo avere ingoiato la polenta, ci mettemmo in cammino e giunti in una località ombrosa ed umida, che poteva essere anche quella indicataci, vedemmo una pianta che affondava le radici nelle sconnessure di una bassa parete rocciosa ricoperta di muschio, pianta le
cui foglie peltate avevano più o meno le caratteristiche accennate dal pastore. Superata la comprensibile incertezza del primo momento, De Angelis decise di applicare quelle foglie sulla piaga ed il risultato fu che, dopo pochi giorni, al posto della chiazza purulenta c'era soltanto una cicatrice.
Quanto ci accadde di singolare in tutto quel periodo trascorso nel capanno di Barba Tola, ebbe inizio un mattino particolarmente uggioso di fine febbraio, umido e nuvoloso, mentre
noi, dopo la parca colazione, si stava ancora accanto al fuoco. All'improvviso, nel rettangolo
della porta, apparve il pecoraro Iorg, quello stesso che c'insegnava la numerazione in lingua
greca quando, all'inizio della nostra permanenza ad Achirà, trovammo asilo nella capanna di
Travalos. Era da molto che non lo si vedeva; secondo il suo modo di fare, scambiato il rituale
"kalimèra", venne a sedersi tra noi e senza proferire parola tirò fuori dalla sacca un pugnetto di
foglie di tabacco per triturarle e caricare la pipa: si vedeva che era di pessimo umore. Alla domanda di De Angelis come stesse in salute, più che altro per avviare due chiacchiere, rispose
seccamente che stava male e mentre noi due ci guardavamo presi da stupore, perché nessun'indizio di quanto asseriva trapelava dalla sua complessione atletica, soggiunse:
"Non voglio più fare il pecoraro!"
A questa inaspettata dichiarazione, aumentò il nostro stupore: come poteva aver preso
una così ferma risoluzione se, a suo dire, fin dall'adolescenza era abituato a trascorrere i giorni e
le notti col gregge paterno, lui che, fattosi il padre avanti negli anni, gli era succeduto nel governo di oltre cento pecore? Cominciammo ad interrogarlo cautamente e così il motivo di tanto abbattimento, della risoluzione improvvisa di dare l'addio alla pastorizia, venne fuori poco alla
volta.
Era accaduto che durante la notte, trovandosi accampato in collina, fidando nella vigilanza di un pastorello e nei fuochi accesi qua e là per tenere lontano i predatori notturni, si era
messo a dormire avvolto nella cappa. Ma il pastorello, con tanta stanchezza nella membra, con
tante ombre e tanto silenzio tutt'intorno che gli annebbiavano la testa, aveva ceduto al sonno ed i
lupi, fatti audaci da i fuochi quasi spenti e dalla mancanza di ogni indizio ostile, avevano avuto
buon gioco nell'assalire la mansueta preda. Quando svegliati dal belare delle pecore, Iorg ed il
pastorello si resero conto di quanto stava accadendo, già ventidue bestie, prive di vita, giacevano a terra nel loro sangue.
Ventidue pecore non era una perdita da poco e forse Iorg si sentiva colpevole di non
aver saputo predisporre quanto necessario per respingere l'assalto di quei cani selvaggi avidi di
sangue. Cercammo di trarlo da quel profondo sconforto e De Angelis che, per aver vissuto tra i
pastori abruzzesi, sapeva che il lupo, per istinto, si asside al lauto pasto soltanto dopo aver sgozzato l'intero gregge, per confortarlo disse che, dopo tutto, quelle ventidue pecore che giacevano
con il collo squarciato potevano essere macellate per uso domestico, ma Iorg tagliò corto:
"Noi non mangiamo la carne di pecora ammazzata dal lupo."
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De Angelis cercò di convincerlo che non c'era da temere perché, asportata con largo
margine la parte azzannata, la rimanente carne era commestibile, ma l'altro continuò ad essere di
parere contrario ed allora il mio compagno di tante peripezie, che già rimuginava come trarre
profitto da quanto era accaduto, domandò subito se potevamo prendere per nostro uso alcune di
quelle pecore.
"Potete prenderle anche tutte." - fu la risposta.
Ci facemmo indicare nel migliore modo possibile il luogo dello sterminio, una radura a
mezza costa sul pendio delle alture a meridione e, non appena Iorg si fu allontanato, ci avviammo.
I minacciosi nuvoloni che si estendevano da un estremo all'altro del cielo ed i campi
impregnati d'acqua per le frequenti piogge, non incoraggiavano proprio a compiere quella non
breve camminata agreste, tuttavia, spinti dal miraggio di poterci assicurare per qualche giorno
un cibo abbondante e non ingrato al palato, la facemmo di gran lena, malgrado alcuni canali
d'irrigazione che ci sbarravano il cammino. Giunti alle propaggini dell'altura, c'inerpicammo per
un buon tratto e, dopo aver cercato di qua e di là, giungemmo finalmente alla località ove Iorg
era stato sconfitto dai lupi; le povere bestie giacevano riverse sulla radura erbosa con i segni
manifesti dell'impari lotta sostenuta prima di soccombere: alcune avevano soltanto uno squarcio
alla gola, altre avevano anche il ventre dilaniato.
Di quelle pecore senza vita ne portammo via tre meno straziate, due legate con le zampe
posteriori a ciascuna estremità di un bastone, portato in bilico da De Angelis ora sull'una ora
sull'altra spalla, e la terza portata da me, sul groppone, con le zampe che, due per lato, mi scendevano sul davanti. De Angelis, pur avendo un carico doppio del mio, procedeva abbastanza
agevolmente, io invece, meno resistente agli sforzi muscolari, gli tenevo dietro con difficoltà.
Giunti al primo canale d'irrigazione, largo poco più di un metro ed avente nel fondo una stagnante acqua limacciosa, mettemmo a terra le tre bastie ed una alla volta le lanciammo sull'altra
sponda; in ultimo ciascuno di noi superò l'ostacolo con un salto in lunghezza. Allo stesso modo
attraversammo gli altri canali, ma, a furia di ricevere impulsi nei lanci e cadere con squasso sull'altra sponda, ad una delle pecore, da uno squarcio del ventre, venne fuori il pacco intestinale
cosa che ci procurò non poco fastidio.
Stavamo già nei pressi del capanno quando c'imbattemmo nel maestro elementare del
villaggio, Attanasio Bacoiorgos che, vedendoci con quel carico di pecore conciate a quel modo,
ci guardò stupito. Gli riferimmo quanto era successo nella notte e che, col consenso di Iorg,
avevamo preso quelle bestie per mangiarne la carne senza tracce di zanne, ma, malgrado questi
chiarimenti, senza parlare, continuò a guardare ora noi ora le pecore con un'espressione del viso
inconsueta finché, scambiatoci un "kalì andàmosi", proseguimmo per la nostra strada.
Giunti al capanno, facendo uso dell'accetta come meglio si poteva, lavorammo da macellai e, riservando a noi i cosciotti, demmo ogni altra parte di quelle pecore martoriate ad un
cane fino allora mai visto che, fiutando forse che c'era da poter rosicchiare qualche osso, prese a
frequentare i paraggi del nostro rifugio. Naturalmente, non avevamo la possibilità di conservare
a lungo tutta quella carne e pertanto fummo costretti a mangiare per tre giorni di seguito, mezzodì e sera, un cosciotto allo spiedo. Ma proprio in quei giorni di tanto impegno per noi nel preparare ogni volta, all'aperto, un buon fuoco senza fiamme sul quale poi, ad opportuna distanza,
facevamo girare lentamente i due cosciotti infilati per lungo da un sottile resistente ramo, fino
ad ottenere la giusta cottura, proprio in quei giorni notammo che quanti abitualmente gradivano
intrattenersi con noi, non venivano più al capanno. Ne parlammo con i soldati e, dopo poco, appurammo che non era un fatto casuale; avendo noi mangiato carne di pecora azzannata dal lupo
che è un animale invasato dal demonio, il quid diabolico era trasmigrato in noi e quindi era prudente starsene alla larga: anche questo ci voleva! Invero, non potevamo proprio immaginare che
una così stupida credenza fosse radicata in quei villici, comunque, noi facemmo finta di niente
e, poco dopo, tutto ritornò come prima.
Dopo quella scorpacciata di cosciotti allo spiedo, riprendemmo a nutrirci di polenta talvolta intrugliata con un po' di cicoria selvaggiola che, scoperta da De Angelis in rade minuscole
pianticelle, nelle giornate di bel tempo andavamo a raccogliere nei luoghi incolti. Fu durante
una di queste escursioni in cerca di quell'erba, che all'improvviso avemmo l'annunzio che la
dolce stagione stava per cominciare: a piè di un cespuglio una solitaria violetta prendeva il sole.
Dopo pochi giorni, in un mite pomeriggio, mentre infermo me ne stavo tutto solo nel capanno
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rischiarato da un tenue sole occiduo che filtrava tra le frasche, attraverso il vano della porta
spalancata cominciò un frenetico via vai di alcune coppie di pettirossi. Senza fare un gesto per
non spaventarli, osservai a lungo la loro operosità; con un fruscio d'ali le coppie entravano a
volo radente, si posavano verso il fondo del capanno e dopo qualche attimo spiccavano il volo
verso l'esterno con una pagliuzza nel becco. I brevi cupi giorni dell'inverno con i venti gelidi e
le piogge scroscianti erano tutte cose passate; puntuale veniva a noi la soave stagione e con essa
nuova linfa alla nostra grande speranza.
Al sopraggiungere delle giornate via via lunghe ed assolate, i campi seminati a frumento
perdettero il triste aspetto grigio ed acquitrinoso di cui l'inverno li aveva ammantati; visti al sole
dalle balze di Achirà, sembravano prati di un bel verde smeraldo. Le pianticelle di grano e di
granturco, prossime alla spigatura, avvertivano ch'era tempo di procedere alla sarchiatura perché
si avesse un buon raccolto e pertanto il capanno che ci ospitava, destinato, insieme agli altri
consimili, a custodire attrezzi ed arnesi e, quando occorreva, a dare asilo a chi lavorava nei
campi, era necessario lasciarlo.
Il sabato 1° aprile, dopo un malinconico addio a quel rifugio offertoci dal generoso Barba Tola, trasportammo i penati, per così dire, in un altro ricetto offertoci dalla provvidenza, un
terraneo tra le casupole di Achirà di cui era proprietario un certo Pano, un greco prestante di una
trentina d'anni il quale, sempre che ne aveva il motivo, amava indossare la caratteristica divisa
di ufficiale degli euzones. Era invero un terraneo tutt'altro che piacevole a starci, adibito a vari
usi a seconda delle circostanze; quando io e De Angelis vi mettemmo piede la sua funzione era
metà deposito e metà stalla perché, oltre a custodire roba vecchia e sconquassata - una carriola,
una cassa, uno sgabello ed altre cosucce del genere - ospitava anche un maiale di pochi mesi il
quale, per la sua innata tendenza a scorazzare senza restrizioni, obbligava a tenere chiusa la
porta. Di conseguenza l'aerazione, tanto necessaria per la presenza di quel sozzo mammifero,
era affidata unicamente ad una finestrella in alto, nella parete a destra entrando, che dal lato
esterno veniva a trovarsi ad altezza d'uomo rispetto ad un ripido viottolo.
Pano aveva una sorella di lui più giovane, prossima a prendere marito, e fu proprio nei
primi giorni della nostra convivenza col maiale che Euforia, era questo il suo nome, si fidanzò
ufficialmente. Come in una fiaba, un bel mattino, in conformità delle usanze locali, si vide un
gruppetto di uomini e donne a cavallo, con Pano che si era recato ad incontrarli, dirigersi verso
la casa ove Euforia attendeva con ansia: era il fidanzato che, con i genitori ed i parenti più ragguardevoli, veniva a stipulare l'accordo per le nozze. La sera dell'arrivo di quella comitiva, che
si trattenne alcuni giorni, la mensa dei banchettanti, fra canti corali e brindisi, di cui a noi giungeva l'eco attraverso al porta sbarrata, fu allietata da un'intera capra allo spiedo, pazientemente
girata da noi sulla brace, preparata nel terreno, ed in compenso anche a ciascuno di noi fu dato
un pezzo del mastodontico arrosto.
Assuefattici alquanto a trascorrere la notte ed alcune ore del giorno nel malinconico terraneo, con la nuova dimora dovemmo nuovamente considerare, giorno per giorno, come assicurarci il pane quotidiano. Il granturco acquistato con la sterlina si era esaurito negli ultimi giorni
di permanenza nel capanno di Barba Tola e quindi, per noi, niente più polenta, con o senza cicoria e brodo di tartaruga: avevamo ancora bisogno di chi ci facesse l'elemosina di quanto necessario da mettere nello stomaco.
Si può, pertanto, immaginare con quanto interessamento e quanta bramosia, un mattino
apprendemmo che, nei pressi del terraneo, una gallina era stata trovata morta nel pollaio in conseguenza di un male sconosciuto. De Angelis espresse l'opinione che la si poteva mangiare perché, come lui asseriva, con la cottura, quale che fosse stata la causa del fatale epilogo, quella
carne risultava immune da germi. La donna a cui apparteneva la gallina non fu dello stesso avviso e per disfarsene la consegnò a De Angelis che, pur essendo io perplesso, non ci pensò due
volte e spennandola, la squartò, la pulì e mise il tutto da parte, ben raccolto sulla cassa, per andare in cerca di un pentolino. Poiché il maiale era fuori per la libera uscita antimeridiana, rimasi
solo nel terraneo con la porta spalancata e male me ne incolse perché un gatto, profittando di un
mio momentaneo abbandono al sonno, entrò quatto quatto e furtivamente portò via uno di quei
pezzi anatomici destinato a soddisfare il nostro appetito. De Angelis, lungo la via del ritorno col
pentolino avuto in prestito, vide il gatto che aveva ancora tra i denti il corpo del reato e, naturalmente, varcata la soglia del terraneo, non fu molto indulgente nei miei riguardi.
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Mentre, tra un'elemosina ed un espediente, stiracchiavamo l'esistenza, avvenne che una
notte la finestrella in alto fu aperta dall'esterno ed Ernesto, apparso nel riquadro, con palese orgasmo, avvertì:
"Fuggite, arrivano i tedeschi."
In men che si dica raccogliemmo i nostri stracci ed andammo fuori; ma dove dirigersi se
non sapevamo da che parte provenissero quei dannati? L'esitazione però non durò a lungo perché, dopo breve riflessione, convenimmo che il partito migliore fosse quello di dirigersi verso
l'alto ove non c'erano mulattiere e sentieri, ma soltanto gole tra impervie pareti di monti. Dapprima procedemmo col fiato grosso nel timore di rimanere intrappolati tra le ultime case in alto
di Achirà, poi, con i primi bagliori dell'alba, constatato che non si notava alcunché di sospetto,
ci fermammo su di un poggio in attesa che la faccenda si chiarisse.
Le prime ore del giorno si susseguirono senza che si avesse sentore dei tedeschi e laggiù, tra le case del villaggio, tutto appariva normale; decidemmo allora di tornare in basso per
attingere precise notizie e così apprendemmo che reparti tedeschi erano a Trifos e, naturalmente,
non si sapeva che intenzioni avessero. Per tutto il resto del giorno stemmo all'erta, ma quando la
luce cominciò ad affievolirsi non ce la sentimmo di correre il rischio di un altro brusco risveglio
notturno, come quello che si ebbe nella casa di Socràtis; riprendemmo così la via dei monti nella
speranza di trovare un antro, una spelonca dove poter trascorrere la notte col minimo danno.
Avevamo già perduto di vista Achirà senza trovare quanto cercavamo, quando pervenimmo in
una gole e, lungo un breve tratto di una delle due pareti rocciose, notammo due cavità poco profonde, a poca distanza tra loro e tali che una persona appena appena poteva starci distesa; in
mancanza d'altro era quanto si confaceva al caso nostro.
Ormai era buio e d'intorno regnava il silenzio profondo del luogo selvaggio; ci scambiammo la buona notte, poi De Angelis, avviandosi al suo rifugio, scomparve dietro una protuberanza della parete ed io, distesomi come meglio potevo nella prima cavità incontrata, mi tirai
addosso gli stracci e col pensiero che nel sonno potevo essere facile preda di un lupo o di un individuo perverso, mi addormentai.
Il mattino seguente, prima ancora che i raggi solari s'irradiassero tutt'intorno, eravamo
già in piedi, indolenziti e intirizziti. Un pastore che con i primi albori si era spinto poco più in
basso a fare brucare il gregge, fu sorpreso di vederci lì, a quell'ora, e saputo il perché ci assicurò
che i tedeschi si erano ritirati, poi, vedendoci tanto rattrappiti, ci offrì del latte. Dopo poco più di
un'ora rientravamo nel terraneo.
In seguito accadde che Euforia, in assenza del fratello, ci avviò un mattino ad un lavoro
che in ogni altra contingenza ci avrebbe fatto arricciare il naso: si trattava di rimuovere da una
stalla quanto per lungo tempo vi aveva depositato il grosso bestiame e, con l'ingrasso così ottenuto, concimare un campo. Per tutto quel giorno De Angelis lavorò sodo col piccone per rompere lo strato spesso e compatto di letame mentre io, con un corbello, trasportavo quel maleolente
fertilizzante dalla stalla al campo e lo disseminavo sul terreno già dissodato e pronto all'aratura.
Il guaio fu che ogni volta dovevo scavalcare il muretto di cinta del campo il che mi obbligava,
con quel peso, a sforzi fisici superiori alle mie possibilità. Di tanto in tanto, dopo aver vuotato il
corbello, mi distendevo supino poggiando sopra una pietra in corrispondenza delle vertebre
lombari e con tale posizione del corpo, arcuata nel senso opposto a quella che necessariamente
assumevo durante il trasporto del letame, provavo un temporaneo sollievo. Durante quell'ingrato
lavoro, Euforia ci diede da mangiare più volte, ma quando finalmente terminammo eravamo
stanchi da morire.
La domenica 9 aprile, inizio della settimana santa secondo la chiesa greca, dopo avere
dato addio al nostro grugnante coinquilino, ci trasferimmo in un rifugio meno deprimente, il capanno di Tola Elia, posto tra le case del villaggio e grande più o meno quanto quello di Barba
Tola, ma con la particolarità di avere ad un estremo una specie di alcova di ampiezza appena
sufficiente perché due persone potessero distendersi sopra lo spesso strato di paglia che faceva
da materasso. Trovandoci più a nostro agio in questa nuova dimora, fin dal primo momento ci
sentimmo più sollevati d'animo ed a ciò contribuì anche la serena aria festiva che cominciava a
diffondersi in quei giorni precedenti la ricorrenza pasquale. Le nostre energie fisiche e morali ne
risentirono il benefico influsso e noi, con maggiore vigore, affrontammo privazioni e disagi;
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solo l'avvilimento derivante dal fatto che inutilmente tentavamo di liberarci dei pidocchi, rimaneva grave.
Anche il necessario per nutrirci, in quel nuovo clima di primavera, cominciammo a considerarlo un problema meno assillante; qualche giorno chiedemmo, senza ambagi, al primo che
ci venne a portata di mano, qualche altro giorno ancora ci buscammo il sostentamento liberando
il grano dall'erbacce o preparando, per una nuova vigna, le buche per trapiantare le talee.
Si andò avanti così per tutta la settimana santa quando nella notte seguente il sabato, in
conformità di quanto Pips ci aveva preavvisato, tra veglia e sonno udimmo i fiochi rintocchi
della campanella della chiesa che chiamava i fedeli a partecipare al rito celebrativo della risurrezione. In niente indossammo la nostra povere cose e ci avviammo guardinghi nella notte per i
sentieri che portavano in basso.
Trovammo il piccolo tempio, illuminato dalla fievole luce delle candeline di cera castanea, già affollato di contadini e pastori, alcuni soli, altri con la loro donna ed i bambini che, poveretti, avevano ancora la testa piena di sonno. Il pope, indossando vistosi paramenti, celebrò il
rito del quale, ovviamente, non mi fu possibile comprendere alcunché, ma tuttavia, sospinto
dalle maliose nenie dei cantori, il mio animo fu soggiogato dalla mistica rievocazione.
Ma l'incanto non durò molto; l'ultimo mottetto si spense, il pope si ritirò ed i presenti,
come in adempimento ad un ordine, trassero cibi di ogni sorta da sacche e ceste che non avevo
notate e, sedutisi sul pavimento della navata, si diedero a mangiare; naturalmente, anch'io e De
Angelis partecipammo a quell'insolito, inaspettato banchetto notturno.
La domenica 16 aprile, consigliati da Pips e Vassili, andammo su e giù per Achirà augurando ad ogni casa la buona Pasqua; a quei villici non sfuggì il supplice significato dell'auspicio
e non vi fu famiglia che, ricambiando l'augurio, non ci facesse dono di quanto poteva: pane,
formaggio o carne. Fummo così costretti a ritornare più volte al capanno per depositarvi quelle
vettovaglie finché nel pomeriggio, stanchi, sostammo a lungo fuori dell'abitato, a piè di un albero e lì, nella solenne quiete pomeridiana di quel particolare giorno, l'impetuose onda dei ricordi
mi travolse …
Nei primi giorni che seguirono ci demmo di gran lena a consumare le cibarie raccolte,soprattutto la carne che non si poteva conservare a lungo, poi, esaurite le riserve, ritornammo
al solito tenore di vita, nutrendoci con quanto ci offriva la provvidenza o con quanto ci veniva
dato in mercede per qualche lavoruccio campestre, ora in una vigna, ora in un campicello di fave o di lenticchie.
Fu in questo periodo che, diventando la temperatura sempre più mite ed il bel tempo
sempre più stabile, io e De Angelis decidemmo di sottoporci ad un'energica disinfestazione per
liberarci dai pidocchi che ci tormentavano. Ai primi di maggio, ottenuto in prestito un caldaio
dopo molto supplicare, ci recammo di buon mattino nel tratto più stretto del fondo valle, in una
piccola spianata lambita dal torrente e sufficientemente occultata, a chi guardasse dall'alto, da
lussureggianti alberi. Preparammo lì una catasta di rami secchi sulla quale sistemammo il caldaio con acqua e denudatici e posti a bollire gl'indumenti, c'immergemmo nel torrente. Non fu
certamente cosa facile attuare quel rimedio estremo; denutriti e mal conciati com'eravamo, fu un
grosso rischio immergerci in quelle fredde acque, ma l'ansia di liberarci dagli insetti immondi fu
più forte di ogni difficoltà e di ogni preoccupazione per quanto, di conseguenza, poteva accadere. Terminato quel bagno d'eccezione, rimanemmo a lungo nudi in attesa che i nostri indumenti,
tolti dal caldaio dopo una sufficiente bollitura, si asciugassero al sole. Soltanto verso il tramonto
fummo in grado di ritornare al capanno, fiduciosi di avere eliminato uno dei principali motivi
della nostra prostrazione morale, ma fu soltanto una mera illusione: dopo pochi giorni ricominciò per noi l'atroce tormento.
Breve tempo dopo il lavacro nelle fredde acque del torrente senza che raggiungessimo
l'intento prefissoci, De Angelis riuscì a sistemarsi presso la famiglia di un benestante locale di
nome Fotio Achiriaz. Motivo precipuo che lo spinse ad allontanarsi da me fu il convincimento,
tutt'altro che errato, che separandoci sarebbe stato più facile avere quegli aiuti di cui entrambi
avevamo grande bisogno. Ebbe termine così il nostro vivere insieme che durava dai tragici
eventi di Cefalonia.
Per otto mesi eravamo stati sempre l'uno accanto all'altro, spartendo, col pane avuto in
elemosina, ansie, angosce, privazioni; per otto mesi ciascuno aveva trovato nell'altro a chi conwww.anpi.it
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fidare le deprimenti pene di ogni giorno, il rodimento dell'animo per l'incerto destino e pertanto,
sul momento, per me quell'abbandono non fu senza sconforto.
Ma a pensarci bene, era inevitabile che un giorno o l'altro ci separassimo. Di temperamento irrequieto, sempre pronto a lanciarsi in un'impresa, in un'avventura, senza ponderare prima le possibili conseguenze, egli, molto più di me, non sopportava l'inerzia alla quale noi si doveva sottostare in attesa che l'ingarbugliata situazione bellica nella penisola balcanica, dipanandosi, ci consentisse il ritorno alla casa. Non lo disse mai esplicitamente, ma da qualche accenno,
da qualche allusione, mi parve di capire che fosse suo convincimento che con un altro individuo
accanto, di diversa indole, pronto in ogni circostanza a mettersi allo sbaraglio, le tribolazioni
conseguenti al tragico epilogo di Cefalonia non sarebbero durate così a lungo. Rimasto contrariato per la decisione da me propugnata di ritornare sui nostri passi quando quella notte ci trovammo abbandonati nel bosco poco oltre Konopina, e fermo altresì nell'opinione che giunti a
Embesò avremmo dovuto proseguire e fare di tutto per raggiungere Parga e di lì la costa italiana, più volte aveva proposto di unirci alla Divisione Garibaldi che, costituita da ufficiali e soldati italiani rimasti sbandati dopo l'armistizio, non si sapeva dove fosse e quali prospettive avesse; come più volte aveva proposto di marciare verso settentrione per rientrare in Italia nei pressi
di Trieste o di Gorizia, progetti audaci che avevo sempre avversati, non tanto per le difficoltà
intrinseche, ma soprattutto perché, essendo stremati di forze, non eravamo in grado di cimentarci in ulteriori difficili prove.
Il lavoro che quotidianamente doveva compiere De Angelis, in cambio del vitto e di un
posticino al coperto per la notte, alla prima, sembrava che non richiedesse molta fatica, ma dopo
i primi giorni si rivelò abbastanza gravoso: si trattava di curare l'allevamento di una ventina di
maiali, alcuni più o meno prossimi alla macellazione, altri ancora nel periodo di accrescimento e
poiché, secondo la consuetudine locale, l'allevamento era a pascolo e non in porcile, come si usa
da noi, il povero De Angelis, in ottemperanza all'impegno assunto, ai primi albori apriva la
stalla e con il porchettame si avviava verso luoghi con vegetazione erbacea spontanea per rientrare al crepuscolo, dopo un continuo defatigante girovagare sotto il sole. Soprattutto, egli doveva stare attento che quegli astuti mammiferi ungulati non si gettassero all'improvviso in un
campo coltivato per soddisfare la loro ingordigia o che qualcuno se ne andasse alla chetichella
per altra via.
Tra gli agi della sua vita romana, certamente De Angelis non aveva mai supposto che un
giorno potesse essere costretto a fare il porcaro. Da principio, quel mestiere fu una dura prova
per lui, ma poi, mano a mano, imparò bene come farsi obbedire da quegl'immondi animali divoratori di cose immonde; stanco nel fisico e più ancora nel morale, ma sempre vigile e pronto,
non appena uno dei maiali si mostrava ribelle, egli, dando sfogo alla rabbia latente, lo centrava
con un sasso che, abbattendosi sulla tesa epidermide dell'animale, provocava una sorda risonanza, come la pelle di un timpano bruscamente percossa da un violento colpo di mazzola.
"Prendi questa, per ora." - furono le parole con le quali una volta, in mia presenza, accompagnò quell'atto e mentre il maiale, protestando a suo modo con alti grugniti, rientrava sollecito nel gruppo, udii De Angelis soggiungere minaccioso:
"Ti mando dal dentista!"
Eppure, malgrado l'attenta sorveglianza, era tutt'altro infrequente che, risalito dalla valle
con le prime stelle che occhieggiavano, si accorgesse che qualche maialetto mancava; a così
lieta constatazione, dopo avere rinchiuso nella stalla i presenti all'appello, ritornava sui suoi passi in cerca del transfuga mentre sempre più s'incupiva la sera.
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12 - Marius
Purtroppo, anche il capanno di Tola Elia era bisognevole ai lavori agricoli ormai in pieno sviluppo e, pertanto, rimasto solo, fui costretto a lasciarlo e poiché sul momento non mi fu
possibile trovare un altro rifugio, un semplice frascato che potesse essere per me un riparo durante la notte, fui costretto a dormire all'aperto nella pungente umidità che dal fondo valle si diffondeva tutt'intorno. Il posto scelto per riposare era una breve spianata tra casupole ed una stecconata al di là della quale era una vigna; ogni sera, nel posto più appartato, mi distendevo sulla
nuda terra e, con addosso il tappetino e con il capo poggiato sopra un pseudo guanciale, formato da una pietra poco spessa ed alquanto squadrata, sulla quale ponevo ravvolta la giacca impidocchiata, trascorrevo la notte tra brevi sonni, qualche incubo e lunghe veglie angosciose. All'alba, mi levavo nello stato fisico che si può immaginare, ma contento di rivedere la luce del
giorno e fatto un fagotto delle mie povere cose, lo lasciavo nei pressi sopra un muricciolo; tutti
sapevano che quella roba era di Marius - il nome col quale ero conosciuto - ed a nessuno veniva
in mente di toccarla.
Dopo alcune notti, passai a dormire nella vigna attigua insieme a certi giovani greci costretti anche loro all'addiaccio per motivi a me ignoti, ma in seguito, visto che per quanto si fosse attenti, con l'inevitabile tramestio notturno le pianticelle andavano in malora, il proprietario
revocò la concessione. Pensai allora di andare a dormire giù, nella valle, presso un capanno
molto ben fatto che sapevo vuoto, ma nel quale non mi era consentito entrare senza il consenso
del proprietario.
In quel lasso di tempo, malgrado che fossero osteggiati dai nazisti, giunse da lontano
una tribù di zingari che trovò facile accamparsi con carri, cavalli ed ogni loro armamentario
nelle immediate vicinanze di alcune case periferiche. Un giorno - precisamente il giovedì 11
maggio, come rilevo dalle poche consunte paginette del mio diario non andate disperse - mentre
me ne stavo disteso in un prato poco lontano, incuriosito guardavo quelle donne dagli abiti lunghi e vistosi, adorne di luccicanti monili di rame, aggirarsi per l'accampamento con l'incedere da
gran dama, e l'incessante operosità degli uomini occupati a governare i cavalli o a lavorare oggetti metallici con un gran battere e ribattere che, nell'insieme dei toni e delle cadenze, dava talvolta l'illusione di un'orchestrata musica gitana. Fui scorto da lontano dalla moglie di Belisario
che mi chiamò e, come meglio poteva con parole e con gesti, mi fece intendere di andare a casa
sua. Vi trovai la figlia più grande che, certamente preavvertita, m'invitò ad entrare e, senza che
chiedessi, mi offrì formaggio ed una fetta di schiacciata di granturco.
Mentre me ne stavo seduto alla turca a ridosso di una parete, occupato a consumare quel
dono della provvidenza, nel vano dell'ingresso si presentò una delle zingare che avevo notato
dianzi; evidentemente, nella comunità alla quale apparteneva, aveva il compito di praticare l'accattonaggio. Accolta con benevolenza, la zingara varcò la soglia e mentre la buona figliuola di
Belisario si apprestava a darle quanto poteva, saputo chi ero, mi venne incontro e volle leggermi
la mano: si concentrò ed infine, con un certo sussiego, profetizzò che fra tre o quattro mesi, al
più tardi, sarei tornato a casa; naturalmente, non credendo al potere divinatorio di quella donna
ingioiellata di cianfrusaglie, accolsi la profezia come un augurio.
Il giorno seguente, desideroso di assoluta solitudine, me ne andai di buon mattino in un
recondito angolo della valle e di lì, senza vedere né essere visto da alcuno, stetti lunghe ore
sdraiato a piè di un albero con l'animo in pena ed il pensiero alla casa lontana; in quel giorno
cadeva una lieta ricorrenza familiare eppure, n'ero certo, tra quelle mura non vi era la solita aria
festiva degli anni precedenti: da otto mesi, ignari della sorte toccatami, i miei cari erano più tristi che mai.
Stanco infine della lunga inerzia, mi avviai verso l'abitato quando, senza che lo volessi,
mi trovai in prossimità di una collinetta che si erigeva solitaria sulla valle e che, come avevo
avuto occasione di notare tante volte standone lontano, aveva in cima una piccola costruzione in
muratura che appariva non frequentata da alcuno. Non so come, mi venne in mente di scalare
quell'altura e, detto fatto, con un'agilità che non credevo ancora possibile, mi portai in cima.
L'edificio si erigeva sopra un pianoro senza un filo d'erba ed altro non era che una chiesa, più o
meno grande quanto l'altra a me ben nota, presso il cimitero. Dopo avere indugiato alquanto a
guardare in basso le bianche casupole di Achirà battute dal sole, mi avvicinai alla porta e conwww.anpi.it
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statato che non era chiusa a chiave, spinsi un battente ed entrai; nella tenue luce che riusciva a
filtrare dai vetri appannati di alcune finestrelle in alto, vidi panche, arredi, quadri, in un grande
disordine e sotto uno spesso strato di polvere. Aggirandomi pian piano, quasi timoroso di profanare il sacro edificio, sulle prime mi venne da pensare che in quel tempietto abbandonato avrei
potuto rifugiarmi durante la notte, ma poi considerai che lassù sarei stato troppo appartato da
ogni altro essere umano, senza dire che non me la sentivo proprio di starmene lì, tutto solo, con
quelle immagini di santi ortodossi che, dovunque mi mettessi, mi guardavano con una severa
espressione del viso.
Rientrato ad Achirà, credevo che nessuno sapesse della mia escursione in cima alla collina, invece ero stato visto aggirarmi sul pianoro e, da chi mi aveva scorto, seppi che quella
chiesa, un tempo era meta di pellegrinaggi in occasioni di particolari ricorrenze religiose.
Le soste al magazzino che nei primi tempi, durante il sodalizio con De Angelis, avevano
soprattutto lo scopo di stimolare ad un atto di carità chi poteva farci l'elemosina del pane quotidiano, rimasto solo, si fecero sempre più rade e brevi soprattutto per una certa fatalistica accettazione della mia condizione che, radicatasi in me, a poco a poco mi rese schivo di farmi vedere
anche quando non avevo di che mangiare.
Tuttavia, in quel mese di maggio fui oggetto di premurose iniziative miranti a sopperire,
almeno in parte, alle necessità che il mio decadente stato fisico rendeva sempre più evidenti. La
moglie di Fotio Ianaris mi diede una maglia affinché potessi lavare quella che indossavo da lungo tempo e Barba Tola che, come in seguito mi fu riferito, avrebbe voluto accogliermi sotto il
suo tetto, volle che ogni mattina andassi alla sua casa a prendere un bicchiere di latte delle sue
pecore. Fu poi ancora la moglie di Belisario che mi sovvenne un giorno con lasagne e carne; un
altro giorno fu Euforia con una fetta di pizza e formaggio; un altro giorno ancora fu una donna
sconosciuta con un piatto di fave.
Tanta premura, ovviamente, non mi lasciava indifferente ed avrei voluto essere padrone
dell'idioma per esprimere la mia gratitudine più che con il solo "efcharistò", ma fu quanto mi
capitò un giorno presso la fonte di Castagnà, ove spesso solevo intrattenermi e dissetarmi, che
mi procurò un più vivo riconoscente moto dell'animo: un ragazzetto che non avevo mai visto,
trovandosi a passare, volle darmi parte di una sua fetta di schiacciata ed una giovanetta che gli si
accompagnava, non avendo altro, mi offrì una rosellina bianca di campo.
Il capanno presso il quale mi mettevo a dormire apparteneva a Costantino Bacoiorgos,
fratello del maestro del villaggio. Con la moglie ed i figli, abitava in una casa un po' fuori mano
che, a differenza delle altre in Achirà, aveva un arredamento che rivelava la conoscenza delle
consuetudini di vita nei grandi centro urbani. Non essendo Costantino un frequentatore abituale
del magazzino, nei primi tempi avevamo avuto poche occasioni di vederci, di parlarci, ma in seguito, soprattutto da quando ero solo, i nostri incontri si erano fatti più frequenti. Di animo generoso, egli sapeva che la mia sopravvivenza a quello stato di assoluta indigenza, nel quale ero
venuto a trovarmi perché travolto dal vortice rosso di sangue abbattutosi su Cefalonia, dipendeva soprattutto dalla solidarietà umana dei tanti, pastori e contadini, tra i quali fortunosi eventi mi
avevano condotto a trovare rifugio. Pertanto, sempre che gli era possibile, mi dava da mangiare
e, se si trovava lontano da Achirà, la moglie non mi faceva rimpiangere la sua assenza.
Stavano così le cose quando, nel tardo pomeriggio del 22 maggio, lunedì, cominciai a
considerare con sgomento quanto si preannunziava; tutta la volta del cielo era occultata da un
compatto sistema di nubi dalle quali veniva giù una pioggerella fitta, costante che non lasciava
sperare nulla di buono per le prossime ore: come avrei potuto trascorrere la notte all'aperto?
Venne la sera ed io, profittando ch'era spiovuto, mi avviai dal magazzino al fondo valle,
verso il capanno, con l'animo in pena pensando che il terreno sul quale ero solito distendermi
era impregnato d'acqua e che il tempo non lasciava prevedere un deciso cambiamento. Compiuta la discesa, nel passare davanti alla sua casa, Costantino, che forse era ad una delle finestre
in attesa, aprì la porta, mi chiamò, mi offrì un piatto di fave, poi, mentre la pioggia riprendeva a
cadere monotona, mi accompagnò al capanno poco lontano e, girata la chiave nella toppa, dischiuse l'uscio.
"Puoi dormire qui" - mi disse.
Il buio era fitto e vedevo ben poco di quello che c'era intorno, ma vedevo bene il suo viso, i suoi occhi dai quali traspariva la naturale inclinazione alla generosità e mai come in quel
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momento avrei voluto dirgli con appropriate parole quanto sgorgava dal mio animo riconoscente. Trascorsero alcuni secondi senza che nessuno di noi parlasse poi, spinto da un impulso irrefrenabile, gli presi la mano e la baciai.
Da quella sera, per circa due mesi, col tacito benevolo consenso di Costantino, trovai rifugio in quel capanno non soltanto per il riposo notturno, bensì ogni qual volta sentivo il bisogno di tenermi lontano da tutto e da tutti. Talvolta, specialmente nelle ore di calura, mentre di là
dalle fragili pareti di legno e frasche i campi verdeggianti di abbondanti messi erano inondati di
sole nel sommesso frinire delle cicale, me ne stavo lungo tempo supino nel chiuso del capanno,
meditando, riflettendo, raffigurando nella mente l'epilogo di quell'odissea, sempre quando, nei
momenti di più accentuato sconforto, non pregavo Iddio che mi desse la forza di resistere, che
mi concedesse di tornare a casa.
Nelle due prime settimane della mia nuova sistemazione, per alcuni giorni andai a lavorare nella vigna di Attanasio, per altri giorni ancora nelle vigna di Costantino, infine poi, andai a
pulire una seconda stalla di Pano, buscandomi così il da vivere che, in virtù del nuovo raccolto
di legumi, consisteva talvolta di un buon piatto di fave o di piselli in luogo del consueto pane di
granturco e formaggio.
Il venerdì 9 giugno, mentre me ne stavo tra le case del villaggio seduto ad un muricciolo, Tola Bacoiorgos mi domandò se ero disposto fare da guardiano ad un suo cavallo il quale,
essendo piuttosto malandato, aveva bisogno, per rifarsi, di pascolare tutto il giorno. Avendo accettato, e non poteva essere diversamente, mi recai poco dopo a casa sua per prendere in consegna il cavallo ed iniziare da quel pomeriggio la nuova attività di palafreniere, attività che, prima
ancora d'iniziarla, già mi procurava qualche perplessità.
Da una piccola stalla adiacente la casa, venne condotto fuori il cavallo che aveva nome
Russà e, al primo vederlo, l'impressione che ne provai fu tutt'altro che buona; la povera bestia
sicuramente aveva un male di una certa gravità perché era tale il deperimento che l'epidermide
si reggeva afflosciata tra le costole. Prima che s'iniziasse la terapia a base di aria salubre ed erbe
da pastura, suffragata da non so quale esperienza, bisognava munire di un nuovo ferro lo zoccolo della zampa sinistra posteriore. Tola approntò quanto occorreva, legò l'estremità della cavezza ad un anello di ferro che sporgeva da un muro della stalla, ed insegnatomi come, con entrambe le mani, dovevo mantenere sollevato lo stinco, cominciò a lavorare per togliere il ferro
consunto, ma si era appena all'inizio quando, uditosi un cupo rigurgito, Tola m'incitò ad allontanarmi e fu così che feci appena in tempo ad evitare che il fetido getto di flusso ventrale della bestia m'investisse in pieno. Applicato il ferro, operando questa volta con maggiore cautela, mi
avviai col cavallo verso il fondo valle e, giunto in un campo non coltivato, lo legai ad un albero
con una lunghezza di cordella che gli consentiva di muoversi a suo agio per un buon tratto tutt'intorno.
Si era di primo pomeriggio e non avendo altro da fare che sorvegliare il cavallo, rimasi
a lungo seduto ad un masso avendo sempre sotto gli occhi Russà, scheletro ambulante, che lentamente si spostava ora qua ora là, annusando il terreno e mangiucchiando qualche pianticella
selvatica di suo gradimento. All'improvviso ebbi un sussulto; qualcuno era alle mie spalle e difatti, voltatomi, mi trovai Tola di fronte che, dondolando il capo, manifestava disapprovazione:
era evidente che qualcosa non gli andava a genio. Volle che slegassi la cordella affinché il cavallo godesse della più ampia libertà, come quelli selvatici delle praterie americane; mia cura
doveva essere di seguirlo dovunque andasse, pronto ad intervenire soltanto se ne ravvisassi la
necessità. Anzi, soggiunse, sarebbe stato opportuno che Russà trascorresse le notti all'aperto dovunque si trovasse al sopraggiungere delle tenebre; naturalmente su questo punto non potevo essere d'accordo e, con grande delusione di Tola, delle notti da trascorrere sotto la volta celeste, in
compagnia di quel rudere di cavallo, non se ne fece niente.
Cominciato a capire dalle prime occasionali circostanze del nostro vivere insieme,
quanto fosse snervante avere a che fare con Russà, cavallo lunatico, la mattina seguente, 11 giugno, profittando del giorno festivo, me ne andai lontano dall'abitato per rilassarmi, all'ombra di
folti alberi ai margini di una radura assolata. Dopo mezzogiorno, si unirono a me Ciaravolo e
Cutrì, un altro soldato da poco tempo stabilitosi ad Achirà, e si stava lì sereni a parlare delle nostre cose quando Tola, che mi cercava da un pezzo, venne a dirmi che aveva bisogno di me: si
doveva andare in un suo campo al di là della valle, presso Katoùna, ove l'indomani si sarebbe
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iniziata la mietitura. Non molto contento di siffatta novità, andai a ritirare dal capanno quel poco
che mi era utile, soprattutto per coprirmi durante la notte, sicuramente da trascorrere all'addiaccio, e poi mi recai da Tola.
Quando vi giunsi, il mio padrone aveva già cominciato a sistemare in groppa a Russà
attrezzi agricoli e utensili casalinghi; finito che ebbe di assestare ogni cosa e di assicurare il carico con una cordella, collocò sulla catasta una coperta e su questa la prole, una bambina di circa
quattro anni e l'ultimo nato di pochi mesi, ed infine ci avviammo: Tola avanti con la destra alla
cavezza, la donna, dall'incedere claudicante, a lato del cavallo, attenta a che i piccoli non cadessero ed io indietro. Attraversammo la valle, c'inoltrammo per un sentiero del versante opposto,
andammo per un verde pianoro, poi per una strada digradante mentre cominciavano a diffondersi le ombre della sera. Un po' perché il gruppo che mi precedeva aveva aumentato l'andatura, nel
timore forse di giungere a destinazione ad un'ora di notte troppo inoltrata, un po' perché la mia
stanchezza si faceva sentire sempre più, la distanza che ci separava aumentava, quando giungemmo ad un pozzo ove Tola fece abbeverare il cavallo. Anch'io placai in fretta l'arsura, bevendo da un secchio arrugginito nel quale poco prima il cavallo aveva immerso le labbra, ma quando ripresi il cammino non vidi più nessuno; Tola era già lontano oltre una svolta della strada e,
nel timore di sperdermi, dovetti fare appello alle residue energie per raggiungerlo.
Era già notte quando, finalmente, arrivammo a destinazione: un campo coltivato a grano
fiancheggiato per breve tratto da una strada pianeggiante che lontano poi cominciava a salire fino ad occultarsi fra montagnole laterali. Tola assicurò il cavallo ad un albero, diede a tutti pane
e formaggio, poi, munitosi di una falce, con rapidità sorprendente cominciò a recidere alcune
piante, ne staccò le spighe e col fogliame preparò due giacigli dei quali uno per me. Mi distesi
supino, mi coprii col tappetino e nell'agreste silenzio notturno, interrotto a tratti dal crì crì dei
grilli, stetti un po’ a guardare il cielo stellato poi, vinto dalla stanchezza, mi addormentai.
Si era appena ai primi bagliori dell'alba ed io sveglio da un pezzo me ne stavo quieto nel
giaciglio, quando Tola mi disse che dovevo ricondurre il cavallo ad Achirà perché riprendesse la
cura intrapresa; lui sarebbe tornato fra due o tre giorni. Questa decisione suscitò in me un'immediata preoccupazione: la lunga strada del giorno precedente l'avevo percorsa senza che ad essa prestassi particolare attenzione, senza che prendessi nota nella mente di alcunché di riferimento, e a ripercorrerla in senso inverso mi era impossibile, sarei andato a finire chi sa dove e,
per giunta poi, con Russà. Ma Tola mi rassicurò: avrei percorso un'altra strada, più facile, quella
che fiancheggiava il campo e qui non mancò di soffermarsi in una descrizione sommaria della
quale però, per la difficoltà d'intenderci, mi fu possibile capire ben poco; tuttavia una cosa mi fu
chiara: lungo il cammino avrei dovuto incontrare una piccola edicola con la statua di un santo.
Preso in consegna mezzo pane che Tola volle darmi perché non mi mancasse di che
mangiare durante la sua assenza, mi avviai alquanto timoroso, sia perché mi avventuravo per
una strada sconosciuta, sia perché potevo incontrare un malintenzionato o, peggio ancora, i tedeschi. Perduto di vista il campo, m'inoltrai per buona parte della mattina lungo la strada in salita, incassata tra elevazioni di terreno, senza incontrare chicchessia, con Russà che mi seguiva
docile. Ad un bivio superai l'incertezza lasciandomi guidare dal senso di orientamento e, poco
dopo, la piccola edicola, posta in una cavità della roccia di una delle pareti laterali, mi confermò
di essere sulla giusta via. Affrontai poi una serie di tornanti e fu in questo tratto che, guardando
in alto, feci una preoccupante constatazione: sopra un terrapieno, dal qual si dominavano le giravolte della strada, c'era un uomo, una vedetta armata di tutto punto: evidentemente , nei pressi
doveva esserci un commando di partigiani. La mia subitanea apprensione, oltre che dal ricordo
di quanto era accaduto allorché, con De Angelis, ritornavo da Katoùna ad Achirà, era motivata
dal fatto che i reparti partigiani, facendo uso indiscriminato del loro potere sulle popolazioni
inermi, senza alcuna formalità legale requisivano tutto ciò che potesse essere utile ai loro fini e
quindi c'era il rischio che mi sottraessero il cavallo, senza dire che non era prevedibile la reazione alla quale sarei andato incontro qualora avessero appreso che nelle mie vene scorreva sangue
italiano. Ma, anche in quella circostanza, la sorte mi fu benigna; mantenendo un contegno che
non rivelava in alcun modo l'ansiosa aspettativa di quanto temevo, passai davanti all'uomo che
stava lì a vigilare senza che proferisse parola, cosa certamente inconsueta perché, lontani dalla
vita tumultuosa dei grandi centri urbani, due greci che s'incontrano, anche senza conoscersi, a
dir poco si scambiano il saluto.
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Poco dopo, giunsi al culmine della strada e vidi in giù i campi della valle a me ben nota
e lontano, sul versante opposto, le bianche casupole di Achirà sparse qua e là come un gregge al
pascolo. Rinfrancato, iniziai la discesa, ma, giunto in basso, presto constatai che Russà non era
più tanto mansueto e dal suo punto di vista ne aveva ben donde; per terminare la maratona era
necessario che attraversassi i campi seguendo stretti sentieri tra l'alta vegetazione e Russà, profittando dell'eccezionale foraggio che così da vicino solleticava le sue narici, malgrado i miei
sforzi per trattenerlo con la cavezza, con subitanea mossa allungava il collo di qua e di là e rapidamente divorava le spighe; forse il male ignoto che l'aveva ridotto a mal partito era niente altro
che una gran fame e Tola non lo sapeva.
Preoccupato dello scempio che, se notato da chi doveva raccogliere le messi, mi avrebbe procurato chi sa quali rimbrotti, cercavo di evitare sentieri troppo stretti, ma, anche quando ci
riuscivo, ecco che all'improvviso mi si parava innanzi di traverso un canale d'irrigazione che mi
costringeva a tornare indietro. Dopo lungo penare a quel modo, col sole che battendomi sulla testa nuda mi aveva annebbiato la mente, accaldato, sfinito, giunsi finalmente poco lontano dall'inizio di un sentiero che portava diritto ad Achirà. Occorreva soltanto attraversare un canale
largo poco più di due metri e povero d'acqua, ma Russà, più testardo di un mulo, si ostinava a
non volerne sapere di fare il pediluvio: con le zampe anteriori irrigidite e gli zoccoli saldamente
conficcati nel terreno, sordo ad ogni sollecitazione, guardava l'acqua torbida e non si muoveva
di un pollice. Stufo di tanta caparbietà, mi alzai, mi rimboccai i calzoni e passato sull'altra sponda, con la cordella legata alla cavezza cominciai a tirare con quanta forza potevo; fu un tiro alla
fune, ma infine la spuntai: Russà poco a poco prese contatto con l'acqua, finalmente attraversò il
canale e dopo qualche ora, con mio grande sollievo, rientrava nella stalla, sua abituale dimora.
Dopo una sua breve apparizione ad Achirà, allo scopo di riportarsi il cavallo, di lì a pochi giorni Tola ritornò definitivamente con la famiglia e tutto l'armamentario di attrezzi e utensili per iniziare un'altra mietitura, ma questa volta il campo era nei limiti della valle e quindi non
fu necessario trascorrere le notti all'addiaccio.
Al mattino presto, come era stato fatto per quel trasferimento domenicale, la comitiva si
avviava e, giunta sul posto, la donna assestava le sua cose all'ombra di un albero e quindi si dedicava ad accudire in qualche modo i figliuoli ed a preparare da mangiare; Tola si dava da fare
mietendo spighe che io raggruppavo in covoni ben legati e Russà, tenuto lontano perché non
combinasse guai, se ne stava in ozio a guardare. Qualche volta la donna non se la sentiva di placare il piagnucolio del più piccolo e allora il marito distendeva fra due alberi una rudimentale
amaca e, adagiatovi il bambino, m'incaricava di cullarlo, cosa che facevo malvolentieri ed innervosito, specialmente quando non riuscivo a conciliargli il sonno malgrado il lungo lento dondolio.
Durante quella mietitura che si protrasse per alcuni giorni, cominciai ad avvertire delle
fitte al pollice destro che poi man mano si arrossì, si gonfiò alla radice dell'unghia ed infine si
aprì emettendo materia giallastra maleolente: evidentemente, maneggiando le spighe, mi ero
punto con un'arista. Preoccupato di quella piaga, non sapevo come curarla né mi sovvenne del
caso analogo capitato a De Angelis e felicemente risolto con l'applicazione di una certa erba di
muro. Ne parlai a Travalos, e sentenziò che occorreva applicare al dito un impiastro di cera vergine, ma, procuratomi siffatto ingrediente, notai dopo alcuni giorni che la piaga continuava ad
estendersi. Temevo proprio che andasse in cancrena quando Ernesto mi confidò che, date le circostanze, c'era un sol rimedio infallibile per guarire, quello che in casi del genere viene praticato
dai soldati allorché non dispongono di un qualificato prodotto farmaceutico e difatti furono sufficienti poche irrorazioni di urina perché l'infezione fosse completamente debellata.
Terminata la mietitura, ricominciai a dedicare la mia giornata a Russà e sempre con
maggiore travaglio. I continui disagi ai quali andavo incontro nell'assolvere il compito affidatomi, a poco a poco radicarono in me una sensibile antipatia per il cavallo, antipatia che indubbiamente mi veniva ricambiata in larga misura da quel soggetto bizzoso, come chiaramente si
poteva dedurre da quanto accadeva. Libero di andare dove il capriccio gli diceva, altro non potevo fare che tenergli dietro e guai se per poco non lo tenevo d'occhio: non lo trovavo più, svelto
com'era a sottrarsi alla mia vigilanza. Cominciava allora l'affannosa ricerca prima nei paraggi
poi, a misura che passava il tempo, sempre più in là.
"Avete visto Russà?" - chiesi un giorno ad un tale, preso com'ero dalla disperazione di
non riuscire a trovarlo.
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"Russà? … E' lassù!" - cosi dicendo il montanaro mi indicò una località in altura che per
raggiungerla mi ci voleva alquanto tempo. Con rassegnata pazienza mi avviai, sperando che nel
frattempo quello scheletro ambulante non andasse più lontano ancora, speranza che non mi parve delusa quando alfine lo rintracciai nel luogo indicatomi, ma - ahimè! - non appena si accorse
che stavo per soggiogarlo, si mise al trotto e mi piantò in asso. Gli corsi dietro, ma senza risultato perché, sempre che stavo per agguantarlo, mi sfuggiva dalle mani; ci fu anche un momento
in cui riuscii ad afferrargli la coda e a trattenerlo con tutte le mie forze, col rischio di buscarmi
un micidiale calcio, ma poi, non reggendo allo sforzo, mollai la presa. Finalmente quella contesa
ebbe termine perché, avuta la possibilità di avvicinarmi senza farmi vedere, con un balzo afferrai la cavezza ed il cavallo ribelle altra possibilità non ebbe che di seguirmi docile.
Il mercoledì 28 giugno, dall'alba alla sera, fu per me una giornata particolarmente gravosa al seguito di Russà. Ritrovatomi nella buia solitudine del capanno, stanco ed avvilito oltre
ogni dire, considerai quanto, in rapporto alle mie precarie condizioni fisiche, fosse duro quell'incarico che, a lungo andare, avrebbe potuto anche condurmi all'epilogo dei miei giorni e decisi di farla finita. Il mattino seguente dissi a Tola che, per le mie non buone condizioni di salute,
non ero più in grado di assolvere il compito che mi aveva affidato, ma non mi credette: mi guardò incredulo poi, visto che ero fermo nella decisione, sentenziò che ero un fannullone, che mi
piaceva campare del lavoro degli altri …
Dopo alcune settimane venni a sapere che Russà, vinto dall'oscuro male, era morto.
Liberatomi da quel quotidiano impegno che mi sfiancava, nei primi giorni che seguirono ritornai a fare qualche lavoruccio adatto alle mie condizioni, ora in un campo di granturco,
ora in un orticello messo a fave o lenticchie. Alcune volte, in aiuto al capo del villaggio, andai a
mondare il grano; Nico lo versava, mischiato com'era a loppa e polvere nella tramoggia del vaglio ed io, girando la manovella, mettevo in moto i crivelli che, oscillando e sobbalzando, liberavano il grano dalle impurità. Dopo quella cernita, il grano veniva lavato nel torrente e messo
ad asciugare; ovviamente, durante l'esposizione ai raggi solari si correva il rischio che qualche
maiale di passaggio, attratto da tanto appetitoso mangime, con mossa subitanea si desse da fare
e in questo caso toccava a me che vigilavo, allontanare a colpi di pietra la famelica bestia.
Quando non avevo impegni di sorta ed ero meno depresso, e ciò si verificava soprattutto
quando qualche vociferazione mi dava il miraggio di un prossimo ritorno, per mantenere allenate le facoltà cerebrali che temevo si ottenebrassero, me ne andavo fuori dell'abitato ove si trovavano bianchi massi rocciosi emergenti dal terreno, e sceltone uno con una superficie alquanto
levigata, col mozzicone di matita che con tanta cura custodivo, deducevo facili formule di trigonometria, impostavo qualche problemino di navigazione.
Durante una di queste esercitazioni, fui avvicinato da un fratello di Attanasio che frequentava non so quale scuola, il quale, o perché avesse realmente bisogno di apprendere o per
mettermi alla prova, mi chiese se gli potevo dimostrare il teorema di Pitagora. Un siffatto argomento non lo trattavo dagli anni lontani della scuola media e, pertanto, fui veramente felice di
ricordare e fare constatare a quel giovanotto come sia proprio vero l'enunciato attribuito al filosofo di Samo.
Ma ciò che destò in me ammirata sorpresa si verificò quando, appartatomi in un solitario posto di montagna dal quale si dominava la valle, m'imbattei in un attempato pastore che non
avevo mai notato in tutti quei mesi. Il pomeriggio era prossimo a cedere alla sera ed in alto, in
un pallido azzurro del cielo, stava la Luna. Secondo la bella consuetudine della gente semplice
di quei luoghi, anche senza conoscerci ci dicemmo "kalispèra" e, sorpreso ognuno della presenza dell'altro, restammo poi in silenzio, ma in seguito, vistomi guardare l'astro, il pastore mi domandò come mai non cadesse sulle nostre teste: non me l'aspettavo proprio! Naturalmente non
mi fu possibile parlargli della forza centrifuga che si oppone alla centripeta e quindi non so fino
a che punto la mia spiegazione, in termini elementari, lo convinse, ma in me restò viva ammirazione per quel pastore che, sebbene privo di adeguata istruzione, aveva la mente aperta ai problemi dell'universo.
Trascorrevano così le mie giornate tra piccoli lavori agricoli e reminescenze scolastiche,
allorché Nico ai primi di luglio, m'incaricò d'intrattenermi quotidianamente in un campo, ove da
poco si era mietuto il grano, per tener d'occhio un suo cavallo di nome Psarru il quale, pur essendo in normali condizioni fisiche, lo si voleva rinvigorire facendolo pascolare tutto il giorno.
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Il campo era cintato da siepi e staccionate e quindi Psarru non poteva sfuggirmi e andarsene chi
sa dove, come faceva Russà.
Ogni mattino, prendevo in consegna il cavallo, lo conducevo al campo e lo lasciavo libero di mangiucchiare quanto qua e là era rimasto della mietitura. A metà del giorno e al tramonto, prima di salire al villaggio, lo conducevo ad una fonte e qui accadeva che se l'acqua era
torbida per un abbeveraggio di poco prima, ostinatamente si rifiutava di bere costringendomi
così a condurlo ad una fonte più lontana. Un giorno, stanco di accontentarsi del poco che trovava, attuando un piano forse a lungo meditato, saltò la siepe ed inoltratosi nel campo attiguo, cominciò a divorare le spighe di un covone; non mi fu facile interrompere il sostanzioso pasto ed il
giorno dopo mi toccò subire i rimbrotti del vicino.
Quando Psarru se ne stava tranquillo, mi mettevo all'ombra di un albero, in prossimità
di un piccolo stagno creato con una diga di pochi metri fatta di fango indurito sulla quale, alle
volte, rischiosamente mi avventuravo per passare in un campo attiguo senza fare un lungo
cammino. Le ore che trascorrevo in prossimità di quell'acqua giallastra erano terribilmente penose e, non potendo fare altro, vinto dalla deprimente inerzia, soggiogato dall'immensa solitudine, cercavo di dedurre il monotono trascorrere del tempo dal lento spostarsi delle ombre sul piano erboso assolato. Erano soste di struggente tristezza mentre, in particolar modo al mattino,
grosse farfalle dalle ali nere cangianti in blu, svolazzavano senza posa intorno alle acque torbide
per un motivo che non mi fu possibile capire.
Accadde intanto che i partigiani dell'E.L.A.S., sempre pronti ad effettuare fulminee
azioni di disturbo, attaccassero verso la metà di luglio, alcune località presidiate dai tedeschi, tra
le quali Anfilokhia, e naturalmente la rappresaglia non si fece attendere.
Non era ancora l'alba della domenica 16 luglio, ed io me ne stavo disteso sulla nuda terra del capanno, quando nel dormiveglia ascoltai che mi si chiamava con voce concitata:
"Marius … Marius … ghermanis!"
Era Nico che mi esortava a fuggire: arrivavano i tedeschi. Balzai in piedi, indossai subito la consueta giacca che mi faceva da guanciale, raccolsi in un fagotto le poche altre cose e
andai all'aperto. Con apprensione guardai attorno: dall'oriente, tra le brume notturne, cominciava a filtrare una debole luce, ma non si vedeva alcuno né, per quanto tendessi l'orecchio, udivo
voci o lontano frastuono di gente in fuga col bestiame ed il meglio di quanto possedeva; dove
andare? Salire al villaggio non era prudente né conveniva allontanarsi in direzione di Kombotì o
di Vustri; l'unica risoluzione meno rischiosa era quella di cercare rifugio sui monti.
Con orgasmo mi posi in cammino e, mantenendomi lontano dall'abitato, giunsi ai piedi
di una parete rocciosa a monte di Achirà, ricoperta qua e là da ciuffi di vegetazione selvatica e,
accortomi di un ampio solco incassato dal basso in alto, una specie di canalone con le pareti
meno ripide e frastagliato di sporgenze che costituivano facili appigli, decisi di andarmene su,
seguendo quella via alpinistica, e di sostare ove, ad una considerevole altezza, un gruppo di alberelli faceva presumere che vi fosse una spianata.
Iniziai la scalata con il proposito di arrivare su prima che i raggi solari illuminassero
l'ampio solco e ciò, soprattutto, per evitare che i tedeschi, giunti ad Achirà, potessero facilmente
notare la mia arrampicata tanto più che, dopo la loro precedente incursione, un pastore riferì che
i tedeschi sapevano che nel villaggio si nascondevano due ufficiali italiani. Quella prova di alpinismo, alla quale non ero preparato, mi fu molto faticosa ed anche meno celere di quanto sperassi perché ogni volta, prima del nuovo balzo in su, dovevo provvedere a far procedere di
uguale misura il fagotto che costituiva tutto il mio avere e ciò rallentava l'ascesa. Giunto agli alberi visti dal basso, constatai, purtroppo, che non era posto da potervi stare, per la pendenza
troppo forte, e quindi dovetti necessariamente proseguire fin quando non pervenni ad un ripiano
meno inclinato ove, finalmente, potetti porre termine alla sfibrante escursione.
Acquattatomi presso un alberello, stetti lì a guardare
le casette di Achirà, i campi e,
lontano, Kombotì e Vustri e poiché non notavo niente di anormale, mi venne da pensare che
trattavasi forse di un falso allarme, ma, ben presto dovetti ricredermi nel vedere verso sud, una
densa colonna di fumo nerastro levarsi imponente al di là dei monti: Trifos bruciava.
Poiché i tedeschi erano poco lontano ed in breve potevano arrivare ad Achirà per compiere un'altra spietata inutile rappresaglia, motivata unicamente dalla consapevolezza del loro
ineluttabile declino militare, pensai dapprima di trascorrere la notte su quel ripiano che, così in
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alto e poco accessibile, mi dava la certezza di non incorrere in un'altra spiacevole sorpresa, ma
in seguito - mentre le ore si susseguivano con la solita lentezza, che ad essa si accompagna nelle
circostanze gravi, e quella colonna di fumo, ad una certa quota, si espandeva sempre più in un
cumulo nerastro che si stagliava sinistro sul cielo azzurro - il mio proposito cominciò a vacillare: pur essendo metà luglio, trascorrere la notte all'addiaccio, a quell'altezza, non doveva essere
piacevole.
Il pomeriggio declinava ed ero ancora incerto se restare o ridiscendere, quando all'improvviso udii uno scalpiccio alle mie spalle; pensavo che a quel ripiano si potesse arrivare soltanto arrampicandosi lungo il canalone e, pertanto, non fu senza sorpresa che vidi Attanasio
giunto lì da chi sa dove attraverso anfratti e burroni. Ma anche dal suo viso traspariva una certa
sorpresa perché non pensava proprio che potesse incontrarmi lì, su quello scomodo poggiolo a
picco su Achirà. Scambiammo poche parole e seppi così che, messosi in salvo al primo allarme,
ora se ne ritornava a casa perché riteneva improbabile che i tedeschi muovessero per un'altra
rappresaglia sul finire del giorno, dopo tutto il da fare avuto a Trifos. Allontanatosi Attanasio,
saltando come un camoscio da un'asperità all'altra del canalone, fui preso ancora più da un vago
sgomento: come avrei potuto resistere tutta la notte in quella immensa solitudine, senza una non
impervia via di scampo in caso di pericolo, su quel terreno pendente verso il precipizio? Non ci
pensai più; mi avviai al canalone ed iniziai la discesa, ma, contrariamente a quanto supponevo,
l'andar giù non fu cosa da poco.
Rientrato ad Achirà con le ombre della sera, mi rifocillai con quanto mi venne offerto
dalla provvidenza e mi recai a dormire, ma non nel capanno nel quale potevo anche rimanere
intrappolato nel caso di arrivo notturno dei tedeschi, bensì in un campo non troppo vicino alla
mulattiera di facile accesso al villaggio.
Dopo una notte trascorsa in assopimento tra lunghe veglie, me ne stavo ancora accoccolato sotto il tappetino mentre i primi bagliori da oriente annunziavano il nuovo giorno, quando
da un parlottare, che sempre più si avvicinava, mi parve di capire che quanto si diceva si riferisse alla presenza dei tedeschi a Trifos; erano due giovani che, armati di fucile, si dirigevano versi
Kombotì attraversando i campi resi spogli dalla recente mietitura. Riconosciuto Pips in uno dei
due, balzai in piedi, li raggiunsi e, desideroso com'ero di fresche notizie, mi unii a loro. Seppi
così, cammin facendo, che si prevedeva una prossima incursione di tedeschi provenienti da Trifos e che, prima che avessero raggiunto Achirà, i partigiani li avrebbero duramente attaccati
nella valle. I due procedevano a passo sostenuto e non mi era agevole seguirli e, inoltre, non
avevo intenzione di essere coinvolto nella sparatoria che si preannunziava e, pertanto, poco dopo li lasciai andare con i loro fieri propositi.
Purtroppo, si era ai prodromi di un'altra funesta giornata e prima che fosse troppo tardi
mi toccava svignarmela; ma dove andare a rifugiarmi? Di risalire il canalone in verità non me la
sentivo, ma d'altra parte, che io sapessi, non avevo altra scelta perché soltanto su quello scomodo poggiolo sulla valle potevo ritenermi al sicuro da spiacevoli sorprese e, nello stesso tempo,
assistere a quanto stava per accadere. Ma presto mutai proponimento e fu quando, di lì a poco,
vidi il pope che, con alcuni contadini, certamente tutti alieni da intenzioni battagliere, frettolosamente si allontanava; essendo persone pratiche dei luoghi, i componenti di quella comitiva
dovevano sapere molto bene dove convenisse rintanarsi e, pertanto, trovai conveniente seguirli.
Il gruppo che inizialmente procedeva in direzione di Kombotì, deviò poi verso destra
inoltrandosi per uno stretto tortuoso sentiero sconvolto, incassato tra pareti rocciose, ma ben
presto lo perdetti di vista perché il pope ed i suoi compagni di fuga andavano su sassi e macigni
con un'agilità che purtroppo non avevo. Rimasto privo di guida, continuai ad andare avanti saltando di qua e di là, mentre il caldo che avvertivo per la fatica nella giornata canicolare e la profonda solitudine ed il grave silenzio del luogo, rotto a tratti da un lontano frinire di cicale proveniente dall'alto e dal vicino ronzare di qualche insetto alato, mi davano una indefinibile sensazione di malessere, una crescente apprensione; dove mi portava quel sentiero da capre?
Tornare indietro non era certamente scevro dal pericolo d'imbattermi in qualche pattuglia tedesca e, pertanto, sebbene perplesso e titubante, continuai ancora per un buon tratto a procedere nel faticoso cammino, quando mi parve di udire un brusio; mi fermai affinché meglio
potessi percepire quanto mi era parso di udire e, dopo un poco di ansioso ascolto, fui sicuro di
non ingannarmi: ora si, ora no, giungeva al mio orecchio l'echeggiare di più voci. Rispetto al
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senso del cammino, era dalla destra che giungevano quelle evanescenti onde acustiche; guardai
in alto da quel lato e, scelta la via più conveniente per andare su, iniziai l'arrampicata.
Ero a metà strada di quella seconda ascensione alpinistica, necessaria per superare un
dislivello di una cinquantina di metri, quando per poco non ebbe epilogo letale la mia odissea
iniziatasi con le sanguinose giornate di Cefalonia. Mi trovavo aggrappato ad un masso sporgente
e stavo per compiere il massimo sforzo muscolare per tirarmi su, allorché, vacillando l'appiglio
per il mio peso, perdetti l'equilibrio; fortunatamente fu questione di un attimo perché fui pronto
ad aggrapparmi ad un'altra sporgenza e tutto si risolse con un gran batticuore.
Terminata l'arrampicata, ebbi la sorpresa di trovare più in là, nell'interno, una spianata
sulla quale si erano rifugiati tutti quelli di Achirà con quanto avevano potuto porre in salvo di
masserizie e bestiame. Ovviamente, l'eccitazione nervosa di quella povera gente era irrefrenabile: ognuno raccontava le sue vicissitudini o ciò che gli era riuscito di vedere della spietata rappresaglia, mentre se ne stava acquattato in un lontano rifugio.
Contrariamente ai fieri propositi che mi erano stati confidati al mattino, i tedeschi erano
giunti indisturbati ad Achirà e, tranquillamente, avevano incendiato quante case e cascinali erano meritevoli, a loro giudizio, di essere ridotti in macerie fumiganti.
"Sai," - mi disse De Angelis che stava lì con tutti i maiali affidati alla sue cure - "ho visto da lontano come andava in fumo il tuo albergo …"
Quando, con la ritirata delle orde incendiarie, si giudicò che null'altro fosse da temersi,
un po' alla volta tutti fecero ritorno alle mura casalinghe, precipitosamente abbandonate al mattino, e non pochi furono quelli che le ritrovarono annerite dal fumo ed emananti un acre fetore
di bruciato.
Sul far della sera, trovai Nico piangente ed imprecante perché aveva perduto indumenti
e granaglie; inoltre, risultando vana ogni ricerca, non sapeva che sorte fosse toccata a Psarru in
quella tempesta ignea di mezza estate. Tra lacrime e maledizioni, mi diede un po' di pane e, sapendo che non avevo più dove rifugiarmi durante la notte, mi disse di andare a dormire all'aperto nel suo campo.
Anche Costantino fu tra quelli che subirono più gravi danni malgrado che tempo prima,
temendo quanto poi si avverò quel giorno, avesse fatto scavare nell'interno del capanno una buca dalle dimensioni di un grosso baule e vi avesse nascosto quanto di meglio possedeva, ma
inutilmente perché la miscela liquida infiammabile, abbondantemente irrorata dagli incendiari,
filtrando attraverso lo strato di paglia e le tavole che l'occultavano, penetrò nella buca che divenne, pertanto, una fornace col divampare delle fiamme.
Il giorno seguente a tanta rovina, mentre perdurava l'orgasmo per la presenza dei tedeschi a Vustri con altri incendi, ebbi incarico da Nico di rintracciare Psarru. Andai quindi di qua
e di là per la valle e le località in altura più prossime e facilmente accessibili, ma senza che riuscissi a rintracciarlo, o ad appurare almeno qualche indizio al riguardo. Fu allora Paolo, fratello
di Nico, che si assunse il compito di continuare la ricerca oltre i limiti della valle. Era come cercare un ago nel pagliaio, tuttavia, dopo cinque giorni di defatigante camminare per ogni dove,
non so come, egli riuscì a scovare Psarru e a ricondurlo ad Achirà.
Frattanto, le mie condizioni fisiche divenivano sempre meno confortanti, oltre che per i
disagi e gli strapazzi ai quali resistevo da così lungo tempo, anche per la nutrizione che, fatta
prevalentemente di quella sorta di focaccia di granoturco senza olio o altri ingredienti, costituiva
per me una specie di dieta dissociata i cui effetti constatavo sempre più impressionanti, le rare
volte che riuscivo a vedermi in un frammento di specchio. La pelle gialliccia e raggrinzita, i
pomelli sporgenti, le occhiaie incavate, gli occhi spiritati, la barba ispida e, come i pochi capelli,
lunga e quasi bianca: tutto mi rendeva irriconoscibile a me stesso, come se quel rottame di superficie speculare riflettesse non il mio bensì il viso di uno stregone polinesiano.
Vedermi in quello stato mi prostrava moralmente, ma ciò che più mi rattristava era la
constatazione che quei montanari, che non vivevano certo nel rispetto delle più elementari norme igieniche, cominciavano ad avere ripugnanza di me; un pomeriggio che con Nico e figliuoli
mi recai in un suo campo a rompere le zolle, in preparazione di una prossima seminagione,
spinto dall'arsura mi dissetai bevendo ad una brocca di argilla, ma, non l'avessi mai fatto; Elia, il
secondogenito, cominciò a gridare per avvertire il padre che Marius aveva contagiato l'acqua. Io
ebbi una vivace reazione, ma Nico, con molto garbo, fece tacere il piccolo e mi rabbonì.
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In verità, nulla sapendo dell'immane conflitto che divampava da un estremo all'altro del
mondo e delle vicende che mi avevano condotto in quella contrada, l'innocente Elia che mi vedeva in così miserevole stato, non aveva proprio torto a manifestare il suo istintivo ribrezzo. Si
era sul finire di luglio e l'ultima volta che mi ero tagliato i capelli rimontava al mese di dicembre
durante la prima sosta a Trifos, quando speranzoso di tornare presto a casa, mi ero messo in
cammino insieme agli altri per raggiungere Parga, e l'ultima volta che mi ero raso la barba, con
l'occorrente prestatomi da Costantino e da Euforia, rimontava al mese di giugno; fu quindi per
me grande alleviamento morale quando, dopo alcuni giorni dall'inconsiderata bevuta alla brocca, in seguito alle mie insistenti preghiere, Pips, facendo uso del rasoio e delle forbici, mi rese
meno ripugnante nell'aspetto.
Mentre, nel volgere dell'estate, mi dibattevo nelle quotidiane miserie della mia grama
esistenza, i tedeschi, non ancora paghi delle rappresaglie compiute, effettuarono altre spedizioni
punitive nelle zone limitrofe suscitando nuovi timori e nuovi allarmi, soprattutto nei giorni 24 e
30 luglio. Fortunatamente, i soldati piromani non si fecero vedere nella valle ed il lunedì 31 potetti andare tranquillamente all'aia di Simo ove Nico, aiutato dal fratello, col sistema del calpestio, trebbiò parte del grano sfuggito alle fiamme. Spronati continuamente da Paolo, quattro cavalli affiancati giravano a lungo intorno al palo eretto al centro, ora nell'uno, ora nell'altro senso,
calpestando le spighe accuratamente spianate tutt'intorno. Quando, con il continuo girare di
quelle povere bestie sotto i dardeggianti raggi solari, parve che tutti i grani fossero usciti dalle
glume, la giostra impietosa ebbe termine e le donne di casa che, stando all'ombra, avevano accudito alle faccende domestiche, offrirono a tutti pane ed un buon piatte di fave.
Fu allora che cominciai a temere di essere ammalato; da qualche settimana avvertivo
una più accentuata spossatezza che sul principio attribuii anche agli effetti della calura dei giorni
solstiziali, ma quando dinanzi a quel piatto di fave che davano una piacevole sensazione all'olfatto, provai repulsione ad ingerirle, come se il mio stomaco fosse stato ancora gonfio per una
precedente scorpacciata di grasse ghiottonerie, pensai allora che qualcosa in me non andava.
Seguirono alcuni giorni di persistente inappetenza durante i quali, sentendomi fiacco,
trascorrevo le ore nei posti ove c'era un poco d'ombra in completo abbandono. Fin dal tardo pomeriggio preparavo il giaciglio nel campo di Nico e lì rimanevo col mio indefinibile malessere.
Quando potevano, venivano a tenermi compagnia i soldati; a volte Giuseppe o Ernesto, a volte
anche Domenico in compagnia di Vais, il figlio del pope, ma, scesa la notte, rimanevo solo nell'immensa solitudine della valle, in uno stato di angoscioso dormiveglia e, tra incubi e allucinazioni, ansiosamente aspettavo l'alba.
Furono quelli giorni di incubazione di un male che non avevo mai temuto che potesse
colpirmi, giorni durante i quali parassiti ancora più subdoli dei pidocchi, si apprestavano a maggiormente infiacchirmi con la sistematica periodica distruzione di globuli rossi: avevo la malaria.
Era fin troppo inevitabile che, dormendo di notte allo scoperto, sulla nuda terra tra canali irrigui con acqua impaludata sul fondo e, soprattutto, non lontano dal torbido stagno delle
farfalle, prima o poi qualche zanzara anofele mi inoculasse il germe della febbre palustre. Malauguratamente, che qualcuno potesse fornirmi del chinino, o altro medicinale adatto, non era
neanche da pensarci e quindi, contro i protozoi, potevo opporre unicamente la resistenza passiva
di cui era ancora capace il mio organismo, in attesa del giorno in cui mi fosse stato possibile
impiegare i mezzi adeguati per debellare il male, nella speranza, ovviamente, che questo giorno
non giungesse inutilmente troppo tardi …
Ebbe così inizio un periodo di oltre due mesi che fu forse il più duro, il più tormentato
della mia odissea. Non avendo la possibilità di trovare ricovero in un luogo coperto, come sarebbe stato opportuno, andai a rifugiarmi tra i muri rustici dell'edificio scolastico che, pur essendo privo in gran parte del solaio di copertura, mi dava sempre un certo riparo dal sole e dalle
possibili piogge di metà estate; inoltre la costruzione era alla periferia delle case del villaggio e
quindi offriva il vantaggio dell'aria balsamica di mezza montagna, lontana dal fondo valle ove
prevalentemente prolificavano le zanzare.
Ogni giorno, nelle pause del male che, da poco dopo la mezzanotte, avevano una durata
di circa tredici ore, avvertivo una fiacchezza fisica che mi teneva lungo tempo seduto sullo scalino dell'ingresso, nulla curandomi, anche per l'assoluta inappetenza, di andare in cerca di un po'
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di pane; se non fosse stato per De Angelis, che ogni sera veniva a trovarmi, e per Giuseppe ed
Ernesto che, sempre quando era possibile, venivano ad interessarsi delle mie condizioni, sarei
rimasto completamente isolato dal piccolo mondo di Achirà.
Ad una certa ora del pomeriggio, più o meno sempre la stessa come deducevo dalla direzione delle ombre prodotte dai raggi solari sul terreno, cominciava l'assalto del male con una
crescente percezione di freddo, con brividi che si susseguivano senza posa e che poi, man mano,
si tramutavano in subitanei tremiti convulsi con un batter dei denti che non riuscivo a contenere,
come se dalla testa ai piedi fossi stato attraversato da successive scariche elettriche. Erompeva
poi l'accesso febbrile che, senza ridurmi allo stato inconscio, per lunghe ore notturne mi procurava strane sensazioni, immagini confuse di quanto mi circondava. Aveva inizio infine la fase
decrescente della febbre; con una profusa gelida sudorazione, la temperatura ritornava più o
meno normale e di quella crisi rimaneva soltanto il penoso stato di prostrazione.
Non potrò mai dire appieno il tormento delle ore che trascorrevo lì disteso a terra, senza
un essere vivente accanto, tra le allucinazioni della febbre e la torturante attività dei pidocchi,
mentre attraverso il vano d'ingresso, nell'assoluta quiete della notte d'estate, mi giungeva uguale,
monotona, indifferente alle mie pene la stridula armonia dei grilli. Né potrò mai dire quello che
provavo quando, dopo la lunga sofferenza della notte, il nuovo giorno era annunziato dall'insistente verso del cuculo e sul grezzo muro di tufo prospiciente l'ingresso vedevo la vibrante pallida luce rossastra dei primi raggi solari.
Giuseppe ed Ernesto, pur ignorando che ad ogni accesso febbrile corrisponde la distruzione di un certo numero di globuli rossi, in base alla loro esperienza contadina, sapevano che i
malarici devono rinvigorirsi con un'adeguata alimentazione e pertanto, ora l'uno, ora l'altro, mi
portavano da mangiare e con fraterna premura mi esortavano a vincere la riluttanza dello stomaco.
Più assiduo era De Angelis; conclusasi la sua giornata di continuo girovagare con i
maiali, veniva a trovarmi e, saputo dopo i primi giorni quanto soffrissi la sete, mi portava ogni
volta, in un recipiente di fortuna, l'acqua pura e fresca di Castagnà, la sorgente che sgorgava a
valle. Durante quegli incontri serotini che interrompevano la mia lunga solitudine, oltre del mio
male ricorrente, si parlava di quel poco che si sapeva della guerra, delle voci sempre più insistenti di una prossima ritirata dei tedeschi dal suolo greco e lì, al buio, io disteso a terra e lui in
piedi, ci abbandonavamo a supposizioni, a congetture circa la possibilità per noi di avviarci
quanto prima verso casa.
Passò così tutto agosto. Una sera dei primi di settembre, De Angelis mi confidò che da
giorni avvertiva un indefinibile malessere, di sentirsi spossato oltre il consueto; qualche sera dopo confermò di non sentirsi bene: forse era febbricitante.
"Domani non condurrò i maiali a pascolare." - disse con voce velata -"Ho bisogno di
qualche giorno di riposo, ma occorre che mi installi giù, presso la sua casa, altrimenti quella lì si
dimentica di darmi da mangiare."
Egli si riferiva al fatto che "quella lì", cioè la moglie di Achiriaz, con la quale non andava troppo d'accordo quando la razione che gli somministrava a fine giornata era piuttosto scarsa,
con tutta la sua famiglia dimorava giù, quasi a valle, mentre lui aveva il giaciglio per la notte
presso la stalla dei maiali, ubicata a mezza costa, tra le case del villaggio.
Manifestato il suo fermo proposito, De Angelis si avviò con incedere stanco verso il vano d'ingresso e disparve nella notte; purtroppo, mai più sarebbe ritornato, mai più avrei udito la
sua voce.
Passarono alcuni giorni durante i quali, mentre il mio organismo cominciava a reagire
positivamente per cui, pur continuando i protozoi ad annidarsi nel sangue, si verificò la scomparsa degli accessi febbrili, le notizie che mi recavano i soldati in merito alle condizioni di salute di De Angelis mi lasciavano pensare che trattavasi di malattia senza alcunché di grave, dal
decorso lento per la mancanza di cure adatte; fu quindi un ben duro colpo per me quando, un
mattino, Giuseppe mi comunicò che la sera innanzi - martedì 19 settembre - De Angelis aveva
esalato l'ultimo respiro.
Colui che mi era stato accanto nelle più tormentate peripezie da Spilea ad Achirà, che
aveva condiviso con me pericoli, ansie, angosce, tribolazioni, inaspettatamente mi mancava: la
funerea parca gli aveva troncato la vita proprio quando sembrava che non fosse lontano l'agognato ritorno. Quante volte nei nostri momenti di minore tensione, accanto al fuoco della sera,
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Mariano Barletta – Tra marosi e nebbie – Seconda parte
avevamo pensato a giorni migliori, a quando, stando insieme tra le care mura domestiche,
avremmo rinverdito il ricordo della nostra sosta alle soglie dell'aldilà; a quando avremmo raccontato, a chi ci aspettava, la nostra dura vita nell'imperversare della lunga tempesta. Ora invece, con la sua dipartita, se il destino non mi riservava uguale sorte, toccava a me solo ricordare e
raccontare: tutto quello che era stato, era affidato unicamente alla mia memoria.
Reggendomi al braccio di Giuseppe, volli andare a rendergli l'estremo saluto e non fu
senza emozione che lo vidi francescanamente disteso a piè di un albero, nella rigidità della
morte. Cercai di apprendere come fosse giunto al passo estremo, ma gli Achiriaz non seppero
dare alcuna spiegazione: riferirono che da giorni se ne stava lì, febbricitante, all'ombra della
chioma arborea, dapprima accettando i cibi che gli davano, poi ricusando ogni cosa e quasi assente a se stesso nelle ultime ore. Indubbiamente, anche lui era stato colpito dalla malaria, presto
degenerata nella forma più grave per il permanere nella parte bassa dell'abitato, quasi a livello
del fondo valle.
Nello stesso giorno la salma fu deposta in una grezza bara senza coperchio, in conformità dell'usanza locale, e, dopo il rito ortodosso , in quella chiesetta ove tante volte eravamo
stati insieme, l'uno accanto all'altro, si procedette all'inumazione nell'attiguo cimitero; prima che
sulla salma fossero sparse le prime palate di terreno, nella bara fu versato un po' d'olio d'oliva ed
un pugnetto di grano.
Dopo quella dipartita che mi lasciò nell'animo una grande pena, il mio stato generale,
pur non essendo tale da far prevedere il peggio, come al tempo degli accessi febbrili, non era
ovviamente soddisfacente in conseguenza del male che continuava a covare nel mio sangue.
Appoggiandomi ad un rudimentale bastone ricavato da un ramo ed indossando la giacca
di tela a quadretti bianchi e neri, usata da De Angelis dai giorni di Spilea fino all'ultimo istante
della sua vita, dalle prime ore del mattino me ne andavo ogni giorno di qua e di là per i sentieri
scoscesi tra le rade casupole, avendo cura di tenermi nell'ombra onde evitare, sotto i raggi solari,
un ritorno della febbre e, ora sostando, ora andando passo passo, m'imbattevo sempre in un'anima buona che mi dava quanto mi era indispensabile per reggermi in piedi un altro giorno ancora.
Ma ciò che soprattutto desideravo era l'acqua per appagare la sete struggente e non potendo andare alla limpida sorgente di Castagnà, perché avrei dovuto camminare a lungo sotto i
raggi solari, spesso me ne andavo in una vicina località alquanto in ombra attraversata dal torrente e lì, distesomi carponi presso la sponda, con le labbra lambite dall'acqua fredda e di una
trasparenza cristallina, avidamente mi dissetavo. Un giorno però ne provai disgusto; fu quando
ebbi la sgradita sorpresa, mentre avidamente succhiavo l'acqua di veder comparire a monte un
branco di maiali che allegramente guazzavano nel torrente …
Naturalmente, ogni volta profittavo della vicinanza di quel corso d'acqua anche per lavarmi le mani ed il viso, ma spesso quelle operazioni d'igiene elementare mi procuravano gli
amorevoli rimbrotti di qualcuna delle buone donne che, poco lontano, lavavano e sciorinavano
biancheria: a loro giudizio era bene che Marius non bazzicasse troppo il torrente perché il contatto con l'acqua fredda poteva provocare il ritorno degli accessi febbrili. Tuttavia, un giorno,
trovato in un luogo appartato uno specchio d'acqua stagnante poco profondo, me ne servii per
fare un mezzo bagno allo scopo, soprattutto, di sottrarmi, sia pure per poco, al brulicare dei pidocchi.
Verso i primi di ottobre si seppe con sicurezza che i tedeschi, incalzati dai russi che
puntavano verso le regioni meridionali della penisola balcanica, si ritiravano dal territorio greco;
cominciai allora a trepidare, temendo di andare incontro a nuove disavventure qualora le armate
con la falce e il martello si fossero affacciate all'Egeo, ma i miei timori presto si dissiparono
perché, in ottemperanza all'accordo stipulato con gli anglo-americani, i russi si fermarono al
confine.
Avutasi quella svolta nelle vicende belliche, venne poco dopo ad Achirà un emissario
del partito comunista greco e Nico, che già mi aveva dato un poco di olio di oliva perché ne
prendessi qualche sorso al giorno, intercedendo a mio favore riuscì a farmi avere tre o quattro
pasticche di chinino e, per quanto di entità inadeguata, fu quello il primo medicinale che presi
contro la malaria.
Intanto, per un motivo che non mi fu possibile conoscere, la mia permanenza tra le mura
della costruenda scuola a poco a poco perdette il beneficio dell'assoluta indipendenza. Dapprima
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si stabilì una certa coabitazione con una matura coppia con prole, proveniente da non so dove, la
quale, ovviamente, provvedeva a tutte le sue esigenze familiari come se fosse stata nella propria
casa. Erano persone dabbene che mi facevano partecipare ad ogni loro pasto, ovviamente frugale, ma tuttavia, con le mie necessità, soprattutto notturne, che mi obbligavano ad andare spesso all'aperto, non mi sentivo proprio a mio agio. Sopravvennero poi altri, meno socievoli, ed
aumentò il disagio per me tra quella gente sconosciuta, in particolar modo quando cominciai a
credere che si facesse di tutto per farmi sloggiare; resistetti ad ogni molestia finché mi fu possibile, ma quando una notte, uno dei nuovi coabitanti, un omaccione dai modi piuttosto brutali,
volle accendere un falò, malgrado ogni protesta, riempendo lo spazio fra quelle mura di fumo
acre stagnante, compresi che era giunto il momento di cambiare dimora ad ogni costo.
Per un paio di notti andai a distendermi, insieme ad altri, in una minuscola capanna di
frasche che incuteva paura solo pensando ad un possibile incendio, facile a divampare se ci fossimo imbattuti in un fumatore disattento, poi Nico mi offrì ricetto in un suo isolato ripostiglio in
muratura alquanto fuori mano, al quale mancava la porta per cui, ogni volta che mi rifugiavo,
provvedevo a barricarmi con tavole e lamiere.
In quello sgabuzzino mi era confortevole isolarmi perché ormai avevo la certezza che
mi si vedesse con ripugnanza. Arso dalla sete, mi soffermai una volta sulla soglia di un abituro
poco lontano ed umilmente chiesi da bere, ma, con un banale pretesto, l'acqua mi fu negata perché, come mi fu facile capire, non si voleva che le mie labbra contaminassero il rudimentale
bicchiere.
Ma, a parte la brama di solitudine, me ne stavo disteso sul giaciglio per buona parte di
quei tristi pomeriggi d'autunno perché mi sentivo sempre più debole e l'andare in giro, senza che
ve ne fosse bisogno, era un'inutile sfiancante fatica. Il graduale venir meno di ogni mia energia
fisica era fin troppo evidente e preoccupante; come mi fu riferito in seguito, già nel periodo degli accessi febbrili, De Angelis, parlando con i soldati si mostrava dubbioso del mio ritorno a
casa e questo triste presagio continuò ad essere condiviso da qualcuno del villaggio. Un mattino
dei primi di ottobre, lasciato che ebbi lo sgabuzzino, me ne stavo seduto a terra, a lato di un
viottolo poco frequentato, tutto immerso nel pensiero dominante del ritorno alla vita normale,
quando vidi Euforia diretta chi sa dove; cammin facendo prese a scrutarmi e quando mi fu da
presso, facendo ricorso a quel poco che sapeva della mia lingua affinché mi fosse ben chiaro
quanto diceva esclamò:
"Marius, nato Italia, morto Achirà!"
Ma quella donna, alla quale pur devo riconoscenza, rivelatasi all'improvviso profetessa
di sventure, forse perché lontana discendente della mitica Cassandra, non aveva saputo leggere
quanto di me stava scritto nel libro del destino.
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13 - Sulla via del ritorno
Diffusasi ormai la notizia che i tedeschi avevano evacuato la Grecia, nel gruppetto di
noi rifugiati in Achirà cominciò a radicarsi il convincimento che si potesse finalmente intraprendere il cammino sulla lunga via in fondo alla quale, ognuno di noi, avrebbe trovato, tra gli
affetti familiari, la dolce quiete. Ma, ai primi di ottobre, manifestato a qualche maggiorente del
villaggio il proposito di avviarci subito verso l'agognata meta, ci fu detto che era prudente lasciar trascorrere ancora dei giorni prima di muoverci. Invero, a prescindere che non sapevamo
verso quale porto del litorale greco convenisse muovere i nostri passi, ignari com'eravamo di
quanto si faceva e si diceva al di là di quel piccolo mondo che lentamente pulsava nei limiti
della valle, occorreva tener conto che, venuto meno il regime imposto dall'invasore, l'incertezza
e la confusione che subito allignarono un po' dovunque, rendevano particolarmente insicure
quelle lunghe deserte strade che avremmo dovuto percorrere, soprattutto se non si aveva in tasca
un valido lasciapassare.
Concordi nell'operare contro l'invasore per ritornare arbitri del loro destino, i greci, fin
da quei primi giorni della riconquistata indipendenza, non furono ugualmente concordi sull'assetto sociale che convenisse dare al paese e, ben presto, si stabilì una sorda rivalità fra le due
principali organizzazioni partigiane che, dimentiche di avere combattuto fianco a fianco, pur
ispirandosi a principi diversi, ora si guardavano in cagnesco e ciascuna, ove poteva, dettava leggi a suo modo.
In attesa che il nuovo stato di cose si assestasse un poco e la legalità cominciasse a
prendere consistenza, trascorsero giornate interminabili durante le quali, spinti dall'ansia di partire che ci teneva irrequieti, come cavalli da corsa in attesa che lo starter desse il via, fra noi italiani ci fu un frequente cercarci l'un l'altro, un continuo parlare intorno al caro pensiero che ci
agitava la mente. Presto fummo tutti d'accordo di recarci a Vonitsa, sul Golfo di Arta, e lì tentare di raggiungere Prevesa, via mare, l'importante porto greco più vicino alle coste italiane, ove,
secondo quanto si vociferava, si erano installati gl'inglesi.
Barba Costa, il vecchio le cui sembianze richiamavano alla mente qualche personaggio
omerico, così restio a parlare, ma sempre così pronto a soccorrere chi ne avesse bisogno, si accordò con Giuseppe affinché un ultimo atto di bontà suggellasse nella mia mente quanto aveva
fatto e quanto avrebbe voluto fare per me: gli avrebbe affidato un suo mulo acciocché io, così
malandato in salute, compissi il primo tratto di strada in groppa all'animale; giunti a Monastiraki, ove avremmo fatto tappa, Giuseppe avrebbe avuto cura di consegnare il mulo ad un conoscente che, alla prima occasione, l'avrebbe ricondotto ad Achirà.
Finalmente, la nostra volontà di spezzare quanto ci teneva avvinti, di andare, di divorare
la lunga strada verso casa, come tante volte avevamo fatto con anelante immaginazione, ebbe il
sopravvento su ogni considerazione prudenziale e senza alcun foglio di via, senza alcun documento che facesse fede della nostra assoluta estraneità al conflitto sociale insorgente, iniziammo
il ritorno: era il mattino del sabato 14 ottobre.
Ci avviammo verso Monastiraki con il Sole che, già abbastanza alto, sfolgorava in un
terso cielo autunnale; a cavalcioni del mulo che procedeva docile guidato da Giuseppe, avevo
intorno a me il gruppetto di quanti si erano rifugiati ad Achirà. Quante volte avevo ardentemente
desiderato quel giorno, quel momento; quante volte affranto dall'atroce bisogno di ogni cosa,
intirizzito dal freddo pungente dell'inverno o spossato dalla calura dell'estate; quante volte nelle
notti tenebrose, nelle allucinazioni della febbre avevo implorato perché avesse fine quello stato
di assoluta indigenza, quella ossessionante incertezza del domani e tuttavia, ora che il sogno
lungamente sognato stava per tramutarsi in realtà, una ineffabile malinconia mi prendeva: quei
monti, quelle bianche casette, quella valle che giorno e notte per un anno intero avevo visto con
animo affranto e quei pastori, quei montanari che per tanto tempo mi avevano dato di che vivere, tutto e tutti non avrei rivisto mai più, ma quanta parte di quel piccolo mondo, quasi primitivo, rimaneva in me, impressa nella memoria e nel cuore.
Giunti a Monastiraki nel primo pomeriggio, ricevendone una gradevole impressione per
l'aspetto dei piccoli palazzi ad uno o due piani che qua e là sorgevano isolati e per l'allegro fresco scrosciare delle acque di un torrente, dall'uomo al quale fu consegnato il mulo ci fu indicato
un locale, forse un deposito temporaneamente vuoto, ove avremmo potuto riposarci e passarvi la
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notte. Assicuratoci così che non si sarebbe dormito all'addiaccio, consumammo il poco pane e
formaggio che avevamo e dopo esserci alquanto rinfrancati, distesi sulla nuda terra, andammo
fuori per fare una migliore conoscenza del paese. Apprendemmo così dell'esistenza di un'infermeria sui generis per i partigiani ammalati, ove non era difficile a chiunque farsi ricoverare in
caso di assoluta necessità. Invogliato dai soldati, mi presentai ed esposto succintamente il mio
stato malarico ad un tale che doveva avere funzioni direttive, senza che mi si facessero obiezioni
mi fu assegnato un posto a terra, nell'anticamera, accanto ad un altro individuo, un greco che, a
quanto mi parve, era più o meno nelle mie stesse condizioni di salute.
Mentre i soldati si destreggiavano come meglio potevano per procurarsi da mangiare, io
rimasi in quell'anticamera fino al mattino del lunedì 16 ottobre, giorno in cui, come convenuto,
avremmo proseguito tutti insieme verso Vonitsa. Ma, recatomi molto per tempo al posto stabilito, non trovai alcuno; attesi un po' pensando di essere in anticipo, infine, da gente di quel luogo, seppi che il gruppo già da un pezzo si era avviato. A quella impensabile notizia precipitai
nello sconforto di chi si sente abbandonato in un paese sconosciuto, ma fu per poco e senza
neanche ponderare i rischi ai quali andavo incontro proseguendo da solo, feci appello alle mie
forze residue e, con passo deciso, mi avviai sulle orme di chi aveva creduto conveniente sbarazzarsi di me.
Favorito da eccellenti condizioni di tempo e dalla strada buona, camminai con una discreta cadenza del passo senza mai incontrare anima viva finché, dopo più di un'ora, giunsi ad
un bivio con un casolare; a mia richiesta, una donna tanto garbata mi diede da bere, m'indicò
quale delle due strade conduceva a Vonitsa e m'informò che, non molto prima, aveva visto passare in gruppo alcuni uomini. Ripresi ad andare con maggiore lena e, dopo un'altra'ora circa, avvistai i soldati che riposavano presso una piccola sorgente. Naturalmente, non fu poca la loro
meraviglia nel rivedermi e, con palese imbarazzo, cercarono di giustificare in modo plausibile
perché erano andati via senza neanche preavvisarmi; li lasciai dire e, pur non dando peso all'accaduto, non mancai di esternare la mia delusione per il modo come si erano comportati, dopo
tanta solidarietà tra noi durante un anno di gravi vicende.
Nell'arrivare a Vonitsa, una cittadina certamente non progredita, ma che, per la prima
volta, dopo tanto tempo, mi faceva vedere una vera rete di strade e stradicciuole tra palazzi con
bottegucce e lampade elettriche per l'illuminazione notturna, provai una piacevole impressione,
forse più di quanto mettendo piede in una grande città dal passato illustre, testimoniato da palazzi e monumenti, e ciò perché avevo più vivo che mai negli occhi il piccolo rupestre villaggio
nel quale ero vissuto per così lungo tempo fino a tre giorni prima.
Fermatici in una strada abbastanza larga e movimentata, perché disorientati ed incerti
sul da farsi, fummo presto notati da uno dei tanti che erano lì a bighellonare e che, incuriosito,
prese ad informarsi di noi; in breve cominciarono ad interessarsi anche altre persone le quali,
appreso per sommi capi chi fossimo e donde venissimo, intuirono le nostre travagliate peregrinazioni e, senza che chiedessimo alcunché, ci condussero in una locanda poco discosta e ci diedero da mangiare: fu così che, dopo tredici mesi, insieme ai soldati, potetti rifocillarmi stando
seduto ad una sedia, davanti ad un tavolo con pane ed un piatto di legumi per ognuno.
Ma la solidarietà umana che quegli sconosciuti ebbero per noi, volle anche darci un tetto; per la notte i soldati furono ricoverati in una casa disabitata mentre a me, in considerazione
del malandato stato di salute così appariscente, fu assegnato un letto che, insieme ad altri, era in
fondo ad una stanza stretta e lunga al primo piano della locanda. In verità, fin dal primo momento, non accolsi con molto entusiasmo quel riguardo che mi veniva usato, sia perché non mi
piaceva quel trattamento preferenziale rispetto ai soldati, sia perché, sapendo di avere addosso
quegli schifosi parassiti, mi rincresceva d'infestare il letto che con tanta generosità mi veniva offerto. Comunque, mancandomi il coraggio di spiattellare il mio penoso stato, accettai quella risoluzione di riguardo.
Dopo avere vagato qua e là senza meta per le strade cittadine, quando, sopraggiunta la
notte, parve a noi tutti che fosse il momento di andare a riposare, mi separai dai soldati. Raggiunsi la locanda, scambiai il "kalinìcta" con la donna, non so se proprietaria o inserviente, che
fin dal pomeriggio avevo visto accudire al modesto albergo, e, raggiunto il letto assegnatomi, mi
c'infilai nudo allo scopo di ridurre al minimo il diffondersi dei pidocchi.
Era dai giorni di Cefalonia, precedenti l'infausta battaglia, che non provavo il ristoro di
sentirmi con tutto il corpo poggiato su qualche cosa di soffice, di sentirmi le membra, ora così
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denutrite e stanche, sfiorate, carezzate da fresche lenzuola. Con siffatta piacevole sensazione,
non tardai ad addormentarmi nel buio fitto della stanza e forse mi sarei svegliato chi sa quando
se, nel pieno della notte, non mi fossi sentito scuotere; destatomi, mi avvidi che un uomo, col
viso chino su di me, diceva cose per me incomprensibili, ma che poi non tardai a intuire: era uno
sconosciuto compagno di stanza che non riusciva a prendere sonno a causa del mio respiro affannoso, pesante… Mortificato, cercai di tenermi sveglio, onde essere sicuro di non disturbare,
ma non resistetti a lungo e nel corso di quella notte, vero supplizio, fui più volte destato dalle
proteste dell'intollerante individuo.
Finalmente, vidi che dalla porta d'ingresso filtrava nella stanza una tenue luce diffusa
che annunziava il nuovo giorno; lasciai il letto, indossai i lerci indumenti che costituivano il mio
abbigliamento e zitto zitto lasciai la locanda per non tornarvi mai più: la notte seguente, senza
tante tribolazioni, la trascorsi nella casa disabitata insieme ai soldati.
Intanto, dai primi approcci con gente del luogo, risultò che nessun'autorità civile o militare era in grado di darci istruzioni relative al rimpatrio; decidemmo, pertanto, di rimanere a
Vonitsa in attesa che qualcuno si ricordasse dei tanti reduci italiani anelanti di ritornare in patria.
Il mercoledì 18 ottobre, mentre m'intrattenevo nella strada principale parlando con i soldati di quella nuova sosta obbligata di cui, purtroppo, non era possibile prevedere la durata, cominciai ad avvertire i primi sintomi di una crisi malarica: dapprima la solita vaga fiacchezza fisica, poi l'indolenzimento delle articolazioni, infine l'incalzante susseguirsi di brividi di freddo.
Mi sedetti ad un gradino e mentre i miei compagni della mala ventura, standomi intorno, cercavano come venirmi in aiuto, insieme ad altre persone incuriosite, si avvicinò un uomo che, saputo chi eravamo e resosi conto di ciò che mi capitava, dopo essere rimasto alquanto pensieroso,
mi condusse all'ingresso di un locale a livello stradale che, ad una prima occhiata, si rivelò una
miserrima cucina fuori uso dalla quale si accedeva in uno stanzone, più lungo che largo, con due
file di lettini contrapposti non tutti occupati: era l'infermeria dei partigiani. Il mio uomo parlottò
con una donna di mezza età, dall'aspetto e dai modi piuttosto raffinati, alla quale - come mi fu
dato di comprendere in seguito - era affidata la direzione amministrativa, e venne poi a dirmi
che potevo occupare un lettino e starci fin che ne avessi necessità. Già tutto scosso dai tremiti
della febbre, con i denti che battevano contro i denti, mi tolsi i consunti indumenti e m'infilai tra
le lenzuola, benedicendo mille volte con tutto il cuore chi mi aveva procurato tanto alleviamento
del subdolo male.
Quell'uomo, di nome Cristo, era il farmacista di Vonitsa che, memore del comportamento umanitario delle truppe italiane durante l'occupazione, sempre che poteva ricambiava ai
reduci, relitti di quell'esercito, un poco del bene ricevuto al tempo in cui scarseggiavano i viveri
per la popolazione greca. Egli ritornò nello stesso giorno per darmi qualche pasticca di chinino e
ritornò anche nei giorni seguenti per informarsi delle mie condizioni e rinnovare alla signora
amministratrice la preghiera di lasciarmi lì, fra i suoi assistiti, il più a lungo possibile.
Rimasi in quella infermeria poco più di una settimana, periodo durante il quale mi ripresi abbastanza anche perché beneficiavo dell'alimentazione alquanto soddisfacente, somministrata ai ricoverati. Talvolta il pane sopravanzava e per quanto si escogitassero i sistemi più ingegnosi per evitare che durante la notte divenisse preda dei grossi topi di fogna che, passando
attraverso i non pochi squarci dell'impianto di legno, invadevano la camerata completamente
buia, con le prime luci del giorno si constatava che gl'indomabili roditori avevano razziato tutto.
La loro famelica audacia li spingeva a salire anche sui lettini di ferro e una notte che, nel tentativo di salvare un buon pezzo di pane che avevo legato alla spalliera da piedi, spinsi la mano
lungo la coperta, sentii ad un tratto, sul dorso, gli artigli della bestiaccia immonda.
Sentendomi sempre più in forza a misura che passavano i giorni, in virtù del chinino,
dell'alimentazione e forse anche dell'assoluto riposo, quotidianamente cominciai a lasciare il
letto per alcune ore e, dopo breve tratto di strada, arrivavo in farmacia ove me ne stavo zitto e
discreto seduto in un angolo, speranzoso di apprendere qualche buona nuova relativa al rimpatrio, mentre Cristo preparava cartine, impiastri e bevande: quella professione, esplicata a sollievo della povera gente sofferente, si addiceva proprio alla sua connaturale propensione al bene.
Fin da quando mi vide la prima volta, con i prodromi di una nuova crisi malarica, egli si dette da
fare per procurarmi qualche indumento in sostituzione di quelli che avevo, ridotti ormai ad anticaglie; indossai così una giacca borghese meno malandata ed un paio di calzoni militari che, in
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dotazione ad un soldato tedesco, erano poi passati, non so come, ad un partigiano che in seguito
li aveva smessi e lasciati in abbandono. Ma, ciò che gradii più di tutto, fu un paio di calosce che
misi ai piedi senza calze, in sostituzione di quanto rimaneva del paio di scarpe con il quale ero
partito da casa.
Frattanto, cedendo alle sollecitazioni della signora amministratrice che, non essendosi
verificati ulteriori accessi febbrili, non ravvisava la necessità che rimanessi ulteriormente ricoverato, un bel mattino dovetti lasciare l'infermeria e poiché la casa disabitata ove si erano installati i soldati, non aveva più posto per me - perché nel frattempo erano giunti altri reduci in
attesa di rimpatrio - tornò in me l'assillo dove passare la notte. Ma fu per poco perché Cristo,
prevedendo che presto sarei stato messo fuori, si era già dato alla ricerca di un alloggio per la
notte e, senza che ne fossi a conoscenza, aveva trovato una famiglia disposta ad ospitarmi, ma
poi non se ne fece nulla e, tenuto conto delle mie condizioni, ne fui proprio lieto. Fu allora che,
non trovando altra sistemazione conveniente, il mio benefattore si rivolse al pope suo amico ed
insieme concertarono di darmi asilo notturno nella chiesa ortodossa. Fino a quel punto le circostanze mi avevano imposto le cose più impensate ed impensabili, ma quella di starmene tutto
solo, per intere notti, in un luogo sacro al culto divino, era proprio al di là della sfera limite di
ogni mia singolare immaginazione; tuttavia, dato che non ero in grado di preferire alcun'altra
dimora notturna, non osai muovere obiezioni.
La chiesa, di pianta rettangolare, era molto grande, quanto più o meno il principale tempio di una nostra città vescovile, ed oltre al tradizionale ingresso di fronte all'altare, ne aveva
anche uno secondario a metà del muro perimetrale di destra, ingresso al quale si accedeva da
una stradicciuole che, per mancanza d'illuminazione elettrica, era quasi immersa nel buio durante le ore notturne. Il pope, che mi ci condusse nel pomeriggio affinché mi rendessi conto di
ciò che avrei dovuto fare per raggiungere il posto conveniente ove mettermi a dormire, mi disse
di entrare nel tempio a notte fatta, dall'ingresso secondario la cui porta, anziché chiuderla con la
chiave, il sagrestano avrebbe avuto cura di lasciare accostata; mi disse pure che presso la porta,
a sinistra entrando, mi avrebbe fatto trovare un tavolinetto con una candela e fiammiferi acciocché, inoltrandomi nell'interno tra stalli e panche, potessi vederci.
Entrato e messo il chiavistello, dovevo portarmi al centro della navata e quindi dirigermi
verso la porta principale fino a trovare sulla destra una scalinata in legno che, in alto, immetteva
ad un palco come quelli sui quali, in gran parte delle nostre chiese, è installato l'organo. Il piano
del palco di forma rettangolare, con una larghezza di oltre due metri, aveva tre lati infissi ciascuno in un muro perimetrale: i due laterali e quello frontale. Accostato a questo, sotto tre finestroni che davano sulla strada, si trovava un cassettone che, alto poco più di un metro, si estendeva da un estremo all'altro e serviva alla conservazione degli arredi sacri. Il quarto lato del piano, quello verso l'altare, era munito di parapetto di altezza tale che, sollevandosi sulle punte dei
piedi, si poteva vedere la sottostante navata.
Il pope, un altro cuore generoso incontrato durante quella mia odissea, mi disse che mi
avrebbe fatto trovare sul cassettone un tappetino ed una coperta affinché potessi distendermi a
piè del parapetto e che, con le prime luci del giorno, dovevo rimettere a posto ogni cosa e andarmene senza farmi vedere.
Le notti trascorse lassù non furono proprio distensive. Dischiuso l'uscio e introdottomi
con grande cautela, come per una furtiva imprese sacrilega, spesso da quel momento cominciavano per me le peripezie della notte perché, o per l'umidità o per la non buona qualità dei fiammiferi, per quanto strofinassi sulla striscetta vetrata, l'estremità fosforica non s'infiammava. Dopo ripetuti tentativi, durante i quali, assottigliandosi la piccola riserva di fiammiferi, temevo
sempre più di rimanerne senza, riuscivo finalmente ad accendere l'esile candelina color castaneo
ed piccoli passi, onde evitare che si spegnesse, mi avviavo guardingo, seguito tutt'intorno, entro
breve raggio, dalle mutevoli ombre strane generate dalla piccola fiamma sempre oscillante e sul
punto di spegnersi. A quel cauto, circospetto andare per la navata tenebrosa che, nella mia
mente eccitata, destava il ricordo di lontani terrificanti racconti favolosi che mi avevano nutrito
nella minore età, si aggiungeva poi il cupo rimbombo dei miei passi su per la scala di legno. Infine, preparatomi il giaciglio con quanto il pope aveva approntato, mi distendevo mezzo vestito,
mi coprivo come meglio potevo e rimanevo su di un fianco, lungamente sveglio, con gli occhi
fissi alle più vicine immagini sacre del soffitto, si e no intraviste come fantasmi nella tenue luce
proveniente dai finestroni che appena appena le sfiorava.
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Tra quelle ombre e quelle evanescenti figurazioni del soffitto, a poco a poco l'attività
cosciente mi abbandonava e sopravveniva il sonno, ma la sua durata non era normale per qualche necessità fisiologica, purtroppo così frequente ed imprevedibile in quei giorni. Malauguratamente, lassù non disponevo di quanto era necessario a soddisfarla e, pertanto, raffrenando il
mio stato fisico anormale, a tentoni ritornavo in tutta fretta alla porta secondaria e ciò non sempre senza spiacevoli conseguenze che lasciavano tracce del mio disagio in quell'andare su e giù
per la chiesa immersa nel buio.
Si giunse intanto agli ultimi giorni di ottobre e perdurando la mancanza di ogni iniziativa da parte di chi avrebbe dovuto occuparsi dei reduci italiani raminghi in Grecia, con Antonio,
Ernesto e Giuseppe fu deciso di recarci ad Amfilokhia, una cittadina sul golfo di Arta, a levante
di Vonitsa, ove, essendovi un comando dell'E.L.A.S., avremmo potuto apprendere le eventuali
disposizioni che ci riguardavano. Per non percorrere la strada piuttosto lunga, perché segue
presso a poco le sinuosità della costa, cercammo, tra quanti avevano ricominciato ad esercitare,
per fini commerciali, un modesto traffico marittimo tra le due località, qualcuno disposto, per
pura grazia, a trasportarci ad Amfilokhia sul suo battello e in verità non dovemmo cercare molto
perché, proprio in quei giorni, non c'era greco che non fosse disposto a darci una mano affinché
si realizzasse il nostro sospirato ritorno.
Giunti ad Amfilokhia, ci presentammo al comando dell'E.L.A.S., presso il quale prestavano servizio anche ragazze in attillata divisa virile con fucile e cartucciera, e chiedemmo di
proseguire per la località portuale più conveniente al nostro rimpatrio, ma, purtroppo, ci fu detto
che mancando disposizioni in proposito da parte del comando superiore, occorreva che ce ne
stessimo ancora buoni buoni in attesa che maturassero le decisioni. Consapevole del nostro misero stato, il capo partigiano col qual parlammo, ci autorizzò a consumare il rancio con i suoi
uomini, ma non senza una corrispettiva prestazione di lavoro da parte di ognuno di noi: a me fu
assegnato il compito di provvedere ogni mattina alla pulizia ed al riassetto di alcuni locali. In
quanto al ricetto durante la notte, non ci fu difficile trovare un deposito vuoto nel quale andavamo a distenderci sul nudo pavimento.
Trascorsero così altri giorni. Tra un rancio e l'altro, la cui preparazione era affidata anche ad un nostro soldato calabrese, un certo Macrì nativo di Cinquefrondi, che se la cavava ricavando dallo scatolame americano pepate minestre, mi diedi a scoprire Amfilokhia, una ridente
cittadina con ruderi medioevali; un pomeriggio, sentendomi abbastanza in forze, me ne andai fin
su all'acropoli ed a lungo mi aggirai fra le rovine della fortezza veneziana.
Venni a sapere frattanto che, un paio di volte la settimana, una piccola nave cisterna
della nostra marina militare, veniva a rifornirsi di acqua che poi riversava nei sitibondi serbatoi
di Prevesa, presidiata dagli inglesi; mi venne in mente allora che se, profittando di così favorevole circostanza, fossi riuscito a raggiungere quell'importante porto, il ritorno in Italia sarebbe
stato soltanto questione di giorni. Un pomeriggio,, attraccatasi la cisterna alla banchina del porticciuolo e sceso a terra il comandante, un giovane secondo capo nocchiere, l'avvicinai e, qualificatomi, gli esposi quanto mi frullava per la testa. Il sottufficiale, persona a modo, mi disse che
non aveva nulla in contrario a favorire il mio viaggio clandestino a bordo della sua piccola nave,
occorreva soltanto che riuscissi ad eludere la sorveglianza dei partigiani comunisti dell'E.L.A.S.
i quali, temendo che italiani e greci transfughi andassero ad ingrossare le file dei partigiani nazionalisti dell'E.A.M., di stanza a Prevesa, impedivano a chiunque d'imbarcarsi.
Fatto un primo tentativo andato a vuoto perché, proprio quando la cisterna stava per
staccarsi dalla banchina, un partigiano, con molto zelo, si precipitò a bordo e, incocciatomi
mentre tentavo di sfuggirgli, m'invitò a scendere a terra, ne feci un secondo nascondendomi carponi sotto il divano della piccola sala nautica, ma inutilmente: ormai ero tenuto d'occhio.
Era consuetudine che venisse impartita una buona lezione a suon di nerbate a chi tentava di fuggire, invece, il capo partigiano al quale fu rapportato il mio tentativo, si limitò a dirmi
bonariamente che quella di Prevesa non era la via migliore per rimpatriare.
Convintomi che non era possibile, per le contingenti circostanze, fare un ulteriore balzo
in avanti, via mare, verso la meta agognata, decisi di ritornare alla cittadina dalla quale, da pochi
giorni, mi ero dipartito, allontanandomi dagli uomini generosi che mi avevano tanto beneficato.
Rimesso piede a Vonitsa il lunedì 6 novembre, insieme ai miei tre compagni soldati,
non fu necessario che andassi a dormire nella chiesa; forse il pope aveva intuito quanto mi fosse
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penoso passare le notti lassù e ne aveva parlato all'amico farmacista, comunque, in poco tempo
Cristo riuscì a trovarmi un ricetto notturno più confacente alle mie condizioni.
Egli, che abitava con la moglie ed i figli in una località rurale distante un paio di chilometri dal centro cittadino, scoprì nelle vicinanze una stanza disabitata a pianterreno, di facile accesso. Da una piazzetta, con una colonnina dalla quale scaturiva sempre un armonioso getto
d'acqua, si accedeva, attraverso un portoncino, ad un piccolo vano rettangolare con due porte tra
loro contrapposte: quella a sinistra immetteva nell'abitazione di gente modesta e tranquilla,
quella a destra nella stanza assegnatami, rettangolare e piuttosto grande, con l'impiantito di legno ed una porta in fondo, sempre chiusa, dalle cui connessure vedevo talvolta filtrare la luce di
una lampada; inoltre, a metà della parete esterna più lunga, c'era una finestrella che dava su di
un viottolo.
Dopo le prime notti trascorse in quella nuova dimora, Domenico mi chiese di poterne
usufruire ed io acconsentii, sebbene mal volentieri conoscendo quanto il suo spigoloso carattere
lo rendesse poco proclive ad adattarsi alle circostanze anche ineluttabili e difatti, dopo un poco
di quella coabitazione, mi dichiarò senza ambagi che si sentiva infastidito dalle mie necessità
dovute alla colite che continuamente mi tormentava, e se ne tornò dov'era.
Fin da quando lasciai l'infermeria dei partigiani, anche il sostentamento quotidiano mi
fu procacciato da Cristo il quale, avvalendosi di un certo prestigio che indubbiamente gli veniva
riconosciuto dai suoi concittadini, ottenne che partecipassi alla mensa dei bambini poveri. Ogni
giorno, verso le tredici, in un locale a pianterreno sulla strada principale, arredato con panche e
tavoli, veniva distribuito un piatto di minestra e pane ad una trentina di chiassosi ragazzetti;
quando si era provveduto a quella comunità ai primordi della vita, io m'inoltravo, mi accostavo
al tavolo con le marmitte e la dispensiera riempiva la mia piccola scodella di terracotta fornitami
dal farmacista insieme ad una posata di metallo ignobile.
Di quella scena che si ripeteva ogni giorno, avrei proprio voluto che ne restasse una testimonianza fotografica: vestito a quel modo, scarno, con la barba da istrice, avente sul viso la
traccia profonda delle angosce passate e negli occhi incavati la mestizia infinita di chi si sente
caduto in misero stato per ineluttabili eventi, sedevo all'estremità di un tavolo, ben distaccato,
per non contaminarlo, dal piccolo che mi stava da presso, e rimanevo lì intento a riempire lo
stomaco di quel tanto necessario per sopravvivere, con lo sguardo assente tra ragazzetti allegri,
vivaci, ai quali, malgrado tutto, arrideva la gioia di vivere.
Un giorno, ispirandosi forse alla pura ideologia sociale che in quei giorni sembrava
prevalere in Grecia, un dirigente, nell'intento d'inculcare ai ragazzi con un esempio pratico il
principio dell'autogoverno, chiese loro cosa volessero mangiare l'indomani: carne o pesce?
Dapprima si levarono timide voci, alcune chiedenti carne, le altre pesce, poi alle prime si aggiunsero altre voci e a poco a poco le due opposte propensioni furono espresse con toni sempre
più alti fino a degenerare in un baccano indiavolato: carne, carne, come dannati gridavano alcuni; pesce, pesce, con pari vigore ribattevano gli altri. Finalmente i piccoli energumeni furono
domati e l'indomani la dispensiera non somministrò né carne né pesce ed in seguito nessuno
domandò più ai ragazzi cosa desiderassero mangiare.
Quando non m'intrattenevo in farmacia, andavo quasi sempre a gironzolare verso il mare se non mi recavo sulla sponda di un limpido corso d'acqua per lavare, senza sapone, qualche
indumento che ne aveva inderogabile bisogno. A sera, dopo avere atteso che Cristo chiudesse la
farmacia, andavamo insieme alle rispettive dimore poco distanti tra loro, percorrendo una lunga
bella strada di campagna dalla quale, con cielo sereno, vedevo stagliarsi in lontananza, sugli ultimi bagliori rossi dell'occaso, gli alti monti di Achirà. Una notte, ero da poco rientrato nella mia
nuda stanza, quando sentii battere discretamente ai vetri della piccola finestra: era Cristo con un
piatto di frittelle per la mia cena …
Il pope, anche quando la chiesa non fu più il mio dormitorio, continuò ad interessarsi di
me. Un pomeriggio mi volle a casa, una quieta dimora con mobili antichi di un certo pregio e
quadri ad olio raffiguranti illustri antenati. Dapprima c'intrattenemmo fuori nel giardino tutto a
limoni ed aranci che, illuminato com'era dai raggi radenti di uno scialbo sole occiduo, mi parve
ancora più suggestivo. Ritornati nell'interno della casa, mi fece conoscere le due sorelle e, dopo
avermi offerto uno spuntino, mi diede due paia di mutande, di quelle lunghe e legate alle caviglie che qualcuno ancora usava in quel tempo.
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Frattanto, mentre la vita cittadina veniva movimentata da frequenti adunate di popolo,
chiamato, mediante un altoparlante installato in piazza, a prendere conoscenza degli ultimi avvenimenti di risonanza mondiale o d'importanti deliberazioni riguardanti il paese, si ebbe a Vonitsa la visita di una missione militare inglese che distribuì viveri a quanti ne avessero bisogno;
anche noi italiani avemmo un paio di chilogrammi di farina di grano a testa che mi affrettai a
tramutare in pane da consumare con parsimonia, in previsione di qualche prossimo giorno di
magra.
Trascorsero così altre due settimane di rassegnata aspettazione quando un ufficiale del
risorto esercito greco, capitato un bel mattino in farmacia, assicurò Cristo che presto saremmo
stati rimpatriati, che fra dieci o quindici giorni al massimo, da Missolungi o da Patrasso,
avremmo raggiunto un porto italiano. Affrettatomi a comunicare ai soldati le ottimistiche previsioni dell'ufficiale, fummo tutti d'accordo di metterci subito in marcia verso sud per raggiungere
il Golfo di Patrasso, onde non trovarci nell'impossibilità, per la mancanza di ogni mezzo di trasporto, di essere presenti all'imminente raduno di reduci nell'uno o nell'altro porto d'imbarco.
Occorreva, pertanto, ritornare ad Amfilokhia per chiedere al locale comando dell'E.L.A.S. il lasciapassare utile a superare ogni eventuale controllo dei partigiani, durante il non breve cammino, e per immetterci, altresì, nell'unica grande arteria che da settentrione conduce a Missolungi.
Ovviamente, quanto avevo appreso poteva essere anche un'erronea convinzione dell'ufficiale ed in questo caso la marcia di oltre cento chilometri, che ci accingevamo a compiere, sarebbe stata una inutile sfiancante maratona, ma questa sfavorevole eventualità, anche se penosamente presente a ciascuno di noi, non ci procurò alcuna esitazione perché avevamo bisogno di
rompere l'inerzia dei lunghi monotoni giorni di attesa e il giovedì 23 novembre, spinti ancora
una volta dalla grande ansia, ci rimettemmo in moto.
Insieme ai soldati, di buon mattino presi posto in un battello a motore che, doppiato il
piccolo molo del porto di Vonitsa, si diresse costeggiando verso levante; il cielo era di un azzurro luminoso, il mare senza un'increspatura e la costa aspra, ma ricca di vegetazione, aveva tratti
di suggestiva bellezza. Pensando forse alla ragazza amata di cui più nulla sapeva da tanto tempo, un soldato, affascinato dal paesaggio, accennò una canzone romantica e con un modulato
filo di voce, attaccando il ritornello, appassionatamente invocava:
"Scrivimi, non lasciarmi così …"
Gli altri, in silenzio, sembravano indifferenti a quel canto, ma, in realtà, ognuno avvertiva nell'animo una risonanza del malioso motivo e pensava a chi aveva lontano e da oltre un
anno non ne aveva notizie.
Giunti ad Amfilokhia intorno al mezzodì, trascorremmo parte del pomeriggio nel deposito che precedentemente ci aveva ospitati e parte al comando dell'E.L.A.S. per ottenere quanto
ci premeva, ma ci fu concesso soltanto l'autorizzazione a consumare il rancio; malgrado che in
tutti i modi richiamassimo l'attenzione del capo partigiano su quanto avevamo appreso a Vonitsa, per il lasciapassare, a suo dire, occorreva attendere che l'autorità centrale, di cui invero
nulla si sapeva, impartisse istruzioni circa il rimpatrio degl'italiani. Ma noi, ritornati ad Amfilokhia unicamente per farvi breve sosta allo scopo di ottenere quel pezzo di carta, non avevamo
punto voglia di rimanervi una seconda volta più o meno a lungo, in attesa che qualcuno, ricordandosene, ci concedesse il benestare a proseguire. Spinti dall'indomabile volontà di affrettare il
ritorno, l'opinione tutta personale dell'ufficiale amico di Cristo a poco a poco si era tramutata in
assoluta certezza e fu così che il giorno seguente, consumato il rancio meridiano, rompemmo
ogni indugio e, nulla curandoci del lasciapassare e di ogni formalità, ci avviammo sulla carrozzabile che da Amfilokhia porta al Golfo di Patrasso.
Sulla strada pianeggiante e deserta che si snoda con lievi curvature tra ondulazioni del
terreno che, dall'uno e dall'altro lato, si perdono lontano, confondendosi con le diramazioni secondarie degli alti monti all'orizzonte, noi camminavamo di gran lena, sollecitati dal convincimento che si andava verso casa. Ma non senza difficoltà io mantenevo il passo perché l'orlo
delle calosce al piede destro, fregando sul malleolo esterno, malauguratamente mi aveva procurato un'irritazione cutanea degenerata poi in una piaga che mi doleva, soprattutto quando poggiavo il piede.
Eravamo in cammino da parecchio quando Giuseppe richiamò la mia attenzione sulla
località raggiunta che aveva elevazioni montuose non più lontane, bensì immediate dall'uno e
dall'altro lato: eravamo su quel tratto di strada che, non senza una vivace discordanza d'opinione
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col povero De Angelis, attraversammo il 13 dicembre, durante la marcia da Trifos a Kethrinià,
eludendo la vigilanza dei tedeschi ed il pericolo di essere riconosciuti dai prigionieri italiani addetti alla manutenzione della carrozzabile.
Dopo aver incontrato qualche raro viandante, poco dopo il tramonto vedemmo in un
campo incolto, a pochi metri dal ciglio destro della strada, una piccola grezza costruzione in
muratura priva di porta; vi entrammo e visto che il piccolo locale aveva soltanto un residuo
straterello di paglia al suolo, avanzo forse di un precedente ammucchiamento del prezioso foraggio, decidemmo di trascorrervi la notte.
All'alba del giorno seguente, sabato 25 novembre, ci rimettemmo subito in cammino, sia
perché parecchia strada ancora ci separava dal Golfo di Patrasso e sia perché, intirizziti più che
mai, sentivamo la necessità di muoverci per riscaldarci. Fu nel corso di questa tappa che, quando meno ce l'aspettavamo, avemmo la certezza che la previsione dell'ufficiale amico di Cristo
era giusta. Noi andavamo da un pezzo per la strada solitaria battuta da un sole scialbo, con intorno un paesaggio sempre uguale, senza mai un villaggio, senza mai una casa colonica sia pure
lontana, quando all'improvviso un imponente corso d'acqua ci sbarrò la strada: era l'Aspropòtamos, l'antico Akhelòos dei tempi mitici. Sorpresi, cominciammo a guardar intorno per vedere
come si potesse passare al di là del fiume, quando ci accorgemmo di una grossa imbarcazione
attraccata alla sponda, di quelle adatte ai corsi d'acqua in rapido deflusso, e di un uomo che ci
scrutava: era il traghettatore che si guadagnava la giornata trasportando uomini e cose dall'una
all'altra sponda. L'avvicinammo ed egli, che già aveva intuito chi eravamo e perché in cammino
su quella lunga strada deserta, ci comunicò che il governo greco, costituitosi a Il Cairo, aveva
impartito via radio l'ordine di fare confluire i reduci italiani a Missolungi e a Patrasso ove, il
giorno 26 novembre, sarebbero stati imbarcati su navi dirette in Italia.
Buono per noi non aver perduto altro tempo ad Amfilokhia: il giorno 26 era l'indomani
e, per non mancare all'appuntamento, dovevamo accelerare il passo. Il traghettatore, mostrando
un'ammirevole maestria nel dominare la forte corrente con l'ausilio di un unico remo, in due riprese ci trasportò sull'altra sponda; noi purtroppo non avevamo quanto sarebbe stato necessario
per compensarlo, ma lui, che non aveva alcun dubbio della nostra assoluta indigenza, si accontentò volentieri della sola gratitudine che, come meglio si poteva, gli manifestammo.
La buona novella, immettendo nuovo vigore nelle nostre gambe, ci fece riprendere il
cammino con maggiore lena pur sapendo che non avremmo potuto raggiungere Missolungi nella
serata perché ancora tanto lontana; percorrendo però nelle residue ore della giornata quanto più
strada era possibile, nella mattinata dell'indomani avremmo potuto raggiungere la meta.
Eravamo al tramonto e pensavamo che convenisse camminare per un paio d'ore ancora
prima di distenderci chi sa dove per passarvi la notte, quando giungemmo a Kalivia, un piccolo
aggregato di case coloniche sulla linea ferroviaria Agrinion-Missolungi e, con lieta sorpresa,
apprendemmo che potevamo porre fine alla maratona perché l'indomani sarebbe transitato un
treno, appositamente allestito per raccogliere i reduci italiani, sparpagliati lungo la linea, e trasportarli a Missolungi. Soprattutto a me quella notizia diede grande sollievo perché lo stato della
piaga al malleolo era sempre più preoccupante e nel camminare mi doleva tutta la gamba.
Per la notte ognuno s'industriò come meglio passarla al coperto; visto un casello ferroviario che sembrava abbandonato, io ed Antonio pensammo che facesse al caso nostro e, per rifarci un poco del lungo cammino, ci distendemmo in quel breve spazio tra le quattro mura annerite ed emananti un sottile lezzo di lubrificanti minerali.
Rimessomi alquanto dalla stanchezza, mi levai dalla dura terra. Antonio, sofferente di
un male gastrico, a suo dire riacutizzatosi negli ultimi giorni, mi chiese il pane bianco che ancora avevo perché quello suo, malgrado la lamentata indisposizione, l'aveva già consumato; l'accontentai senza esitare, ma tutt'altro che convinto che fosse necessario privarmi di quel prezioso
alimento con tanta cura messo in serbo.
Nella luce crepuscolare del giorno morente, insofferente di stare riposato malgrado che
la gamba mi dolesse, girovagai in compagnia di Ernesto e Giuseppe fin quando della brava
gente ci accolse in casa e lì, stando tutti accanto al fuoco mentre si preparava un po' di cena,
raccontammo in breve le nostre peripezie.
Dopo una notte insonne, sorse finalmente il nuovo giorno, domenica 26 novembre, e si
può immaginare con quanta sollecitudine mi levassi in piedi e mi approntassi alla partenza; l'ulwww.anpi.it
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tima volta che avevo viaggiato in treno, quando mi recai da Atene a Patrasso, anche allora era
domenica, esattamente diciassette mesi addietro. Dopo essermi lavato il viso ad una fontanella
che poco lontana dal casello ferroviario, scaturiva con voce sommessa, involsi meglio nelle
mutande donatemi dal pope il pentolino di terracotta col cucchiaio e la forchetta di stagno donatimi da Cristo ed insieme ai soldati, come me solleciti, mi misi ad aspettare il treno.
L'attesa fu lunga e sempre più trepida col trascorrere del tempo senza che in alcun modo
si avesse conferma di quanto era stato preannunziato; era proprio vero che sarebbe arrivato un
treno espressamente allestito per noi italiani? Senza che se ne parlasse tra noi, ognuno in cuor
suo si poneva l'inquietante domanda, quando finalmente udimmo lontano il fischio acuto della
sirena e poco dopo la locomotiva, ansimante, apparve sulla curva della strada ferrata.
Credo che rare volte sia montato su di un treno con tanta sveltezza come in quella circostanza. Il vagone di terza classe, senza scompartimenti, era affollato di reduci; alcuni indossavano la divisa, grosso modo ancora decente, altri indumenti raccogliticci eterogenei, ma nessuno
era conciato come me e ciò fu cagione di una certa curiosità di quanti ebbero modo di accorgersi
della mia presenza. La gran parte però erano intenti a parlare ad alta voce: chi compiangeva un
commilitone deceduto; chi chiedeva con ansia della sorte toccata all'amico di cui, da un pezzo,
più nulla sapeva; ma fra tanto incrociarsi di domande, di risposte, di commiserazioni, non mancava chi taceva, visibilmente assente, assorto forse nel ricordo di tragici momenti.
Con un fischio lacerante della sirena, il treno si rimise in moto e poco dopo, non ricordo
come, mi trovai a parlare col vicino che avevo a sinistra, che non aveva mai cessato di squadrarmi con occhio incuriosito. Fu inevitabile che accennassi all'eccidio al quale miracolosamente ero sopravvissuto.
"Mi compiaccio che, malgrado tutto, siete nel pieno possesso delle vostre facoltà mentali." - mi disse quando terminai il frammentato racconto: forse l'espressione del viso lasciava
sorgere qualche dubbio sulla mia integrità psichica.
Giunto a destinazione, il treno inspiegabilmente proseguì ancora verso levante lungo la
costa, fino alla stazione terminale di Krionerio ove, dopo una breve sosta, si rimise in moto nel
senso opposto e, ritornato a Missolungi, potemmo finalmente discendere; ad attenderci c'erano
alcuni ufficiali inglesi ed italiani con numerosi reduci che ci avevano preceduti.
Dopo qualche inevitabile formalità burocratica, rimasto libero, mi presentai ad un giovine ufficiale medico italiano addetto ad un ambulatorio allestito in una baracca e, mostratagli la
piaga, gli parlai del dolore che provavo quando poggiavo il piede. Resosi conto del focolaio
d'infezione, quel bravo giovine, intuendo quanto desiderassi porre fine al più presto a quel triste
periodo della mia vita, mi disse che non mi faceva ricoverare in ospedale per non causare il rinvio del rimpatrio a chi sa quando; mi fornì però un medicinale in polvere che, dopo le prime applicazioni, mi procurò un sensibile miglioramento.
Nel tardo pomeriggio, con un grande battello militare, fummo tutti trasportati a Patrasso, sull'altra sponda del profondo golfo, e lì, dopo la distribuzione a ciascuno di una coperte di
lana, prendemmo imbarco sul piroscafo inglese "Linklenstern", con bassa forza francese.
Il mattino del giorno seguente, lunedì 27 novembre, con un bel cielo sereno e mare come olio, il piroscafo si staccò dalla banchina e prese il largo dirigendosi verso l'imboccatura del
golfo e non passò molto tempo che, con viva impressione, avvistai Cefalonia, isola del destino
per tanti esseri umani, per tanta fiorente gioventù selvaggiamente stroncata e per i pochi altri
che, sopravvissuti alla bieca rappresaglia, ora si allontanavano per sempre da quei monti, da
quelle marine, da quelle contrade un tempo ridenti, portando nell'animo un perenne lancinante
ricordo.
La navigazione fino a Taranto durò circa due giorni e mezzo, con frequenti cambiamenti
di rotta e senza che si verificassero gravi incidenti, malgrado l'esacerbato contegno del nostromo
francese che vedeva in noi chi aveva inferto, al suo paese in ginocchio, il mortale colpo di pugnale alla schiena.
In quei due giorni e mezzo, tra una distribuzione di rancio e l'altra, sempre buono e sufficiente, le ore diurne mi furono lievi, distratto com'ero dal tanto parlare, contendere, contraddire di chi mi stava intorno mentre la nave, sotto il cielo di cobalto, andava tranquilla e solitaria
per il placido mare. Le ore notturne, invece, furono penose e interminabili perché, ossessionato
dal pensiero che si potesse incappare in una mina o siluro, non me la sentivo di dormire insieme
a tutti gli altri nella stiva, come voluto dal comando della nave, e quindi, standomene clandestiwww.anpi.it
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namente in coperta, era un continuo nascondermi di qua e di là per non farmi sorprendere dalla
ronda inglese.
Entrata all'alba nell'ampio Golfo di Taranto, la "Linklenstern" si attraccò ad una delle
banchine del porto mercantile intorno alle quattordici del mercoledì 29 novembre. Dopo poco
più di un'ora, fummo fatti sbarcare e trasportati con autofurgoni al campo di raccolta Sant'Andrea, tenuto dagli americani. Vi giungemmo che era quasi sera e poiché fui l'ultimo ad essere
introdotto nell'ufficio di segreteria, per le necessarie formalità amministrative, non si trovò per
me un posto di tenda disponibile, ma non fu poi gran male perché fui autorizzato a passare la
notte in una delle ampie baracche prefabbricate dagli americani ove, fra le tante cose depositate,
c'era anche una pila di soffici materassi alta un paio di metri in cima alla quale mi distesi e tranquillamente dormii.
Il giorno seguente, il sergente americano consegnatario di tutto quel materiale, mi fece
sgomberare; trovai ricetto allora sotto una tenda da campo appena sufficiente per due persone e
così poco alta che vi si poteva entrare soltanto strisciando carponi. Le prime notti trascorse lì
sotto, insieme ad un ufficiale di fanteria, non furono prive d'inconvenienti, soprattutto per la difficoltà di uscire e rientrare senza importunare l'altro e senza minimamente scuotere la tenda, cosa che avrebbe provocato l'immediata caduta in pioggia dello strato di gocce di rugiada che si
formava al di sotto. Dopo un paio di giorni, rimasto solo, ebbi la possibilità di stare a mio agio;
inoltre, per evitare che si formasse la rugiada, scesa la notte, furtivamente disinstallavo una tenda vuota, di uguali dimensioni e poco lontana, e la sovrapponevo alla mia, in modo da formare
una duplice superficie di separazione tra l'aria più calda ed umida che stagnava dentro e l'aria
esterna più fredda ed asciutta; all'alba poi, per non suscitare la collera del sergente americano,
rimettevo a posto ogni cosa.
In conformità della prassi, il giorno seguente il mio arrivo al campo, con mio grande
sollievo, fui sottoposto all'integrale disinfestazione della persona e degli indumenti. Inoltre
scrissi la prima lettera ai miei per comunicare succintamente che, malgrado tutto, ero ancora di
questo mondo e sul suolo italiano e ciò mi fu possibile per la generosità di un sottufficiale della
Marina, anche lui reduce, il quale, avendo appreso che ero senza il becco di un quattrino, mi
fornì l'occorrente per scrivere ed il francobollo.
Occorreva intanto che mi rifornissi comunque di un paio di scarpe e smettere le calosce
che mi avevano procurato quel focolaio d'infezione; fui condotto a tal fine, insieme ad altri, in
una località esterna al campo ove si erigeva una montagnola di scarpe usate spaiate, perché scegliessi quelle che meglio mi si confacevano, ma, purtroppo, nel poco tempo concessomi, non mi
fu possibile trarre fuori da quel ciarpame scarpe appaiate della mia misura e, pertanto, dovetti
accontentarmi di due esemplari distinti.
Dopo poco più di una settimana di permanenza al campo Sant'Andrea, durante la quale,
oltre a riferire verbalmente ad un colonnello del nostro esercito, presentai anche una succinta
relazione scritta della mia odissea, una sera venne a prendermi un sottufficiale che in macchina
mi condusse a Taranto, ad un particolare ufficio della Marina che si occupava del reinserimento
dei reduci.
Con mia meraviglia la commissione di ufficiali preposta a vagliare i singoli casi, non
era insediata presso uno dei tanti edifici della Marina che ben conoscevo, bensì in un piccolo
palazzo per uso civile. Quando fui ammesso a conferire, mi trovai in una stanzetta debolmente
illuminata di luce rossastra irradiata da una lampadina che, senza alcuna guarnizione accessoria,
pendeva dal centro del basso soffitto.
Due ufficiali in borghese, non più giovani, l'uno seduto ad una scrivania e l'altro, alla
sua sinistra, poco discosto, attentamente mi guardavano.
Dichiarate le generalità, il grado, la provenienza, l'ufficiale alla scrivania, per nulla
scosso o perlomeno incuriosito nell'apprendere che provenivo da Cefalonia, del cui eccidio si
era già fatto un gran parlare, rivolto al collega, come per averne il consenso, domandò:
"Lo mandiamo al Deposito?"
"Ma è un ufficiale," - ribatté l'altro - "non possiamo metterlo insieme ai marinai."
L'ufficiale alla scrivania escogitò allora una via di mezzo e mi assegnò ad un alberguccio requisito per gli ufficiali della marina mercantile che rimpatriavano dopo l'internamento.
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Rimaneva da decidere a quale mensa aggregarmi e anche su questo l'ufficiale interlocutore intervenne con decisione:
"La mensa ufficiali."
L'ufficiale alla scrivania apparve contrariato e, alludendo ai miseri cenci che indossavo,
mormorò:
"Chi sa che dirà l'ammiraglio …"
Era proprio vero: mi trovavo in Italia!
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