Milo De Angelis, Quell`andarsene nel buio dei cortili, Milano
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Milo De Angelis, Quell`andarsene nel buio dei cortili, Milano
Milo De Angelis, Quell'andarsene nel buio dei cortili, Milano: Mondadori 2011 L’inizio è stato questo, tra le rovine e la ruota della fortuna. Il libro "Quell'andarsene nel buio dei cortili" di Milo De Angelis è stato pubblicato per i tipi della Mondadori nel Marzo 2011e fa seguito all'intenso "Tema dell'addio", del 2005. E' una raccolta delle poesie più recenti, in cui il poeta milanese si muove fra tematiche underground attraverso atmosfere inquiete e inquietanti capaci di suscitare un vago senso di disagio che fa pensare a certe correnti letterarie del primo '900. Colpisce al primo impatto con il libro la sua copertina che ritrae una foto di Ferdinando Scianna, in perfetta sintonia con l’opera, di cui riproduce le emozioni: in primo piano vi è una scala "che esce dal buio", come se cercasse di riprendere quota, di uscire allo scoperto verso l’aria, la luce, le altezze aeree dei tetti. E così è nella lettura dell’opera, dove a far da contraltare all'oscurità ambigua e sofferente delle prime quattro sezioni (Alfabeto del momento, Finale d’assedio, Un’oscura sete, Sei perduto) si schiude nella parte conclusiva (significativamente intitolata Canzoncine) un'inaspettata leggerezza. I componimenti delle sezioni ‘notturne’ (interessante il fatto che il titolo della terza parte, Un’oscura sete, avrebbe dovuto essere inizialmente titolo dell’intera opera, prima che la scelta editoriale cadesse su un verso Quell’andarsene nei cortili nel buio che poi è diventato, con felice cambio di progetto, Quell’andarsene nel buio dei cortili) ci introducono in medias res sullo sfondo di luoghi della contemporaneità metropolitana: spazi chiusi (centri commerciali, ristoranti, cantine) o aperti (strade, piazze, marciapiedi) che però via via si restringono (in cortili e muri) fino a trasformarsi in una prigione, il posto dove De Angelis esercita la professione di insegnante e che proprio un detenuto-poeta suo allievo ha assimilato alla poesia stessa, cui l’accomuna la rigorosa sorveglianza di tecnica, forma e stile da un lato, il desiderio d’evasione e libertà dall’altro. Su questo palcoscenico senza sipario agiscono personaggi oscuri, privi di volto o dalle teste squarciate, sagome simili a fantasmi o a visioni oniriche, come l’acrobata della notte, il corpo / senza nulla, un’incisione / nell’aria, un puro scoccare / di fosfori. Figure che fanno pensare ai protagonisti dei quadri di Edward Hopper (di cui riproduciamo Cinema a New York), ambigui e solitari, avvolti dal manto buio di brumose notti cittadine, illuminate dall’elettricità, profumate di benzina e madide di sangue misto a sudore. Tra i pali, l’asfalto e i portoni della downtown o delle periferie, in queste nottate afose e senza astri, l’unica comunicazione possibile è attraverso un citofono che brilla / come una stella fissa: ma spesso anche questi labili tentativi di connessione a distanza si interrompono, frantumandosi in un silenzio rauco come il sibilo attutito dei ricevitori staccati, riprodotto sulla pagina di De Angelis attraverso sequenze di puntini sospensivi incastonati nel vuoto. Gli enjambement ricorrenti, le anafore insistite (Vedi / la notte arrivare. Vedi questa / notte dei citofoni muti (…) / Vedi questa notte), l’accumulo delle interrogative senza risposta (Cosa attende da me? / Dove batte il cuore dei perduti? / Chi parla nella sera? / Chi preme ancora questo citofono?) evidenziano sillabe e parole, sottolineando l’urgenza, quasi l’ossessione, delle eterne domande di senso che si impongono all’attenzione e alla sensibilità degli uomini di ogni tempo, e specialmente di queste solitarie ombre perdute nelle nebbie metropolitane. L’assenza di titoli, che ricompaiono solo nella consolatoria sezione finale delle ‘Canzoncine’, combinata con l’uso particolare della punteggiatura, chiamata più spesso a separare i sintagmi che non a connetterli, rafforzano la sensazione di solitudine, intesa però non come ‘splendido isolamento’ o come dolorosa assenza di compagnia, bensì come momento necessario per ritrovare se stessi e potersi poi ri-velare al mondo. L’inquietudine degli emistichi, il respiro affannoso del metro, l’oscurità ermetica di simboli e suoni si stemperano nella musicalità dei versi, ottenuta grazie all’uso accorto e discreto di assonanze, consonanze, rime e ritmi che si nascondono alla vista ma non all’udito. Ecco, quella di De Angelis è una poesia che pare fatta per l’ascolto più che per la lettura: per gustarla davvero bisognerebbe avere l’occasione di sentirla vibrare nella voce soul del suo autore. E allora, come per magia, gli oggetti inanimi e le sagome smunte emergono dall’asfalto, escono dalle case popolari, si librano lievi al di sopra di marciapiedi sconnessi e polverosi per ritrovare aria, luce, vita intensa e piena. Come acqua che beve se stessa. Due in particolare le poesie che hanno colpito la nostra sensibilità. E' così. La memoria di un uomo era solamente questa manciata di sillabe. Solo loro ritornano dalle cantine abitate per niente e sono puntuali, sono scagliate oltre le rocce, bisbigliano parole esterrefatte, sono un battere di ali protese e fedeli a un ordine oscuro. Adesso tu devi tradurre. Avvertiamo in questi versi il grido ferito del poeta, uno sgomento bisbigliare che sembra cercare un senso nella vita, il senso di quello che è stato e che ritorna attraverso ombre e fantasmi. L’uomo non ha parole compiute, ma solo una manciata di sillabe, l’unico mezzo per tentare di trovare delle risposte: per riuscire a capire chi sia, non può leggere dentro se stesso, ma cercare di interpretare i segni gettati impetuosamente dalla sua anima su un fogliaccio qualunque. Queste parole fedeli / a un ordine oscuro, e le emozioni cui si accompagnano, sorprendono il poeta stesso, che sente di non avere su di esse controllo alcuno: lo immaginiamo osservare, tormentato dagli spettri della sua mente, le parole vergate dalla sua mano sotto la dettatura di una Musa remota ed enigmatica, che affida a lui il compito di tradurre in significati comprensibili quei segni in cui appaiono intrappolati, tra inchiostro e carta, anche i suoi incubi. L'amore era silenzioso come una congiura nessuno sapeva se la vita era immensa oppure niente, se il tempo dilagava oltre le colline oppure un dio venerando impediva al gesto la sua crescita o impediva alle more di restare sulle labbra. Un misto di dolcezza amara e inquieta percorre questi versi dedicati all’amore, tema molto caro ai lettori più giovani perché alle prese con la scoperta di tale immenso e sfaccettato sentimento. La delicatezza dell’espressione poetica, in apparenza lieve e piana, si vena di crepe profonde (sottolineate dal ripetersi delle congiunzioni disgiuntive oppure … oppure … o), che suscitano incertezza, ansia, vertigine. Il primo manifestarsi di un sentimento d’amore viene paragonato a una congiura, un accordo segreto in virtù del quale non si è in grado di effettuare previsioni o fare progetti: si insinua di soppiatto nel nostro animo, simile all’ingannevole Cupido che nelle vesti di Ascanio/Iulo innesca nel seno di Didone la scintilla di quell’eros che si volgerà in thanatos. Il tempo di questo sentimento può quindi dispiegarsi sereno oltre i pendii dolcemente degradanti delle colline o arrestarsi d’incanto, bloccato dalla volontà imperscrutabile di un dio arcano: sembra qui di scorgere lo Zeus omerico che pesa i destini degli uomini, eternamente in bilico tra le rovine / e la ruota della fortuna. L’estasi di questo silenzioso inizio d’amore si stempera nel finale, in quella sorta di sinestesia implicita nella paronomasia amore-more che lascia sulle labbra, e nello spirito, il sapore dolce e aspro dei frutti di rovo. Ilaria Diegoli, Carolina Fiaschi, Ilenia Fioretti, Giorgia Grossi, Ilaria Minosse, Domitilla Mirti (Classe V D, Liceo classico statale M. Tullio Cicerone)