quella cosa - Produzioni dal Basso
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quella cosa - Produzioni dal Basso
In pratica, Borgo Nuovo era il lato destro di Via della Conciliazione guardando in direzione di San Pietro, mentre Borgo Vecchio era il lato sinistro, e Piazza Scossacavalli era larga quanto l’odierna Via della Conciliazione, che si estende per l’appunto fra Palazzo Torlonia e Palazzo dei Penitenzieri − lo specifico per chi non avesse avuto la ventura di sentirselo raccontare centinaia di volte. La mia famiglia era andata a stare in quella casa nei primissimi anni del secolo, doveva essere il 1901 o il 1902, quando il bisnonno Eugenio lasciò la Francia per trasferirsi a lavorare a Roma. Si portò dietro la moglie Tuta, i tre figli Vera, Vanna ed Enzo (la quarta, Zita, nascerà a Roma), nonché − ahilui − uno squadrone di sorelle e cugine della moglie, che si aggregarono tutte felici di lasciare la grigia Tours per venire a vivere al sole e a un passo dal papa. Abitavano tutti in un immenso appartamento su due livelli sito al piano terra di un vecchio edificio d’angolo − due livelli, badate bene, non due piani, perché a metà del lungo corridoio che spartiva le stanze a destra e a sinistra si apriva un varco che, saliti tre o quattro gradini, immetteva in un altro lungo corridoio e altre stanze; forse avevano unito due appartamenti contigui facenti capo a stabili diversi, chi lo sa. Mia madre entrò in quella casa più di vent’anni dopo, nell’ottobre del 1924, quando aveva un giorno di vita. Frattanto Vera, la sua mamma adottiva, era diventata una donna di trentaquattro anni cui un problema di salute aveva precluso la possibilità di avere figli; ma aveva le idee chiare, oltre a un fidanzato che avrebbe sposato di lì a poco. A quell’epoca viveva ancora coi suoi genitori − sempre loro: nonna Tuta e nonno Eugenio − e con la sorella minore, Luisita detta Zita, una bislacca figliola di vent’anni che da piccola aveva avuto la meningite ed era rimasta un po’ tocca. Oltre a un numero imprecisato di vecchiarde, ovviamente, quelle che non erano schiattate nel frattempo. La sorella Alda Giovanna, detta Vanna (come vedete, i nomi a casa nostra hanno costituito tradizionalmente un problema), si era già sposata col suo Artemio (altra perla onomastica) e vivevano per conto proprio. Vai a sapere perché, Vanna era la cocca di casa e, sebbene gliele dessero tutte vinte, ricambiava queste attenzioni con un atteggiamento sprezzante verso tutto e tutti. Il fratello gemello di Vanna, Enzo, era invece morto all’età di ventidue anni e due giorni (la precisazione era della nonna) proprio il 4 novembre del 1918 − data in cui il generale Armando Diaz inviava il famoso bollettino con cui annunciava la vittoria schiacciante dell’esercito italiano, inferiore per numero e per mezzi, sugli austro-ungarici − a causa delle conseguenze di una pallottola rimediata sa il demonio quando e dove. Nonna Vera era molto attaccata al fratello, e anche a distanza di anni non riusciva a parlarne senza dover mettere un fazzoletto sulla bocca a soffocare i singhiozzi. Viceversa, non aveva un rapporto idilliaco con Vanna − nessuno l’aveva, tranne quell’a-meba del marito quando non la faceva cornuta −, e il rapporto con Zita era quello che era: da un lato la sorella grande, matura e responsabile, dall’altro la sorella piccola e un po’ squinternata, le cui innocenti eccentricità venivano sempre scusate per quella cosa che aveva avuto da bambina. Mamma non ricordava troppo bene né la disposizione delle stanze, né il numero degli abitanti di quella casa sterminata: rammentava solo una frotta di anziane signore con lunghi grembiali neri sempre intente a impastare, sminuzzare, sbattere, friggere, rosolare, infornare e sfornare, apparecchiare e sparecchiare, lavare, stirare, pulire, rigovernare e tutti gli infiniti presenti del prontuario casalingo dell’epoca, nonché ambienti enormi immersi nell’oscurità, pesanti sbarre alle finestre, pavimenti sconnessi con mattonelle esagonali color crema e ruggine, mastelli per la biancheria, vecchi mobili polverosi e gatti che andavano e venivano − per ovvii motivi, a quei tempi nel centro di Roma non c’era una sola casa a pianterreno che non ospitasse almeno tre o quattro felini. In conclusione, sembrava più una sgangherata corte dei miracoli che un focolare domestico. In questo marasma, dunque, il problema per me non è tanto ricostruire le vicissitudini di ascendenti e discendenti della famiglia dei nonni, che sono tutti più o meno sotto controllo, quanto quelle dei collaterali. Tranquillizzatevi: non ci provo nemmeno perché non saprei da che parte incominciare − neanche mia madre sapeva con precisione quante zie vivessero con lei a Piazza Scossacavalli, e sì che aveva nove anni quando lasciò quella casa e quindi avrebbe dovuto ricordarselo. Nonna Tuta aveva tredici tra fratelli e sorelle, e questo lo so perché erano quattordici figli. Credo che le femmine fossero almeno una decina, poiché erano in netta maggioranza. Di questi quattordici figli di sangue romagnolo, uno o due rimasero a Cesena e tutti gli altri emigrarono a Tours, accompagnati da non so quanti cugini a dare manforte. Quando dopo una quindicina d’anni nonna Tuta decise di tornare in Italia perché suo marito aveva trovato un ottimo lavoro a Roma, diverse sorelle e cugine la seguirono. Una delle sorelle rimaste in Francia era la mamma di zia Dédé − ed ecco spiegata la parentela: Dédé e suo fratello Jacques (il padre naturale di mamma) erano cugini di nonna Vera (la mamma adottiva di mamma) in quanto figli di due sorelle. La differenza era che il nonno Jacques parlava l’italiano perché fino all’adolescenza aveva vissuto con sua madre, mentre la zia Dédé, rimasta orfana prestissimo, non aveva avuto il tempo d’impararlo. Ma tutte le zie di primo e di secondo grado le lasciamo al loro destino: erano tutte vedove o zitelle, e quando s’è detto che transumarono tutta la vita alle costole dei bisnonni e che morirono quando il Signore se le raccolse, s’è detto anche troppo. Alla faccia della divagazione, ho scritto un capitolo a sé. Ma ricordatevi che sto in terapia e che l’analista mi ha detto di fare ordine nelle mie idee − e se non descrivo le relazioni familiari con precisione poi mi perdo. Lost in ovulation. Mario Appelius avrebbe detto che a Roma la vita scorreva tranquilla, ma la sventura era in agguato. In realtà, la vita non scorreva affatto tranquilla, se si pensa che due mesi giusti prima della nascita di mia madre un tal Giacomo Matteotti, deputato del Regno, venne ritrovato mezzo decomposto alle porte della capitale dopo essere stato massacrato qualche settimana prima dagli squadristi inviati dal capo del governo. La scomparsa di Matteotti (intesa ancora come sparizione e non come dipartita) aveva spinto i parlamentari dell’op-posizione a ritirarsi in un salone di Montecitorio, denominato poi sala dell’Aventino da qualcuno che conosceva la storia romana meglio di tanti manager sportivi. Fu questa un’iniziativa politica efficace assai, così efficace che portò all’instaurazione del regime fascista vero e proprio sei mesi dopo, quando, cioè, tutte le organizzazioni contrarie al fascismo vennero dichiarate fuori legge. Si scrisse in seguito che l’opposizione, frammentata da innumerevoli divisioni interne, non aveva mostrato la giusta fermezza − ma non pensiate che l’au-tore della frase fosse una specie di Nostradamus: lui stava parlando di quel che era accaduto, non di quel che accadrà. La vita, dunque, non scorreva tranquilla. E la sventura? Ai fini di questa trattazione possiamo dire che ce n’era una in agguato sul fronte del riassetto urbanistico (anche se era poca cosa rispetto alla sciagura vera e propria dell’Italia di quegli anni, cominciata con la marcia su Roma il 28 ottobre del ‘22 − nonna Vera, che di 28 ottobre era nata, prendeva tutti gli anni una discreta sommetta che la premiava della felice scelta del giorno della sua nascita, come se l’avesse fissato lei stessa a mo’ di riunione di condominio; anche mia sorella Viviana nacque un 28 ottobre, ma si era già nella seconda metà degli anni Cinquanta e, grazie al cielo, simili elargizioni non avevano più ragione di esistere. Ma sto divagando). Di che parlavo? Ah, sì, delle sciagure urbanistiche. Del resto, Roma ci stava facendo il callo: solo qualche decennio prima, per erigere l’Altare della Patria era stato buttato giù l’unico quartiere medievale della città, che comprendeva il convento dell’Ara Coeli, smantellato in buona parte (talmente buona che anche lo splendido chiostro andò distrutto), la torre di Paolo III con tutto il passetto, nonché Palazzetto Venezia − e c’è da essere grati ai responsabili che altre torri quattrocentesche siano scampate al massacro. Ma di questo eccidio fu responsabile un premier di sinistra, come diremmo oggi, che in tutto si trasformò fuorché in un oculato curatore dei beni architettonici del Regno. E prima di arrivare allo sventramento di Borgo, bisognerà assistere impotenti − fra gli altri − ai lavori di demolizione di Largo Argentina e Piazza Augusto Imperatore, nonché allo spianamento del colle Velia, la cui unica colpa fu quella di oscurare la vista del Colosseo dal balcone di Piazza Venezia − e fortuna che Mussolini non risiedeva a Cavalleggeri altrimenti, per assicurarsi il colpo d’occhio sulla Roma imperiale, avrebbe raso al suolo pure il Gianicolo. Ciò premesso, che nessuno azzardi spericolati accostamenti fra le prodezze urbanistiche del fascio e i grands travaux del barone Haussmann a Parigi se no attacco una digressione che non finisce più − uomo avvisato, mezzo divagato. Parlavo di sventura in agguato sul fronte del riassetto urbanistico perché a un certo punto il Duce, non pago di prendere a mazzate gli avversari, cominciò a picconare pure i quartieri del centro storico della capitale (e poi ogni tanto salta su qualche zelantone che vorrebbe dedicare una strada a Mussolini − personalmente, più che una via gli intitolerei un pussa via. Ma dello scempio perpetrato a Borgo fu responsabile anche Pio XI). Mentre mi documentavo su internet per cercare conferme ai miei ricordi, mi sono resa conto di un errore che ho sempre fatto. Mia madre ha raccontato innumerevoli volte la storia della distruzione della spina di Borgo, vera spina nel fianco per una nostalgica come lei, situandola sempre nel 1933. Difatti, mamma fece la prima comunione in quell’anno, e la foto presa quel giorno la ritrae sottobraccio alla nonna mentre esce dalla casa in cui abito attualmente, sicché l’appartamento di Piazza Scos-sacavalli a quell’epoca l’avevano già lasciato. E che l’anno della prima comunione fosse il 1933 è appurato: è quanto risulta dall’im-mancabile santino raffigurante da un lato un’immagine di Gesù che porge un giglio a una bambina inginocchiata, e dall’altro il nome di mia madre seguito dalla data e dalla preghierina d’uso. Ora, mentre controllavo la toponomastica di Borgo, cosa ti scopro? Che Mussolini assestò la picconata inaugurale non nel 1933 ma nel 1936, mostrandosi alla folla osannante dalla sommità di uno dei tetti delle case della spina che sarebbero state abbattute nei mesi seguenti (case o trebbiatrici, quando quello poteva farsi riprendere troneggiante in piedi sopra qualche cosa era tutto contento − ma in quell’occa-sione, bontà sua, risparmiò agli astanti lo spettacolo del torso nudo). A questo punto, non avendo motivo di dubitare di Wikipedia (anche perché quando ho scritto questo capitolo non andavano girando disdegni di legge che impattano sull’informazione virtuale − per la serie De postumae postillae), né delle foto che circolano in rete e che ritraggono Mussolini il 20 giugno 1936 davanti al plastico della erigenda via della Conciliazione col solito codazzo di gerarchi, devo dedurre che sono io che mi sbaglio. E dire che sono sempre stata convinta che la spina fosse stata buttata giù tre anni prima perché non solo mamma, ma anche i suoi amici borghiciani − su tutti, Ada, Enrica, Mario e Valeria − parlavano del 1933 come dell’annus horribilis del loro quartiere e della loro infanzia. Ma credo di aver capito quel che successe: visto che dell’abbattimento della spina si parlava già da anni (i progetti originari risalivano addirittura alla fine del XVII secolo, senza contare che già se ne accennava nel piano regolatore del 1873), è probabile che i nonni abbiano anticipato il trasferimento coatto cercando un appartamento più luminoso e più adatto alle esigenze della nuova famiglia, che una morìa aveva di recente decimato mandando agli alberi pizzuti i membri più senescenti − nel giro di pochi mesi ne morirono tre, e si pensò seriamente di affittare una stanza di casa all’agenzia di pompe funebri Raveggi per il più veloce disbrigo delle pratiche. Questa ipotesi sarebbe inoltre suffragata dal fatto che i nonni riuscirono con facilità a trovare due appartamenti contigui nel vicino quartiere di Cavalleggeri, al di là del colonnato di San Pietro e del Sant’Uffizio, dove erano sorti diversi palazzi un po’ austeri ma funzionali, mentre invece la maggior parte della popolazione della spina, e in particolare coloro che avevano aspettato di vedere i picconi all’opera prima di mettersi a cercare casa, fu obbligata a trasferirsi nella periferia ovest di Roma, nel neonato quartiere di Primavalle. I romani, si sa, hanno il brutto vizio di aspettare fino all’ultimo che accada il miracolo, dopodiché, una volta superata la delusione per la mancata intercessione divina, si mettono in moto e fanno quello che devono fare. Fu così che agli inizi del 1933 la mia famiglia traslocò nei due appartamenti al quinto piano di uno dei palazzi meno belli e più imponenti del quartiere di Cavalleggeri: l’appartamento piccolo, con cinque locali, lo prese quella gradassa della zia Vanna, che doveva mostrare all’universo creato quanto era divenuta ricca nel frattempo − poco prima dell’Anno Santo del 1925 il padre l’aiutò ad aprire un negozio di souvenir in Piazza Rusticucci (nel Palazzo omonimo, dalla parte di Borgo Nuovo), negozio che una volta costruita la nuova arteria della Conciliazione fu ricollocato in posizione strategica, ma dal lato opposto della via, assicurando agli zii, e soltanto a loro, una notevole agiatezza economica (i soldi sono come i dolori, diceva nonna Tuta: chi ce li ha, se li tiene). L’appartamento di zia Vanna comprendeva una grande terrazza privata: per andarci bisognava salire al sesto piano, aprire la porta a due battenti collocata al centro del pianerottolo, passare per una grande stanza che − perlomeno all’epoca della mia infanzia − odorava di polvere e muffa, e che conteneva annate su annate di giornali e riviste, oltre a centinaia di numeri del Touring Club Italiano con le pagine patinate tutte attaccate, e infine aprire due enormi persiane verdi che si spalancavano dritte sulla cupola di San Pietro, con effetto assai suggestivo. Sulla parete di sinistra del pianerottolo, una porticina dipinta di verde scuro immetteva nella parte condominiale della terrazza: qui si veniva a lavare il bucato, nelle fontane poste all’interno di un casotto che si ergeva in un angolo, e qui si stendevano i panni appena lavati su lunghi fili che zigzagavano su buona parte della superficie scoperta. I nonni presero invece l’appartamento grande, con nove locali più una cucina enorme e uno sgabuzzino cieco che, da solo, misurava oltre venti metri quadrati e che doveva servire anche da cantina, visto che quei palazzi non avevano piani interrati. Più che grande, era (ed è) enorme ma, del resto, agli inizi degli anni Trenta la mia famiglia era ancora piuttosto numerosa: nonna Vera era già maritata con nonno Gianni, c’erano ancora i suoi genitori, la sorella piccola, mia mamma, la balia di mia mamma, Rosina, che era rimasta in famiglia anche dopo aver portato a termine lo svezzamento, e sua figlia Mariuccia, che in quel periodo aveva tredici anni o giù di lì, più non so quali e quante superstiti fra le sorelle e cugine di nonna Tuta, credo ne andassero girando ancora quattro o cinque. Per creare un filo diretto con il livello stradale, che non era mai stato così lontano, nonna Tuta (orrendo diminutivo del bellissimo Gertrude: quella storia del pane e dei denti è verissima) si munì di una grande cesta dotata di venti metri di corda, che calava dalle finestre di casa a mo’ di posta pneumatica per mandare o ricevere le cose più disparate divertendosi come una ragazzina. Cominciò così una nuova era per la mia famiglia, le cui giornate cominciarono a essere allietate da tre ospiti fino ad allora sconosciuti: la luce, il sole e la cupola di San Pietro, che svettava dalle finestre di un lato dell’appartamento. La zia Vanna, dal canto suo, viveva dall’altro lato del pianerottolo col marito e i suoceri, ma aveva confinato questi ultimi nella dispensa, una cameretta cui si accedeva dalla cucina e che prendeva luce da una finestrella a vasistas piazzata su in alto vicino al soffitto. Erano due vecchietti deliziosi e pulitissimi, che spesso venivano a trovare i loro consuoceri Tuta ed Eugenio nell’appartamento di fronte per farsi quattro chiacchiere − in realtà erano molto discreti, e non sarebbero venuti così spesso a casa nostra se la zia Vanna non li avesse obbligati a farlo nei pomeriggi in cui organizzava le sue partite di bridge, e questo perché si vergognava di loro con le sue amiche. E credetemi, erano davvero persone discrete: mai una parola sulle angherie che pativano a causa della nuora, e sulle quali scriverei un capitolo a parte se solo servisse ai fini della mia terapia. Ma ve le risparmierò per due motivi: primo perché non mi credereste, e secondo perché sono tutt’altro che divertenti. Per darvene un’idea, vi dirò solo che Vanna non per-metteva ai suoceri di mangiare con lei in sala da pranzo perché le faceva impressione il fatto che portassero la dentiera, e che li faceva lavare nel bagno di servizio − dove c’era giusto un lavandino − perché non voleva che usassero la sua vasca. Se c’è un inferno da qualche parte, state pur sicuri che lei sta lì ad arrostirsi le terga. Spero che siate riusciti a mettere a fuoco l’intreccio di parentele su cui si fonda la mia famiglia perché ora ho bisogno di tutta la vostra attenzione: sto per cominciare la descrizione della casa. Per me è facile: non ho manco bisogno di spostarmi per le varie stanze col piccì al seguito poiché, essendo vissuta qua dentro per più di mezzo secolo, potrei muovermi per casa pure con una benda sugli occhi. Mi auguro che sia altrettanto facile per voi ma, non fidandomi delle mie capacità descrittive, vi allego a ogni buon conto una piantina dell’appartamento che ho fatto io stessa ricalcandola su quella catastale – visto che l’ha fatto pure Tomasi di Lampedusa nei suoi Ricordi d’infanzia, nessuno potrà accusarmi di essere un’originaloide.