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Sergio Momesso
22 December 2013
TABLE OF CONTENTS
Roger Fry, il Presepe di Giotto ...................................................................... 2
Antonio Tabucchi, Beato Angelico ................................................................ 4
Strozzi e Michelangelo, La Notte ................................................................... 6
William Blake, Paolo e Francesca (Dante, Inferno) ....................................... 9
Marcel Proust, la Veduta di Delft di Vermeer .............................................. 14
Antonio Tabucchi, il sogno di Caravaggio ................................................... 16
Muriel Barbery, una Natura morta di Pieter Claesz ..................................... 20
Ramón Gómez, il Ritratto di padre Paravicino di El Greco (e A. Venturi, il
Ritratto di domenicano di Tiziano) ..............................................................
Benedetto Croce, il Cristo velato di Sanmartino .........................................
Andrea Camilleri, il Lazzaro di Caravaggio ..................................................
Cristina Campo, le Cortigiane di Carpaccio .................................................
Henry James, Tintoretto a San Cassiano .....................................................
Italiani nemici dell’arte ...............................................................................
Sull’attribuzione: altre letture .....................................................................
Sull’attribuzione: la storia di Castelnuovo ...................................................
Sull’attribuzione: la lezione di Romano .......................................................
Sull’attribuzione: il messaggio di Previtali ..................................................
Roberto Longhi e l’arte dell’ekphrasis ........................................................
Come si attribuisce un quadro? ..................................................................
“Antologia”: Caravaggio secondo Roberto Longhi ......................................
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Roger Fry, il Presepe di Giotto
Giotto e collaboratori, Presepe di Greccio, 1290–1292 circa, Assisi, Basilica superiore di San Francesco
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Presepio di Greccio, e, al tempo stesso, tentiamo di metterci nei panni dello
spettatore dell’epoca, ciò che colpisce immediatamente e offre l’impressione
più notevole è la sua realtà. Ecco infine, dopo tanti secoli di stretta imitazione
delle forme tradizionali, tramandate da un’arte pagana ormai agonizzante, secoli durante i quali queste astrazioni si erano staccate dalla vita del tempo,
ecco finalmente un artista che offre una scena così come doveva essere accaduta, e in cui son rese, con evidenza e alla lettera, tutte le particolarità. La
scena dell’Istituzione del Presepio è raffigurata in una piccola cappella divisa
dal corpo della chiesa da una parete di marmo. Il pulpito e il Crocifisso si vedono perciò di dietro, quindi il secondo è inclinato verso la chiesa e dalla cappella mostra soltanto le assicelle di legno e i sostegni del dorso. Il leggio del
coro, nel centro, è disegnato con tutti i particolari, perfino quelli delle viti e
delle connessure, mentre i costumi degli astanti sono i semplici abiti ordinari
che si usavano a quel tempo. La ricerca della realtà non potrebbe essere
spinta oltre.
Quando, alcuni anni fa, un pittore francese dipinse la scena di Cristo nella
casa del Fariseo, con i personaggi in abito da sera, suscitò le più vibranti proteste e produsse, per un certo tempo, confusione e stupore. Dico questo non
per suggerire una reale analogia fra le opere dei due artisti, ma semplicemente per affermare che l’innovazione operata da Giotto deve aver suscitato lo stesso stupore nei suoi contemporanei. E quello di Giotto non fu, come
quello di Béraud, un succès de scandale; al contrario, si riconobbe immediatamente che esso veniva a soddisfare una necessità avvertita fin da quando
la leggenda di san Francesco, che apparteneva al loro tempo e alla loro nazione, era stata assunta dagli italiani nella loro mitologia».
Presepio […] è anche un esempio del suo talento [di Giotto] nell’esternare la
situazione psicologica: in questo caso specifico, il brivido improvviso che percorre un’assemblea in un momento di straordinaria esaltazione. Esso descrive
la prima rappresentazione della Natività istituita a Greccio da San Francesco;
è il momento in cui egli prende la statuina del Bambin Gesù fra le braccia, e
all’estatica immaginazione dei presenti essa appare, per un istante, trasformata in un bimbo vivo di trascendente bellezza. I monaci, nel fondo, stanno
ancora cantando le laudi (si può quasi individuare quale nota ciascuno stia
emettendo, tanto perfetto è il possesso che Giotto ha dell’espressione dei
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visi), ma i più vicini e il sacerdote sono rapiti nella contemplazione di San
Francesco e del Bambino».
Roger Fry, GiottoVision and Design, London 1920, pp. 96, 100–101)
— ringraziamo Giovanni Lacorte per la segnalazione e la preparazione del testo.
Antonio Tabucchi, Beato Angelico
Fra Angelico, Annunciazione, circa 1438–1447, Firenze, Convento
di San Marco
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I volatili del Beato Angelico
Così passò quella settimana, Fra’ Giovanni, dipingendo e dimenticandosi perfino di mangiare. Aggiunse un’altra figura in un affresco già completato,
quello della trentaquattresima cella, dove aveva già dipinto il Cristo
dell’orazione nell’Orto. La pittura sembrava già completa, come se non ci
fosse più spazio; però trovò un angolino sopra gli alberi di destra e lì dipinse il
libellulone che aveva il volto della Nerina, con le sue ali traslucide e dorate; e
in mano gli mise un calice, affinché lo offrisse a Cristo.
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Poi, per ultimo, dipinse il volatile che era arrivato per primo, e scelse il muro
del corridoio del primo piano, perché voleva una parete ampia con una buona
prospettiva. Prima dipinse un portico, con colonne e capitelli corinzi, e poi lo
scorcio di un giardino chiuso da una palizzata. E infine mise in posa il volatile,
in posizione genuflessa, appoggiandolo a uno scanno perché non cadesse; gli
fece incrociare le mani sul petto in atteggiamento reverenziale e gli disse: “ti
coprirò con una tunica rosa, perché hai un corpo troppo brutto, la Vergine la
disegnerò domani, tu resisti questo pomeriggio, e poi potete ripartire: sto facendo un’Annunciazione”.
La sera aveva finito. Stava calando il crepuscolo e sentiva una certa stanchezza. E anche la malinconia che danno le cose quando sono finite e ormai
non c’è più niente da fare e il tempo è passato».
Antonio Tabucchi, Donna di Porto Pim, Notturno indiano, I volatili del Beato
Angelico, Sogni di sogni, introduzione di Paolo Mauri, Sellerio editore, Palermo
2013, pp. 173–174.
Fra Angelico, The Annunciation, c. 1438–47, Florence, Convent of San
Marco, fresco, 230 x 321 cm
Link: Fra Angelico, The Annunciation — Video | Khan Academy
Strozzi e Michelangelo, La Notte
Sopra La Notte del Buonarroto, di Giovanni Strozzi
La Notte che tu vedi in sì dolci atti
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dormir, fu da un Angelo scolpita
in questo sasso, e, perché dorme, ha vita:
destala, se nol credi, e parleratti.
Risposta del Buonarroto
Caro m’è ‘l sonno, e più l’esser di sasso,
mentre che ‘l danno e la vergogna dura;
non veder, non sentir, m’è gran ventura;
però non mi destar, deh, parla basso.
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Michelangelo Buonarroti, Notte, particolare, 1526–1531, Firenze, Chiesa di
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San Lorenzo, Sacrestia Nuova (Photo: Hilde Lotz-Bauer) — Intero.
—
Michelangiolo Buonarroti, Rime, a cura di Enzo Noè Girardi, Bari, Laterza 1960
(“Scrittori d’Italia”), pp. 117, 403 (cfr. anche l’ed. Guasti, 1863). Vedi anche
Charles Baudelaire, L’Idéal, in Fleurs du mal, Paris 1857.
William Blake, Paolo e Francesca
(Dante, Inferno)
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William Blake, Il cerchio dei Lussuriosi: Francesca da Rimini (The
Whirlwind of Lovers), 1824–1827 circa, Birmingham, City Museum
and Art Gallery, matita, inchiostro e acquerello su carta, 368 x
522 mm
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di su li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;
genti che l’aura nera sì gastiga?».
tu vuo’ saper», mi disse quelli allotta,
A vizio di lussuria fu sì rotta,
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che libito fé licito in sua legge,
per torre il biasmo in che era condotta.
Ell’è Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che ’l Soldan corregge.
L’altra è colei che s’ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussuriosa.
Elena vedi, per cui tanto reo
tempo si volse, e vedi ’l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch’amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e ’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
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cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
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Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.
[…]»
Dante Alighieri, Inferno, Canto V, vv. 31–138.
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Marcel Proust, la Veduta di Delft di
Vermeer
Veduta di Delft di Vermeer (prestata dal museo dell’Aja per una mostra di pittura olandese), quadro ch’egli adorava e credeva di conoscere alla perfezione, un piccolo lembo di muro giallo (di cui non si ricordava) era dipinto
così bene da far pensare, se lo si guardava isolatamente, a una preziosa
opera d’arte cinese, d’una bellezza che poteva bastare a se stessa, Bergotte
mangiò un po’di patate, uscì di casa e andò alla mostra. Sin dai primi gradini
che gli toccò salire, fu colto da vertigini. Passò davanti a parecchi quadri ed
ebbe l’impressione dell’aridità e inutilità di una pittura così artificiosa, che
non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia o di una semplice casa in riva al mare. Alla fine, fu davanti al Vermeer, che ricordava più
smagliante, più diverso da tutto quanto conoscesse, ma nel quale, grazie
all’articolo del critico, notò per la prima volta dei piccoli personaggi in blu, e
che la sabbia era rosa, e – infine – la preziosa materia del minuscolo lembo di
muro giallo. Le vertigini aumentavano; lui non staccava lo sguardo, come un
bambino da una farfalla gialla che vorrebbe catturare, dal prezioso piccolo
lembo di muro. “È così che avrei dovuto scrivere, pensava. I miei ultimi libri
sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia
frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo.” Tuttavia, la gravità delle vertigini non gli sfuggiva. In una celeste bilancia gli appariva, ammucchiata su uno dei due piatti, la sua propria vita, mentre l’altro conteneva
il piccolo lembo di muro così ben dipinto in giallo. Sentiva d’aver dato, incautamente, la prima per il secondo. “Non vorrei comunque diventare, si disse, il
fatto saliente di questa mostra per i giornali della sera.” Mentre si ripeteva:
“Piccolo lembo di muro giallo con tettoia, piccolo lembo di muro giallo”, crollò
su un divano circolare; non meno bruscamente smise di pensare che era in
gioco la sua vita e, tornando all’ottimismo, rifletté: “È una semplice indigestione, per via di quelle patate non abbastanza cotte; non è niente”. Un
nuovo colpo l’abbatté, dal divano rotolò per terra, facendo accorrere tutti i visitatori e i guardiani. Era morto. Morto per sempre ? Chi può dirlo? Certo, le
esperienze spiritiche non forniscono – non più dei dogmi religiosi – alcuna
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prova che l’anima sussista. Quello che si può dire è che tutto, nella nostra
vita, avviene come se vi fossimo entrati con un fardello di obblighi contratti in
una vita anteriore; non vi è nessuna ragione, nelle nostre condizioni di vita su
questa terra, perché ci sentiamo obbligati a fare il bene, a essere delicati o
anche soltanto educati, né perché un artista ateo si senta obbligato a ricominciare venti volte qualcosa che susciterà un’ammirazione così poco importante per il suo corpo divorato dai vermi, come il lembo di muro giallo dipinto
con tanta sapienza e raffinatezza da un artista per sempre ignoto, identificato
appena sotto il nome di Vermeer».
Marcel Proust, La Prigioniera, in Alla ricerca del tempo perduto, traduzione di
Giovanni Raboni, volume terzo, Mondadori, Milano 1989, pp. 586–588 [edizione originale francese: Parigi 1923].
Johannes Vermeer, Veduta di Delft, 1660–1661 circa, L’Aia,
Mauritshuis
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Johannes Vermeer, Veduta di Delft, particolare, 1660–1661 circa,
L’Aia, Mauritshuis (Photo: Essential Vermeer)
Antonio Tabucchi, il sogno di
Caravaggio
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Caravaggio, Vocazione di san Matteo, particolare, 1599–1600, Roma, Chiesa
di San Luigi dei Francesi
Sogno di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, pittore e uomo iracondo
Ma il volto del Cristo era inflessibile, senza scampo. E la sua mano tesa non
lasciava spazio a nessun dubbio. Michelangelo Merisi abbassò la testa e
guardò il denaro sul tavolo. Ho stuprato, disse, ho ucciso, sono un uomo con
le mani lorde di sangue.
Il garzone dell’osteria arrivò portando fagioli e vino. Michelangelo Merisi si
mise a mangiare e a bere. Tutti erano immobili, vicino a lui, solo lui muoveva
le mani e la bocca come un fantasma. Anche il Cristo era immobile e tendeva
la sua mano immobile col dito puntato.
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Caravaggio, Vocazione di san Matteo, particolare, 1599–1600,
Roma, Chiesa di San Luigi dei Francesi
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Caravaggio, Vocazione di san Matteo, 1599–1600, Roma, Chiesa
di San Luigi dei Francesi
Michelangelo Merisi si alzò e lo seguì. Sbucarono in un vicolo sudicio, e Michelangelo Merisi si mise a orinare in un canto tutto il vino che aveva bevuto
quella sera.
Dio, perché mi cerchi?, chiese Michelangelo Merisi al Cristo. Il figlio dell’uomo
lo guardò senza rispondere. Passeggiarono lungo il vicolo e sbucarono su una
piazza. La piazza era deserta.
Sono triste, disse Michelangelo Merisi. Il Cristo lo guardò e non rispose. Si sedette su una panchina di pietra e si tolse i sandali. Si massaggiò i piedi e
disse: sono stanco, sono venuto a piedi dalla Palestina per cercarti.
Michelangelo Merisi stava vomitando appoggiato al muro di un cantone. Ma io
sono un peccatore, gridò, non devi cercarmi.
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Il Cristo si avvicinò e gli toccò un braccio. Io ti ho fatto pittore, disse, e da te
voglio un dipinto, dopo puoi seguire la strada del tuo destino.
Michelangelo Merisi si pulì la bocca e chiese: quale dipinto?
La visita che ti ho fatto stasera nella taverna, solo che tu sarai Matteo.
D’accordo, disse Michelangelo Merisi, lo farò. E si girò nel letto. E in quel momento la prostituta lo abbracciò russando».
Antonio Tabucchi, Sogni di sogni, in Donna di Porto Pim. Notturno indiano. I
volatili del Beato Angelico. Sogni di sogni, introduzione di Paolo Mauri, Sellerio
editore, Palermo 2013, pp. 242–243 [prima edizione: 1992].
Muriel Barbery, una Natura morta di
Pieter Claesz
Sono una fervida appassionata di nature morte. In biblioteca ho preso in prestito tutte le pubblicazioni del fondo di pittura per dare la caccia a qualsiasi
opera appartenente a questo genere. Ho visitato il Louvre, il Musée d’Orsay, il
museo d’Arte moderna e ho visto – rivelazione e incanto – la mostra su Chardin del 1979 al Petit Palais. Ma l’opera omnia di Chardin non vale un solo caposaldo della pittura olandese del XVII secolo. Le nature morte di Pieter Claesz,
di Willem Claesz Heda, di Willem Kalf e di Osias Beert sono i capolavori del
genere – semplicemente dei capolavori, per i quali senza un attimo di esitazione cederei tutto il Quattrocento italiano.
Ebbene, questo, sempre senza esitazioni, è indubbiamente un Pieter Claesz».
Muriel Barbery, L’eleganza del riccio, traduzione di Emmanuelle Caillat e Cinzia Poli, Edizioni e/o, Roma 2007, pp. 192–193 (titolo originale: L’élégance du
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hérisson, Editions Gallimard, Paris 2006).
Pieter Claesz by Kevin Best — Flickr
Ramón Gómez, il Ritratto di padre
Paravicino di El Greco (e A. Venturi, il
Ritratto di domenicano di Tiziano)
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Domenikos Theotokopoulos detto El Greco, Ritratto di fra Hortensio Félix Paravicino, 1609, Boston, Museum of Fine Arts, tela, 112,1 x 86 cm
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Tiziano Vecellio, Ritratto di domenicano nelle vesti di San Vincenzo Ferrer,
1565 circa, Roma, Galleria Borghese, tela, cm 92 x 78
Tonsurato, col viso illuminato di parole, il padre Paravicino andava a trovare
El Greco, a contemplare i quadri nei quali Domenico, attraverso la pittura, vo-
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leva trovare l’essenza sottile dei sogni, l’ansietà poetica, la pazzia
dell’immortalità.
Sul viso del padre Paravicino, tonsurato in maniera non comune, trasparivano
le veglie e le penitenze e oltre a queste le sue preoccupazioni poetiche, i suoi
desideri di scultore retorico; la poesia ricompensava le sue insonnie di monaco.
El Greco ammirava la combattiva ispirazione del frate rinchiuso nella fortezza
della teologia e sognatore di poesia. Vedeva il suo desiderio di sciogliersi
dalla camicia di forza degli abiti e quello ancora più forte di continuare a esserne soggiogato, stretto dal gravoso allentato sudario dentro al quale il
corpo viveva sacrificato.
L’artista non si diede pace finché non l’ebbe fatto sedere su uno dei suoi seggioloni frateschi e non ne ebbe dipinto la pallida e bruna febbre, dando risalto
alla testa sopra il cappuccio bianco che gli ricadeva sulle spalle, mentre la
mantellina e la pellegrina nere facevano contrasto non solo col rovescio
bianco del cappuccio, ma anche con la veste bianca, dove era dipinta la croce
del suo ordine.
Nel farsi ritrarre, il frate teme la tentazione della pittura e diffida
dell’immortalità senza rinunzie che s’ottiene facendosi perpetuare da una
mano maestra.
El Greco frattanto voleva cogliere questa curiosa estasi del poeta, questo suo
sforzarsi di afferrare la luce del pittore del quale il frate era sempre stato un
grande ammiratore.
Volle dargli quest’espressione per sempre, volle dargli gli occhi che vedessero
lo spettacolo dell’avvenire.
Non volendo smentire la fama di studioso e di erudito del poeta, gli pose vicino un grosso libro e sopra questo un altro più piccolo dove, con un dito della
mano sinistra, il poeta mostra il punto che stava leggendo quando il pittore lo
distrasse.
L’altra mano è un poema del Greco, che volle lasciarle quello stanco abbandono proprio alla mano dello scrittore quando si ferma per riposare, in atteggiamento particolare, quasi non avesse fatto nulla, in penitente modestia,
non preoccupandosi se l’inchiostro color sangue gli è rimasto sulle dita.
Non vuole contorsioni, la mano dello scrittore, quando è inoperosa. Vuol essere perdonata, dichiararsi innocente, colmarsi di pura modestia.
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Missionario di poesia, dipinto con nere macchie fuligginose, vuole sollevarsi
dalla nera sporcizia per ascendere a luci incandescenti.
Perseguitato da selvagge incertezze, lo si vede alla ricerca del sonetto ideale,
anch’esso emblema dell’arte come una buona scultura o un buon quadro.
Arde in proibizioni di convento e visioni di grazie. Sta fra l’audacia e il pentimento. Soffre sulla sua seggiola come in un inferno, è un condannato in abito
di carcerato, combattuto fra il desiderio di lodare il mondo e la passione di
convertire questo desiderio in simbolo religioso.
È il ritratto del Greco nel quale c’è più incertezza e meno irritata fermezza. Il
poeta ode altra musica oltre quella che accompagna il canto fermo, ed è la
musica che risuona negli altri ritratti; qui essa s’incanta di colpo, si disperde
in molteplici direzioni.
Più che un ossesso egli è uno speranzoso. Guarda i piedi che danzano nel futuro, le danzanti ore dell’avvenire. La stanza che vede non è quella del Greco.
Uno scenario rotante appare ai suoi occhi. Ma egli scorge l’assoluto ideale di
bellezza che sarà oggetto di tutti gli sguardi fissi, quando lo spirito coincida
con la felicità […]».
Ramón Gómez de la Serna, El Greco visionario illuminato [titolo originale: El
Greco. El visionario de la pintura, Madrid 1935], traduzione italiana di Enrico
Miglioli [1955], Abscondita, Milano 2005, pp. 96–98.
Venere che benda Amore, ove la ninfa con l’arco, più dell’altra lontana,
avanza verso la dea come nube accesa al tramonto; e par che il volto non di
carne si formi, non di colore, ma dei vapori di un incendio, nella gran fiamma
del cielo. Polvere iridescente son le alette degli amori: e sembra che al sol
tocco di un dito debba sfaldarsi quel lieve tessuto di luce.
Ugualmente sfioccato è il tessuto argenteo del camice di San Domenico, nella
sala della Galleria Borghese, ove è il quadro di Venere che benda Amore. A
mezza figura il monaco, chiuso nella cappa nera, con l’indice teso, si volge,
come dall’alto di un pergamo, alla folla. E vive in un’atmosfera greve, di un
grigio affocato, la figura d’inquisitore, schiacciata quasi dai bagliori di rogo,
fanatica, con occhi febbrili e cupi».
Adolfo Venturi, Storia dell’arte italiana, IX. La pittura del Cinquecento, Parte
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III, Ulrico Hoepli, Milano 1928, pp. 365–377.
Tiziano Vecellio, Ritratto di domenicano nelle vesti di San Vincenzo
Ferrer, 1565 circa, Roma, Galleria
Borghese, tela, cm 92 x 78
Domenikos Theotokopoulos
detto El Greco, Ritratto di fra
Hortensio Félix Paravicino, 1609,
Boston, Museum of Fine Arts,
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tela, 112,1 x 86 cm
Tiziano Vecellio, Ritratto di domenicano nelle vesti di San Vincenzo Ferrer, particolare, 1565
circa, Roma, Galleria Borghese
Domenikos Theotokopoulos detto
El Greco, Ritratto di fra Hortensio
Félix Paravicino, particolare,
1609, Boston, Museum of
27
Fine Arts
Tiziano Vecellio, Ritratto di domenicano nelle vesti di San
Vincenzo Ferrer, particolare,
1565 circa, Roma, Galleria
Borghese
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Domenikos Theotokopoulos detto El
Greco, Ritratto di fra Hortensio Félix
Paravicino, particolare, 1609, Boston,
Museum of Fine Arts
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Domenikos Theotokopoulos detto El Greco, Ritratto di fra Hortensio
Félix Paravicino, particolare, 1609, Boston, Museum of Fine Arts
Tiziano Vecellio, Ritratto di domenicano nelle vesti di San Vincenzo
Ferrer, particolare, 1565 circa, Roma, Galleria Borghese
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Benedetto Croce, il Cristo velato di
Sanmartino
Cristo morto, trasparente sotto un velo di marmo, e che vi lavorò una vita intera, fece cavare gli occhi, affinché non eseguisse mai per altri così straordinaria scultura».
Benedetto Croce, Leggende di luoghi ed edifizi di Napoli, in Storie e leggende
napoletane, a cura di Giuseppe Galasso, Adelphi, Milano 1990 (edizione consultata: ottava edizione, Gli Adelphi 156, Milano 2010, pp. 327–328).
Giuseppe Sanmartino, Cristo velato, 1753, particolare, Napoli,
Cappella Sansevero
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Andrea Camilleri, il Lazzaro di
Caravaggio
Stando ne lo migliore salone de l’Hospitale de l’Ordine de’ Crociferi, capitommi alquante volte di veder uno morto esser da doi facchini portato a lo
seppellimento.
Secoloro accordatomi, appena che ne fue occasione li facchini uno morto portoronmi in salone e tutta la notte lo ressero come io volli nel mentre che lo dipignea.
Non è cosa vera quel che si disse e cioè l’averne fatto disseppellire uno che
da molti jorni sotterra si giacea e tanto fetea che li becchini che dovean tenerlo non resistevano a lo fetore e volean abandonare l’atto…
[…] Lazzari [il committente] dissemi che a lui assaissimo erali piaciuta la dipintura ma che pareagli quello Lazzaro malvolentieri acconciarsi alla resurrezione et alla novella vita che l’attendea. Domandatamene la cagione, resposegli che forse per Lazzaro la morte essere stata potea una liberazione da li
mali di questa terra. E che quindi tornar a vivere per lui non era piacevol
cosa.
Lo Priore de’ Cavalieri […] domandommi ancora perché me stesso avea ritratto nella dipintura non solo in atto di non esser commosso da lo miracolo,
ma addirittura con l’occhi altrove. Io disseli ancora che già isguardava a la
mia seconda o terza resurrezione che più non sapea quante occorse ne
sarebbono…».
Andrea Camilleri, Il colore del sole, Mondadori, Milano 2007, pp. 97–99.
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Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609, Messina,
Museo Regionale.
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Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609, particolare, Messina, Museo Regionale.
Cristina Campo, le Cortigiane di
34
Carpaccio
Cristina Campo, Parco dei cervi, in Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 2002
(prima ed.: Milano 1987)
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Vittore Carpaccio, Cortigiane (Due dame veneziane), 1490–1495 circa, Ve-
36
nezia, Museo Correr, tavola, cm 94 x 64 cm (pannello frammentario, parte
inferiore della Caccia in laguna, Los Angeles, J. Paul Getty Museum - ricostruzione).
Henry James, Tintoretto a San
Cassiano
Henry James, Compagni di viaggio, in Racconti italiani, traduzione a cura di
Maria Luisa Castellani Agosti, note ai testi di Maurizio Ascari, Edizioni Einaudi,
Torino 1996, p. 31 (prima edizione: 1870).
37
Jacopo Tintoretto, Crocifissione, 1568, Venezia, Chiesa di San Cassiano, tela, cm 341 x 371.
Italiani nemici dell’arte
Solo un consiglio di lettura per il fine settimana.
38
Malgrado si sia data le leggi migliori del mondo, oggi l’Italia maltratta l’arte: è
stranamente diventata un Paese ignorante e regredito dove prevalgono
l’incultura e l’indifferenza verso la devastazione del paesaggio e
dell’ambiente. È dunque necessario che sia il mondo a difendere il patrimonio
artistico e naturale dell’Italia?
n Europa e nel mondo si moltiplica oggi il dibattito sul ruolo che deve giocare
il patrimonio culturale nella società del futuro. La questione del patrimonio è
particolarmente presente nell’agenda culturale e politica in Italia in ragione
della cieca politica di drastici tagli al budget per la cultura, della privatizzazione del patrimonio culturale e dell’alleggerimento degli enti pubblici di tutela che caratterizza l’attuale Governo. Io credo comunque che l’osservatorio
italiano su questo tema abbia una grande importanza, anche fuori dall’Italia,
in ragione della convergenza di tre caratteristiche storiche: l’altissima densità
del patrimonio in situ in Italia, il suo intimo legame con il paesaggio e infine
perché è in Italia (per la precisione negli Stati precedenti all’unificazione politica del Paese) che le più antiche regole di salvaguardia del patrimonio hanno
visto la luce.
Intendiamoci sulla definizione più aggiornata di patrimonio.
Continua…»
39
[di Salvatore Settis, da Il Giornale dell’Arte numero 324, ottobre 2012]
Sull’attribuzione: altre letture
L’antologia sull’attribuzione raggiunge oggi la quarta e ultima puntata. Dopo
avere dato spazio ai testi di Previtali, Romano e Castelnuovo, chiudiamo con
un breve ed essenziale elenco di letture che, a nostro avviso, consente di approfondire il panorama delineato con i testi delle puntate precedenti. Qualcosa si è già cominciato a suggerire nelle note alla ricostruzione storica di
40
Castelnuovo.
Non è, certo, una bibliografia sistematica ed esauriente. Non ne abbiamo il
tempo e tanto meno la pretesa. Si tratta solo di una scelta ristretta di strumenti che hanno dato un grande contributo alla riflessione su questo argomento e che hanno il raro pregio di lasciarsi comprendere con una certa facilità. Vengono ora proposti pensando soprattutto a chi, schivando il clamore
mediatico, vorrebbe esercitarsi a leggere le opere d’arte e cominciare a capirne la complessità a partire proprio da quell’attività che implica la lettura di
un testo figurativo nei suoi elementi di stile e che qualche volta, in questo
modo, giunge a proporre un nome a oggetti che ne sono sprovvisti.
Edgar Wind, Critica del conoscitore, in Arte e anarchia, Milano 1997 (trad. it.
da 3a ed. London 1985), pp. 53–74
Questo volume, edito per la prima volta nel 1963, raccoglie i testi delle Reith
Lectures che Wind tenne tra novembre e dicembre del 1960 per la BBC.
Da qualche tempo tutte lezioni sono disponibili nel sito della BBC, sia nella
versione radiofonica originale che in trascrizione. Il terzo episodio è quello che
più ci interessa qui: Critique of Connoisseurship, lezione in cui è protagonista
lo sviluppo del moderno metodo attributivo attraverso l’esperienza di Giovanni Morelli e la cultura romantico-positivista per il frammento:
Carlo Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, ora in Miti Emblemi
Spie. Morfologia e storia, Torino 1986, pp. 158–209
Questo altro testo capitale, uscito nel 1979 (in Crisi della ragione, a cura di A.
Gargani, Torino 1979, pp. 59–106 — versione onlineversione online), ritorna
ancora su Morelli in una prospettiva molto più ampia e densa di connessioni:
è un testo celebre anche per il confronto tra la tecnica deduttiva di Morelli, di
Sherlock Holmes e Sigmund Freud.
L’anno prima dell’articolo di Ginzburg, la rivista francese diretta da André
41
Chastel aveva dedicato un intero numero ai molteplici aspetti della Connoisseurship» diventi di dominio pubblico come quelle più recenti (1980–1999),
basti il sommario per invitare alla consultazione nella prima biblioteca che la
conserva:
Editorial
- [A. Chastel?]: L’identité du tableau. Ambition et limites de l’attribution
– F. Villard: Les peintres des vases grecs
– L. Grodecki: Le Moyen âge occidental
– E.H. Gombrich: Rhétorique de l’attribution. Reduction ad absurdum (riedito
in in Reflections on the History of Art, Oxford 1987; ed. it. in Riflessioni sulla
storia dell’arte, Torino 1991, pp. 117–125)
Démarches de l’attribution: Quelques figures
- G. Previtali: A propos de Morelli
– J.D. Draper: Wilhelm von Bode attributeur
– J.S. Held: Évocation de Max J. Friedländer
Maîtres et anonymes
- N. Reynaud: Les maîtres à “nom de convention“
– J. Foucart: Une fausse énigme, le pseudo et le vrai Van de Venne
– K. Oberhuber: Le problème des premieres oeuvre de Verrocchio
– F. Haskell: Un martyr de l’attribution, Morris Moore et l’Apollon et Marsyas
du Louvre (riedito in Past and present in art and taste, New Haven 1987; ed.
it. in Le metamorfosi del gusto. Studi su arte e pubblico nel XVIII e XIX secolo,
Torino 1989, pp. 224–258)
– A.-M. Logan, E. Haverkamp-Begeman: Dessins de Rubens
– G. Schwartz: Rembrandt: “Connoisseurship” et érudition
(Si veda però anche nel fascicolo nn. 40–41 della stessa annata della rivista:
H. Zerner, Giovanni Morelli et la science de l’art, pp. 209–215).
Più recentemente andrebbero visti almeno:
- L’attribuzione teoria e pratica: storia dell’arte, musicologia, letteratura, atti
42
del seminario di Ascona, 30 settembre — 5 ottobre 1992, Centro Stefano
Franscini, a cura di O. Besomi e C. Caruso, Basilea 1994
All’interno di questo volume importanti interventi di Castelnuovo
(L’attribuzione e i suoi fantasmi, pp. 17–28), Bruno Toscano (L’attribuzione
geostilistica, pp. 29–57) e Gaudenz Freuler (L’attribuzione nell’arte italiana:
quale valore?, pp. 59–88), ma anche, dopo ogni intervento, una sintesi delle
osservazioni fatte al convegno di Ascona da Giovanni Romano, Enrico Castelnuovo e gli stessi relatori.
S.J. Freedberg, Some Thoughts on Berenson, Connoisseurship, and the History
of ArtJStor
J. Melius, Connoisseurship, Painting, and PersonhoodWiley
Infine vanno ricordati l’intervento recente di Michele Laclotte (Quelques notes à propos du “connoisseurship”, in Penser l’art. Séminaire interarts de Paris, Klincksieck 2009, pp. 55–58 — Informazioni ) e la conferenza, visibile su
YouTube, tenuta al Museo del Prado nel 2009 che abbiamo segnalato già in
uno dei nostri primissimi articoli:
Sull’attribuzione: la storia di
Castelnuovo
Come promesso, dopo i testi di Previtali e di Romano, per la terza puntata di
43
questa nostra antologia sull’attribuzione abbiamo recuperato e tradotto un
vecchio testo di Enrico Castelnuovo uscito per la prima volta nel 1968 per l’Encyclopaedia Universalis, impresa culturale francese riedita più volte negli anni
successivi, anche in versione digitale e online. In questo caso, ancora più che
nelle precedenti puntate, si è cercato di fare reagire il testo con l’internet, rinforzandolo di note e di rimandi, ove possibile, alle versioni online della bibliografia citata.
Si tratta naturalmente di un testo compresso e riassuntivo, come è normale
nel contesto di una voce enciclopedica. Andrebbe ovviamente aggiornato:
un’operazione che in qualche caso si è cominciato a fare nelle note e che tenteremo di riprendere nella prossima puntata. Ma a nostro avviso è un testo
che si rivela, come i precedenti, ancora molto utile per la chiarezza espositiva
nell’individuare i nodi cruciali di una storia dell’attribuzione e per le indicazioni sulle implicazioni storiche del giudizio attributivo.
L’Attribuzione
Indice
L’Attribuzione
1.
2.
3.
4.
Le prime attribuzioni
Il conoscitore
I nomi di comodo
Metodologia
Giovanni Morelli e i suoi precursori. L’attribuzione scientifica
L’attribuzione intuitiva
5. Attualità dell’attribuzione
❍
❍
Rapporto sempre variabile tra il presente e il passato, l’attribuzione è
l’operazione tipica dello storico dell’arte, essa traduce le sue reazioni di fronte
al testo ed è giudizio storico effettivo. Ridotta nei suoi termini essenziali, con-
44
siste nell’assegnare, “attribuire” la paternità di un’opera anonima a un determinato artista. Chiaramente i suoi risultati variano a seconda delle idee che
colui che la effettua si è fatto su tale artista e sul suo stile. Tanto più che queste idee molto spesso sono legate alla realtà culturale di una certa epoca. È
precisamente in questo che risiede il carattere storico dell’attribuzione: nel
XVIII secolo l’attribuzione di un’opera a Dürer veniva probabilmente formulata
in modo del tutto diverso rispetto ad oggi.
↑ Indice ↑
1. Le prime attribuzioni
Maestro toscano di fine XV secolo, Studio di scena allegorica,
Londra, British Museum, inv.
1895,0915.807 (Pagina dal Libro
de’ disegni di Vasari con ritratto
di Carpaccio in alto, al centro, poi
inciso da Cristoforo Coroliano
nelle Vite vasariane del 1568) —
Info.
45
L’attribuzione acquista una grande importanza nell’economia degli studi di
storia dell’arte durante il XIX e il XX secolo, ma gli storici dell’arte e gli amatori in qualche modo già la praticavano nel corso dei secoli precedenti. Ricordiamo le numerose attribuzioni del celebre “libro” di Giorgio Vasari, il grande
quaderno che custodiva la collezione di disegni dello storico toscano. Erwin
Panofsky ha fatto notare che la cornice di ogni disegno, realizzata dallo stesso
Vasari, in genere rappresenta alcuni elementi decorativi considerati tipici
dello stile dell’artista a cui il disegno è attribuito. Così, nella cornice di un disegno assegnato a Carpaccio, si possono vedere dei piccoli gonfaloni che
s’ispirano a certe scene della Leggenda di Sant’Orsola.12 Va detto inoltre che
il disegno in questione non è assolutamente veneziano, e che l’attribuzione è
quindi sbagliata. Il confronto tra le attribuzioni di Vasari, Baldinucci, Lanzi,
d’Agincourt e di altri storici dell’arte italiana ci permette di scoprire la diversa
immagine che in passato ci si è fatti di artisti come Cimabue, Giotto o
Masaccio.
L’esame di qualsiasi collezione, medievale o di epoca più recente, mostra che
sono davvero ben poche le opere autenticate da testi d’archivio o dalla firma
dell’artista. Per molte di esse non esiste nemmeno un’indicazione antica, contemporanea di queste stesse opere, che possa fornirci qualche informazione
sulla loro paternità. Inoltre, un’eventuale firma potrebbe essere falsa o designare sotto il nome di un grande maestro un’opera uscita in realtà dalla sua
bottega, e una notizia documentaria può riferirsi a un’opera diversa da quella
con cui pensiamo di poterla mettere in relazione. Si può affermare che senza
il lavoro di conoscitori come Wilhelm von Bode, Giovanni Morelli, Bernard Berenson e molti altri, gran parte delle opere conservate nelle gallerie e nei musei sarebbe rimasta senza nome, o sotto un nome di fantasia.
Allo stesso modo bisognerebbe valutare in che misura l’incremento e
l’evoluzione delle attribuzioni, così come l’importanza fondamentale che ad
esse si è accordata nel corso degli ultimi decenni del XIX secolo e all’inizio del
XX, siano originati, almeno in parte, da un cambiamento nella considerazione
del fenomeno artistico; il culto crescente del frammento autografo, ritenuto il
mezzo espressivo che rivela al meglio le intenzioni dell’artista, ne è un esempio. Si tratta di un’influenza dell’estetica romantica che si fonde con un’altra
influenza proveniente dal positivismo. In effetti, l’importanza metodologica
46
della filologia del XIX secolo è stata rilevante quando si è trattato di praticare
delle attribuzioni, e si è avuto un rapporto diretto tra il metodo “positivo”, utilizzato per un certo periodo nella storia della letteratura — e più in generale
nella storiografia — e la notevole importanza assunta dal metodo
dell’attribuzione nella storia dell’arte. Una certa concezione della storiografia,
che postulava la necessità di una precisione totale nella ricerca, che sentiva
l’esigenza assoluta di accertare le date in cui determinati avvenimenti si
erano verificati e di sapere quali persone vi avevano effettivamente preso
parte, non mancò di avere delle conseguenze anche nel campo della storia
dell’arte. D’altra parte, l’importanza assunta dal metodo attributivo non fu
messa in dubbio dalla corrente neo-idealista nata come reazione contro il
positivismo.
↑ Indice ↑
2. Il conoscitore
In che momento l’attribuzione perde il proprio ruolo di disciplina ausiliaria per
diventare lo strumento per eccellenza dello storico dell’arte? Già nel XVII secolo, periodo che vide la fondazione delle grandi gallerie principesche, il problema del “connoisseur“34
Ad ogni modo, il momento più importante per l’avvio di questa trasformazione va ricercato in Inghilterra nel XVIII secolo, epoca in cui prende forma
in maniera più definita la fisionomia del conoscitore e ricevono una prima organizzazione gli elementi della tecnica dell’attribuzione (la connoisseurship).
La prima testimonianza di questo fenomeno è da vedersi in un saggio di Jonathan Richardson, The Connoisseur (1719).5 Per la storia dell’attribuzione riveste infatti grande importanza il delinearsi della figura del “conoscitore”
nell’ambiente dei gentiluomini inglesi che rientrano dal “Grand Tour”. Si
tratta di un fenomeno di snobismo molto pronunciato: il conoscitore è colui
che conosce, che comprende le belle arti, e queste occupano un posto importante nella cultura del perfetto gentiluomo. Egli deve avere compiuto il
“Grand Tour”, deve aver visitato l’Italia e deve conoscere l’arte italiana.
47
William Hogarth, Scimmia “connoisseur”
annaffia tre piante esotiche rinsecchite,
incisione, Londra, Royal Academy (finalino o “tailpiece”, da A Catalogue of the
Pictures … &c. exhibited by the Society
of Artists of Great Britain, May 1761) —
Info.
Nel XVII secolo, la storia dell’arte non era un elemento essenziale per
l’educazione; nel XVIIISociety of Dilettanti è nata a Londra nel 1732). Questo
atteggiamento snob è stato preso di mira da William Hogarth in diverse incisioni (The Tailpiece to the Society of Artists Catalogue6connoisseur; questo
quadro, glielo posso assicurare, è un Alesso Baldminetto seconda maniera,
cioè la migliore; arditamente dipinto, e assolutamente sublime». Il mercante
così descritto da Hogarth pratica l’attribuzione con una consumata abilità.7
Se questi sono gli aspetti e i limiti del metodo attributivo nel XVIII secolo, il
modo di affrontare la storia dell’arte proprio del XIX secolo presenterà altri caratteri. Il conoscitore tenta di creare un metodo scientifico. Il ruolo della storia
è del resto elevato a quello di vera e propria disciplina guida. Nel corso di
questo secolo, si cerca di ricostruire la fisionomia sia dell’antica arte italiana
48
— ad esempio con le ricerche di Carl Friedrich von Ruhmor (1785–1843)8 —
come quella dell’arte fiamminga; si spera di scoprire, attraverso un metodo
esatto, l’individualità degli artisti attraverso le loro opere. È allora che nascono alcune delle più importanti riviste di storia dell’arte, e che vengono
scritte le prime grandi monografie di artisti con cataloghi “ragionati”: per
esempio, quella di Johann David Passavant (1787–1861), consacrata a Raffaello e pubblicata a Lipsia tra 1839 e 1858.9
A Londra e Berlino vengono create grandi gallerie nazionali, i loro direttori
sono degli eminenti specialisti: Gustav Friedrich Waagen (1797–1868) e Wilhelm von Bode (1845–1929) a Berlino; una politica illuminata di acquisizioni e
gli indispensabili cataloghi stimolano la pratica dell’attribuzione.
Negli stessi anni, si esplorano le ricchezze delle collezioni private, inizia la topografia dei monumenti e ci si impegna a fare conoscere al pubblico le più
importanti collezioni di bronzi del Rinascimento, di disegni fiorentini, di avori
medievali e di miniature. Nonostante queste iniziative abbiano cominciato ad
essere note al grande pubblico, solo al principio del XX secolo, esse sono tipiche del XIX secolo. Parallelamente a questi inventari di archivi e di documenti
si sviluppano — soprattutto nella seconda metà del secolo — ricerche strettamente legate all’applicazione sempre più frequente del metodo attributivo
alla storia dell’arte.
Le personalità degli artisti vengono ricostruite soprattutto grazie alle opere
che sono attribuite loro, e ciò avviene in seguito a certe caratteristiche di
stile, dopo un esame volto a identificare gli elementi distintivi di ciascun artista piuttosto che i tratti comuni di una determinata epoca. Va tuttavia sottolineato che nello stesso periodo, accanto alla ricerca dello stile individuale degli artisti, si sviluppa l’analisi degli “stili collettivi”.
↑ Indice ↑
3. I nomi di comodo
Il caso più evidente, potremmo dire il caso limite, di distinzione tra personalità empirica e personalità estetica è quella dell’artista chiamato “Maestro
di…”. Si tratta cioè di un denominatore comune che viene assegnato a un
49
gruppo di opere raggruppate in base alle caratteristiche dello stile e attribuite
a un artista di cui non si conosce il nome, ma che, per consentirne la classificazione, viene battezzato “Maestro della Madonna X”, “Maestro della Crocifissione Y”, ecc. Si assiste così a una vera e propria scissione tra le due individualità, quella estetica che è nota e quella empirica che non lo è;
quest’ultima condizione si incontra anche in altre discipline (si può citare, per
esempio, il caso dello Pseudo-Dionigi nella storia delle religioni), ma nella storia dell’arte si presenta con una frequenza infinitamente maggiore.
L’ultimo volume del grande repertorio degli artisti, il Künstler-Lexikon di
Thieme e Becker è dedicato esclusivamente ai nomi inventati per comodità
(Notnamen) per indicare artisti anonimi. E se si confronta quest’opera con le
pagine dedicate ai maestri anonimi nel Künster-Lexikon di Georg Kaspar Nagler (1801–1866),10 si può notare quanto il loro numero sia aumentato nel
corso di un secolo.
Wilhelm von Bode (1845–1929), che per molti anni fu direttore e animatore
dei musei di Berlino, nelle pagine dell’Archivio Storico dell’arte11 racconta di
aver attribuito un quadro a un maestro molto simile ma non identico a Boccaccio Boccaccino. Egli propone quindi di chiamare questo anonimo artista
“Pseudo-Boccaccino” spiegando che
Morte di Maria”, di un “maestro delle mezze figure di donna”, di un
“maestro di San Severino”, di un “maestro di Lyversberg”, ecc. E
fra questi si trovano pittori che vanno annoverati fra i migliori artisti della Germania, e che hanno lasciato numerose opere».12
L’adozione di un “nome di convenienza” per gli artisti anonimi è un uso che si
è diffuso nel XIX secolo, ma le sue origini sono molto più antiche. Il punto di
partenza è costituito da alcune opere anonime, in particolare stampe, firmate
con un monogramma che rimane indecifrabile poiché non corrisponde con
certezza ad alcun nome di artista conosciuto; si tratta di opere realizzate da
maestri di cui si ignora la biografia e di cui conosciamo soltanto le iniziali.
Comparve così la prima scissione tra la personalità empirica, che resta sconosciuta, e la personalità artistica, rivelata dalle opere. Il secondo stadio è co-
50
stituito dalle opere anonime in cui un motivo decorativo è regolarmente ripetuto, al punto di costituire un emblema, di servire da firma o monogramma.
Già nel XVII secolo, alcuni maestri anonimi vengono designati attraverso il
nome di particolari emblemi. Nel XVIII secolo, questo uso si diffonde, soprattutto nel campo dell’incisione, nel quale, dopo l’approssimativa Idée générale d’une collection complètte[sic] d’estampes (Lipsia-Vienna 1771)13 di Carl
Heinrich von Heineken, vengono fatti i primi grandi sforzi di classificazione sistematica fino ai fondamentali ventuno volumi del Peintre-Graveur (Vienna
1803–1821) di Adam Bartsch (1757–1821).14 Un primo repertorio di maestri
anonimi elencati sotto il nome di emblemi particolari si incontra nell’Enciclopedia metodico-critica ragionata delle Belle Arti (Parma 1817–1824)
dell’abate Pietro Zani (1748–1821). Nell’introduzione il metodo è così
descritto:
15
Nel corso del XIX secolo, questo metodo è stato applicato sempre più diffusamente alla storia della pittura e della scultura, soprattutto in Germania. Tra
i molti studiosi di arte tedesca che lo hanno utilizzato, vale la pena citare Ludwig A. Scheibler (1848–1921), grande conoscitore e storico della scuola di Colonia, Hugo von Tschudi (1851–1911), creatore del Maestro di Flémalle (il saggio dedicato alla ricomposizione del corpus di questo artista, pubblicato nel
1898 è metodologicamente esemplare)16 e Wilhelm Vöge (1868–1952), con le
sue celebri distinzioni tra le varie personalità degli scultori gotici francesi. Il
metodo viene in seguito applicato all’architettura e archeologia. Tra i maestri
anonimi, troviamo alcune delle più importanti personalità della pittura occidentale: il Maestro di Flémalle o il Maestro di Moulins, per esempio. Per
quanto riguarda l’archeologia, basterebbe citare il nome del Maestro di Olimpia e i numerosi ceramisti indicati come Maestro di Berlino, Maestro di Chicago, ecc., a seconda della collocazione dell’oggetto (anfora, cratere, ecc.),
da cui derivano i loro nomi.
51
Uno dei maggiori creatori di
“nomi di comodo” è stato l’americano Bernard Berenson (1865–1959), illustre
conoscitore e storico dell’arte italiana. Per Berenson, i Notnamen tradizionali
erano, in qualche modo, inadeguati; egli sentiva il desiderio di definire, attraverso il nome, la personalità artistica in un modo più naturale di quanto
avesse fatto Bode con il suo Pseudo-Boccaccino. Perciò egli diede vita a nuovi
tipi di nomi, come l’Amico di Sandro. Chi era per Berenson l’Amico di Sandro?
Un pittore anonimo le cui opere erano fortemente influenzate da quelle di
Sandro Botticelli, ma che non poteva essere identificato con Botticelli stesso.
Uno dei suoi allievi quindi, o forse uno dei suoi amici. Oggi quest’idea non è
più condivisa, e si attribuiscono alla giovinezza di Filippino Lippi le opere
dell’Amico di Sandro.17 Si può citare ancora il “Pensionante dei Saraceni”, spiritoso soprannome affibbiato da Longhi a un anonimo pittore della scuola di
Caravaggio.
↑ Indice ↑
4. Metodologia
1. Giovanni Morelli e i suoi precursori. L’attribuzione scientifica
Se la seconda metà del XIX secolo è stata dunque l’età aurea
dell’attribuzione, è naturale che questo periodo abbia visto anche
l’elaborazione di una metodologia attributiva, quella proposta da Giovanni
Morelli nei volumi dedicati ai dipinti dei maestri italiani nei musei di Dresda,
Monaco, Berlino e Roma. In queste opere egli mise in atto una serie di revisioni, spesso assai importanti, come è accaduto alla Venere18 In primo luogo
52
sottolinea l’importanza dell’analisi diretta dell’opera, del testo originale, e
quindi delle riproduzioni fotografiche; egli insiste sulla necessità per il conoscitore di esercitare l’occhio, in polemica contro l’uso eccessivo di materiale bibliografico nello studio delle opere d’arte. Ma una volta intrapreso
l’indispensabile ed insostituibile esame diretto dell’opera, come darne
un’attribuzione? Secondo Morelli, gli elementi chiave, le cifre, le “combinazioni” che permettono di scoprire la corretta attribuzione vanno ricercati in
dettagli specifici, di solito poco considerati e trascurati sia dagli osservatori
che dagli artisti i quali, realizzando l’opera, si lasciano andare a una formula
quasi automatica e a una sorta di “scrittura meccanica”.
Alcune formule e schemi generali utilizzati da
grandi artisti, la composizione, gli elementi fisiognomici più caratteristici —
come l’espressione della bocca in Leonardo da Vinci o quella degli occhi in Perugino o Raffaello — sono inevitabilmente oggetto di imitazione dei loro discepoli e dei falsari. In compenso, proprio i dettagli in cui l’artista lascia andare
la sua mano sono i più rivelatori; sono quelli che non vengono notati e, quindi,
non sono imitati: ad esempio l’orecchio e le unghie delle dita. All’orecchio non
vengono riconosciuti significati particolari, a differenza, per esempio, della
bocca o degli occhi, che nei dipinti di tardo Quattrocento e del Cinquecento
hanno un ruolo ben preciso. Non presentando un’importanza particolare,
l’orecchio solitamente è ripetuto tale e quale dall’artista. Non c’è motivo ora
di menzionare per esteso gli elementi elencati da Morelli e da Bernard Bere-
53
nson (fortemente influenzato da Morelli). Tuttavia, è interessante sottolineare
questo punto: secondo Morelli e Berenson, esiste un percorso, nel campo
dell’attribuzione scientifica, con cui ottenere i risultati migliori. Brillantemente
esaminato da Edgar Wind, questo metodo risente chiaramente delle tendenze
del periodo, il suo carattere scientifico è innegabile ma, d’altra parte, sembra
seguire un metodo parallelo a quello messo in scena nelle indagini poliziesche
di Sir Arthur Conan Doyle.19 Lo specialista dell’attribuzione di Morelli riconosce
la mano dell’artista grazie a un dettaglio insignificante agli occhi della maggior parte delle persone e forse anche a quelli del pittore stesso, nell’identico
modo in cui l’eroe di Conan Doyle identifica un personaggio attraverso indizi
impercettibili per il suo amico Watson e anche per colui che li ha lasciati. Per
lo specialista in attribuzioni e per il detective vale la stessa regola: il dettaglio
visibile, l’elemento che attira l’occhio è il meno sicuro; bisogna scoprire indizi
ben nascosti, che conducono inevitabilmente al protagonista.
La scoperta del protagonista: ecco l’obiettivo che il conoscitore deve raggiungere attraverso l’attribuzione; è questo l’unico scopo che deve animarlo.
Tale problema viene posto con grande chiarezza in un passaggio di Sketch for
a Self-Portrait di Bernard Berenson. Egli rievoca una conversazione che ebbe
luogo a Bergamo, nella sua giovinezza, con un amico. Spinto dall’entusiasmo,
il giovane conoscitore esclama:
connoisseurship! Alcuni hanno scelto questa occupazione per riposarsi dalla politica, come nel caso di Morelli e di Minghetti; altri,
perché erano funzionari di musei; altri ancora, perché insegnavano
storia dell’arte. Noi siamo i primi a non avere idea, né ambizione,
né attesa di una ricompensa. Ci consacreremo allo studio per arrivare a distinguere le opere autentiche di un pittore italiano del
Quattro o del Cinquecento da quelle che gli vengono comunemente attribuite. Qui, a Bergamo, e nelle profumate e romantiche valli che diramano verso Nord, non prenderemo riposo finché
non saremo sicuri che ogni Lotto è un Lotto, ogni Cariani un Cariani, ogni Previtali un Previtali».20
54
Ora, in cosa è innovatore il metodo di Morelli? Esisteva prima di lui un “metodo attributivo”?
È interessante constatare che alcuni elementi del metodo morelliano si incontrano molto prima del XIX secolo. In una lettera che nel 1751 Luigi Crespi
(1709–1779) indirizzava a Monsignor Giovanni Bottari (1689–1755), si legge:
21
La somiglianza con il metodo di Morelli è ancora più impressionante nella prefazione dell’abate Luigi Lanzi alla sua Storia pittorica dell’Italia:
22
↑ Indice ↑
2. L’attribuzione intuitiva
Già nel XVIII23 Questa intuizione, di cui Morelli si faceva beffe, è un elemento
insostituibile del tipo di attribuzione di cui Bode sosteneva il valore. Per un altro grande conoscitore, allievo di Bode, Max Friedländer (1867–1958), lo storico, il conoscitore non è a caccia di indizi nascosti; egli mette a confronto invece l’opera che gli viene presentata con uno schema mentale che si è costruito fondandosi sulla propria conoscenza dell’artista e sull’evoluzione del
suo stile. In realtà, il grande conoscitore non è quello che si limita a riconoscere l’opera di un artista dalle analogie che essa presenta con opere certe
— operazione molto utile, ma che non sempre è possibile — né quello continuamente alla ricerca di cifre distintive e di “tic” nascosti, ma colui che ha
compreso un artista in maniera così completa da poterne prefigurare lo sviluppo persino nei periodi che siano eventualmente ancora oscuri. Vale la pena
di riassumere qui un esempio fornito da Friedländer stesso: se domani mi si
annuncia il ritrovamento di una natura morta di Frans Hals datata 1650, basandomi sulle conoscenze che possiedo sullo stile di questo pittore attorno al
55
1650, e pur non avendo mai visto una natura morta di questo artista, posso
ipotizzare uno schema al quale, a mio parere, questo quadro dovrebbe corrispondere. Quando questo mi viene mostrato, io attuo un confronto tra
l’immagine che ho in mente e l’opera; se le due immagini corrispondono abbastanza bene, mi sembra allora che questo quadro possa essere accettato
come opera di Frans Hals; se, al contrario, l’opera in questione si presenta in
maniera molto diversa dall’immagine che mi sono fatto, ritengo che si tratti di
un falso.24 Il critico lavora qui in modo diverso rispetto al metodo di Morelli.
Egli si costruisce modelli mentali con cui mettere a confronto le opere reali,
modelli basati precisamente su una conoscenza approfondita dell’evoluzione
dello stile di un artista. Accade perciò che si possa attribuire con ragionevole
certezza, un’opera al periodo della giovinezza, ancora del tutto sconosciuta,
di un artista. Poiché la storia dell’arte non è la storia naturale, queste ricostruzioni non possono ottenere il risultato di quelle tentate da Cuvier sugli animali preistorici. Tuttavia esiste la verità anche nelle scienze storiche.
L’attribuzione potrà scoprire d’un tratto questa verità che documenti di altro
genere confermeranno in seguito, oppure potrà proporre una soluzione che,
seppur sbagliata, sarà preziosa per la storia dell’arte. Infatti, dal momento
che ogni epoca vede il passato con occhi diversi, sapere che un certo anno un
certo quadro è stato attribuito a Correggio, a Tiziano o a Dürer sarà la migliore testimonianza di come, in quel momento, erano visti Correggio, Tiziano
o Dürer, e permetterà d’altra parte di chiarire quali elementi venivano considerati significativi in queste opere e suscettibili di autorizzare tali attribuzioni.
L’attribuzione non deve quindi essere valutata solo in base alla sua efficacia,
ma anche come documento di un certo stato degli studi. Conviene quindi liberarsi definitivamente del pregiudizio che tende a far dubitare sistematicamente dell’attribuzione, e ricondurre questa operazione nei suoi veri limiti,
non di magia o di imbroglio, ma di esercizio filologico condotto da un certo
specialista che si trova a operare in una certa epoca, nel contesto di una
certa cultura.
Innumerevoli problemi possono ostacolare una completa e soddisfacente lettura dello stile. Uno dei più spinosi è la collaborazione che alcuni dei suoi allievi, minori o importanti, hanno potuto fornire all’artista. Questo riguarda in
particolare le opere uscite dalle botteghe più attive e dirette da diverse personalità importanti. Molte opere provenienti dalle botteghe di Raffaello, di Ver-
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onese, di Rubens o di Vélasquez non devono nulla, o molto poco, alla mano
del maestro. D’altra parte, i critici possono sentire la tentazione, pericolosa
ma affascinante, di riconoscere la mano di Leonardo nei quadri usciti dalla
bottega del Verrocchio, quella di Michelangelo nei dipinti che, di fatto, provengono da quella di Ghirlandaio, o ancora di circoscrivere la collaborazione di
Raffaello con Perugino oppure, nel pulpito del Duomo di Siena, le parti eseguite da Nicola Pisano e quelle di Giovanni, di Arnolfo e dei collaboratori minori. Il problema del carattere autografo ne tocca un altro non meno importante, quello di alcune tecniche che, implicando dei metodi di lavoro complessi, comportano il trasferimento di responsabilità nell’esecuzione. I cartoni
per le vetrate e per gli arazzi sono stati spesso eseguiti da artisti che, in seguito, non si sono occupati della loro traduzione sul vetro o sul tessuto. Lo
stesso accade per il mosaico, talvolta per gli smalti e l’oreficeria. In architettura, possono essere apportate modifiche da coloro che hanno eseguito il
progetto originale. Talvolta esistono disegni autografi che è possibile confrontare con l’edificio; in altri casi invece è solo l’esperienza dello storico, la sua
profonda conoscenza del linguaggio dell’artista che, dopo il confronto con altre opere, permetterà di stabilire il carattere completamente autografo del risultato. Un ultimo problema e, in qualche modo, una delle più grandi prove
per il conoscitore, è la ricostruzione di complessi che sono stati dispersi: polittici, pale d’altare. Roberto Longhi (1890–1970) ne offre esempi notevoli nel
suo libro Officina Ferrarese, sia che si tratti della pala Roverella di Cosmè
Tura, già in San Giorgio a Ferrara, oppure del polittico Grifoni di Francesco del
Cossa ed Ercole de’ Roberti, già in San Petronio a Bologna, quest’ultima opera
smembrata in una quindicina di frammenti. L’archeologo inglese Payne
(1902–1936) fu autore, per conto suo, di ricostruzioni eccezionali, identificando e riavvicinando frammenti di statue arcaiche molto importanti come il
Cavaliere Rampin e l’Afrodite di Lione.
↑ Indice ↑
5. Attualità dell’attribuzione
Quali sono, oggi, la funzione e il valore dell’attribuzione nella storia dell’arte?
Essa sembra avere perso quel ruolo di tecnica guida che poteva presumere di
avere ai tempi di Morelli. Affermazioni come quelle espresse dal giovane Be-
57
renson a Bergamo oggi non sarebbero più comprensibili. In primo luogo, grazie al lavoro di generazioni di conoscitori, le terre conosciute, nella storia
dell’arte, sono ora più estese di quanto non fossero alla fine del XIX secolo, e
la pratica dell’attribuzione si è gradualmente spostata verso domini fortemente specialistici (si veda, per esempio, con quale virtuosismo viene praticata ai nostri giorni per i disegni). Pertanto, anche se sono ben lontane
dall’essere esaurite le possibilità di scoperte sensazionali, le ricostruzioni rivoluzionarie sono meno frequenti (la scoperta di Stefano Fiorentino, uno degli
allievi di Giotto, è stata condotta di recente in maniera geniale da Longhi, anche se il risultato è tutt’altro che certo). È vero che alcuni vecchi problemi restano controversi: l’attività di Giotto ad Assisi, i rapporti tra il Maestro di Flémalle e Roger Van der Weyden, o tra Hubert e Jan Van Eyck, ma, nel complesso, l’interesse ora si è spostato. Dietro questo fenomeno vi è una realtà
culturale in movimento. Alla base della posizione privilegiata dell’attribuzione
vi sono particolari condizioni culturali. Secondo la prima tipologia — che potremmo definire positivista — la pratica scientificamente controllata
dell’attribuzione avrebbe permesso, una volta per tutte, una verità storica assoluta (questo era, per esempio, l’atteggiamento di Berenson in giovinezza).
L’altra posizione, più ricca e sfumata, è quella degli storici dell’arte di formazione neo-idealista. Per questi, l’attribuzione è l’unico metodo che permette
di conoscere e di apprezzare al meglio, pur nella loro problematica complessità, nella loro portata storica, nelle loro reciproche relazioni, ciascuna delle
personalità artistiche, fatto che, postulando la riduzione della storia dell’arte a
quella degli artisti (della loro personalità estetica, non di quella empirica, beninteso), equivale riconoscere nuovamente a questo particolare approccio un
vantaggio rispetto ai primi.
Non sono più queste le tendenze oggi prevalenti e, nella storia dell’arte, si
confrontano diverse correnti, che si rifanno alla psicologia della percezione
(Arnheim, Gombrich, Ehrenzweig), alla sociologia (Antal, Klingender, Hauser),
all’iconografia e all’iconologia (Warburg, Saxl, Panofsky, Wind, Wittkower),
alla psicanalisi (Kris, Abell) e all’etnologia (Kubler). Non si pensa più che la lettura dello stile sia il fine ultimo della storia dell’arte; quest’ultima propone alla
ricerca una tematica sempre più estesa: la nascita dell’opera d’arte nelle sue
relazioni con la percezione e la psicologia del profondo, il significato e la storia del suo contenuto, la sua destinazione, la sua utilità e il suo ruolo sociale e
58
culturale.
25
Enrico Castelnuovo, voce Attribution, in Encyclopaedia
universalis, II, Paris 1980 (ed. or. Paris 1968), pp. 780–783
Dello stesso autore si veda anche:
- L’attribuzione e i suoi fantasmi, in L’attribuzione teoria e pratica: storia
dell’arte, musicologia, letteratura, atti del seminario di Ascona, 30 settembre
— 5 ottobre 1992, Centro Stefano Franscini, a cura di O. Besomi e C. Caruso,
Basilea 1994, pp. 17–28
L’edizione italiana di questo testo è stata curata da Serena D’Italia e Sergio
Momesso con la collaborazione, preziosa e generosa, di Marialucia Menegatti
e Daniele Pitrolo (al quale si deve anche la nota 3).
1. Si tratta del disegno ora al British Museum di Londra, inv. 1895,0915.807:
cfr. scheda online. ↩
2. G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla Pittura, Scultura ed Architettura scritte da’ più celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVII…, Milano
1822, II, p. 523 — Versione online.
Oppure Lettera di Filippo Baldinucci… nella quale risponde ad alcuni quesiti in materie di Pittura all’Illustriss. e Clariss. Sig. Senatore, e Marchese
Vincenzo Capponi, Roma-Firenze 1681, p. 12 — Versione online.
59
Oppure F. Baldinucci, Carteggio, in Notizie dei professori del disegno da
Cimabue in qua, a cura di P. Barocchi, Firenze 1975, vol. VI — Versione
online. ↩
3. La riflessione seicentesca in merito alla figura del conoscitore viene formalizzata già nei dizionari della fine del secolo, tanto quello di Furetière del
1690 che, di quattro anni posteriore, quello dell’Académie française; secondo Furetière, che fornisce una definizione più estesa del termine, il conoscitore è una persona “pienamente istruita delle buone qualità di una
cosa che gli è presentata per un giudizio”, e come chiariscono gli esempi
riportati in entrambi i casi il giudizio riguarda l’ambito artistico, e non è
esente da implicazioni commerciali. In entrambi i dizionari l’ortografia
scelta è quella antica, preferita dall’Académie perché indica l’etimologia
delle parole: il lemma è quindi connoisseur ed il verbo connoistre, così
come nei testi contemporanei.
Se la grafia moderna, che restituisce quindi connaisseur e connaître, era
stata proposta già nel 1675, solamente nel 1835 viene ufficialmente riconosciuta come corretta dall’Académie française. La forma antica sopravvive fino alla fine del secolo nei testi di autori arcaizzanti, ma si è oramai
imposta nell’inglese. La figura del connoisseurconnoisseurship che sancisce l’integrazione dell’antica grafia francese. Connoisseur, oramai abbandonato dal francese, ed il suo derivato connoisseurship, più fortunato ed
adottato occasionalmente anche in Francia, segnalano quindi dei momenti di un processo plurisecolare di definizione della figura di esperto e
svelano alcuni aspetti del suo carattere internazionale.
Bibliografia:
Antoine Furetière, Dictionnaire universel, contenant généralement tous
les mots françois tant vieux que modernes, et les termes de toutes les
sciences et les arts: Divisé en trois Tomes, 3 vol., La Haye, A. et R. Leers,
1690. Versione online.
Le dictionnaire de l’Académie françoise, dédié au Roy, 2 vol., Paris, Chez
la veuve de Jean Baptiste Coignard, Imprimeur ordinaire du Roy, &ET
Chez Jean Baptiste Coignard, Imprimeur ordinaire du Roy, &Versione online.
Infine l’atilf dell’Université de Lorraine ha realizzato il TLFi: una ricerca del
lemma connoistre o connoisseur permette di consultare lo studio
60
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
14.
15.
16.
dell’ortografia della parola. Il dizionario può essere consultato a partire da
questa pagina. ↩
Lettera di Filippo Baldinucci… cit., p. 3. Vedi nota 2 ↩
J. Richardson, Two Discourses. I. An Essay On the whole Art of Criticism as
it relates to Painting… II. An Argument in Behalf of the Science of a Connoisseur…, London 1719 ↩
L’incisione è un finalino o tailpiece che contrasta satiricamente con il
frontespizio dove l’allegoria della Britannia raccoglie l’acqua che sgorga
dal monumento a Giorgio III per abbeverare la piante rigogliose delle tre
arti, pittura, scultura e architettura. Vedi frontespizio; informazioni:
sull’incisione e sul volume del 1761. ↩
Cfr. E. Wind, Arte e anarchia, Milano 1997, p. 54 (3a ed. Northwestern
University Press 1985, p. 31 — Versione online). ↩
C.F. Ruhmor, Italienische Forschungen, Berlin und Stettin 1827–1831 —
Versione online.
Vedi ora anche: C. Battezzati, Carl Friedrich von Rumohr e l’arte nell’Italia
settentrionaleVersione online. ↩
J.D. Passavant, Rafael von Urbino und sein Vater Giovanni Santi, 3 voll.,
Leipzig 1839–1858 — Versione online: vol. I e vol. II (1839); vol. III (1858).
↩
Neues allgemeines Künstler-Lexicon oder Nachrichten von dem Leben
und den Werken der Maler, Bildhauer, Baumeister, Kupferstecher, Formschneider, Lithographen, Zeichner, Medailleure, Elfenbeinarbeiter, etc.,
Bearbeitet von Dr. G.K. Nagler, 22 voll., München 1835–1852 — Versione
online e Informazioni bibliografiche. ↩
W. von Bode, Un maestro anonimo dell’antica scuola lombarda (Il PseudoBoccaccino)III, 1890, fasc. 5–6, pp. 192–195 — Versione online. ↩
Ibidem, p. 192. ↩
Cfr. la versione online. ↩
A. Bartsch, Le peintre graveur, 21 voll., Vienna 1803–1821 — Versione online. ↩
P. Zani, Enciclopedia metodica critico-ragionata delle Belle Arti, 30 voll.,
Parma 1817–1824 — Versione online e Informazioni bibliografiche. ↩
H. von Tschudi, Der Meister von FlémalleXIX, 1898, pp. 8–34 — Versione
online. ↩
61
17. Per la creazione dell’Amico di Sandro cfr. B. Berenson, Amico di
SandroXLI, juin, 1899, 459–471 (Parte prima) e XLI, juillet, 1899, pp.
21–36 (Parte seconda). Riedito in B. Berenson, The Study and Criticism of
Italian Art, London 1901, pp. 46–69 — Versione online.
Lo stesso Berenson racconta come si è dissolta la personalità fittizia
dell’Amico di Sandro nell’edizione del 1937 di The Drawings of the Florentine Painters.
Vedi ora B. Berenson, Amico di Sandro, a cura di P. Zambrano, Milano
2006. ↩
18. G. Morelli (Ivan Lermolieff), Kunstkritische Studien über Italienische Malerei. Die Galerien Borghese und Doria Panfili in Rom, Leipzig 1890, pp.
1–78 — Versione online.
Trad. it. a cura di G. Frizzoni, Milano 1897, pp. 9–61 — Versione online. ↩
19. E. Wind, Arte e anarchia, Milano 1997, pp. 53–74 (3a ed. Northwestern
University Press 1985, pp. 31–46).
Ma si veda anche C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, ora
in Miti Emblemi Spie. Morfologia e storia, Torino 1986, pp. 158–209 (la
prima edizione è uscita in Crisi della ragione, a cura di A. Gargani, Torino
1979, pp. 59–106 — Versione onlineVersione online. ↩
20. B. Berenson, Abbozzo per un autoritratto, trad. it. di A. Loria, Milano 1949,
p. 85 (ed. orig. Sketch for a Self-Portrait, New York 1949, p. 60 — Versione online). ↩
21. G. Bottari, Raccolta di lettere sulla Pittura Scultura ed Architettura, Tomo
IV, Roma 1764, Lettera CLXII, pp. 260–261 — Versione online. ↩
22. L. Lanzi, Storia pittoria della Italia, dal risorgimento delle belle arti fin
presso al fine del XVIII …, 6 tomi, Bassano 1809, I, pp. XXVII-XXIX — Versione online. Cfr. anche l’ed. a cura di M. Capucci, Firenze 1968–1974, online a cura della Fondazione Memofonte. ↩
23. G. Bottari, S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla Pittura, Scultura ed Architettura scritte da’ più celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVII…, Milano
1822, II, p. 524. Vedi nota 2. ↩
24. M. J. Friedländer, Il conoscitore d’arte, Torino 1955, p. 109 (altra ed. it.:
Milano 1995). Ed. inglese: On Art and Connoisseurship, trad. di T. Borenius, London 1942 (poi Boston 1960 — Versione online). Ed. originale tedesca: Berlin 1929. ↩
62
25. Affermazione diffusa da Longhi, per cui cfr. ora G. Romano, Storie
dell’arte.Toesca, Longhi, Wittkower, Previtali, Roma 1998, pp. 14–15 e
note 25 e 26. ↩
Sull’attribuzione: la lezione di Romano
Riprendiamo la nostra antologia di letture sull’attribuzione, dopo che la prima
puntata, con il testo di Giovanni Previtali, ha ricevuto numerosi riscontri positivi. Ringraziamo chi ha mandato il suo apprezzamento e chi ha fatto girare
queste parole come un piccolo fiume parallelo al sempre più invadente gossip
storico-artistico.
Il programma sull’attribuzione si sta definendo un poco alla volta: le puntate
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per il momento dovrebbero essere quattro e usciranno con cadenza settimanale, ogni sabato. In questo caso più che mai non ci va di buttare fuori dei
testi con una semplice e superficiale trascrizione, magari condita di qualche
errore di battitura. Ci sforziamo invece — come dovrebbe essere ovvio ma
spesso non è così — di controllare, nei limiti del possibile, la redazione dei testi più volte, di agganciare qualche nota e cercare, magari, la versione online
dei principali libri citati. Insomma far reagire in qualche modo le vecchie pagine con l’internet in una sorta di nuova cura editoriale.
Oggi è la volta di un testo di Giovanni Romano a cui siamo molto affezionati
fin dal suo primo apparire nel 1999. Il lungo brano qui riprodotto è tratto dalla
trascrizione, rivista e corretta, di una lezione tenuta a Bardonecchia, l’8 settembre 1999, a un corso estivo di presentazione della Facoltà di Lettere di Torino riservato a studenti degli ultimi anni delle medie superiori. Ha cominciato
a circolare in quello stesso anno in una pubblicazione riservata dalla Facoltà
agli stessi studenti e ai loro colleghi degli anni successivi.1 Qualche anno dopo
è stato giustamente ripubblicato in un volume di scritti dedicato ad Andrea
Emiliani.
❦
[…] Che cosa fa uno storico dell’arte, di cosa si occupa e qual è l’itinerario del
suo lavoro, della sua formazione? Quali sono le domande che di solito gli studenti pongono al docente? Sono sostanzialmente due: da una parte come si
legge e si capisce un’opera d’arte. I più sofistici fanno una seconda domanda
che è poi, a mio modo di vedere, la medesima, ma viene posta in maniera diversa: come si fa a fare un’attribuzione? […] Come si fa a leggere e capire un
quadro: è un’esperienza che quasi tutti vivono quando si entra in un museo e
ci si trova di fronte ad un’opera d’arte mai conosciuta. Il visitatore, se non
mente a se stesso, ha delle difficoltà: non ha un sentiero prefissato da percorrere per dire cosa prova davanti a questa immagine, non riesce immediatamente a scoprire qual è il filo logico che deve seguire di fronte a una testimonianza figurativa che tace: non si tratta di una persona a cui domandare
da dove vieni? L’opera non te lo rivela se non in modo muto, attraverso i caratteri stilistici.
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Usiamo molto spesso formule come Scuola Senese, Scuola Fiorentina,
all’interno di ogni nostra visita museale, e, con questa etichetta, diamo subito
a un’opera d’arte una provenienza geografica come la daremmo ad una persona. È chiaro che ci vuole una certa competenza in proposito, ma è chiaro
anche che non è una operazione estremamente sofisticata: se attraverso
l’orecchio noi possiamo spesso distinguere, per memoria che abbiamo, un accento dialettale, per esempio, inconfondibilmente, quello toscano, ma anche
quello genovese […], in qualche misura davanti a un’opera d’arte la memoria
non più dell’orecchio ma degli occhi (ovviamente abituati in proposito) avverte caratteri che, con qualche approssimazione, possiamo definire una cadenza dialettale […].
L’espressione “scuola di…” è molto comoda e di uso corrente, eppure ricorrervi (scuola di Raffaello, scuola di Michelangelo, ecc.) comporta di per sé
una complessa organizzazione mnemonica di immagini che mette ordine in
una serie assai articolata di momenti della nostra esperienza; noi conserviamo nella mente un repertorio d’immagini sedimentatosi in numerosi incontri precedenti con opere d’arte di varia origine e quando incontriamo
un’opera d’arte nuova ripercorriamo questo nostro repertorio finché non ne
troviamo una che giudichiamo in sintonia con quella che abbiamo davanti agli
occhi. Se è andata bene, abbiamo centrato una nostra personale “attribuzione”, ma può anche non esserci andata bene, ed è pertanto sempre necessaria una verifica di controllo. Mi metto davanti ad un’opera d’arte, sfoglio
il repertorio memorizzato, mi sembra che l’immagine più vicina sia un’opera
di Michelangelo; non posso però fermarmi qui, adesso devo capire se è giusta
la mia impressione o se sono caduto in una trappola. Non basta più a questo
punto la reazione intuitiva, per rimbalzo mnemonico; ora devo seguire un percorso razionalizzante, che giustifichi la mia “impressione”. Non dico niente di
metafisico: quando siamo abituati da lungo tempo a un’esperienza la riconosciamo immediatamente; avvertiamo addirittura delle variabili di tono. Faccio un esempio molto semplice: spesso, quando sentiamo una voce al telefono, riconosciamo la persona che parla perché abbiamo udito molte volte
quella voce; ma se è una voce per noi particolarmente cara ne riconosciamo
subito anche la alterazione, diciamo così, depressiva, bastano poche parole e
ci scappa detto: ma cos’hai oggi che ti sento così giù. Giochiamo su
un’intuizione immediata (questa voce la conosco), ma mettiamo in atto una
65
sottigliezza di sensibilità che ci porta a dire: questa voce oggi non è la solita
voce, ma è la sua speciale variante “depressiva”. Nessuno ci ha mai insegnato formalmente simili finezze selettive, ma la consuetudine è tale che
riusciamo a identificare le varie inclinazioni psicologiche e, se siamo quotidianamente in rapporto, arriviamo persino a capire se al telefono parla qualcuno che sta simulando la voce amica per ingannarci (in storia dell’arte sarebbe la scoperta di un falso). Come vedete la conoscenza di tipo intuitivo attraverso la memoria ha una potenza straordinaria e bisogna diventare familiari con le opere d’arte come lo siamo con certe voci per poter dire, da storico dell’arte, si tratta di una “voce in figura” che appartiene a un personaggio (un artista) che conosco bene per averlo incontrato più volte nel mio lavoro e, nell’itinerario di quell’artista (qui si passa alle sfumature di tono), è
un’opera giovanile o è un’opera tarda o è un’opera di scuola o è la simulazione di un falsario…
Di fronte alle opere d’arte conviene sempre porsi delle domande
primarie: di dove è, di quando è, prima ancora di pronunciare qualsiasi nome, di avanzare qualsiasi proposta
Di fronte alle opere d’arte conviene sempre porsi delle domande primarie: di
dove è, di quando è, prima ancora di pronunciare qualsiasi nome, di avanzare
qualsiasi proposta. A memoria, intuitivamente, mi sembra che sia un’opera
fiorentina intorno al 1430–1435; sfogliando a velocità di pensiero il mio repertorio di immagini mi convinco che l’opera davanti a me corrisponde all’idea
che mi sono fatto, in base ai miei studi, di quanto capita a Firenze nel
1430–1435; ma che cosa significa nella sostanza un simile giudizio? Vuol dire
che mi ricordo dell’area fiorentina una serie di opere, datate o databili sicuramente intorno al 1430–1435, che mi pare concordino col dipinto che ho davanti. Adesso però devo sottoporre a verifica la mia memoria ovvero razionalizzare il mio ricordo e verificare se nel lungometraggio Firenze 1430–1435
che mi sono proiettato sullo schermo mentale non ci sia qualche fotogramma
non pertinente o non bene inteso. In primo luogo stabiliamo se si tratta di un
dipinto o di una scultura. Se, ad esempio, è un’opera di pittura il suo autore, a
meno che non sia cieco, non può non avere informazioni stilistiche su Masa-
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ccio, cioè sul grande protagonista del primo Quattrocento fiorentino in pittura.
Se l’opera non mi dice niente di questo rapporto con Masaccio devo avere
sbagliato, non è fiorentina; forse è dell’Italia settentrionale dove Masaccio non
lo conoscono che molto tardi, si è trattato di una mia falsa intuizione […].
… l’opera che è di fronte a noi è un’opera collegata a un luogo, a
un momento stilistico, a certe personalità che in quel luogo, in
quegli anni hanno lavorato
Se, invece, l’opera sotto controllo mi dice sì, c’è una traccia masaccesca, allora la soluzione attributiva è a portata di mano: un’attribuzione si fa appunto
così, l’opera che è di fronte a noi è un’opera collegata a un luogo, a un momento stilistico, a certe personalità che in quel luogo, in quegli anni hanno lavorato; ce lo dichiara però non a voce, ma attraverso i suoi caratteri stilistici e
noi, attraverso di essi, possiamo a volte affrontare anche documenti figurativi
che arrivano senza radice, senza certificati di nascita, perché li abbiamo trovati in un museo che non abbiamo mai visitato, perché sono saltati fuori da
una soffitta inesplorata. Poi si può anche dire, per speciale familiarità da parte
nostra, che il dipinto deve essere opera di Filippo Lippi da giovane, cioè arrivare come attribuzione al nome specifico, ma questo è già un fatto molto più
sofisticato. Bisogna conoscere bene Filippo Lippi per capire se è proprio lui o
un altro vicino a lui; si impongono un arricchimento e una selezione speciale
del repertorio di immagini da richiamare alla memoria per far dei confronti più
finemente selettivi, una maggiore acutezza e vitalità di memoria, un più articolato ragionamento logico di verifica.
L’attribuzione costituisce, per tanta parte, l’atto filologico di base per accedere con sicurezza alla lettura delle opere d’arte. L’incontro improvviso con
un’opera d’arte è un’immediata provocazione per la nostra memoria e la nostra sensibilità, ma richiede il possesso di strumenti garantiti da un’assoluta
familiarità con un consistente numero di documenti di riferimento. È chiaro
che chi muove i primi passi nella storia dell’arte non ha questo tipo di bagaglio preventivo, deve crearselo memorizzando in buon ordine, e con accessi
multipli, luoghi, stagioni stilistiche, scambi culturali, itinerari di protagonisti e
gregari in modo da poi muoversi con giusta attenzione di fronte a quesiti inat-
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tesi: non ci si deve lasciar confondere, per troppa precipitazione, tra la nostra
memoria di Masaccio e quella, distinta ma non indipendente, di Filippo Lippi.
Conducendo un’operazione di questo genere non facciamo propriamente
della storia dell’arte o della critica d’arte, compiamo un gesto professionalmente indispensabile che è storia e critica nello stesso tempo; mettiamo in
atto quell’accertamento globale che ricolloca il documento figurativo nel
punto giusto della sua storia specifica (stilistica e materiale) per poterlo poi
utilizzare (si può dire dopo la sua bonifica) in una catena organica di documenti simili, e integrantisi, il cui significato di insieme è l’obiettivo della nostra ricerca.
Lo storico dell’arte, prima di esprimere giudizi storici e critici, deve verificare
l’affidabilità dell’opera che ha davanti, che magari gli arriva con una cattiva
attribuzione, o con un collegamento documentario non pertinente, o, peggio
ancora, contraffatta da restauratori o da falsari. Il mestiere di storico dell’arte
esige preventivamente controlli integrali di contesto geografico e di data,
quegli accertamenti che costituiscono il documento figurativo come tale, storicamente individuato e affidabile, in primo luogo affidabile dal punto di vista
figurativo.
… siamo tenuti ad avere coscienza del fatto che la nostra lettura
critica, per quanto accanita e onesta, è di necessità parziale
Poi viene la lettura critica, che coinvolge la nostra reazione di umana sensibilità, direi anche di compiacimento o di rifiuto (può capitare e dovremo rifletterci). Ne parlano spesso molto bene gli storici della musica descrivendo
l’operazione critica rispetto a un testo musicale come un atto parallelo alla
esecuzione, quasi una riformulazione del testo, che passa attraverso il filtro
della nostra sensibilità e delle nostre possibilità mentali; quando ci muoviamo
come critici, cioè leggiamo il valore poetico di un’opera d’arte (sono vecchi
termini crociani ancora comodi), siamo degli “esecutori”, anche se si tratta di
testi figurativi. Non riusciremo però a leggere l’intera ricchezza e complessità
del testo che abbiamo davanti; sensibilità e memoria sono in qualche misura
limitate dai condizionamenti della nostra cultura oggi ed è per queste ragioni
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che domani, in un diverso contesto culturale, qualcuno leggerà in parte diversamente il nostro testo figurativo da come lo abbiamo letto in perfetta buona
fede oggi noi. È un principio basilare della ricerca in campo umanistico: siamo
in dovere, come lo furono i primi umanisti, di ricontrollare ad ogni approccio
le condizioni di affidabilità della testimonianza che intendiamo affrontare per
poterla utilizzare con fiducia in qualunque ricostruzione storica; dall’altra
parte siamo tenuti ad avere coscienza del fatto che la nostra lettura critica,
per quanto accanita e onesta, è di necessità parziale; non possediamo umanamente il patrimonio completo degli strumenti necessari per far emergere
dall’opera d’arte tutte le sfaccettature dei suoi contenuti: alcune stagioni culturali ci consentono di leggere certe verità ed altre stagioni ce ne svelano
delle nuove. Dobbiamo rassegnarci e fare di questa coscienza una forza nei
confronti delle molte difficoltà che incontreremo lavorando sul tema di ricerca
che ci siamo prefissi.
Il documento figurativo che studiamo non è una testimonianza semplice, è un
oggetto fortemente condizionato: non ci è fornito per trasparenza, ci è fornito
dietro un velo di opacità. Pensate, per esempio, ad un’opera d’arte restaurata
malamente; non è un documento figurativo bonificato, è come inquinato da
elementi non originali, da modi di esprimersi che non sono pertinenti. […]
Un’opera mal restaurata o manomessa è un’opera mascherata ed elusiva.
Pensate ad un dipinto o a una scultura del nostro Quattrocento; spesso il modello umano degli artisti del secolo quindicesimo è drammaticamente scarnito, violentemente rinsecchito, Vasari nel Cinquecento avrebbe detto legnoso e secco […] Un simile modello, che il pubblico del Quattrocento apprezzava come testimonianza figurativa della straordinaria contiguità tra artisti e
notomisti, nell’Ottocento non veniva accettato. I restauratori del secolo
scorso, quando mettevano le mani su un testo troppo scheletrico e spigoloso,
lo addolcivano; gli pareva possibile, nella loro inconscia onnipotenza, di saperlo migliorare, di renderlo ancora più artistico; incapaci di affrontare e di
capire le violenze espressive di una certa parte del nostro Quattrocento preferivano cancellarle, in omaggio a una tradizionale convinzione circa i caratteri
“ideali” della bellezza. Intendevo fenomeni simili quando parlavo di limitazione della comprensione critica, in agguato anche per noi oggi.
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Un filologo senza sensibilità è, a mio modo di vedere, un filologo
molto sospetto, perché rischia di prendere lucciole per lanterne
Non si tratta di un’operazione da falsario, di un inganno programmatico; anche il restauratore ottocentesco è un esecutore e un critico, magari un grande
critico d’arte: nella sostanza esegue dolcemente, in modo romantico, il testo
quattrocentesco. Solo che, nel caso della musica, una esecuzione infedele
non comporta alterazioni sul testo musicale, le note scritte sul foglio restano
sempre quelle; l’opera figurativa sottoposta a un ingentilimento da parte del
restauratore è un documento modificato in modo stabile, che ci può spingere
in errore. Se, così sfigurato, voi l’avete immesso nel repertorio della memoria
(quel repertorio che consultate quando volete attribuire un’opera fino ad allora ignota) e non vi siete accorti che necessitava di un’operazione filologica
di pulizia prima di essere accostato alle prove autentiche e bonificate, vi accorgerete presto di insuperabili difficoltà nel vostro lavoro; avete infatti composto un’immagine sfocata di un momento stilistico in un certo luogo e da
parte di una certa personalità, che comporta soluzioni a rischio (ogni documento apre nuove sciarade alla catena della ricerca, ma il documento inaffidabile può spingerei a itinerari sbagliati). Per questa ragione la filologia preventiva è fondamentale, come è fondamentale che la nostra sensibilità resti
sempre allertata. Un filologo senza sensibilità è, a mio modo di vedere, un filologo molto sospetto, perché rischia di prendere lucciole per lanterne: questo
è particolarmente evidente nella storia dell’arte, dove la sintonia umana tra
artista e critico è una delicata necessità di lavoro. […]
Giovanni Romano, Una lezione per aspiranti storici dell’arte, in L’intelligenza
della passione. Scritti per Andrea Emiliani, a cura di M. Scolaro e F.P. Di Teodoro, Minerva Editrice, San Giorgio di Piano (Bologna) 2001, pp. 489–496 (testo completo), pp. 489–493 (le pagine del brano qui riprodotto) — [Informazioni bibliografiche].
70
1. G. Romano, La Storia dell’arte nella Facoltà di Lettere, in Come diventare
umanisti, Corso residenziale estivo di orientamento della Facoltà di Lettere
e Filosofia (CREOLe), Bardonecchia, 6–11 settembre 1999, Trauben Edizioni, Torino 1999, pp. 67–75 ↩
Sull’attribuzione: il messaggio di
Previtali
Forse è ora di ritornare a studiare la storia dell’arte e lasciare che la vicenda
dei disegni del Castello Sforzesco alberghi ormai nell’intrattenimento ‘culturale’ o nel gossip ‘artistico’.
71
Abbiamo rispolverato infatti le bozze di un articolo sull’attività del conoscitore
imbastito giusto un anno fa, quando ancora una volta si discuteva goffamente
di attribuzioni a Caravaggio o ad altre superstar dell’antica arte italiana (Michelangelo, Leonardo, Raffaello, ecc.). Allora, come antidoto, sembravano bastare le osservazioni di Antonio Natali o di Tomaso Montanari, oggi invece
l’infezione è più seria ed appare davvero più sensato fare un passo indietro
per presentare in tre o quattro puntate un’antologia di letture formative e di
indicazioni bibliografiche. Le affidiamo all’internet come fossero messaggi in
bottiglia, sperando che non tutti affondino travolti dall’information overload e
qualcuno riesca a galleggiare fino a riva.
Cominciamo con l’ancora attualissima voce Attribuzione scritta nel 1971 da
Giovanni Previtali per il primo dei due volumi dell’Enciclopedia Feltrinelli Fischer. Un’impresa progettata e curata dallo stesso Previtali, cui collaborò uno
straordinario gruppo di giovani studiosi (Francesco Abbate, Luciano Bellosi,
Miklós Boskovits, Marco Chiarini, Alessandro Conti, Nicole Dacos, Pierre Gaudibert, Laura Malvano, Anna Maria Mura, Francesco Negri Arnoldi, Antonio Paolucci, Giovanni Romano, Joseph Rykwert, Bruno Toscano).
❧
Attribuzione. È l’atto critico mediante il quale un prodotto artistico viene riconosciuto come appartenente ad un medesimo gruppo di altri prodotti analoghi, supposti opera di uno stesso autore (sia che il suo nome sia noto sia che
non lo sia: nel qual caso si ricorre a nomi convenzionali, di comodo, tipo Maestro di Olimpia, Maestro di Figline, o Maître à la chandelle). L’attribuzione
giunge quindi anch’essa come atto conclusivo dell’analisi stilistica, cioè di
quello che è lo strumento analitico specifico della storia dell’arte e ciò che la
distingue dalle altre discipline storiche.
In effetti per la storia dell’arte valgono in massima parte i principi metodologici della filologia classica e della linguistica storica; loci communes e loro
trasmissione, lectio facilior e lectio difficilior, ritardo delle aree periferiche
ecc.; come valgono i principi della critica storica per quanto riguarda l’analisi,
la selezione e l’utilizzazione delle fonti e dei documenti.
72
Ma lo storico dell’arte è tale in quanto da un lato si avvale di quei particolari
documenti storici che sono le opere d’arte e d’altro lato anche le altre conoscenze storiche è in grado di finalizzare alla ricostruzione della specifica storia delle arti figurative.
Il principio su cui si basa l’attribuzione è molto semplice: e cioè da un lato
sulla capacità della mente umana di riconoscere ciò che già conosce,
dall’altro sull’altra caratteristica dell’uomo di lasciar sempre una impronta
personale su ciò che fa, sia che lo voglia, sia che (come nella storia avviene
assai spesso) cerchi di ottenere proprio l’opposto. Scriveva, già alla fine del
Settecento, Luigi Lanzi, cui possiamo far risalire la prima utilizzazione sistematica del metodo del conoscitore per la ricostruzione della Storia pittorica
dell’Italia, che
1
ma già prima del Lanzi osservazioni meno sistematiche in questo senso avevano avanzato il Vasari, il Mancini, il Félibien, il Baldinucci, il de Piles, il
Richardson, il Crespi, il d’Argenville, ecc.; ed un suo contemporaneo spagnolo, l’erudito Juan Augustin Ceán Bermúdez
2
Come in ogni indagine storica l’errore, nell’attribuzione, ha origine infatti il più
delle volte non tanto nella fase della osservazione (analisi) quanto in quella
successiva dell’induzione sulla base degli elementi raccolti.
Una somiglianza, o una serie di somiglianze, tra le opere “A” e “B” può avere
infatti, storicamente parlando, più significati: derivazione da uno stesso modello “C”; derivazione di “A” da “B”; derivazione di “B” da “A”; analogia di risultati tra “A” e “B” perché ambedue basate su di una stessa condizione ambientale “X”, o perché ambedue rispondenti alla medesima richiesta di un
committente “Y”. Tanto per fare un celebre esempio di quest’ultimo caso, è
ovvio che la maggior parte delle somiglianze tra le varie formelle presentate
73
nel 1401 al concorso per le porte del Battistero di Firenze è dovuta alle clausole del concorso, a loro volta basate sul precedente storico della porta di Andrea Pisano.
Quanto detto basta cioè a render chiaro che l’atto della attribuzione, apparentemente così semplice e, a volte, rapido, giunge in realtà, come abbiamo
detto, alla fine di un processo di analisi dell’opera d’arte (e dei suoi rapporti
reali con la società: altri artisti, convenzioni sociali, morali, di culto o semplicemente di etichetta; committenti a loro volta impregnati di idee politiche, religiose, ecc.); processo di analisi estremamente complesso ed i cui modi e risultati si sono trasmessi ed arricchiti di generazione in generazione, di storico
in storico.
Ben altra cosa è, naturalmente, la corrente pratica attribuzionistica ad uso
commerciale che si potrebbe definire l’arte di rinvenire rapidamente un
“nome” (compatibile, però, con lo stato delle conoscenze) per qualsiasi prodotto si presenti sul mercato. Tale degenerazione meccanica dell’analisi
attribuzionistica è, a ben vedere, la conseguenza proprio dell’astrarre (per
ragioni di pratica efficienza) dai legami con tutto il complesso di fatti che
l’analisi formale dell’opera d’artestoriografia artistica abbia saputo
elaborare a tutt’oggi. Se del resto si tiene ben presente questo carattere sostanzialmente astrattivo del corrente attribuzionismo commerciale, esso
apparirà assai meno distante di quanto non si voglia far credere dalla attribuzione “puramente scientifica” o “filologia” così largamente teorizzata dal
Morelli in poi (Berenson, Offner, Garrison, Zeri ecc.). Fu infatti il Morelli il
primo, in clima di scientismo positivistico, a sostenere che la base scientifica
oggettiva delle attribuzioni andasse ricercata nei dettagli secondari e “meccanici” in cui meno sensibile è l’intervento cosciente dell’autore, e che essi potessero essere considerati “oggettivamente”, uno per uno, in perfetto “scientifico” isolamento. In realtà anche per il metodo del Morelli e dei suoi derivati
valgono le obiezioni mosse sopra: anche i singoli segni caratteristici della maniera di questo o quell’altro (più o meno coscienti che siano) non hanno alcun
valore determinante se non appaiono comprensibili in un contesto che, nel
suo insieme, possa essere a sua volta convincentemente inserito in
quell’altro, più vasto, contesto che è il “catalogo” dell’autore preso in esame.
Qualora tale inserimento appaia contraddittorio anche quel tale carattere di-
74
stintivo (ammesso che sia stato correttamente rilevato) dovrà trovare una diversa spiegazione (copia esatta da un’opera di quel maestro; intervento di
quel maestro nel contesto di un’opera altrui; falso deliberato; ecc.). È per questo che la cosiddetta “intuizione” o “impressione generale” del conoscitore
veramente grande (di un Cavalcaselle, di un Friedländer, di un Longhi)
contiene spesso di fatto un giudizio storico tanto più complesso ed articolato
delle cosiddette analisi scientifiche del Morelli e dei suoi continuatori. Il che
non vuol dire che di quella complessità essi siano sempre in grado di render
conto. Alle difficoltà specifiche dell’analisi e del confronto delle opere d’arte ai
fini della loro collocazione nelle coordinate storiche dello spazio e del tempo
si aggiunge infatti quella, pure particolare della critica delle arti figurative,
della comunicazione mediante parole (cioè mediante un mezzo non omogeneo) dei risultati dell’analisi. Avviene così quel fenomeno, apparentemente
sorprendente, dei buoni (ed a volte grandi) conoscitori che sono allo stesso
tempo mediocri critici o storici (o che non sono affatto critici o storici) nella
accezione comune del termine. La formazione di un linguaggio tecnico abbastanza preciso ai fini della comunicazione verbale dei risultati dell’analisi
formale è problema permanente e non eludibile della storiografia artistica e
costituisce parte essenziale della sua storia.
- Giovanni Previtali, voce Attribuzione, in Arte 2 (“Enciclopedia Feltrinelli Fischer”, 23), a cura di G. Previtali, 2 voll., Milano 1971, I,
pp. 56–60 [informazioni bibliografiche].
Ancora di Previtali sullo stesso argomento: A propos de Morelliinformazioni bibliografiche].
75
1. L. Lanzi, Storia pittoria della Italia: dal risorgimento delle belle arti fin
presso al fine del XVIII secolo dell’Ab. Luigi Lanzi, III edizione, corretta ed
accresciuta dall’autore, 6 tomi, Bassano 1809, I, pp. XXVII-XXVIII (volume
online). Cfr. anche l’ed. a cura di M. Capucci, Firenze 1968–1974, online a
cura della Fondazione Memofonte ↩
2. Trad. it. da J.A. Céan Bermúdez, Diccionario histórico de los mas illustres
profesores de las bellas artes en España, 6 voll., Madrid 1800, I, p. XVIII (volume online) ↩
Roberto Longhi e l’arte dell’ekphrasis
R. Longhi durante una conferenza
M1.
76
Gran parte di questa eredità naturalmente è conservata nei suoi scritti e ormai non c’è quasi mostra che non si apra rispolverando le sue parole e non si
prefigga di confermare o di rivedere i suoi giudizi (operazione condotta in alcuni casi in maniera arbitraria, prelevando citazioni qua e là senza tener
conto dell’evoluzione del pensiero di uno studioso che ha lavorato per più di
cinquant’anni). Recentemente però mi è capitato di leggere alcune descrizioni
di Longhi in veste di conferenziere e di professore universitario fatte da suoi
allievi, che ci restituiscono almeno in parte la suggestione di un modo di comunicare la disciplina complementare a quello dello scritto.
Ci sono le immagini straordinariamente efficaci evocate da un altro artista
della parola, Pier Paolo Pasolini: una è stata citata qualche tempo fa da Giuseppe Frangi, un’altra viene richiamata da Montanari in questo breve video:
Altri ricordi toccanti, questa volta di Francesco Arcangeli, sono ricordati nel libro su Jacopo di Paolo di cui vi ho già parlato qui:
E altrove:
Alla morte del suo maestro, nel 1970, Arcangeli ricordava ancora con grande
commozione le lezioni bolognesi del 1935, di cui scrisse:
77
A. Bartoli, “Ritratto di Roberto Longhi”, 1924. Roma, Galleria Comunale
d’Arte Moderna e Contemporanea
1. R. Longhi, Recensione a E. Petraccone, Luca GiordanoXXIII, 1920, pp.
92–3 (ripubblicata in Id., Opere complete, vol. I, t. I, Firenze 1961, pp.
78
455–60). ↩
Come si attribuisce un quadro?
L’altro giorno Sergio ha voluto rallegrare la mia serata segnalandomi questo
articolo pubblicato dal Corriere. Il tema è sempre quello delle diatribe attribuzionistiche che scomodano grandi nomi della storia dell’arte.
Bernard Berenson
Uno di questi passaggi intermedi è ovviamente costituito dalla cassa di risonanza delle grandi testate giornalistiche non specializzate, che al momento
sembrano in preda a una sorta di schizofrenia storico-artistica: in alcuni casi
si affrettano a sbattere in copertina le conclusioni di un saggio non ancora
edito, in altri invece bisogna attendere una settimana abbondante prima che
una notizia importante (già pubblicata dai giornali inglesi e americani) riesca
a filtrare in qualche redazione culturale italiana. A margine vale forse la pena
di notare che ormai è diventato quasi impossibile leggere una recensione ne-
79
gativa – o anche solo critica – di un libro o di una mostra: pigrizia o piaggeria?
Di sicuro indizio di un lavoro superficiale e di basso livello scientifico.
due lauree e un dottorato
I casi di studio qui ammassati alla rinfusa andrebbero in realtà analizzati ad
uno ad uno per tentare di trarne qualche conclusione sensata. Forse però è
più utile fermarsi a riflettere un attimo su cosa vuol dire in pratica ‘attribuire’
un quadro.
Federico Zeri
In breve, significa assegnargli un posto nello spazio e nel tempo. Non basta
affermare che un’opera è stata dipinta, ad esempio, nel 1450 circa: bisogna
anche dire dove, perché a quella data non si lavorava allo stesso modo a Firenze o a Padova. Solo dopo aver stabilito a grandi linee queste due coordinate si può provare – ma non sempre ci si riesce – ad avvicinare il quadro alla
produzione di un singolo artista.
Per poter compiere queste operazioni è necessario possedere nella propria
memoria un buon repertorio di immagini (di opere di cui si conoscono già la
data o l’autore, ad esempio) con cui confrontare la nuova arrivata. Questo
meccanismo mentale, non molto diverso da quello che ci permettere di riconoscere oggetti di uso quotidiano o persone sulla base di precedenti
80
esperienze, necessita ovviamente di esercizio e aggiornamento continui.
Non è tutto semplice come sembra però. Molte variabili possono rendere
l’operazione più difficile, nei casi più sfortunati impossibile: il cattivo stato di
conservazione dell’opera, l’assenza di oggetti confrontabili con quello di cui ci
stiamo occupando, il fraintendimento di eventuali fonti documentarie… Ci
sono attribuzioni sicuramente sbagliate, poi ce ne sono altre possibili, più o
meno convincenti; in qualche caso fortunato si riesce ad arrivare alla soluzione definitiva. Gli storici dell’arte non sono tutti uguali: alcuni sono bravissimi nelle attribuzioni, altri leggono meglio i documenti, altri ancora danno il
massimo come insegnanti; i pochi grandi riescono bene in tutto.
Forse non sono stata sufficientemente chiara, ma non temete: c’è chi lo
ha spiegato molto meglio di me, quindi Sergio ed io abbiamo deciso di mettere assieme una piccola bibliografia di riferimento sul tema.
“Antologia”: Caravaggio secondo
Roberto Longhi
81
Caravaggio, San Giovanni Battista, 1604 ca.
(Kansas City, Nelson-Atkins Museum of Art)
[Roberto Longhi, Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia, in “Proporzioni”,
I, 1943]
Link index
Roger Fry, il Presepe di Giotto
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82
https://openlibrary.org/books/OL23356857M/Vision_and_design
https://archive.org/stream/visiondesign00fryr#page/96/mode/2up
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Antonio Tabucchi, Beato Angelico
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Strozzi e Michelangelo, La Notte
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William Blake, Paolo e Francesca (Dante, Inferno)
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Marcel Proust, la Veduta di Delft di Vermeer
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Antonio Tabucchi, il sogno di Caravaggio
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Muriel Barbery, una Natura morta di Pieter Claesz
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Ramón Gómez, il Ritratto di padre Paravicino di El Greco (e A.
Venturi, il Ritratto di domenicano di Tiziano)
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Benedetto Croce, il Cristo velato di Sanmartino
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Andrea Camilleri, il Lazzaro di Caravaggio
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Cristina Campo, le Cortigiane di Carpaccio
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Henry James, Tintoretto a San Cassiano
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Italiani nemici dell’arte
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Sull’attribuzione: altre letture
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#intuitiva
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Roberto Longhi e l’arte dell’ekphrasis
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Come si attribuisce un quadro?
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“Antologia”: Caravaggio secondo Roberto Longhi
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59o/s1600/caravaggio_giovanni-battist.jpg
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