IL TAPPETO DI CACCIA DEL MUSEO POLDI PEZZOLI

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IL TAPPETO DI CACCIA DEL MUSEO POLDI PEZZOLI
IL TAPPETO DI CACCIA DEL MUSEO POLDI PEZZOLI
Questo grandioso tappeto, costellato da vivaci scene di caccia che si intrecciano alla ricca
decorazione floreale sul fondo blu scuro è uno dei capolavori conservato al Museo Poldi Pezzoli.
Eleganti cavalieri che indossano i costumi dei cortigiani dello Sha Tahmāsp sono raffigurati mentre
affrontano animali selvatici e lottano con bestie feroci.
Nella Persia safavide la pratica della
caccia è uno dei passatempi preferiti
dalla nobiltà. Essa richiede doti di forza
fisica, abilità, valore, e i poeti e gli storici
vi attingono spesso metafore e
similitudini per esaltare i loro mecenati.
Sin dai più antichi componimenti poetici,
la caccia è un tema importante della
letteratura cortigiana.
Attraverso la caccia, la corte esprime i
suoi valori e i suoi usi.
Il vitale e ricchissimo tema della caccia
collegabile concettualmente a quello
degli
animali
in
combattimento,
anch’esso
inteso
come
rappresentazione del paradiso, è molto
ricorrente nell’arte e nella poesia
safavide.
Le scene di caccia hanno per
protagonisti principi a cavallo e cortigiani
ritratti nel rincorrere, attaccare e
uccidere o a loro volta essere attaccati
da animali feroci.
La caccia era considerata come l’attività
regale per eccellenza e come tale non
poteva certo mancare nell’Eden.
Essa richiede forza, coraggio, abilità , cameratismo, perseveranza, violenza e crudeltà, attitudini
che interpretate a livello mistico sono metafore della ricerca spirituale e come tali richiedono la
distruzione dell’ignoranza, delle tendenze nefaste simboleggiate da fiere, gazzelle, cervi, cinghiali
e draghi. Al contempo può essere simbolo della spensierata e irresponsabile rincorsa verso le
attrazioni effimere di questo mondo.
Shah Ismail incarna perfettamente ambedue questi ruoli avendo dedicato buona parte della sua
vita alla caccia. Numerose sono le testimonianze che narrano di grandi battute che vedevano
migliaia di animali uccisi.
Nelle miniature dove il cacciatore viene sempre raffigurato vittorioso,la caccia si svolge in un
ambiente irreale , senza tempo, nel quale l’eroe epico, annientando le fiere intese come i mali del
mondo, si santifica come “il giusto”
Guerriera, maschile, gerarchica ama attività fisiche in grado di generare eccitamento e
cameratismo (che spesso sfociava in banchetti e libagioni) e di mettere in mostra le virtù
tradizionalmente maschili del coraggio, dell’abilità e della resistenza.
Nella cultura del tempo inoltre la caccia è strettamente collegata alla guerra, sia metaforicamente
che in pratica. Entrambe richiedono le stesse doti di audacia, forza e scaltrezza. Entrambe sono
rischiose e in entrambe la preda viene inseguita, catturata e uccisa. Le tecniche usate sono simili e
le armi le stesse.
Oltre ad essere il passatempo preferito della nobiltà, la caccia ha anche un profondo valore
simbolico, in cui si riassumono i principi etici e filosofici dell’epoca. Gli animali in lotta incarnano
l’eterno conflitto tra bene e male, i cacciatori invece rappresentano la ricerca dell’elevazione
spirituale attraverso l’annientamento del proprio io.
Cacciatori e prede si inseguono intorno al medaglione centrale, tradizionale in questo tipo di
tappeti. In questo caso il medaglione racchiude un cartiglio con un’iscrizione che reca la firma
dell’autore e la data in cui fu eseguito.
La scritta dice «per le fatiche di Ghyas el Din Jami quest’opera rinomata fu condotta a così
splendido compimento nell’anno 949». La data corrisponde probabilmente al 1542-1543 dell’era
cristiana.
Questo straordinario tappeto, uno dei pochissimi
datati e firmati, non faceva parte della collezione
di Gian Giacomo Poldi Pezzoli; è arrivato, infatti,
al Museo nel 1923,
È nota solo la parte più recente della sua storia:
nel 1870 è stato trovato, dalle truppe italiane,
diviso in sei o sette pezzi, all’interno del Palazzo
del Quirinale, l’allora residenza papale. Nel 1895
il tappeto fu trasferito a Monza, alla Villa Reale e
quando questa passò di proprietà del Demanio
statale, venne destinato alla Pinacoteca di Brera,
che dal 1923 lo concesse in deposito al Museo
Poldi Pezzoli in cambio del polittico di Giovanni
Angelo d’Antonio da Bolognola presso
Camerino. Fu probabilmente restaurato quando venne collocato nella Villa Reale di Monza, sotto
le cure della Regina Margherita.
Grazie a questo intervento di recupero, che ha utilizzato la tecnica del punto arazzo, sono stati
ricomposti i frammenti mancanti, oggi facilmente identificabili in quanto meno in rilievo rispetto alle
parti originali.
E’ solo negli anni Ottanta che il frammento mancante viene individuato: faceva parte di una
collezione privata ed era stato acquistato sul mercato antiquario come “anonimo frammento di
tappeto”.
Recentemente, grazie alla generosità del suo ultimo proprietario Alessandro Bruschettini, il
frammento è stato donato al Poldi Pezzoli: un evento di portata eccezionale poiché esso
costituisce la porzione più cospicua (135 x 48 cm) delle parti mancanti.