Burundi

Transcript

Burundi
Servir
No.19
Maggio
2000
La loro
condizione è
un atto di
accusa contro
ognuno di voi
Nelson Mandela, in un discorso
ai partecipanti ai negoziati di
pace per il Burundi, parla degli
sfollati nei campi di raccolta
Birmania
Serbia
Sri Lanka
Tanzania
Repubblica Dominicana
Burundi
MAGGIO 2000
Servizio
dei
Gesuiti
per
i
Rifugiati
1
Rifugiato per la maggior parte
Costretto a lasciare la
propria casa in Burundi
28 anni fa, Nathaniel
Ntukamazina, vive, da
allora, tra il Congo e la
Tanzania. La maggior
parte della sua vita l’ha
trascorsa nei campi
profughi. Nathaniel
condivide con noi la sua
esperienza di rifugiato,
padre di famiglia e
catechista che serve gli
altri rifugiati dei campi.
Nathaniel al lavoro nella biblioteca
del campo di Nduta, Tanzania
S
ono stato un rifugiato per la
maggior parte della mia vita.
Ricordo chiaramente il
giorno, anni fa, in cui lasciai
il mio paese, il Burundi, per rifugiarmi
in Zaire (oggi Congo) con i miei genitori e altri cinque fratelli e sorelle più
giovani. Avevo 17 anni all’epoca. Fummo costretti a partire il 25 aprile 1972.
Quando arrivammo in Zaire, ci stabilimmo, per tre anni, nelle vicinanze
del villaggio di Mboko, nella regione di
Uvira. Fui catturato due volte dalle
milizie dello Zaire tra il 1972 e il 1974 e
fui costretto a fare il portatore quando
combattevano nelle foreste. Una volta
venni picchiato tanto selvaggiamente sulle gambe e nello stomaco da
dover essere riportato
a Mboko.
A quel punto per noi
divenne impossibile rimanere nel villaggio.
Avevamo beneficiato
della distribuzione del
cibo e quando questa
terminò l’unica possibi-
La vita nel
campo è molto
dura … Ci
sono molte
difficoltà e
poche gioie per
noi rifugiati. La
nostra famiglia
e i nostri amici
sono divisi, io
non so dove
siano alcuni dei
miei fratelli e sorelle … Tuttavia per
un cristiano è impossibile perdere la
speranza.
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lità di sopravvivenza sarebbe stata
prendere in affitto della terra e coltivarla noi stessi. Ma non avevamo denaro e nel 1975 ci trasferimmo nel
vicino campo profughi del Burundi,
dove tutti noi avevamo il permesso di
coltivare la terra.
Nel 1983 diventai catechista e lavorai con i cattolici del campo, avamposto della parrocchia di Mboko. Dopo
dieci anni divenni il capo dei catechisti.
Durante gli anni trascorsi nel campo
incontrai una donna congolese, Murishi
Janette. Ci sposammo e mettemmo su
famiglia: il nostro primo figlio nacque
nel 1983. I miei genitori e due fratelli
tornarono in Burundi nel 1992, ma
quando mio padre morì nel 1992, mia
madre venne di nuovo in Zaire per stare con me.
La vita continuò normalmente finché non fummo costretti a fuggire di
nuovo quando, nel 1996, la guerra tra
Mobutu e Kabila in Zaire raggiunse la
regione di Uvira. La popolazione del
campo venne dispersa. La mia famiglia - mia madre, mia moglie, otto bambini e io - ha attraversato il Lago
Tanganika insieme ad altre 45 persone
a bordo di due grandi canoe per raggiungere la regione di Kigoma in Tanzania.
Per due mesi abbiamo vissuto nei
pressi del villaggio di Kaseke. Abbiamo trovato rifugio in una chiesa e abbiamo pescato un po’ per procurarci il
cibo. Tuttavia, ciò non era sufficiente.
La mancanza di alimenti ci ha reso progressivamente più deboli e dopo esserci
ammalati varie volte, abbiamo deciso di
dirigerci verso un campo.
Mio figlio di quattro anni era gravemente ammalato quando, agli inizi del
gennaio 1997, raggiungemmo un campo di transito. Mia moglie, insieme al
nostro neonato, portò il bambino in
ospedale. Durante i pochi giorni che
trascorsero nell’ospedale, il resto di noi
Servir
della vita
venne trasferito nel campo di Nduta,
nel distretto di Kibondo, a un centinaio
di chilometri di distanza. Mia moglie
non sapeva dove ci avessero condotti
e quando iniziò a cercarci disperatamente io stavo già tentando di organizzare tutto affinché lei e i due bambini
potessero essere condotti a Nduta. Ciò
accadeva sei mesi prima che ci riunissimo di nuovo: è stato un periodo molto
duro per noi.
A Nduta la mia vita da rifugiato
continua. Mia madre è morta e è stata
sepolta qui. Nel 1998 è nato il mio nono
bambino. Qui noi siamo al sicuro dalla
guerra e riceviamo cibo ogni due settimane. Ma la vita del campo è molto
difficile. La nostra famiglia e i nostri
amici sono divisi, io non so dove siano
alcuni dei miei fratelli e sorelle. Il campo è situato in una foresta e per questo
motivo non possiamo coltivare la terra. E non siamo neanche liberi di viaggiare fuori dal campo senza permesso,
il quale è molto difficile da ottenere.
Io continuo a servire la chiesa lavorando come catechista insieme ad
altri al servizio dei 12.000 cattolici
nel campo. Sono parte del mio lavoro
l’insegnamento e la preparazione
di giovani coppie al sacramento
del matrimonio. Nel novembre dello
scorso anno abbiamo costruito una
piccola biblioteca e una sala di lettura
con l’aiuto del JRS e io sono il bibliotecario. Mi piace molto condividere i
pochi libri che abbiamo con coloro che
vengono in biblioteca.
Noi rifugiati dobbiamo affrontare
molte difficoltà e abbiamo poche gioie.
Tuttavia per un cristiano è impossibile
perdere la speranza. La pazienza e la
tenacia delle quali ho bisogno mi vengono da Dio. Dopo 28 anni vissuti da
rifugiato, ho fiducia nel fatto che Dio
sappia quando ritornerò a casa in
Burundi.
MAGGIO 2000
Rifugiati in Tanzania
La Tanzania ospita oltre
400.000 rifugiati, molti dei
quali provengono dal
Burundi. Dalla
proclamazione
dell’indipendenza del
Burundi nel 1962, ondate di
omicidi durante gli anni
hanno provocato sfollamenti
di massa verso altri paesi. Il
JRS gestisce diversi progetti
in Tanzania lavorando con
rifugiati che erano e sono
tuttora profondamente
traumatizzati dal conflitto e
dalla violenza. Istruzione,
consulenza, risoluzione dei
conflitti e costruzione di
comunità cristiane sono tutte
questioni che rientrano nel
nostro lavoro. Il JRS gestisce
anche Radio Kwizera, una
stazione radio ubicata a
Ngara e al servizio sia della
comunità locale che dei
rifugiati.
Un giorno speciale per il JRS Tanzania
Un progetto del JRS iniziato meno di due anni fa a Ngara sta ottenendo sempre maggiore
successo essendo riuscito a costruire ben tre scuole elementari fino ad ora. Il 18 febbraio
di quest’anno è stata aperta nel campo di Lukole la terza delle scuole per i bambini del
Burundi finanziate dal JRS. “E’ un giorno speciale per il JRS della Tanzania”, ha scritto
Katie Erisman MM, direttore del JRS. “Molti genitori erano presenti e il loro orgoglio e la
loro gioia erano evidenti. La partecipazione della comunità dei rifugiati è stata eccellente.
Ogni famiglia con un bambino nella scuola ha preparato mattoni di fango”. Gervais, l’artista locale, ha ravvivato porte e finestre con disegni di animali, frutta e fiori dai colori
sgargianti. “Ogni scuola è un ambiente sicuro, attraente e stimolante, dove i bambini
possono essere bambini e crescere e imparare come i bambini dovrebbero fare”, ha
sottolineato Lolin Menendez RSCJ, responsabile JRS delle risorse umane per l’istruzione in Africa. Entro la fine dell’anno saranno costruite altre due scuole per un totale di
cinque scuole per l’istruzione di 2.000 bambini. Il progetto sta sbocciando grazie al duro
lavoro di Louise Reeves RSJ e di Marie Huguet-Latour. “Sono stata onorata di essere
stata chiamata a scoprire lo stemma della scuola, anch’esso dipinto da Gervais”, ha detto
Sr Lolin. “Esso riproduce la scuola con un cerchio di persone intorno che guardano un
bambino che indica la cartina del Burundi e dice: ‘Burundi Bwejo’ (Burundi domani). La
mia preghiera è che questo domani arrivi presto, molto presto!”
3
Katrin Gerdsmeier
descrive lo
sfruttamento e le
violazioni dei diritti
umani sofferte dagli
immigrati haitiani
nella Repubblica
Dominicana. Le sue
osservazioni sono
basate sullo studio da
lei condotto come
ricercatrice del JRS.
Schiavi di oggi
N
essun essere umano è illegale. E’
forse una dichiarazione ovvia,
tuttavia oggi intere popolazioni sono
stigmatizzate con il marchio di “illegali” per essere sistematicamente escluse
dall’esercizio dei più elementari diritti civili e
sociali. Gli immigrati haitiani nella Repubblica Dominicana sono uno di questi gruppi. Sono
ostracizzati e discriminati e privati dei loro diritti
fondamentali.
La Repubblica Dominicana e Haiti condividono la stessa isola dei Caraibi: Haiti occupa un
terzo del territorio e la Repubblica Dominicana i
restanti due terzi. Ognuno dei due Stati ha una
popolazione di circa otto milioni di abitanti. Le
relazioni tra i due Stati sono state rovinate da
tensioni politiche e razziali che risalgono all’epoca
coloniale e il profondamente radicato “antihaitianesimo” si ricollega a questa storica
animosità.
Oggi gli immigrati haitiani lavorano in differenti settori dell’economia dominicana. La loro
presenza non è accolta di buon grado dall’opinione pubblica, che per la maggior parte è ostile
agli haitiani la cui pelle è più nera. Si stima che
gli haitiani che ora vivono sul territorio della
Repubblica Dominicana siano tra i 400.000 e un
milione. Molti di questi sono discriminati a
causa di un complesso intreccio di violazioni dei
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diritti umani e sfruttamento.
Gli haitiani vengono reclutati come lavoratori
dall’industria dello zucchero. Fino a poco tempo
fa l’industria era monopolio dell’Agenzia Statale dello Zucchero (CEA), ora privatizzata. Lavorando nelle piantagioni di zucchero o in altre
industrie, gli immigrati ben presto scoprono che i
loro diritti fondamentali vengono sistematicamente violati. Sono costretti a lavorare per lunghe e
faticose giornate nel caldo, ricevendo un salario
inferiore al minimo previsto, quando lo ricevono.
Al di là delle ore lavorative, la vita non è migliore. Gli alloggi sono terribili: la maggior parte
delle “bateyes”, le baraccopoli costruite dentro
le piantagioni di zucchero nelle quali vivono gli
haitiani, sono prive di elettricità, di acqua potabile e di latrine. Non c’è assistenza medica. Intere famiglie vivono in baracche senza finestre
dormono in terra e cucinano all’aperto su un
fuoco condiviso con altri. Le famiglie haitiane
vivono nella costante paura di visite dell’esercito. Esistono casi documentati di soldati che
irrompono nelle case degli haitiani, distruggendole, picchiando le persone, rubando il denaro.
Durante queste incursioni le donne sono state
vittime di abusi sessuali e alcuni sono stati
uccisi. Un’altra ombra che incombe sugli haitiani
è il sempre presente pericolo dell’arresto arbitrario e del rimpatrio. La polizia e l’esercito
Servir
organizzano periodicamente retate nelle bateyes,
solitamente di notte, arrestando anche chi
possiede i documenti d’identità. Le persone
vengono fatte salire su carri bestiame, spesso
senza dar loro neppure la possibilità di salutare i
propri cari. Molte volte non è loro concesso di
raccogliere i propri oggetti personali. Migliaia di
persone, lo scorso novembre, sono state rimpatriate con la forza.
Di frequente le organizzazioni per la difesa
dei diritti umani protestano contro queste violazioni, sottolineando il fatto che la Repubblica
Dominicana ha firmato e ratificato le convenzioni internazionali per i diritti umani. In ogni caso,
non solo il Governo chiude un occhio di fronte
agli abusi molto frequenti, ma li perpetua applicando nei confronti della popolazione haitiana
una politica d’immigrazione molto restrittiva. La
maggior parte degli haitiani sono a rischio
poiché non hanno documenti d’identità e non sono
regolarmente registrati. Così, non solo gli haitiani
sono facile preda delle retate e delle espulsioni,
ma sono anche privi della possibilità di esercitare i diritti sociali, quali l’accesso al servizio
sanitario e l’istruzione.
La regolarizzazione della loro posizione per
ciò che riguarda la residenza è essenziale per
un’effettiva protezione dei diritti civili e sociali.
Devono essere distinti in almeno due gruppi: persone nate da genitori haitiani nella Repubblica
Dominicana e immigrati haitiani che non sono
nati sul territorio dominicano.
Il primo gruppo dovrebbe poter chiedere la
cittadinanza dominicana in quanto la Costituzione stabilisce che la cittadinanza deve essere
concessa a “tutti coloro che sono nati sul territorio della Repubblica Dominicana, ad eccezione
dei figli legittimi degli stranieri residenti nella
nazione, come ad esempio i diplomatici, o di
coloro che sono in transito”. Tuttavia, spesso i
figli di genitori haitiani non riescono a ottenere i
documenti d’identità necessari a provare la
condizione legale di cittadini dominicani. Anche
nel caso ci riescano, di frequente il governo
applica, ingiustamente, l’eccezione “persone in
transito”.
Quando le persone di discendenza haitiana non riescono a ottenere un passaporto
dominicano diventano, in pratica, apolidi. Sebbene la Costituzione haitiana stabilisca che ogni
figlio nato da madre o padre haitiano acquisisca la cittadinanza haitiana, decreta anche
l’inammissibilità di una doppia cittadinanza. Ai
sensi della legge, i bambini nati da una discendenza haitiana nella Repubblica Dominicana
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entrano automaticamente in possesso della
nazionalità dominicana e così non possono più
essere cittadini haitiani.
Il secondo gruppo di immigrati haitiani, quelli
che non sono nati nella Repubblica Dominicana,
non hanno nessun appiglio legale per richiedere
la cittadinanza dominicana. Soltanto il 10-20%
di costoro sono legalmente residenti e hanno
titolo per rimanere nel territorio dominicano.
Comunque anche haitiani i cui documenti sono
in ordine sono stati rimpatriati con la forza per il
solo fatto di essere haitiani.
Ai sensi della legge dominicana, gli immigrati
haitiani senza documenti non possono chiedere
un permesso di soggiorno. Il trattamento
riservato agli haitiani è almeno contraddittorio,
per non dire assolutamente illegale. Il loro reclutamento è svolto da reclutatori pagati da organismi come l’ormai defunta CEA, spesso con il
consenso del Governo dominicano e l’aiuto
dell’esercito. E’ altissimo l’interesse per la
manodopera a basso costo haitiana. Ma, una
volta reclutati, gli haitiani sono condannati a
vivere in condizioni di illegalità, come se vivessero sul territorio dello Stato contro la volontà
del Governo dominicano.
La tragedia dei lavoratori immigrati haitiani
venne esaminata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) nel lontano 1983. Tristemente, le inequivocabili conclusioni raggiunte
dall’OIL non sono ancora state messe in pratica… “ E’ illegittimo che uno Stato mantenga in
uno status di illegalità lavoratori il cui impiego
esso accetta in quanto necessario al funzionamento dell’economia… La situazione di tali
lavoratori deve essere sanata”.
La rete di Solidarietà DominicanaHaitiana comprende nove organizzazioni per la difesa
dei diritti umani.
Tutte lavorano per
la difesa dei diritti
degli immigrati
haitiani e dei
dominicani di
origine haitiana.
La rete lotta
contro i pregiudizi
razziali attraverso
la promozione
della solidarietà
tra il popolo
dominicano e
quello haitiano.
Comunque tu sei haitiano
Gli abitanti di Batey Libertad sentirono il camion che si avvicinava, ma
non si allarmarono. La Guardia spesso visitava la Batey, ma raramente
di primo pomeriggio. Il diciottenne Jose Martinez, un muratore, venne
avvicinato mentre era a metà strada tra la sua abitazione e l’area delle
docce dalla quale era appena uscito, vestito solo con un asciugamano
avvolto intorno ai boxer. Nato e cresciuto nella Batey Libertad, afferma
di non essere neppure in grado di contare tutti i suoi parenti che
vivono lì: fratelli, sorelle, zii, nonni e cugini dai quali va in visita nei fine
settimana e nei giorni liberi come questo. Avendo un soldato in
uniforme chiesto i suoi documenti, rispose che era dominicano.
Quando la Guardia si fece beffe della sua risposta e gli ordinò di
salire sul camion, Jose mandò uno dei suoi cugini, un ragazzo di
nome Papo, a prendere i documenti d’identità, una maglietta e un
paio di pantaloncini. Papo riportò indietro tutto e anche il certificato di
nascita del suo cugino più grande, e Jose lo mostrò al soldato che
aspettava. Il soldato esaminò i documenti velocemente, li mise in
tasca e disse a Jose “Comunque tu sei haitiano”.
(Estratto dall’edizione novembre 1999 di Crossing, un bollettino pubblicato
da John MacLaughlin e dal Centro de Reflexion, Encuentro y Solidaridad)
5
Quale speranza per il Burundi?
di Amaya Valcárcel
I
l ciclo si ripete. “Lo scorso anno
abbiamo assistito ad alcuni segni
di miglioramento per ciò che
riguarda la salute dei bambini
sfollati che avevano sofferto a causa di una grave malnutrizione. Ora
si vedono segni differenti: capelli
che diventano bianchi, visi, pance e
estremità gonfie”.
La riflessione di Sylvie, medico che
lavora con il JRS Burundi, echeggia la
disperazione di una popolazione costretta a subire sette anni di una guerra civile che ha dilaniato il paese. La
guerra, combattuta tra i gruppi armati
di opposizione hutu da una parte e il
governo e l’esercito controllati dai tutsi
dall’altra, è costata la vita a migliaia di
persone causando lo sfollamento di più
di un milione di burundesi, più di
800.000 dei quali sono stati sfollati all’interno dello Stato. Ciò significa che
vi è una media di uno sfollato ogni otto
civili. In Burundi, la violenza degli scontri si è intensificata durante lo scorso
agosto, quando gli attacchi dei ribelli alla
capitale, Bujumbura, hanno provocato
selvagge rappresaglie dell’esercito.
6
Come sempre, i civili sono stati gli innocenti obiettivi di entrambe le parti in
conflitto.
A settembre, per reagire all’escalation della violenza dei combattimenti,
il governo ha evacuato due terzi della
popolazione della zona rurale di
Bujumbura - principalmente poveri
contadini di etnia hutu - dalle proprie
case trasferendoli in squallidi campi
“di raccolta” (vedi foto in testa). Un
Un giorno siamo stati portati
via dalle nostre case e
condotti su questo pezzo di
terra.
totale di circa 340.000 persone sono
state forzatamente sfollate in più di 50
campi. Tuttavia, è ormai noto che la
politica “di raccolta” attuata dal governo è soprattutto una strategia di
contrafforte alla guerriglia.
Per quanto “valido” fosse il motivo
per sfollare i civili, il governo non è stato
in grado di fornire neppure i servizi es-
senziali alla popolazione ammassata nei
campi organizzati dallo Stato stesso.
“Un giorno siamo stati portati via dalle
nostre case e condotti su questo pezzo
di terra. Non vi erano ripari e così dovemmo costruire capanne con foglie di
banano e rami. Una ONG ci ha dato
teloni di plastica da usare come tetti”,
ha raccontato un uomo.
Alle organizzazioni umanitarie
non è stato concesso di accedere ai
campi per un mese; dopo alla maggior
parte di queste è stato concesso un
accesso limitato. A ottobre il JRS ha
avuto il permesso di iniziare il proprio
lavoro in due campi, collaborando
con il Catholic Relief Services - CRS
e con il World Food Program - WPF
nella distribuzione dei pasti. Abbiamo
deciso di intervenire perché la popolazione versava in un evidente stato di
bisogno. Abbiamo cosí risposto, insieme ad altre organizzazioni religiose, alla
richiesta della chiesa locale.
Dobbiamo fermarci a riflettere sul
lavoro del JRS nei campi nei quali il
governo ha sfollato la popolazione del
proprio Stato. Una considerazione a
Servir
favore di un tale intervento potrebbe
essere la necessità di accompagnare
gli sfollati i cui bisogni non sono soddisfatti da altri. Le precarie condizioni di
sicurezza nei campi hanno avuto come
conseguenza una presenza internazionale molto ridotta. Dopo l’uccisione di
due operatori delle Nazioni Unite avvenuta il 12 ottobre 1999 nella provincia di Rutana, le Nazioni Unite hanno
drasticamente limitato le proprie attività in Burundi. “So che queste persone
soffrono. Quando faccio loro visita sono
felici perché desiderano mostrarci in
quali condizioni stanno vivendo”, ha
detto un operatore del JRS Burundi.
La politica di raccolta ha avuto
conseguenze disastrose tra le quali una
preoccupante scarsità di cibo e il
saccheggio delle case degli sfollati opera, in alcuni casi, dei militari. In seguito
all’impegno preso dal governo in
gennaio di smantellare alcuni campi, a
febbraio pochi tra questi sono stati chiusi. Tuttavia la gente si è radunata in
altri luoghi per il timore di attacchi
notturni. “Alcuni campi verranno chiusi, ma le persone che li lasceranno
troveranno le proprie case distrutte.
Anche se tornassero nelle proprie
abitazioni, avrebbero bisogno di aiuti
alimentari almeno per quattro mesi, fino
al prossimo raccolto” ha affermato un
operatore del JRS.
La tragedia umanitaria dei campi di
raccolta è soltanto una dimostrazione
concreta delle innumerevoli violazioni
dei diritti dell’uomo commesse contro
il popolo del Burundi. Quali possono
essere le prospettive di pace per una
nazione devastata da una sofferenza
che dura da così tanto tempo? I negoziati di Arusha, iniziati nel giugno del
1998 che, potenzialmente, offrono qualche speranza, non hanno ancora portato a risultati concreti. Durante l’ultimo
giro di consultazioni, che si è chiuso
all’inizio di marzo di quest’anno, il
mediatore, Nelson Mandela, ha suscitato l’ira dei gruppi a predominanza tutsi
quando ha sottolineato che non ci
potrà essere pace nel Burundi fintanto
che i tustsi non allenteranno la loro
presa sul potere.
So che queste persone
soffrono. Quando faccio
loro visita sono felici perché
desiderano mostrarci in
quali condizioni stanno
vivendo.
Al di là delle possibilità di pace generate dalle trattative ad alto livello, si
ripone la speranza nelle iniziative intraprese a più stretto contatto con la
popolazione. La società civile - le ONG
che operano in difesa dei diritti dell’uomo, le associazioni femminili, le unioni
degli studenti o dei giornalisti, i gruppi
religiosi - sta guadagnando terreno nel
Burundi come nel resto dell’Africa
poiché la gente è stanca di aspettare
che i politici si affranchino dai loro interessi esclusivamente etnocentrici e
egocentrici. Le associazioni prendono
iniziative in nome della pace, chiedono
trasparenza, assunzione di responsabilità e la promozione della vera democrazia. La Costituzione, adottata
nell’agosto del 1998, prevede la presenza di rappresentanti delle organizzazioni della società civile all’interno
dell’Assemblea nazionale. Una società civile che lotta per superare i traumi
del colonialismo e del post-colonialismo,
della dittatura e della guerra, è già un
segno di speranza.
Durante un’iniziativa presa di recente da donne di etnia hutu e tutsi
di uno dei distretti più violenti di
Bujumbura, è stato organizzato uno
scambio di aiuti tra le diverse etnie
come segno di solidarietà. Sham-il
Idriss, direttore dell’organizzazione
“Ricerca di una Terra Comune in
Burundi”, ha descritto questo scambio
dove “250 donne, anziane, giovani, fragili, forti, hutu, tutsi si sono affollate in una
stanza per dimostrare la loro solidarietà”. Mentre fuori esplodevano i proiettili,
le donne cantavano “Dateci la pace”.
Il popolo del Burundi ha bisogno
della pace. Mentre le differenti fazioni
in guerra contrattano sedute al tavolo
di pace di Arusha, i civili sono sfollati,
affamati, ammalati, torturati e uccisi.
Utilizzando le parole di P. Mateo
Aguirre SJ, direttore del JRS Grandi
Laghi: “La cosa più triste è che ai
burundesi basta poco per vivere felicemente. Tutto ciò di cui hanno bisogno è la loro casa, un pezzo di terra e,
naturalmente, molta pace”.
Amaya Valcárcel
è la responsabile delle politiche
del JRS internazionale
La cosa più triste è che ai burundesi
basta poco per vivere felicemente
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Rifugiati Shan in Thailandia
Una comunità nascosta
Rifugiati provenienti dallo Stato Shan, in
Birmania, fuggono in Thailandia a causa
dei reinsediamenti di massa forzati e altre
gravi violazioni dei diritti umani. Tuttavia
in Thailandia non sono riconosciuti come
rifugiati e sono quindi costretti a trovare
da soli i mezzi per il loro sostentamento,
riferisce Mona Lazco.
Una famiglia si nasconde nella giungla
dopo il reinsediamento forzato
Un villaggio della zona centrale dello Stato
Shan, deserto dopo il reinsediamento
8
P
uò rivelarsi difficile scoprire dove si trovino i rifugiati. Questo
è il punto di vista degli operatori del JRS che stanno tentando
di localizzare i membri del consistente gruppo di 100.000
rifugiati Shan (Tai Yai) che secondo alcune fonti vivono lungo
il confine settentrionale della Thailandia. I rifugiati Shan che si trovano in
Thailandia vivono in capanne nascoste in un mare di appezzamenti di
terreno, “una comunità silenziosa” sono le parole utilizzate da un operatore di una ONG per descriverli. Il governo thailandese non riconosce agli Shan lo status di rifugiati, descrivendoli come immigrati
per motivi economici soggiornanti in Thailandia in modo illegale.
Molti di costoro si sono integrati nella società thailandese grazie ai
legami familiari. Molti sono dispersi in cantieri e fattorie nella
Thailandia settentrionale, normalmente contrari a rivelare dove si
trovi il loro rifugio, anche alle ONG che tentano di portar loro
aiuto. Gli Shan, insieme ad altre minoranze etniche presenti in Birmania, sono stati vittime di repressioni e violazioni dei diritti umani
perpetrate dai governi militari birmani sin quasi dall’indipendenza
ottenuta nel 1948. La maggior parte delle minoranze presenti nell’Unione della Birmania ha ingaggiato una resistenza armata contro le truppe governative. Il conflitto continua a tutt’oggi, sebbene
molte delle minoranze abbiano firmato accordi per il cessate-ilfuoco con il governo. Lo scenario dell’insurrezione nello Stato Shan
è strettamente legato al suo mercato dell’eroina, presumibilmente
il più vasto del mondo. I laboratori di eroina della zona un tempo
controllata da Khun Sa, signore della guerra dello Shan, che firmò un
cessate il fuoco nel 1996, sono ora in possesso del Consiglio per la Pace
e lo Sviluppo dello Stato (CPSS) che governa la Birmania.
Poco dopo l’accordo per il cessate il fuoco che sciolse l’esercito Mong
Tai di Khun Sa, iniziò un massiccio reinsediamento della popolazione
nello Stato Shan. Solamente durante quell’anno la Fondazione per i Diritti Umani dello Shan documentò che 1.400 villaggi furono spostati
in zone di reinsediamento situate in aree strategiche, mossa che
sradicò oltre 300.000 persone. Molti rifugiati fuggirono dallo Stato
Shan durante i primi anni ’90 per ragioni economiche, ma negli
scorsi quattro anni le motivazioni della loro fuga sono state direttamente connesse alla guerra civile e alla crisi umanitaria nella loro
madrepatria. I rifugiati raccontano terribili storie di sofferenze patite
sotto il governo della giunta birmana. La maggior parte di costoro
è fuggita da reinsediamenti di massa, fame, lavori forzati e altre
gravi violazioni dei diritti umani.
In Thailandia, gli Shan sperano in un futuro migliore. La realtà
è spesso dolorosamente diversa. I progetti di mandare a scuola i
propri figli hanno spesso vita breve poiché la maggior parte dei
genitori Shan non può permettersi di pagare le tasse scolastiche.
Uno stipendio “ragionevole” per lavoratori Shan corrisponde alla
metà, o ancor meno, del minimo salariale che verrebbe pagato ad
Servir
Non è facile localizzare i
rifugiati Shan in
Thailandia. Vivono in
capanne nascoste in un
mare di appezzamenti di
terreno, “una comunità
silenziosa”.
un lavoratore Thai per lo stesso lavoro. E in cambio i lavoratori Shan
rischiano la propria salute: nelle coltivazioni di orchidee irrorano pesticidi
privi di tute di protezione contro i letali prodotti chimici. Durante una
visita nella zona di Fang, nella Thailandia settentrionale, siamo capitati
nella casa di una vedova. Il figlio, un anno, e la figlia, nove anni, erano in
casa. I vicini ci raccontarono di come il marito era morto pochi mesi
prima, a causa della prolungata esposizione ai prodotti chimici che utilizzava per lavorare.
Mentre un comitato di rifugiati Shan assiste i nuovi arrivati, molti rifugiati attraversano i confini della Thailandia dove sono soli e vulnerabili.
Phongphan Phokthavi (Jub), operatore pastorale del JRS, che ha iniziato
a lavorare con i rifugiati Shan lo scorso anno, trascorre lunghe giornate
cercando i rifugiati che hanno bisogno di assistenza. Jub assiste le famiglie con progetti personalizzati. Alcuni sono stati messi nelle condizioni di
iniziare piccoli progetti per la produzione di reddito. Sul fronte dell’istruzione, Jub ha preso contatti con le scuole, per aiutare i bambini Shan
recando loro visite regolari. Dal momento che il materiale didattico nella
lingua Shan è molto scarso, il JRS ha aiutato il Comitato Shan per l’Istruzione per la traduzione e la stampa di libri scolastici, ora largamente in
uso sia nella Stato Shan che nelle scuole in Thailandia.
Le ONG sostengono che i rifugiati Shan hanno il diritto di vivere nei
campi profughi, simili a quelli aperti per i rifugiati appartenenti agli altri
gruppi etnici di origine birmana. “Questo genere di campi offrirebbe protezione ai rifugiati che attualmente sono soggetti ad arresti e alla
deportazione”, ha affermato un operatore di una ONG. “I campi metterebbero, inoltre, i rifugiati nelle condizioni di poter ricevere, alla luce del
sole, gli aiuti umanitari, ovvero cibo, assistenza medica e scolastica. E,
più importante, questo significherebbe un riconoscimento ufficiale della
guerra civile e della crisi umanitaria in corso nello Stato Shan”. La Fondazione per i Diritti Umani dello Shan ha affermato che tale opzione
dovrebbe essere concessa agli anziani, alle famiglie con bambini e alle
persone disabili. Qualunque sarà il corso degli eventi, rimane il fatto che
il popolo Shan ha bisogno di aiuto. Se non vi saranno negoziati condotti in
onestà con la partecipazione di tutte le parti in causa, e tra queste
l’ACNUR e le autorità thailandesi, il popolo Shan resterà una inascoltata
minoranza etnica.
Mona Laczo è la responsabile delle politiche e dell’informazione
del JRS Asia meridionale
MAGGIO 2000
Sarei stato ucciso
Prima di fuggire in Thailandia, ho vissuto in un campo di reinsediamento
nell’entroterra dello Stato Shan. Un giorno i soldati del CPSS arrivarono nel
nostro campo e ci ordinarono di portare con noi cibo sufficiente per cinque
giorni perché saremmo stati i loro portatori. Facemmo in fretta ciò che ci era
stato ordinato, tutti eravamo spaventati
all’idea di quello che ci sarebbe successo. I soldati ci trattennero per ben
più di cinque giorni: siamo stati i loro
portatori per 21 giorni. Per la maggior
parte del tempo eravamo affamati, non
avevamo cibo e loro non ce ne avrebbero dato. Sopravvivevamo grazie alle
foglie e alle radici che trovavamo nella
foresta. I soldati ci trattavano duramente e qualsiasi nostra resistenza veniva
punita con percosse. Durante il viaggio con le truppe siamo stati testimoni
dell’uccisione di un uomo sospettato
di prestare aiuto ai soldati dell’esercito
dello Stato Shan (ESS). I soldati del
CPSS hanno prima picchiato brutalmente il sospetto per poi sottoporlo ad un
linciaggio che ne ha causato la morte
mentre costui si era avvicinato al fiume
per dissetarsi. Siamo stati costretti a
guardare. Quando feci ritorno al campo,
preparai i bagagli e fuggii in Thailandia
con mia moglie. Sapevo che se non me
ne fossi andato il prima possibile, la
prossima volta mi avrebbero ucciso.
9
Scampati alla guerra
Ventuno civili sono rimasti uccisi e altri 40
feriti durante un bombardamento
dell’Aviazione dello Sri Lanka sul mercato di
Pudukudyiruppu, nella regione settentrionale
del paese in mano ai ribelli. L’Esercito ha
negato che siano stati presi di mira i civili
nell’attacco effettuato nel settembre del
1999. L’Aviazione, ha affermato un portavoce
dell’Esercito, aveva mirato correttamente. Il
bombardamento ha avuto luogo durante una
giornata di mercato, quando centinaia di
persone, compresi molti sfollati interni,
affollavano l’area. P. Joel Kulanayagam SJ e
P. Gabriel Alfreds SJ, due operatori del JRS
di Pudukudyiruppu, hanno lavorato con coloro
che erano stati colpiti nel bombardamento.
E
stato un privilegio per noi far
visi-ta ai familiari di coloro che
erano rimasti uccisi nell’attacco. Molti di loro hanno già perso dei
parenti a causa della guerra. Abbiamo
inoltre lavorato con i feriti, andando a
visitarli regolarmente in ospedale. Il
giorno dopo l’attacco abbiamo trovato
Muthusamy che giaceva abbandonato
in una delle corsie. I suoi familiari non
sapevano cosa fosse accaduto, che lui
era stato ferito dall’esplosione. Ci siamo messi in contatto con la sua famiglia che è arrivata immediatamente in
ospedale. Muthusamy sorrideva.
Stiamo fornendo assistenza alla sua
famiglia, per consentire al figlio e alla
figlia di andare a scuola.
Selvarani ha passato molto tempo in
ospedale a causa di ferite provocata
dal bombardamento. Nel frattempo
Vithya, la sua figlia minore, è stata
ammessa all’Università. Durante le
nostre visite, Selvarani ha condiviso
con noi le sue preoccupazioni, anche
se allo stesso tempo era sicura di farcela, una volta migliorate le sue condizioni. Ha educatamente declinato la
nostra offerta d’aiuto. Tuttavia, il suo
soggiorno in ospedale ha dovuto essere prolungato. Le abbiamo detto di contattarci nel caso avesse avuto bisogno
del nostro aiuto. Alla fine, l’ha fatto e
siamo stati felici di poterla aiutare.
Selvarani è veramente una donna notevole: una donna piena di dignità.
Benedict è stata un’altra vittima.
Andando a trovarlo in ospedale,
abbiamo conosciuto la sua famiglia.
Volevamo aiutare i suoi figli nei loro studi
e siamo rimasti esterrefatti dalla
risposta di Benedict: “Padre grazie
mille ma, finché potrò, mi occuperò io
dei miei figli. Le vostre visite e le vostre
benedizioni sono sufficienti per me. È
stata una vera consolazione poter
parlare con voi.” Ora Benedict è
tornato al lavoro: vende pesce.
Le nostre visite a coloro che erano
rimasti coinvolti nel bombardamento ci
hanno consentito di essere accanto a
loro mentre soffrivano, di essere
presenti per loro come loro per noi. Ci
hanno frequentemente richiesto di
benedirli. Questi sono stati momenti di
profonda consolazione per noi in qualità
di preti e compagni di Gesù.
Mayilvahanam era ferito seriamente.
Sua moglie doveva camminare per otto
chilometri all’andata e otto al ritorno
per andare a visitarlo in ospedale.
Ha accettato la nostra offerta di
portare del cibo a Mayilvahanam.
Nell’esplosione la coppia ha perduto
tutti i documenti necessari per ottenere
del cibo. Abbiamo presentato questo
caso all’Assistente del Rappresentante
del Governo a Maritimepattu che ha
promesso di occuparsi della questione
immediatamente.
Yoharasa è stato ucciso nell’attacco.
Shantharani, la sua vedova, è rimasta
in stato di shock per varie settimane.
10
Quando finirà tutto ciò? Il pedaggio richiesto dalla guerra civile nello Sri Lanka è pesante:
innumerevoli persone sono morte, vi sono circa 650.000 sfollati interni e altri ancora cercano
rifugio in altri paesi.
Servir
Alimentare
le
fiamme
della speranza
P. Stjepan Kušan SJ spiega perché il JRS abbia aperto un
ufficio a Belgrado, in Serbia, dove gli sfollati hanno un profondo bisogno di sperare nel futuro.
S
iamo stati usati dai politici e ora siamo
abbandonati. La maggior parte dei rifugiati e degli
sfollati sparsi nella Repubblica Federale Jugoslava
(RFJ) condivide questa opinione. Probabilmente non c’è da
meravigliarsi molto. La RFJ può vantare il primato di ospitare
il maggior numero di sfollati in Europa: i 200.000 sfollati
della Serbia e del Montenegro fuggiti a causa della crisi nel
Kossovo che, lo scorso anno, ha goduto dell’attenzione delle
maggiori testate internazionali, si uniscono ai 500.000 rifugiati
dalle precedenti guerre della regione. In Serbia essi
condividono lo stesso destino del resto della popolazione,
mutilata da quattro guerre (in Slovenia, Bosnia, Croazia e
Kossovo) negli ultimi nove anni.
In Serbia domina uno scenario politico irrisolto, una situazione economica e sociale molto fragile, caratterizzata da
redditi precari e infrastrutture carenti. Le condizioni di incertezza del Kossovo, la possibilità di un conflitto con il
Montenegro, hanno alimentato l’insicurezza, che è ormai
quasi tangibile nel paese, dove i rifugiati speravano di aver
trovato un rifugio sicuro.
I circa 650 “centri collettivi” o campi profughi della RFJ
dimostrano nei fatti il punto di vista dei rifugiati, ovvero di
essere stati abbandonati. La maggior parte dei campi versa
in pessime condizioni, mancano le infrastrutture essenziali.
Intere famiglie condividono le stesse stanze, e tutto appare
come se i rifugiati fossero arrivati pochi giorni fa, mentre di
fatto molti di loro sono lì da oltre sette anni. Coloro che
vivono nelle zone urbane stanno un po’ meglio. Apparentemente integrati, sono, di frequente, individui o famiglie anonime, senza nessuno che si curi di loro. La maggior parte
dei rifugiati sono serbi, ma ci sono anche molti rom.
Quando il JRS ha aperto un ufficio operativo a Belgrado, lo
scorso settembre, abbiamo immediatamente avvertito i sentimenti di frustrazione e disperazione. Costretti ad affrontare dure prove materiali e psicologiche, i rifugiati serbi
necessitano di incoraggiamento, sostegno e, in particolare,
di speranza nel futuro. Quando abbiamo iniziato a lavorare
a Belgrado, abbiamo deciso di aiutare gli sfollati - molti dei
quali avevano abbandonato il Kossovo solo da poco, in seguito alla firma dell’accordo di pace tra la NATO e la Serbia
MAGGIO 2000
Le ferite lasciate dalle guerre che hanno devastato l’Europa
sud-orientale si riflettono in questo crocifisso della Croazia,
crivellato di proiettili. I rifugiati della regione sono l’ennesima
evidenza della tragedia. Il JRS lavora per infondere speranza e
per la riconciliazione
- andandoli a trovare regolarmente nei campi profughi. Stiamo
cercando di migliorare le condizioni di vita dei campi, approfittando delle visite per informare i rifugiati della Bosnia e
della Croazia circa le condizioni del rimpatrio.
Più di ogni altra cosa, noi vogliamo dimostrare che qualcuno
si preoccupa di loro. Per molti, l’assistenza del JRS proveniente dalla Croazia ha un valore particolare. Significa che
quelli che erano dei nemici stanno diventando ora degli amici. Lavoriamo in stretta collaborazione con la Chiesa Serba-Ortodossa, una collaborazione molto significativa in
quanto distrugge la sfiducia accumulata nel corso degli anni
e incoraggia una riconciliazione al di là dei confini. Un rifugiato ci ha detto: “ Non potete immaginare quanto sia felice
di vedere entrambi i nostri preti lavorare insieme”.
Il JRS si prende inoltre cura di 300 famiglie che vivono in
umidi seminterrati o miseri appartamenti di Belgrado.
All’inizio, quando i nostri operatori sono andati a trovarli, i
rifugiati esitavano a farli entrare, perché si vergognavano di
mostrare lo stato in cui sono costretti a vivere. D’altro
canto, si sentono anche imbarazzati al pensiero di infrangere la tradizionale ospitalità serba. Dopo averci consentito di
entrare, i rifugiati hanno iniziato a parlare. Man mano che
essi condividono le loro storie con noi, si può intravedere un
barlume di fiducia e ci rendiamo conto che, nonostante i
loro problemi, la speranza non è morta.
Stjepan Kušan SJ, direttore del JRS Europa sud-orientale.
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Un contributo inestimabile
P. Mark Raper SJ, direttore del JRS Internazionale
“Dieci dei miei bambini sono morti e mio marito è stato ucciso ma non incolpo
nessuno. Non provo rancore nei confronti di nessuno. Né mio marito odiava i Khmer
Rossi. Non voleva vendicarsi per il male che avevano compiuto. Sono come lui. Se
incontrassi colui che ha ucciso mio marito non lo odierei, perché non ho odio nel mio
cuore: ho accettato di privarmi di tutto. In ogni caso non sono l’unica a soffrire. E’ un
intero popolo, un’intera nazione a soffrire. Ma un giorno, ne sono certa, la Cambogia
conoscerà nuovamente la felicità”.
Q
ueste parole di Anne Noeum Yok Tak, introducono Osservatore -cosa ne
è della notte? (Veilleur, ou en est la nuit?), sottotitolato Il Piccolo Libro
dei Morti, un documento straordinario al di là di ogni dubbio. Anne Noeum
Yok Tak è la vedova di Pierre Chhuom Somchay, un cristiano della Cambogia che
scrisse una preghiera, o poesia, in francese sul retro del certificato di battesimo di
10 dei suoi 12 figli, mentre uno dopo l’altro soccombevano alla fame e alle malattie
durante il regime di Pol Pot, negli anni che vanno dal 1975 al 1979. Alla fine anche
lui venne ucciso. Nel novembre 1979, mentre continuavano i combattimenti, sua
moglie Ann riuscì a portare con sé il foglio, camminando per 20 giorni fino al
confine, dove trovò la salvezza nel campo profughi di Khao-I-Dang, in Thailandia.
Durante il tragitto ebbe la fortuna di incontrare i due figli sopravvissuti. A metà del
1981, quando P. Pedro Arrupe SJ mi chiese di lavorare con il JRS in Asia, Anne
Noeum Yok Tak era già nel campo Phanat Nikhom in Thailandia, e si preparava al
reinsediamento in Francia mentre si prendeva cura degli orfani del campo. A quel
tempo, non era del tutto chiaro cosa io o gli altri del JRS potessimo offrire ai rifugiati. E così all’inizio i rifugiati furono i miei insegnanti. Innumerevoli persone come
Noeum Yok Tak mi mostrarono come fosse minimo il nostro contributo rispetto a
ciò potevamo ricevere. Venti anni fa il JRS nacque da una scelta di P. Arrupe e fu il
suo ultimo dono ai Gesuiti in qualità di Superiore Generale della Compagnia di Gesù.
Chiese ai suoi Gesuiti di intraprendere un nuovo apostolato “ di grande importanza
per oggi e per il futuro e che porterà un grande beneficio spirituale alla Compagnia
stessa”. P. Arrupe aveva una visione duplice: vedeva il bisogno di cibo, alloggi,
giustizia e sostegno umano che milioni di sfollati avevano; ma vedeva anche l’inestimabile contributo che tali persone avevano da offrire a un mondo corrotto i cui idoli
prevalenti sono benessere, privilegio e potere.
Persone come Anne Noeum Yok Tak hanno una visione e una saggezza che salveranno il nostro mondo. Con il JRS abbiamo l’inestimabile opportunità di incontrare
tali persone, di accompagnarle e di imparare da loro.
Ciò che possiamo dar loro è quasi nulla in paragone a ciò che possiamo ricevere
12
Il Jesuit Refugee Service
pubblica Servir in Inglese,
Spagnolo, Italiano e
Francese.
Il JRS è stato creato da P.
Pedro Arrupe SJ nel 1980. E’
un’organizzazione cattolica
internazionale la cui
missione è accompagnare,
servire e difendere la causa
dei rifugiati e degli sfollati.
Responsabile: P. Mark Raper SJ
Editore: Danielle Vella
Produzione: Alberto Saccavini
Gli articoli possono essere
riprodotti indicandone la fonte
Se desiderate essere inclusi
nella nostra mailing list, scrivete a:
Jesuit Refugee Service
C.P. 6139, 00195 Roma Prati,
Italia. Fax +39-06 687 92 83
Email: [email protected]
L’Ufficio Internazionale del JRS
pubblica, inoltre, un bollettino
quindicinale, Dispatches , che
raccoglie informazioni sui
progetti del JRS nel mondo,
riflessioni spirituali e possibilità
di lavoro all’interno JRS. Per
abbonarsi a Dispatches,
spedire un email a
<[email protected]>
L’abbonamento a Servir e a
Dispatches è gratuito.
Sito web del JRS:
http://www.jesref.org/
Foto di copertina: Bambini in
uno dei campi per gli sfollati del
Burundi, di Amaya Valcárcel
Foto di: Tutte le foto sono del
JRS, ad eccezione di quelle a
pag.8, di proprietà della Fondazione Shan per i Diritti Umani.
Amaya Valcárcel (pag.6, 7a
destra, 12); Stepen Power SJ
(pag.2); Katie Erisman MM
(pag.3, in basso); P. Mark Raper
SJ (pag.4, 5, 7a sinistra e
centrale); Mona Lazco (pag.9);
Quentin Dingham (pag.10).
Servir