chi sei tu, mio dolcissimo dio?... e chi sono io?

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chi sei tu, mio dolcissimo dio?... e chi sono io?
CHI SEI TU, MIO DOLCISSIMO DIO?...
E CHI SONO IO?...
Alcuni giorni prima dell’impressione delle stimmate, mentre frate Leone spiava furtivamente san Francesco
mentre era intento a pregare nel bosco al chiarore della luna, rimase ammirato e sorpreso nel vedere come il
serafico padre, in ginocchio, continuamente ripeteva le stesse parole. Faceva ininterrottamente la stessa
domanda...
"Chi sei Tu, mio dolcissimo Dio? E chi sono io?"
Sappiamo che qualcosa di sorprendente accadde quella notte, qualcosa che lo stesso Leone non riuscì a
comprendere: vide scendere dal cielo un fascio di luce bello e abbagliante che si posò sul capo di Francesco. E
sentì che dalla fiamma luminosa usciva una voce che gli parlava. Più tardi, in un dialogo e che era anche un
rimprovero, ricevette la spiegazione: "Quando io dicevo le parole che tu hai sentito, la mia anima era come
illuminata da due luci: una mi dava la notizia e la conoscenza del Creatore, l’altra mi dava la conoscenza di
me stesso".
Angela da Foligno ci insegna che proprio in questa doppia luce consiste la piena conoscenza della verità:
"L’anima, infatti, è condotta alla piena conoscenza di se stessa e della bontà di Dio. In tale situazione non può
esserci assolutamente alcun inganno, anzi l’anima è condotta alla piena conoscenza della verità. «Piena» è da
intendere nel senso che le sembra innanzi tutto di non poter essere riempita di più della conoscenza di sé. A
quel punto le sembra anche di non poter vedere nient’altro e non si ricorda di nessun’altra cosa e
improvvisamente perviene alla conoscenza della bontà divina. Lei vede l’una e l’altra cosa insieme, in modo
inenarrabile. Questo non sembra ancora bastare; Dio, infatti, ha cura di lei, permettendole delle tribolazioni".
Fare l’esperienza della verità, conoscere Dio e conoscere se stesso: questa è la pienezza della conoscenza,
secondo la beta Angela. È il preambolo alle stimmate, la porta d’ingresso al Mistero di Dio. Ma purtroppo – ci
dirà Francesco - è anche il punto in cui molti religiosi vivono ingannati.
"Chi sei Tu, mio dolcissimo Dio? E chi sono io?"
Proprio nelle ammonizioni, il Poverello risponde a questa domanda con una sentenza molto forte, di tono
lapidario: "Quanto l'uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più". Questa frase ci fa comprendere che non
è facile trovare qualcuno che conosca se stesso e viva pienamente nella verità. È come dire: "Beato il servo che
si conosce, cioè, che è capace di guardare se stesso con lo sguardo di Dio e che vive sottomesso al giudizio di
Dio sopra di lui".
Gli antichi Padri dicevano qualcosa di simile: "Chi è stato reso degno di vedere se stesso, è più grande di chi è
stato reso degno di vedere gli angeli … Beato l’uomo che conosce la sua debolezza. Questa conoscenza sarà
per lui fondamento e principio per tutte le cose buone e belle".
Francesco, da parte sua, ripete: "Quanto l'uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più". Solo Dio conosce
veramente il suo servo. Gli uomini non riescono a conoscerlo. Guardano soltanto dal di fuori e si fanno
un’idea, sempre incompleta e imperfetta. Di un grande santo del secolo scorso si diceva: "Camminava sulla
terra, lavorava con le sue mani, viveva tra la gente, come qualsiasi uomo, ma nessuno, eccetto Dio, lo
conosceva". In effetti, solo Dio ci conosce e noi ci conosciamo nella misura in cui conosciamo Dio.
Diversamente, rimaniamo nell'ignoranza.
"Chi sei Tu, mio dolcissimo Dio? e chi sono io?"
Questa domanda di Francesco è la conclusione di una lunga esperienza di vita, che lui stesso esprime sotto
forma di Beatitudine: "Beato il servo, che non si ritiene migliore, quando viene lodato ed esaltato dagli
uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole".
Fermiamoci un po'. Quest’ammonizione ha un profumo particolare, molto profondo. Una persona prima di
pronunciare sentenze così forti e perentorie, deve prima aver vissuto e sofferto quello che dice sulla propria
pelle; oppure lo deve aver compatito negli altri. L’uomo sa solo quello che ha sperimentato: o ha fatto
l'esperienza personale del permanente ondeggiare tra le opinioni degli altri – e si è visto influenzato – oppure
ha visto come alcuni dei suoi fratelli sono stati portati avanti e indietro, su e giù, dall'opinione pubblica.
Ad un primo sguardo vediamo come Francesco, dopo aver molto camminato, ha imparato a non fidarsi più del
giudizio degli uomini; ha imparato a rendersi conto che "gli uomini non sanno quello che dicono, né quello che
pensano". La maggiore parte di loro si dedica a ingigantire e innalzare; altri si dedicano alla denigrazione e al
disprezzo. Nessuno di questi due gruppi è nella verità. Solo Dio vede e conosce i suoi servi.
Il problema, però, non consiste tanto nella presenza di queste due opinioni, cioè nell’opinione pubblica. Il
problema è il potere che quest’opinione esercita sul servo di Dio. Ha la forza di tirarlo fuori dalla verità e,
quindi, di strapparlo dalla vera esperienza di Dio. L’inganno diventa palese quando il servo di Dio, vedendosi
ingigantito ed esaltato, "si ritiene migliore". E anche se Francesco non lo dice esplicitamente, c’è pure il caso
contrario: quando il servo di Dio, sentendosi considerato un uomo vile, semplice e spregevole, si deprime. In
tutte e due i casi, il pericolo è manifesto: l’opinione pubblica ha il potere di tirar fuori il religioso dall’ambito
della verità e di allontanarlo dalla conoscenza di Dio.
"Chi sei Tu, mio dolcissimo Dio? E chi sono io?"
Dalle biografie sappiamo come i frati abbiano dovuto lottare duramente contro il culto della fama pubblica.
Basta ricordare, per esempio, l'arrivo dell'Ordine a Bologna. Non è difficile allontanarsi dalla verità, soprattutto
per quelli che hanno buona reputazione. Allo stesso modo, ci sono quelli che sono fuori della verità, per il fatto
stesso di non avere una buona reputazione. Sono le due facce della stessa malattia.
Il religioso che non si conosce perché non misura se stesso con gli occhi di Dio, finisce per diventare un
pupazzo mosso dall'opinione degli uomini. Le darà ascolto visto che attinge vita dalla "buona fama" che gli
altri gli danno in elemosina. Come un mendicante della propria immagine diventa un giocattolo pubblico:
rivive con gli applausi e muore con il disprezzo; si sente grande con è complimentato, si deprime con è
biasimato.
Francesco descrive questa dissociazione interna con queste parole: "Si ritiene migliore quando viene lodato ed
esaltato". Vale a dire che, segretamente, nelle profondità del suo cuore, nel profondo di se stesso e senza che
nessuno se ne accorga, così pensa di se stesso: "Nessuno come me". Logicamente non lo fa vedere all'esterno
(sarebbe perdere il suo tesoro).
La cosa diventa tragica se si considera che questo è proprio il segno che il religioso non è mosso dallo Spirito
Santo: "A questo segno si può riconoscere il servo di Dio, se ha lo spirito del Signore: se, quando il Signore
compie, per mezzo di lui, qualcosa di buono, la sua carne non se ne esalta".
Un religioso, un sacerdote, un predicatore, che è schiavo della sua propria immagine non può vivere un vero
rinnovamento spirituale. Inevitabilmente sentirà il bisogno di adattarsi al mondo, giacché vive del parere di chi
lo conosce. Qualunque cosa sia buona per la propria immagine, la farà necessariamente; s’incontrerà con
coloro che lo amano, dipenderà dalle loro esigenze, cercherà di non perdere la stima di chi lo ascolta. Esso sarà
un pastore guidato dal suo gregge. Quello che le pecore chiederanno lo farà, e lo farà quando e come glielo
chiederanno.
Papa Francesco ha detto le stesse cose di recente, con parole altrettanto forti: "Quando non adoriamo Dio, noi
adoriamo le creature". Ed egli continua sostenendo che tra noi cristiani, ci sono alcuni che "sono diventati
stolti e hanno cambiato la gloria del Dio incorruttibile con un'immagine: il proprio io".
"Chi sei Tu, mio dolcissimo Dio? e chi sono io?"
La parola usata dal Nuovo Testamento per parlare dell’esaltato o del presuntuoso è molto interessante e ricca
di contenuti, e la sua origine è piuttosto simpatica. L’esaltato (alazon) era soprattutto un "ale", vale a dire un
vagabondo, ma di un tipo molto particolare: era uno di quelli ciarlatani o giocolieri che percorrevano tutta la
nazione e lì dove trovavano le folle piantavano le loro tende di fortuna per vendere ad alta voce i loro prodotti,
le loro pillole e le loro pozioni infallibili in grado di curare tutti i tipi di disturbi e di mali. L’esaltato era
conosciuto come un "buffone pretenzioso", uno che "si attribuiva delle qualità lodevoli che in realtà non
aveva", uno che si vantava di essere più ricco di quanto non fosse, e prometteva ciò che non poteva dare, una
persona dedita ad impressionare gli altri con stravaganti pretese che non avrebbe mai potuto compiere. Una
persona – in fine – in cui tutto era facciata e vetrina. L’esaltato però nella sua più dannosa e pericolosa versione
era anche il predicatore itinerante che cercava di vendere la chiave del successo della vita, un uomo abbagliato
dalla sua stessa intelligenza. Tutto quello che aveva erano solo parole, sostituendo le opere di amore con delle
asserzioni intelligenti. Un vero schiavo della sua stessa reputazione.
Il religioso, invece, è un profeta, un uomo libero, un uomo di fede. Si vede chiaramente la differenza tra coloro
che vivono di fede e coloro che non riescono a lasciare i confini della mera prudenza umana.
"Chi sei Tu, mio dolcissimo Dio? e chi sono io?"
L'inganno dell’opinione pubblica è profondo quando si vuole misurare la qualità della vita evangelica con i
criteri del successo e della quantità che servono solo a gonfiare l'immagine di un religioso già schiavo della sua
reputazione. Ci sono dei pensieri che passano nel segreto della sua mente: "Molte persone sono alla ricerca di
me, io sono conosciuto e ascoltato, il mio parere è fondamentale, quando parlo tutti rimangono in silenzio, io
sono così occupato!, il mio calendario è pieno di appuntamenti, d’incontri da gestire, di libri da leggere , di
lettere a cui rispondere …".
E così il servo di Dio comincia inconsapevolmente ad abbandonare l’ambito della benedizione; lentamente
smette di adorare Dio per adorare gli uomini, precipitando nell’atteggiamento di quel padre di famiglia
descritto da Francesco nella Lettera a tutti i fedeli che, obbedendo alle lacrime dei suoi vicini, finisce per fare
non ciò che Dio vuole ma quello che loro gli chiedono.
Abbiamo qui una gravissima cecità causata dalla buona immagine, un’oscurità profonda nota come "orgoglio
religioso": la grossa trave presente negli occhi del servo di Dio che lo rende cieco e lo fa vivere seguendo il
parere dell'opinione pubblica, la cui approvazione o disapprovazione finisce per essere il criterio per misurare
la fecondità della propria vita evangelica.
L’esperienza cristiana così vissuta diventa lentamente irrequietezza permanente, incostanza spirituale continua,
incontrollabile vagabondaggio interiore. Comprendiamo allora quello che Francesco denunciava nel
Memoriale: "Perfino la sterile ha partorito numerosi figli… Quella invece che ne ha molti appare sterile".
"Chi sei Tu, mio dolcissimo Dio? e chi sono io?"
Ma non sono solo gli esaltati dell'immagine pubblica che soffrono per la tirannia della buona fama. Anche i
religiosi " meno ricercati" possono essere schiavi delle opinioni altrui. Non è difficile trovare dei religiosi che
"si ritengono poca cosa", perché "sono poco ricercati". Vorrebbero il ministero ordinato – per esempio – per
potere fare di più e quindi "essere più utili, più ricercati, più ascoltati... forse più importanti". Non è difficile
trovare religiosi che diventano schiavi del desiderio di conoscere, non tanto per servire meglio il Signore ma
perché così potranno salire un po' di più. Considerano la loro statura troppo bassa e fanno salti mortali per
ottenere una buona posizione nell'opinione pubblica. È interessante notare come questa sia una delle più
comuni forme di schiavitù nella vita religiosa moderna, come è stato indicato da Papa Francesco ultimamente.
La schiavitù dell'immagine però si rivela anche nel caso contrario: è il caso del servo di Dio che dentro di sé si
sente grande e non ha bisogno degli applausi; è interiormente esaltato e convinto della sua grandezza senza
l'aiuto dell’opinione pubblica.
Questi sono solo alcuni esempi, ma non sono gli unici. In definitiva, la tirannia della vanità e il culto della
propria immagine spingono il religioso a nutrirsi le briciole che cadono dalla tavola della buona reputazione,
chiudendo il cuore al cammino della semplicità: "Quanto l'uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più".
Dentro, nell’intimo del cuore, dietro a tutti questi tentativi si nasconde la paura, la grande paura di Adamo:
quella di "rimanere nudo". Il timore di "essere nessuno", di "essere l'ultimo", di "scomparire", di essere
"polvere e cenere", la paura del "ultimo posto"… del nulla. La paura – insomma – della minorità.
"Chi sei Tu, mio dolcissimo Dio? e chi sono io?"
Alcuni giorni dopo che Francesco ebbe fatto questa domanda assillante al Cielo, venne la risposta sotto forma
di un Serafino: un Serafino crocifisso. In questo incontro notturno, il Poverello vide il volto di Dio e,
finalmente, conobbe la sua identità. Le stimmate sono allo stesso tempo la vera immagine di Francesco e il
vero sguardo del Signore.
Il rivelarsi di Dio sotto la forma di un Serafino è una cosa meravigliosa, perché questa figura egli ci mostra il
suo volto più profondo. La parola "Seraf" significa tre cose: "Un essere bruciato dal fuoco", "una vittima", e
anche "l'immagine di un serpente velenoso". Quando il Signore si presenta come un Seraf, ci svela il suo cuore:
Lui è il fuoco che non si spegne, il vero Roveto ardente che mai si consuma; la vittima che offre la sua vita per
Francesco, portandone la sofferenza; e anche l'unico serpente che Mosè innalzò nel deserto per gli Israeliti
affinché guardandolo non morissero. Il Signore è fuoco, è vittima ed serpente. È quell'amore inestinguibile,
crocifisso e permanente, vittima sempre offerta.
Questa triplice rivelazione del Signore svela anche il vero volto di Francesco, il suo vero nome, il suo nuovo
nome: Francesco è sigillato con il più alto segno di debolezza. Le piaghe sono la manifestazione dell'amore di
Dio e della più profonda debolezza dell'uomo. Francesco con la stimmatizzazione riceve un nome nuovo:
"debolezza", "bisogno". Lui è un bisognoso, un povero che ha bisogno di tutto. È un infermo. Anni fa, a
Greccio, a Pasqua, si era travestito da povero e malato, da contadino, e in mezzo ai suoi si era seduto sul
pavimento tra la cenere. Adesso non è più una azione teatrale. Adesso è la verità. Si trova all’ultim posto,
povero, malato, seduto nella cenere tra i suoi fratelli. Le stimmate non sono un segno di forza, di potere, di
grandezza. Sono la chiara impronta della debolezza e del bisogno. Questo è l'uomo: debolezza, terra, humus.
Ma la parola "uomo" significa anche un essere "bruciato con il fuoco" e, inoltre, "colui che guarda in alto".
Quindi Francesco è colui che è disceso così in basso da poter guardare solo verso l’alto. È stato bruciato dal
fuoco. Infatti, qualcuno che ha bisogno di tutto l'amore, quando s’incontra faccia a faccia col fuoco, si accorge
che le sue viscere bruciano. È un essere totalmente bruciato che essendosi messo al posto più basso che vis sia
guarda sempre in alto. Come un mendicante tende la mano verso Colui che si è manifestato come un "i ncendio
indomabile d'amore", custodendo sempre la sua più profonda identità: sono un bisognoso, sono la necessità
fatta carne.
La nostra grande lotta è la lotta contro la falsità e la superficialità, contro la menzogna dell'immagine e
dell'orgoglio proprio dell’uomo religioso. Nessun eroismo, nessuna popolarità, né l'efficacia di una buona
reputazione, ma soltanto la conoscenza della propria debolezza, come individui e come famiglia, è ciò che ci
rende spazio libero per il dispiegarsi della potenza di Dio. Il nostro immenso vuoto offerto continuamente
all'azione Divina: "Beato l’uomo che conosce la sua debolezza. Questa conoscenza sarà per lui fondamento e
principio per tutte le cose buone e belle". "Beato il servo, che non si ritiene migliore, quando viene lodato ed
esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole".