Il declino dell`Europa nell`età contemporanea
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Il declino dell`Europa nell`età contemporanea
GIORNATA DELLA LUISS GUIDO CARLI INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 2005/2006 IL DECLINO DELL’EUROPA NELL’ETA’ CONTEMPORANEA Prolusione di Gaetano Quagliariello Direttore Dipartimento di Scienze storiche e socio-politiche Roma, 18 Gennaio 2006 Gaetano Quagliariello Il declino dell'Europa nell'età contemporanea Prolusione dell'a.a. 2005-2006 dell'Università Luiss-Guido Carli 1. Il Cardinale Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, data a partire dal 1789 e dalle sue conseguenze due svolte storiche tra esse correlate. Avrebbe avuto inizio allora il divorzio tra l'Europa e la tradizione cristiana che ne aveva marcato identità e percorso fino alla fase più estrema del Sacro Romano Impero. E, proprio per questo, all'interno dell'Occidente si sarebbe creato uno iato tra Vecchio e Nuovo Continente: mentre nel primo si pongono le premesse per l’affermarsi di una deriva “secolarista” come portato dell'illuminismo, oltre Oceano la religiosità che l’Europa comincia a sospingere verso il ghetto della coscienza individuale, continua invece a irrorare la vita civile, pur nel rispetto dei dovuti ambiti di esclusiva competenza dello Stato e della Chiesa. Questa periodizzazione la si può confermare, pur non conferendo ad essa alcun significato valutativo: il 1789 e le sue conseguenze rappresentano una cesura alla quale, chi ricerca la comprensione dell’evo contemporaneo, è naturalmente portato a fare eternamente ritorno. I processi storici sono, però, lenti a definirsi e ancora più lenti a sedimentarsi. Per questo, i fatti che seguirono la Grande Rivoluzione, ai suoi esordi inspiratasi proprio alla rivoluzione americana, aprono una ferita nell’identità tradizionale dell'Europa che molto a lungo resta sospesa tra la prospettiva di una possibile cicatrizzazione e la cancrena. Questa condizione d'incertezza identitaria si prolunga per tutto l'Ottocento che, invece, per le singole nazioni europee è senz'altro un periodo di grande crescita sia sul piano economico che su quello della potenza. E' possibile rintracciarla nelle grandi scansioni che segnano lo sviluppo politico e culturale del secolo. Durante il periodo napoleonico s'incarna finanche nella consapevolezza di un vescovo libertino di nome Tayllerand il quale, ricorrendo a virtuosismi diplomatici, piroette biografiche e trasformismi d'ogni tipo 1 (d'altro canto è noto: le strade del Signore sono infinite) afferma l'esigenza di salvaguardare l'unicità della tradizione europea e di rispettare i vincoli che essa impone all'equilibrio mondiale. E questo proprio al cospetto di un nazionalismo che di essi si sarebbe voluto sbarazzare. Questa stessa incertezza sopravvive poi nei tentativi continentali d’emulare il modello politico e istituzionale della Gran Bretagna, per il quale ogni innovazione e progresso si sarebbe dovuto produrre nel rispetto della tradizione. E questa egemonia – assieme culturale e politica – che sa influenzare senza imporre, trasfondendo la sua tradizione in una sorta d'imperialismo dolce, lascia ancora una traccia nelle riflessioni sulla nazione di Renan e Taine all’indomani della insopportabile sconfitta della Francia contro la Prussia. Cosicché l’incertezza tra una possibile guarigione e la definitiva infezione persiste anche dopo il 1870, quando lo schiaffo di Sedan infligge un duro colpo all’equilibrio e all’unità spirituale dell’Europa. Lo testimonia, tra l'altro, la politica di Bismarck volta sì a conquistare l'unità e poi la potenza per la Germania, ma nel rispetto di una più comprensiva considerazione dell'equilibrio europeo. In ambito culturale, poi, basterà guardare al romanticismo e al suo rifiuto dell'idea illuminista tendente a negare che nel cristianesimo, e più generalmente nella dimensione religiosa, possa persistere un elemento identitario in grado d'accomunare il continente. I nomi di Manzoni e Chateaubriand rappresentano, in tal senso, una garanzia. La ferita inizia a farsi purulenta con la fine del secolo. L'eurocentrismo inizia a declinare, tanto che nel 1905 per la prima volta una grande potenza continentale – la Russia – viene sconfitta da una nazione extra-europea – il Giappone. I conflitti ideologici si radicalizzano, rendendo più arduo il tentativo delle giovani socialdemocrazie di trovare una compatibilità con gli assetti istituzionali liberali e tendenzialmente democratici. L’egemonia inglese – sia politica sia culturale – vacilla con più evidenza. E segnali sempre più intensi di disgregazione dell'Impero Ottomano evidenziano una crisi complessiva dell’ordine mondiale che da est procede verso il cuore dell'Europa. Il momento nel quale, però, essa diviene non più curabile è lo scoppio della Grande Guerra. Vi è qualcosa di paradossale in questa scansione storica. Perché la Prima guerra mondiale segna un avvicinamento materiale tra Europa e 2 America a causa dell'interrompersi dell'isolazionismo di questi ultimi e, insieme, un allontanamento spirituale, a causa della maturazione sul continente dei prodromi di quella crisi morale che, come si è detto, incubava da tempo. 2. La Prima guerra mondiale, infatti, è stata l’effettiva e definitiva causa del divorzio del Continente dalla sua eredità spirituale. Essa può definirsi la matrice del secolo del male: circa 74 milioni di chiamati alle armi; poco meno di 10 milioni di morti tra i quali 578.000 italiani; più di 21 milioni di feriti. Le occupazioni dei territori, i campi di concentramento, i lavori forzati, i vagoni piombati, le deportazioni, fanno allora la loro apparizione sul proscenio della storia. Le nazioni si sacralizzano mentre la religione si nazionalizza. Dall’Europa scompare così la consapevolezza di una tradizione comune da salvaguardare. E al suo posto, si affermano reiterate e reciproche accuse razzistiche, che giungono a mettere in dubbio l'appartenenza di tutti gli europei non soltanto ad una comune tradizione ma persino alla medesima umanità. Quando vincitori e sconfitti s'incontrano a Versailles, la comunicazione è perciò rarefatta e i rapporti interpersonali vietati. Il conflitto, inoltre, abbatte l’Impero – ne crollano quattro, il russo, l’ottomano, il tedesco e, soprattutto, l’austro-ungarico – che era stato la struttura sulla quale si era poggiato l’ordine europeo. Spazza via il principio di legittimità, come fondamento dei rapporti tra i popoli e della stabilità internazionale. Annulla la convinzione che la ricerca prioritaria del mutuo sviluppo economico, e dunque, del benessere, rappresenti la più forte garanzia per la pace futura. Tre spettatori d’eccezione dei lavori della Conferenza di Versailles – il francese Elie Halevy, l’italiano Guglielmo Ferrero e l’inglese Maynard Keynes – vedono tutto ciò e, soprattutto, comprendono come queste “novità” siano foriere di sventura. Ciò non significa che, deterministicamente, tutti i drammi del Ventesimo secolo, da quel momento in poi, siano inevitabili. Vi è chi già immediatamente dopo, si mette al lavoro per ricostituire il tessuto comune. E non a caso si debbono a uomini come Stressman, e soprattutto Briand, le prime intuizioni sulla possibilità di conferire all’Europa un’unità anche istituzionale attraverso la creazione di "una sorta di legame federale". Ma le avversità contingenti hanno 3 presto il sopravvento su un corpo troppo indebolito. E da qui prendono vigore i totalitarismi europei, nel loro drammatico scontrarsi in una guerra civile di dimensione continentale. Per il comunismo e il nazismo la tradizione unificante del Vecchio Continente che, includendo un elemento trascendente poteva considerare l'imperfezione consustanziale alla città dell'uomo, sarebbe stata da distruggere o almeno da strumentalizzare, assieme alle aggregazioni sociali da essa spontaneamente derivate: la famiglia, i corpi organici, le classi, i gruppi d’interesse. Quella tradizione è sostituita, sia nel comunismo che nel nazismo, da passati mitizzati dai quali sarebbero dovuti scaturire futuri utopici. Si affermano così progetti totalizzanti per la loro pretesa perfezione sociale ed assoluti nella loro volontà di potenza. Si parte dalla realtà della nazione o ad essa si giunge - anche nel caso del comunismo, infatti, il Partito finisce con il divenire una sorta di Pietro il Grande collettivo – per aspirare, comunque, all’egemonia mondiale. Le religioni – e non soltanto quella cristiana - lungo questa deriva, divengono oggetto di odio attivo, e quindi di persecuzione. 3. Oggi queste tesi in ambito storiografico, a quasi vent'anni dalla sconfitta in Europa dell'ultimo totalitarismo novecentesco, possono considerarsi persino non controverse. Si impone però, a questo punto, un quesito intorno al quale, invece, la riflessione è ancora acerba e, per questo, le opinioni meno uniformi: l'esito della Seconda guerra mondiale e il successivo processo d'integrazione europea che da lì prende le mosse, sono riuscite a ricucire lo "strappo" tra il Continente e la sua tradizione? La risposta non è semplice perché, sia detto senza infingimenti, il processo d'integrazione è la storia di un successo che, tra l'altro, ha dato all'Europa il più lungo periodo di pace interna che essa ha mai conosciuto nell'evo contemporaneo e una diffusione del benessere mai raggiunto prima. Tuttavia resta da domandarsi su quali fondamenta questo successo si è costruito per cercare di comprendere se, e in che misura, esso possa prolungarsi anche nel nuovo millennio. 4 L'unità europea, ai suoi esordi, è in parte un processo esogeno, sollecitato sin dal Piano Marshall dagli Stati Uniti, mentre nella sua dimensione endogena sconta forti asimmetrie. Per le nazioni sconfitte – Germania e Italia – rappresenta in primo luogo la possibilità di riguadagnare parte della legittimità internazionale perduta accettando loro malgrado la "resa incondizionata". Per i "piccoli" – Belgio, Olanda e Lussemburgo – è garanzia contro possibili future invasioni. Per i vincitori – Gran Bretagna –e per coloro che si considerano tali – Francia – è un principio di collaborazione da subordinare ai rispettivi interessi di ex grandi potenze e, quindi, alla loro aspirazione imperiale. Un'ulteriore asimmetria è poi quella che si stabilisce tra la consapevolezza dei funzionari che avevano sperimentato la necessità dell'accordo nei due conflitti e le remore dei politici che, salvo una ristretta èlite, resta diffidente. A queste asimmetrie corrisponde una non univoca e precaria concezione dell'identità che avrebbe dovuto sorreggere il percorso unitario. L'unità europea, nei suoi esordi post-bellici, sconta innanzi tutto l'idea, figlia di quei tempi, che l'identità comune potesse risiedere in quell'antifascismo che aveva rappresentato il fondamento dell'accordo tra gli Alleati inauguratosi con l'invasione dell'Urss da parte di Hitler nel giugno del 1941. Questa idea di fondo si ritrova, ad esempio, in un testo di fondazione qual'è il Manifesto di Ventotene, stilato proprio nell'agosto del 1941 al confino da Spinelli, Rossi e Colorni. In quel Manifesto il federalismo europeo è proposto come alternativa allo stato nazionale il quale, per la sua natura intrinseca, sarebbe stato destinato a produrre "la degenerazione plutocratico-fascista". Si vede bene come quest'analisi non possa fornire un fondamento stabile, e non soltanto per la sua natura congiunturale. Tra l'altro l'antifascismo non ha lo stesso significato identitario per tutti i Paesi coinvolti nel processo d'integrazione. Si pensi, ad esempio, alla differenza che vi è tra la resistenza italiana, sorta nel 1943 ad un tempo contro il fascismo e contro l'invasore, con quella francese, sorta nel 1940 quando sono in pieno vigore gli effetti del Patto Molotov- Ribbentrop e, per questo, i comunisti francesi sono di fatto alleati con gli occupanti tedeschi. Ma la caducità di questo substrato identitario è dimostrata soprattutto dalla circostanza che, nel giro di pochi anni, il processo d'integrazione, dall'aspirare a 5 un fondamento anti-fascista, passa sostanzialmente a servire una causa anticomunista. I suoi primi passi nel mondo delle realizzazioni concrete, infatti – il Trattato della CECA approvato nel 1951; quello della CED bocciato nel 1954 – rispondono essenzialmente alla medesima preoccupazione di fondo. Al cospetto dei pericoli del conflitto est-ovest e del rischio di una nuova guerra sul suolo europeo, occorreva integrare la Germania dell'Ovest nelle forze delle quali l'Occidente avrebbe potuto disporre, evitando che tale passo alimentasse i timori per una ripresa della potenza tedesca. Valga, al riguardo, il passo di una lettera del 24 agosto 1948, inviata dal Conte Sforza a Robert Schuman: "(...) sento che la mia vita non sarà passata invano se riuscirò a contribuire ad un'intesa organica e permanente tra i nostri paesi, che sola potrà evitare un giorno il ritorno della follia aggressiva dei tedeschi. Tutta la mia esistenza, in fondo, è stata consacrata a tale scopo. Oggi per la prima volta io avverto che noi possediamo la possibilità di guarire i tedeschi; la possibilità di evitare che essi si trasformino in Lanzichenecchi terribilmente pericolosi; la possibilità di fargli avvertire che essi potranno un giorno sedersi con noi; uguali tra uguali (...)". Ed è questa, in fondo, la stessa consapevolezza che nel 1952 porta Adenauer ad affermare: "(...) le cose stanno così: la Germania non può che o risolversi nell'Europa o dissolversi senza l'Europa". Sullo sfondo di quest'alba di Guerra Fredda vi è chi tenta d'innestare un recupero dell'identità originaria. Sono i più illustri e rappresentativi tra gli uomini della prima generazione di europeisti, De Gasperi, Schuman e, per l'appunto Adenauer: un trentino, un alsaziano e un renano; non a caso tutti e tre dei cristiani che ricercano la via non scontata della laicità politica. E, non a caso, tutti e tre uomini che hanno vissuto sulla propria pelle i drammi del Novecento, perdendo la patria o vivendola in modo precario. Sia consentito riportare qualche esempio di tale consapevolezza. De Gasperi nel 1954, pochi mesi prima di morire: "(...) Se con Toynbee io affermo che all'origine di questa civiltà europea si trova il cristianesimo, non intendo con ciò introdurre alcun criterio confessionale esclusivo nell'apprezzamento della nostra storia. Soltanto voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella morale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona umana col 6 suo fermento di fraternità evangelica, col suo culto del diritto ereditato dagli antichi, col suo culto della bellezza affinatosi attraverso i secoli, con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un'esperienza millenaria". Schuman nel 1958, quando le speranze di ritrovare le vecchie radici si erano fatte più flebili: "Tutti i paesi dell'Europa sono impregnati di civilizzazione cristiana. Essa è l'anima dell'Europa, anima che bisogna restituirle". Questi uomini, però, rappresentarono delle eccezioni presto svanite assieme all'illusione che da un'identità negativa – l'anti-comunismo – si possa risalire a quella dispersa. Non fu così. I primi passi del processo unitario derivano dalla paura, non dalla consapevolezza. Essi hanno vigore e forza fino a quando il pericolo di un conflitto armato sul suolo europeo resta elevato. Ma quando, dopo la fine della Guerra di Corea, l'inizio di un processo di "piccola distensione" incoraggiato da Churchill, la morte di Stalin e l'intuizione degli effetti indotti dalla logica della deterrenza, la Guerra Fredda si secolarizza, gli egoismi nazionali tornano a esigere i loro diritti. Allora anche l'idea di Occidente torna a sfaccettarsi e la diffidenza europea nei confronti degli Stati Uniti scala il suo picco. Per tutte queste ragioni insieme, nel 1954 fallisce il Trattato della CED, e si chiude la prima fase della storia dell'integrazione. 4. L'Europa sa reagire e ripartire. Non si attarda lungo un percorso bloccato da contingenze negative. Servendosi del metodo messo a punto da Monnet, guarda ai bisogni reali della gente e cerca i modi concreti di servirli. Quanti lavorano a questo progetto, agli esordi, si preoccupano anche di evitare un'eccessiva asimmetria tra il pilastro economico e quello politico. Da quest'esigenza nascono i trattati dell'Euratom – concernente lo sfruttamento civile dell'energia atomica – e del Mercato Comune, entrambi siglati a Roma nel 1957. Ma ben presto è quest'ultimo che si afferma come il terreno sul quale l'integrazione avrebbe compiuto progressi straordinari. E, con esso, l'idea che lo sviluppo economico e il benessere possano essere il motore che, per la sua forza, trascina dietro di sé l'intera crescita dell'edificio comunitario. D'altro canto, è proprio quella prospettiva che porta De Gaulle a convertirsi alla prospettiva del Mercato Unico; la Gran Bretagna a resistere in lista d'attesa per più di dieci anni 7 e, in seguito, i Paesi in transizione verso la democrazia a ricercare nell'adesione all'Unione un caposaldo per rafforzare i loro processi. Fino a quando la relativa anestesia degli equilibri mondiali, coniugandosi con lo sviluppo economico, hanno garantito la persistenza della "ragione sociale", il metodo ha funzionato. Ma già lungo la via si sono accumulati dei "residui" che, in un diverso tempo storico, avrebbero potuto destabilizzare l'intera costruzione. Se ne possono citare tre principali: uno politico, l'altro economico e il terzo, insieme, politico ed economico. Il primo investe il rapporto transatlantico e rappresenta un vero nodo gordiano. Perché, nel corso dei suoi primi quarant'anni di vita unitaria, l'Europa si è per lo più trovata al fianco degli Stati Uniti ogni qual volta la Guerra Fredda ha visto esasperarsi i conflitti. Per prenderne, invece, le distanze nei momenti di relativa distensione. Quasi che solo il pericolo esterno, e non anche la condivisione della medesima tradizione culturale e spirituale, giustificasse l'alleanza. Il secondo concerne le linee guida della politica economica dell'Unione. Non gli si può assegnare certo l'oscar della coerenza. Protezionismo e liberismo, keynesismo e mercantilismo, con ampio e succulento contorno di sussidi e finanziamenti giustificati da non sempre ben definiti principi di solidarietà, si sono alternati nel corso delle stagioni senza progettualità e senza una linea politica sedimentata e accettata dalle opinioni pubbliche. Il terzo "residuo" discende dalla combinazione dei due precedenti. Perché laddove la scelta politica manca di riferimenti fondativi e al principio di responsabilità politica manca un richiamo effettivo al demos, inevitabilmente la dimensione burocratica e regolamentare finisce con l'assumere uno spazio spropositato. 5. L'impressione che si forma uno storico, a questo punto, è che l'unità europea sia figlia di un tempo particolare: quello della Guerra Fredda. Il suo percorso, infatti, riproduce molte caratteristiche di questa fase storica. E' una costruzione pragmatica, che sa sfruttare gli spazi d'azione che di volta in volta, si rendono disponibili. Ha un tempo interno intermittente, scandito da crisi e da 8 subitanei rilanci. Porta un contributo alla "pace possibile" ma senza sciogliere i nodi di fondo dell'equilibrio mondiale. Utilizza lo strumento del benessere, sia per rafforzare il processo di pacificazione interna sia per confrontarsi con l'altra Europa sottoposta al giogo sovietico. L'Unione Europea condivide anche molte delle illusioni che si sviluppano quando la Guerra Fredda finisce. Tra le altre, la possibilità che il mondo proceda senza egemonie; la possibilità della pace perpetua, intesa come una sorta di diritto naturale; la convinzione che sviluppo e benessere possano prolungarsi, senza mettere in discussione sicurezze e privilegi nel frattempo acquisiti. Da tale duplice circostanza – l'essere tarata su un altro tempo storico e l'aver introiettato molte delle illusioni connesse con la fine di questo stesso tempo storico – derivano molti motivi delle difficoltà nelle quali attualmente l'Europa si dibatte. Alcune di esse sono i "residui" accumulati nel corso della stagione precedente e che oggi, in una differente temperie, acquisiscono una diversa valenza. Si pensi, ad esempio, al problema del rapporto tra la sovranità dell'Unione e le sovranità nazionali che vi convergono. Nell'Europa bipolare il conflitto tra queste ultime costituiva un problema minore. Una volta infrantosi quell'equilibrio, però, quel che non era stato risolto si è manifestato sotto forma di conflitto maggiore, anche in seno all'Unione. Lo si è verificato al momento dell'unificazione tedesca; nel corso della crisi balcanica, ultimo lascito avvelenato della Grande Guerra sopravvissuto addirittura alla fine del comunismo e nelle questioni mediorientali, sin dai tempi della prima Guerra del Golfo. In realtà, in molte di queste circostanze il conflitto tra potenze europee è regredito al punto da proporre schemi del periodo pre-seconda guerra mondiale. E non di rado, come nel caso dei Balcani, gli americani sono dovuti intervenire per togliere le castagne dal fuoco europeo. Ci si può riferire, inoltre, al modo di concepire l'Occidente e il rapporto con gli Stati Uniti. Anche questi problemi hanno trovato nella Guerra Fredda un naturale paravento. Ma una volta che l'automatismo è entrato in crisi, l'Europa si è trovata a domandarsi se e quale tipo d'alleanza contrarre con l'America: a quali 9 condizioni, contro quali nemici e nell'alveo di quale concezione dell'Occidente. E sulle risposte da dare a questi quesiti, una volta di più, si è divisa. Le altre difficoltà nascono dalle illusioni accumulate che la fine del mondo bipolare ha contribuito ad alimentare. Sembrano proporre una sorta di legge del contrappasso. Il benessere e la sicurezza che l'Unione ha contribuito a dare ai cittadini europei, infatti, è oggi freno psicologico a considerare che la ricchezza non è un diritto garantito e che parte di quelle sicurezze sociali debbano essere messe in discussione per reagire alla sfida che, sulla via dello sviluppo, giunge da nuovi e agguerriti competitori mondiali. Altresì, la pace che essa ha contribuito a garantire è tra i fattori che rende l'Europa pavida al cospetto delle sfide che vengono lanciate alla sua sicurezza interna ed esterna, alla sua civiltà, ai valori universali selezionati dalla sua tradizione culturale. Oggi l'Europa si trova ad affrontare una delle sue più difficili stagioni di crisi. Ha perso il suo tradizionale baricentro nella coppia franco-tedesca. Si è divisa politicamente su quale equilibrio mondiale contribuire a edificare. Ha difficoltà a integrare i nuovi giunti senza creare al suo interno scompensi o motivi d'ostruzionismo. Ha visto il trattato istituzionale, troppo ambiziosamente definito "costituzione", respinto dai cittadini. E' incerta sulla politica economica da intraprendere. E, infine, ha trovato un compromesso risicato e in extremis sul suo stesso bilancio. Lo si è detto: altre crisi sono avvenute nel corso del processo d'integrazione, e ogni volta l'Europa è riuscita a ripartire. Una pausa di riflessione può certamente servire, così come l'individuare strade nuove più vicine alla comprensione dei cittadini, come si seppe fare a Messina nel 1955 e a Venezia nel 1956. Ma se la sua crisi dipende, come pensiamo, da un mutamento complessivo di paradigma storico, questa volta il pragmatismo potrebbe non bastare. L'Europa deve oggi dimostrarsi consapevole dell'ammonimento di Paul Valery che, non casualmente nel 1919 scriveva: "Noi altre, civilizzazioni, noi ora sappiamo d'essere mortali". E, proprio da questa consapevolezza deve saper trarre la forza per sfuggire alla profezia di Oswald Spengler, che ritiene la sua tradizione storico-culturale destinata a un ineluttabile tramonto. Per essere 10 all'altezza di questo compito, urge un processo di rifondazione che le ridia ciò della cui assenza si soffre: una identità fondante, delle basi spirituali; un'anima. Se vi saranno donne e uomini che si dedicheranno a questo compito, immettendo nei cuori desolati, sradicati, rassegnati dei cittadini del Vecchio Continente un nuovo orgoglio di sentirsi europei, allora anche gran parte del processo di unificazione fin qui compiutosi potrà essere riconsiderato e in parte salvato. Così come potranno essere compresi e valorizzati i differenti percorsi culturali che hanno preso avvio dall'originario nucleo unitario. E' un compito immane per il quale servono impegno critico, passione per la conoscenza, fede. Tutti elementi che si forgiano nell'impegno di ricerca e di studio. E che io mi auguro – e auguro a voi cari studenti – possano transitare anche per i corridoi, i cortili e le aule di questa nostra università. 11