Il declino dell`Europa nell`età contemporanea

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Il declino dell`Europa nell`età contemporanea
GIORNATA DELLA LUISS GUIDO CARLI
INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 2005/2006
IL DECLINO DELL’EUROPA
NELL’ETA’ CONTEMPORANEA
Prolusione di
Gaetano Quagliariello
Direttore
Dipartimento di Scienze storiche e socio-politiche
Roma, 18 Gennaio 2006
Gaetano Quagliariello
Il declino dell'Europa nell'età contemporanea
Prolusione dell'a.a. 2005-2006 dell'Università Luiss-Guido Carli
1. Il Cardinale Joseph Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, data a partire dal
1789 e dalle sue conseguenze due svolte storiche tra esse correlate. Avrebbe
avuto inizio allora il divorzio tra l'Europa e la tradizione cristiana che ne aveva
marcato identità e percorso fino alla fase più estrema del Sacro Romano Impero.
E, proprio per questo, all'interno dell'Occidente si sarebbe creato uno iato tra
Vecchio e Nuovo Continente: mentre nel primo si pongono le premesse per
l’affermarsi di una deriva “secolarista” come portato dell'illuminismo, oltre
Oceano la religiosità che l’Europa comincia a sospingere verso il ghetto della
coscienza individuale, continua invece a irrorare la vita civile, pur nel rispetto
dei dovuti ambiti di esclusiva competenza dello Stato e della Chiesa.
Questa periodizzazione la si può confermare, pur non conferendo ad essa
alcun significato valutativo: il 1789 e le sue conseguenze rappresentano una
cesura alla quale, chi ricerca la comprensione dell’evo contemporaneo, è
naturalmente portato a fare eternamente ritorno. I processi storici sono, però,
lenti a definirsi e ancora più lenti a sedimentarsi. Per questo, i fatti che
seguirono la Grande Rivoluzione, ai suoi esordi inspiratasi proprio alla
rivoluzione americana, aprono una ferita nell’identità tradizionale dell'Europa
che molto a lungo resta sospesa tra la prospettiva di una possibile
cicatrizzazione e la cancrena.
Questa condizione d'incertezza identitaria si prolunga per tutto l'Ottocento
che, invece, per le singole nazioni europee è senz'altro un periodo di grande
crescita sia sul piano economico che su quello della potenza. E' possibile
rintracciarla nelle grandi scansioni che segnano lo sviluppo politico e culturale
del
secolo.
Durante
il
periodo
napoleonico
s'incarna
finanche
nella
consapevolezza di un vescovo libertino di nome Tayllerand il quale, ricorrendo
a virtuosismi diplomatici, piroette biografiche e trasformismi d'ogni tipo
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(d'altro canto è noto: le strade del Signore sono infinite) afferma l'esigenza di
salvaguardare l'unicità della tradizione europea e di rispettare i vincoli che essa
impone all'equilibrio mondiale. E questo proprio al cospetto di un nazionalismo
che di essi si sarebbe voluto sbarazzare. Questa stessa incertezza sopravvive poi
nei tentativi continentali d’emulare il modello politico e istituzionale della Gran
Bretagna, per il quale ogni innovazione e progresso si sarebbe dovuto produrre
nel rispetto della tradizione. E questa egemonia – assieme culturale e politica –
che sa influenzare senza imporre, trasfondendo la sua tradizione in una sorta
d'imperialismo dolce, lascia ancora una traccia nelle riflessioni sulla nazione di
Renan e Taine all’indomani della insopportabile sconfitta della Francia contro la
Prussia. Cosicché l’incertezza tra una possibile guarigione e la definitiva
infezione persiste anche dopo il 1870, quando lo schiaffo di Sedan infligge un
duro colpo all’equilibrio e all’unità spirituale dell’Europa. Lo testimonia, tra
l'altro, la politica di Bismarck volta sì a conquistare l'unità e poi la potenza per
la Germania, ma nel rispetto di una più comprensiva considerazione
dell'equilibrio europeo. In ambito culturale, poi, basterà guardare al
romanticismo e al suo rifiuto dell'idea illuminista tendente a negare che nel
cristianesimo, e più generalmente nella dimensione religiosa, possa persistere
un elemento identitario in grado d'accomunare il continente. I nomi di Manzoni
e Chateaubriand rappresentano, in tal senso, una garanzia.
La ferita inizia a farsi purulenta con la fine del secolo. L'eurocentrismo inizia a
declinare, tanto che nel 1905 per la prima volta una grande potenza continentale
– la Russia – viene sconfitta da una nazione extra-europea – il Giappone. I
conflitti ideologici si radicalizzano, rendendo più arduo il tentativo delle
giovani socialdemocrazie di trovare una compatibilità con gli assetti
istituzionali liberali e tendenzialmente democratici. L’egemonia inglese – sia
politica sia culturale – vacilla con più evidenza. E segnali sempre più intensi di
disgregazione dell'Impero Ottomano evidenziano una crisi complessiva
dell’ordine mondiale che da est procede verso il cuore dell'Europa.
Il momento nel quale, però, essa diviene non più curabile è lo scoppio della
Grande Guerra. Vi è qualcosa di paradossale in questa scansione storica. Perché
la Prima guerra mondiale segna un avvicinamento materiale tra Europa e
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America a causa dell'interrompersi dell'isolazionismo di questi ultimi e,
insieme, un allontanamento spirituale, a causa della maturazione sul continente
dei prodromi di quella crisi morale che, come si è detto, incubava da tempo.
2. La Prima guerra mondiale, infatti, è stata l’effettiva e definitiva causa del
divorzio del Continente dalla sua eredità spirituale. Essa può definirsi la
matrice del secolo del male: circa 74 milioni di chiamati alle armi; poco meno di
10 milioni di morti tra i quali 578.000 italiani; più di 21 milioni di feriti. Le
occupazioni dei territori, i campi di concentramento, i lavori forzati, i vagoni
piombati, le deportazioni, fanno allora la loro apparizione sul proscenio della
storia. Le nazioni si sacralizzano mentre la religione si nazionalizza.
Dall’Europa scompare così la consapevolezza di una tradizione comune da
salvaguardare. E al suo posto, si affermano reiterate e reciproche accuse
razzistiche, che giungono a mettere in dubbio l'appartenenza di tutti gli europei
non soltanto ad una comune tradizione ma persino alla medesima umanità.
Quando vincitori e sconfitti s'incontrano a Versailles, la comunicazione è perciò
rarefatta e i rapporti interpersonali vietati.
Il conflitto, inoltre, abbatte l’Impero – ne crollano quattro, il russo, l’ottomano,
il tedesco e, soprattutto, l’austro-ungarico – che era stato la struttura sulla quale
si era poggiato l’ordine europeo. Spazza via il principio di legittimità, come
fondamento dei rapporti tra i popoli e della stabilità internazionale. Annulla la
convinzione che la ricerca prioritaria del mutuo sviluppo economico, e dunque,
del benessere, rappresenti la più forte garanzia per la pace futura. Tre spettatori
d’eccezione dei lavori della Conferenza di Versailles – il francese Elie Halevy,
l’italiano Guglielmo Ferrero e l’inglese Maynard Keynes – vedono tutto ciò e,
soprattutto, comprendono come queste “novità” siano foriere di sventura.
Ciò non significa che, deterministicamente, tutti i drammi del Ventesimo
secolo, da quel momento in poi, siano inevitabili. Vi è chi già immediatamente
dopo, si mette al lavoro per ricostituire il tessuto comune. E non a caso si
debbono a uomini come Stressman, e soprattutto Briand, le prime intuizioni
sulla possibilità di conferire all’Europa un’unità anche istituzionale attraverso la
creazione di "una sorta di legame federale". Ma le avversità contingenti hanno
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presto il sopravvento su un corpo troppo indebolito. E da qui prendono vigore i
totalitarismi europei, nel loro drammatico scontrarsi in una guerra civile di
dimensione continentale. Per il
comunismo e il
nazismo la tradizione
unificante del Vecchio Continente che, includendo un elemento trascendente
poteva considerare l'imperfezione consustanziale alla città dell'uomo, sarebbe
stata da distruggere o almeno da strumentalizzare, assieme alle aggregazioni
sociali da essa spontaneamente derivate: la famiglia, i corpi organici, le classi, i
gruppi d’interesse. Quella tradizione è sostituita, sia nel comunismo che nel
nazismo, da passati mitizzati dai quali sarebbero dovuti scaturire futuri
utopici. Si affermano così progetti totalizzanti per la loro pretesa perfezione
sociale ed assoluti nella loro volontà di potenza. Si parte dalla realtà della
nazione o ad essa si giunge - anche nel caso del comunismo, infatti, il Partito
finisce con il divenire una sorta di Pietro il Grande collettivo – per aspirare,
comunque, all’egemonia mondiale. Le religioni – e non soltanto quella cristiana
- lungo questa deriva, divengono oggetto di odio attivo, e quindi di
persecuzione.
3. Oggi queste tesi in ambito storiografico, a quasi vent'anni dalla sconfitta in
Europa dell'ultimo totalitarismo novecentesco, possono considerarsi persino
non controverse. Si impone però, a questo punto, un quesito intorno al quale,
invece, la riflessione è ancora acerba e, per questo, le opinioni meno uniformi:
l'esito della Seconda guerra mondiale e il successivo processo d'integrazione
europea che da lì prende le mosse, sono riuscite a ricucire lo "strappo" tra il
Continente e la sua tradizione?
La risposta non è semplice perché, sia detto senza infingimenti, il processo
d'integrazione è la storia di un successo che, tra l'altro, ha dato all'Europa il più
lungo periodo di pace interna che essa ha mai conosciuto nell'evo
contemporaneo e una diffusione del benessere mai raggiunto prima. Tuttavia
resta da domandarsi su quali fondamenta questo successo si è costruito per
cercare di comprendere se, e in che misura, esso possa prolungarsi anche nel
nuovo millennio.
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L'unità europea, ai suoi esordi, è in parte un processo esogeno, sollecitato sin
dal Piano Marshall dagli Stati Uniti, mentre nella sua dimensione endogena
sconta forti asimmetrie. Per le nazioni sconfitte – Germania e Italia –
rappresenta in primo luogo la possibilità di riguadagnare parte della legittimità
internazionale perduta accettando loro malgrado la "resa incondizionata". Per i
"piccoli" – Belgio, Olanda e Lussemburgo – è garanzia contro possibili future
invasioni. Per i vincitori – Gran Bretagna –e per coloro che si considerano tali –
Francia – è un principio di collaborazione da subordinare ai rispettivi interessi
di ex grandi potenze e, quindi, alla loro aspirazione imperiale. Un'ulteriore
asimmetria è poi quella che si stabilisce tra la consapevolezza dei funzionari che
avevano sperimentato la necessità dell'accordo nei due conflitti e le remore dei
politici che, salvo una ristretta èlite, resta diffidente.
A queste asimmetrie corrisponde una non univoca e precaria concezione
dell'identità che avrebbe dovuto sorreggere il percorso unitario. L'unità
europea, nei suoi esordi post-bellici, sconta innanzi tutto l'idea, figlia di quei
tempi, che l'identità comune potesse risiedere in quell'antifascismo che aveva
rappresentato il fondamento dell'accordo tra gli Alleati
inauguratosi con
l'invasione dell'Urss da parte di Hitler nel giugno del 1941. Questa idea di
fondo si ritrova, ad esempio, in un testo di fondazione qual'è il Manifesto di
Ventotene, stilato proprio nell'agosto del 1941 al confino da Spinelli, Rossi e
Colorni. In quel Manifesto il federalismo europeo è proposto come alternativa
allo stato nazionale il quale, per la sua natura intrinseca, sarebbe stato destinato
a produrre "la degenerazione plutocratico-fascista". Si vede bene come
quest'analisi non possa fornire un fondamento stabile, e non soltanto per la sua
natura congiunturale. Tra l'altro l'antifascismo non ha lo stesso significato
identitario per tutti i Paesi coinvolti nel processo d'integrazione. Si pensi, ad
esempio, alla differenza che vi è tra la resistenza italiana, sorta nel 1943 ad un
tempo contro il fascismo e contro l'invasore, con quella francese, sorta nel 1940
quando sono in pieno vigore gli effetti del Patto Molotov- Ribbentrop e, per
questo, i comunisti francesi sono di fatto alleati con gli occupanti tedeschi.
Ma la caducità di questo substrato identitario è dimostrata soprattutto dalla
circostanza che, nel giro di pochi anni, il processo d'integrazione, dall'aspirare a
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un fondamento anti-fascista, passa sostanzialmente a servire una causa anticomunista. I suoi primi passi nel mondo delle realizzazioni concrete, infatti – il
Trattato della CECA approvato nel 1951; quello della CED bocciato nel 1954 –
rispondono essenzialmente alla medesima preoccupazione di fondo. Al
cospetto dei pericoli del conflitto est-ovest e del rischio di una nuova guerra sul
suolo europeo, occorreva integrare la Germania dell'Ovest nelle forze delle
quali l'Occidente avrebbe potuto disporre, evitando che tale passo alimentasse i
timori per una ripresa della potenza tedesca. Valga, al riguardo, il passo di una
lettera del 24 agosto 1948, inviata dal Conte Sforza a Robert Schuman: "(...)
sento che la mia vita non sarà passata invano se riuscirò a contribuire ad
un'intesa organica e permanente tra i nostri paesi, che sola potrà evitare un
giorno il ritorno della follia aggressiva dei tedeschi. Tutta la mia esistenza, in
fondo, è stata consacrata a tale scopo. Oggi per la prima volta io avverto che noi
possediamo la possibilità di guarire i tedeschi; la possibilità di evitare che essi si
trasformino in Lanzichenecchi terribilmente pericolosi; la possibilità di fargli
avvertire che essi potranno un giorno sedersi con noi; uguali tra uguali (...)". Ed
è questa, in fondo, la stessa consapevolezza che nel 1952 porta Adenauer ad
affermare: "(...) le cose stanno così: la Germania non può che o risolversi
nell'Europa o dissolversi senza l'Europa".
Sullo sfondo di quest'alba di Guerra Fredda vi è chi tenta d'innestare un
recupero dell'identità originaria. Sono i più illustri e rappresentativi tra gli
uomini della prima generazione di europeisti, De Gasperi, Schuman e, per
l'appunto Adenauer: un trentino, un alsaziano e un renano; non a caso tutti e tre
dei cristiani che ricercano la via non scontata della laicità politica. E, non a caso,
tutti e tre uomini che hanno vissuto sulla propria pelle i drammi del Novecento,
perdendo la patria o vivendola in modo precario.
Sia consentito riportare qualche esempio di tale consapevolezza. De Gasperi
nel 1954, pochi mesi prima di morire: "(...) Se con Toynbee io affermo che
all'origine di questa civiltà europea si trova il cristianesimo, non intendo con ciò
introdurre alcun criterio confessionale esclusivo nell'apprezzamento della
nostra storia. Soltanto voglio parlare del retaggio europeo comune, di quella
morale unitaria che esalta la figura e la responsabilità della persona umana col
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suo fermento di fraternità evangelica, col suo culto del diritto ereditato dagli
antichi, col suo culto della bellezza affinatosi attraverso i secoli, con la sua
volontà di verità e di giustizia acuita da un'esperienza millenaria". Schuman nel
1958, quando le speranze di ritrovare le vecchie radici si erano fatte più flebili:
"Tutti i paesi dell'Europa sono impregnati di civilizzazione cristiana. Essa è
l'anima dell'Europa, anima che bisogna restituirle".
Questi uomini, però, rappresentarono delle eccezioni presto svanite assieme
all'illusione che da un'identità negativa – l'anti-comunismo – si possa risalire a
quella dispersa. Non fu così. I primi passi del processo unitario derivano dalla
paura, non dalla consapevolezza. Essi hanno vigore e forza fino a quando il
pericolo di un conflitto armato sul suolo europeo resta elevato. Ma quando,
dopo la fine della Guerra di Corea, l'inizio di un processo di "piccola
distensione" incoraggiato da Churchill, la morte di Stalin e l'intuizione degli
effetti indotti dalla logica della deterrenza, la Guerra Fredda si secolarizza, gli
egoismi nazionali tornano a esigere i loro diritti. Allora anche l'idea di
Occidente torna a sfaccettarsi e la diffidenza europea nei confronti degli Stati
Uniti scala il suo picco. Per tutte queste ragioni insieme, nel 1954 fallisce il
Trattato della CED, e si chiude la prima fase della storia dell'integrazione.
4. L'Europa sa reagire e ripartire. Non si attarda lungo un percorso bloccato da
contingenze negative. Servendosi del metodo messo a punto da Monnet,
guarda ai bisogni reali della gente e cerca i modi concreti di servirli. Quanti
lavorano a questo progetto, agli esordi, si preoccupano anche di evitare
un'eccessiva asimmetria tra il pilastro economico e quello politico. Da
quest'esigenza nascono i trattati dell'Euratom – concernente lo sfruttamento
civile dell'energia atomica – e del Mercato Comune, entrambi siglati a Roma nel
1957. Ma ben presto è quest'ultimo che si afferma come il terreno sul quale
l'integrazione avrebbe compiuto progressi straordinari. E, con esso, l'idea che lo
sviluppo economico e il benessere possano essere il motore che, per la sua forza,
trascina dietro di sé l'intera crescita dell'edificio comunitario. D'altro canto, è
proprio quella prospettiva che porta De Gaulle a convertirsi alla prospettiva del
Mercato Unico; la Gran Bretagna a resistere in lista d'attesa per più di dieci anni
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e, in seguito, i Paesi in transizione verso la democrazia a ricercare nell'adesione
all'Unione un caposaldo per rafforzare i loro processi.
Fino a quando la relativa anestesia degli equilibri mondiali, coniugandosi con
lo sviluppo economico, hanno garantito la persistenza della "ragione sociale", il
metodo ha funzionato. Ma già lungo la via si sono accumulati dei "residui" che,
in un diverso tempo storico, avrebbero potuto destabilizzare l'intera
costruzione. Se ne possono citare tre principali: uno politico, l'altro economico e
il terzo, insieme, politico ed economico.
Il primo investe il rapporto transatlantico e rappresenta un vero nodo
gordiano. Perché, nel corso dei suoi primi quarant'anni di vita unitaria, l'Europa
si è per lo più trovata al fianco degli Stati Uniti ogni qual volta la Guerra
Fredda ha visto esasperarsi i conflitti. Per prenderne, invece, le distanze nei
momenti di relativa distensione. Quasi che solo il pericolo esterno, e non anche
la condivisione della medesima tradizione culturale e spirituale, giustificasse
l'alleanza.
Il secondo concerne le linee guida della politica economica dell'Unione. Non
gli si può assegnare certo l'oscar della coerenza. Protezionismo e liberismo,
keynesismo e mercantilismo, con ampio e succulento contorno di sussidi e
finanziamenti giustificati da non sempre ben definiti principi di solidarietà, si
sono alternati nel corso delle stagioni senza progettualità e senza una linea
politica sedimentata e accettata dalle opinioni pubbliche.
Il terzo "residuo" discende dalla combinazione dei due precedenti. Perché
laddove la scelta politica manca di riferimenti fondativi e al principio di
responsabilità politica manca un richiamo effettivo al demos, inevitabilmente la
dimensione burocratica e regolamentare finisce con l'assumere uno spazio
spropositato.
5. L'impressione che si forma uno storico, a questo punto, è che l'unità
europea sia figlia di un tempo particolare: quello della Guerra Fredda. Il suo
percorso, infatti, riproduce molte caratteristiche di questa fase storica. E' una
costruzione pragmatica, che sa sfruttare gli spazi d'azione che di volta in volta,
si rendono disponibili. Ha un tempo interno intermittente, scandito da crisi e da
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subitanei rilanci. Porta un contributo alla "pace possibile" ma senza sciogliere i
nodi di fondo dell'equilibrio mondiale. Utilizza lo strumento del benessere, sia
per rafforzare il processo di pacificazione interna sia per confrontarsi con l'altra
Europa sottoposta al giogo sovietico.
L'Unione Europea condivide anche molte delle illusioni che si sviluppano
quando la Guerra Fredda finisce. Tra le altre, la possibilità che il mondo
proceda senza egemonie; la possibilità della pace perpetua, intesa come una
sorta di diritto naturale;
la convinzione che sviluppo e benessere possano
prolungarsi, senza mettere in discussione sicurezze e privilegi nel frattempo
acquisiti.
Da tale duplice circostanza – l'essere tarata su un altro tempo storico e l'aver
introiettato molte delle illusioni connesse con la fine di questo stesso tempo
storico – derivano molti motivi delle difficoltà nelle quali attualmente l'Europa
si dibatte. Alcune di esse sono i "residui" accumulati nel corso della stagione
precedente e che oggi, in una differente temperie, acquisiscono una diversa
valenza. Si pensi, ad esempio, al problema del rapporto tra la sovranità
dell'Unione e le sovranità nazionali che vi convergono. Nell'Europa bipolare il
conflitto tra queste ultime costituiva un problema minore. Una volta infrantosi
quell'equilibrio, però, quel che non era stato risolto si è manifestato sotto forma
di conflitto maggiore, anche in seno all'Unione. Lo si è verificato al momento
dell'unificazione tedesca; nel corso della crisi balcanica, ultimo lascito
avvelenato della Grande Guerra sopravvissuto addirittura alla fine del
comunismo e nelle questioni mediorientali, sin dai tempi della prima Guerra
del Golfo. In realtà, in molte di queste circostanze il conflitto tra potenze
europee è regredito al punto da proporre schemi del periodo pre-seconda
guerra mondiale. E non di rado, come nel caso dei Balcani, gli americani sono
dovuti intervenire per togliere le castagne dal fuoco europeo. Ci si può riferire,
inoltre, al modo di concepire l'Occidente e il rapporto con gli Stati Uniti. Anche
questi problemi hanno trovato nella Guerra Fredda un naturale paravento. Ma
una volta che l'automatismo è entrato in crisi, l'Europa si
è trovata a
domandarsi se e quale tipo d'alleanza contrarre con l'America: a quali
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condizioni, contro quali nemici e nell'alveo di quale concezione dell'Occidente.
E sulle risposte da dare a questi quesiti, una volta di più, si è divisa.
Le altre difficoltà nascono dalle illusioni accumulate che la fine del mondo
bipolare ha contribuito ad alimentare. Sembrano proporre una sorta di legge del
contrappasso. Il benessere e la sicurezza che l'Unione ha contribuito a dare ai
cittadini europei, infatti, è oggi freno psicologico a considerare che la ricchezza
non è un diritto garantito e che parte di quelle sicurezze sociali debbano essere
messe in discussione per reagire alla sfida che, sulla via dello sviluppo, giunge
da nuovi e agguerriti competitori mondiali. Altresì, la pace che essa ha
contribuito a garantire è tra i fattori che rende l'Europa pavida al cospetto delle
sfide che vengono lanciate alla sua sicurezza interna ed esterna, alla sua civiltà,
ai valori universali selezionati dalla sua tradizione culturale.
Oggi l'Europa si trova ad affrontare una delle sue più difficili stagioni di crisi.
Ha perso il suo tradizionale baricentro nella coppia franco-tedesca. Si è divisa
politicamente su quale equilibrio mondiale contribuire a edificare. Ha difficoltà
a integrare i nuovi giunti senza creare al suo interno scompensi o motivi
d'ostruzionismo. Ha visto il trattato istituzionale, troppo ambiziosamente
definito "costituzione", respinto dai cittadini. E' incerta sulla politica economica
da intraprendere. E, infine, ha trovato un compromesso risicato e in extremis sul
suo stesso bilancio.
Lo si è detto: altre crisi sono avvenute nel corso del processo d'integrazione, e
ogni volta l'Europa è riuscita a ripartire. Una pausa di riflessione può
certamente servire, così come l'individuare strade nuove più vicine alla
comprensione dei cittadini, come si seppe fare a Messina nel 1955 e a Venezia
nel 1956. Ma se la sua crisi dipende, come pensiamo, da un mutamento
complessivo di paradigma storico, questa volta il pragmatismo potrebbe non
bastare.
L'Europa deve oggi dimostrarsi consapevole dell'ammonimento di Paul
Valery che, non casualmente nel 1919 scriveva: "Noi altre, civilizzazioni, noi ora
sappiamo d'essere mortali". E, proprio da questa consapevolezza deve saper
trarre la forza per sfuggire alla profezia di Oswald Spengler, che ritiene la sua
tradizione storico-culturale destinata a un ineluttabile tramonto. Per essere
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all'altezza di questo compito, urge un processo di rifondazione che le ridia ciò
della cui assenza si soffre: una identità fondante, delle basi spirituali; un'anima.
Se vi saranno donne e uomini che si dedicheranno a questo compito,
immettendo nei cuori desolati, sradicati, rassegnati dei cittadini del Vecchio
Continente un nuovo orgoglio di sentirsi europei, allora anche gran parte del
processo di unificazione fin qui compiutosi potrà essere riconsiderato e in parte
salvato. Così come potranno essere compresi e valorizzati i differenti percorsi
culturali che hanno preso avvio dall'originario nucleo unitario.
E' un compito immane per il quale servono impegno critico, passione per la
conoscenza, fede. Tutti elementi che si forgiano nell'impegno di ricerca e di
studio. E che io mi auguro – e auguro a voi cari studenti – possano transitare
anche per i corridoi, i cortili e le aule di questa nostra università.
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