a teatro

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il manifesto
DOMENICA 21 FEBBRAIO 2010
Intitolata «I Preraffaelliti e il sogno italiano. Da Beato Angelico a Perugino»,
la mostra aperta da sabato 27 febbraio al 6 giugno, presso il Museo d’arte
della città di Ravenna (Mar), è la prima grande rassegna italiana dedicata al
celebre movimento artistico dell’Ottocento inglese. L’esposizione, curata dal
direttore del Mar Claudio Spadoni, insieme ai britannici Colin Harrison e Christopher Newall, e realizzata in collaborazione con l'Ashmolean Museum di
Oxford (dove si svolgerà una seconda edizione della rassegna dal 15 settembre al 5 dicembre), mette in primo piano il rapporto che ebbero con l’Italia
quei pittori inglesi della seconda metà dell'800, come Dante Gabriel Rossetti
e William Holman Hunt, che aspiravano al recupero di un'arte spontanea e
ispirata alla natura, identificandola, appunto, con l'opera degli antichi maestri antecedenti alla rivoluzione di Raffaello.
a teatro
MOSTRE
A Ravenna la prima grande rassegna italiana sui Preraffaelliti
CONVEGNI
ABITARE PALERMO
Rigore e antiretorica
nelle pagine
di Giorgio Messori
Sussurri e grida
nel ritorno al sud
di Vargas
Franca Rovigatti
G
iorgio Messori è un autore poco noto, e molto insolito nel panorama
letterario italiano. Fuori dai generi,
appartato, all’apparenza frammentario e
quasi spaesato, avvicinabile semmai per toni e atmosfere al mondo mitteleuropeo e all’amato Bichsel, di cui è stato anche traduttore. Particolarmente sensibile alle arti figurative, ha pubblicato con Luigi Ghirri Atelier Morandi (Palomar, 1992) e con Vittore
Fossati Viaggio in un paesaggio terrestre
(Diabasis, 2007). È morto precocemente a
cinquantun anni nel 2006, quando il suo libro più importante, Nella città del pane e
dei postini (Diabasis, 2005), cominciava a ricevere i primi riconoscimenti. Riconoscimenti che gli vengono ora tributati in due
giornate di convegno (23 e 24 febbraio), alla Sapienza di Roma, da scrittori, poeti e italianisti, che di Messori sono stati amici e
estimatori, tra cui Carlo Bordini, Beppe Sebaste, Emanuele Trevi, Andrea Cortellessa.
Quella di Messori è una scrittura a superficie calma, come di uno che ti racconta la
pelle di un suo personale quotidiano. L’andamento prevalentemente diaristico del
bellissimo Nella città del pane e dei postini
(la sua stessa dimessa copertina, parete dilavata di casa con finestre) introduce in un
susseguirsi apparentemente banale di cose, fatti, incontri. Introduce piano. Ma presto il lettore si accorge di muoversi in un paesaggio molto complesso, di essere a contatto con una mente (un’anima?) raffinata
ed esigente, che non si accontenta: non delle apparenze, men che meno di stereotipi e
luoghi comuni. E questo per lungo allenamento, fin dall’infanzia muta e dissidente,
fin dalla solitaria adolescenza. Allenamento, intanto, alla precisione, che per Messori
è una necessità: dire le cose come sono,
precisamente come sono. Di questa esigenza etica di precisione fa parte anche la rinuncia alle illusioni, che colora di un tono
malinconico la sua scrittura: e che è, precisamente ancora, la nostalgia di un vero che
veramente accade, e che dunque non ha bisogno di illudersi.
Le cose come sono: senza ombra di retorica, senza solennità, ricorso all’epico, al romantico, al grottesco. Nessun gioco. E invece una grande, vera, gentilezza, una mitezza senza sdolcinature. Questa gentile sincerità mette il lettore in una straordinaria posizione orizzontale, speculare all’apparente orizzontalità della scrittura. Ma subito
poi si avverte invece una vorticosa verticalità, peculiare e ardua. Il viaggio narrato nel
diario è, sì, a Tashkent, remota capitale del
remoto Uzbekistan (dove Messori è stato
lettore di italiano), ma è soprattutto un
viaggio interiore. Ed è, ancora una volta
precisamente, un viaggio nel dolore. Senza
autocompiacimenti: ma invece affrontando, attraversando, conoscendo e riconoscendo. In tale viaggio interiore, Messori fa
un uso concreto e sapiente di memoria e dimenticanza, alterna nebbie e lucidissime
messe a fuoco. Per questo (e per molto altro) Nella città del pane e dei postini è un libro quietamente travolgente, che induce
anche il lettore più pigro a un proprio percorso interiore, lo invita a una propria verticalità. Questo fa di Giorgio Messori uno
scrittore etico, e dunque assolutamente necessario nella confusione che oggi assedia.
Il viaggio nel proprio (nel comune) dolore produce una sorta di (mai conclamata:
ma sottile e reale) pulizia e catarsi: l’ingresso in una plausibile, infine, dimensione di
realtà. Come il viaggio spaesato e improbabile di Giorgio, che lo ha portato invece a innamorarsi, finalmente, a sposare la donna
della sua vita, a comprare una casa col giardino e con una finestra la notte illuminata.
Come la copertina della Città, in cui, dopo
aver letto il libro, riconosci la luce alla finestra e intravvedi, sia pur confusamente,
l’ombra di una donna affaccendata.
CLAUDE PARENT, LA CHIESA DI NEVERS
ARCHITETTURA
A Parigi una mostra
su Claude Parent
e la «funzione obliqua»
Emanuele Piccardo
C
on due libri, una mostra antologica
(aperta fino al 2 maggio), cicli di conferenze e film, la Cité de l’Architecture di
Parigi rende omaggio a Claude Parent – architetto, sperimentatore, teorico, visionario, utopista – all’interno di un progetto curato da
Frédéric Migayrou, direttore del Museo d’arte
Moderna del Pompidou, e Francis Rambert, a
capo dell’Institut Français d’Architecture.
Con il filosofo Paul Virilio, il pittore Michel
Carrade e lo scultore Morice Lipsi, Parent ha
fondato nel ’63 il gruppo Architecture Principe, equivalente francese (con Utopie Group)
del movimento dell’architettura radicale internazionale nato in Inghilterra, Italia, Austria e
Stati Uniti. Già nel primo anno di lavoro, Parent e Virilio, elaborano la teoria della «funzione obliqua» che rompe con la tradizione dell’angolo retto di matrice razionalista per introdurre il movimento nell’architettura. «Se assumiamo una posizione orizzontale nello spazio
– afferma Parent – non abbiamo coscienza del
nostro corpo, il corpo non parla. Viceversa lo
stare su un piano inclinato dona la parola al
corpo che ci trasmette le sensazioni emanate
dallo spazio». Questa rottura della linea ortogonale trova espressione nella chiesa di S. Bernadette du Banlay a Nevers (1963-66), dove si individua una analogia concettuale e spaziale
con i bunker, per la scelta del beton brut, gli
angoli arrotondati, la forma monolitica, dura.
Incontro decisivo per Parent è anche quello
con André Bloc, artista e fondatore della rivista «L’Architecture d’Aujourd’hui». La collaborazione tra i due culmina nella casa realizzata
da Parent per l’amico a Cap d’Antibes
(1959-62): due scatole asimmetriche in cemento e vetro sospese nel vuoto, sostenute da un
esile telaio in acciaio tinteggiato del colore del
mare. Si crea così una separazione concettuale e fisica tra cellule abitative e struttura portante; e un’ulteriore rottura avviene con l’inserimento della sinuosa scala a chiocciola in contrasto con la geometria dell’architettura.
La ricerca di Claude Parent si colloca nella linea sperimentale della «New Babylon» di Costant e della «architettura mobile» di Yona Friedman. Altro elemento fondamentale della sperimentazione di Parent riguarda il suo rapporto con il neo-plasticismo di Theo Van Doesburg e Piet Mondrian evidente nelle architetture della Maison Parent a Neully sur Seine
(1950-63) e della Maison de l’Iran alla Città
universitaria di Parigi (1959-62). In entrambi i
casi è evidente come la linea bidimensionale
di Mondrian trovi una corrispondenza nella
costruzione finita.
La mostra parigina definisce l’importanza
dell’opera di Parent, enfatizzata dall’elegante
allestimento del suo allievo Jean Nouvel, attraverso maquette, schizzi, disegni, videointerviste agli architetti che hanno subito l’influenza
del maestro della «funzione obliqua», sulla cui
scia è nata l’architettura de-costruttivista cui
fanno capo, tra gli altri, Coop Himmelb(l)au,
Frank Gehry, Zaha Hadid, Bernard Tschumi,
Odile Decq e, appunto, Jean Nouvel.
UNA SCENA
DI «URBAN
RABBITS»
DEL CNAC
/FOTO PHILIPPE
CIBILLE
IN ALTO,
FRANCISCO
JAVIER GARCIA
BARCELONA «FÁBRICA FABRA
Y COATS»
A DESTRA «BAL»
DI SEMIH
KAPLANOGLU
Gianni Manzella
PALERMO
A
vent'anni di distanza dal
memorabile Palermo Palermo di Pina Bausch, un
altro artista della scena internazionale prova a raccontare la capitale siciliana con gli occhi incantati del viaggiatore. Come nel
caso della signora di Solingen, anche per Enrique Vargas si tratta
infatti di una tappa di un viaggio
nelle città che ha già toccato Barcellona e Napoli e Copenhagen.
E come ogni viaggio finisce per rivelare più di sé che dell'altro.
Ma Abitare Palermo, per lo
spettatore che in passato ha frequentato a lungo i labirintici paesaggi creati dall'artista colombiano, è anche un tornare sui propri
passi, ritrovare nella memoria
luoghi ben conosciuti – senza
l'emozione della scoperta che
può ancora toccare chi allora
non c'era, ma forse con un diverso sentimento di partecipazione,
più prossimo alla nostalgia. Perché quello che dice è l'esperienza del tempo. E te ne rendi conto, quasi in maniera dolorosa,
quando all'incrocio del mito tre
tessitrici ti mettono in mano
quel filo bianco di lana che è oracolo o talismano ma soprattutto
è il filo della vita, per una volta
nelle tue mani.
Eccoci allora nell'oscurità della grande sala che si dilata nell'andirivieni fra una stazione e
l'altra dello spettacolo, rese d'improvviso visibili per un momento o a mala pena percepibili alla
vista, bisogna affidarsi a tutti i
propri sensi. Due figure femminili invitano a scegliere chi seguire,
e ogni scelta naturalmente comporta una perdita. Cala un modellino della città, distribuito a pezzi
agli spettatori perché poi lo ricostruiscano come un puzzle. Voci
misteriose sussurrano parole all'orecchio, e più che le storie bisbigliate conta quel contatto,
quella rottura del diaframma che
separa lo spettatore dall'attore,
come quando uno di loro ti prende per mano e ti porta via bendato.
Siamo nella navata del Nuovo
Montevergini che fu in passato
aula bunker per processi di mafia e centro sociale, e ora è il cuore di un vero e proprio atelier teatrale. Ma l'architettura della seicentesca chiesa barocca non appare che per brevi bagliori, quando l'azione si fa più corale. È il
momento della musica e della festa di piazza, del ballo popolare
in cui ci si mescola senza più divisioni di ruoli. O l'approdo a un
fiabesco palazzo fatto da una luminosa ragnatela di quei fili bianchi, che crescerà anche grazie al
filo della nostra vita, destinato
simbolicamente a intrecciarsi
con gli altri, in una costruzione
in divenire.
Perché non c'è solo l'esperienza sensoriale nel lavoro di Vargas
e degli attori del Teatro de los
Sentidos. Dietro quelle sonorità,
quei profumi da cogliere nel buio, per il breve istante del loro manifestarsi, sta l'evocazione di una
zona di mistero, qualcosa che il
teatro non può dare se non come
desiderio. E che, fuori da lì, chiede di essere vissuto.
LA STAGIONE PARIGINA
Un tram che si chiama
Isabelle Huppert
Gianfranco Capitta
PARIGI
P
rotagonista della scena parigina, seppure in maniera
«indiretta», è stato questa
settimana Dario Fo, il cui Mistero
buffo è entrato nel repertorio della
Comédie Française. Ingresso ad
opera della stessa direttrice Muriel Mayette, che certo sta imprimendo all'antica istituzione una
positiva sterzata verso il presente,
con un'affezione particolare per
l'Italia. È stata lei due anni fa a far
arrivare in versione francese La festa di Spiro Scimone, e ha già programmato per la prossima stagione la Malattia della famiglia M. di
Fausto Paravidino. È un segnale di
attenzione e di responsabilità delle istituzioni sotto qualsiasi governo, distante anni luce da quanto
avviene da noi, dove le uniche notizie rilevanti sembrano estenuanti e dolorosi cambi di direzione,
da nord a sud.
Un altro esempio di vitalità francese riguarda le arti circensi. Il
Centre national des Arts du Cirque è non solo un luogo consolidato di formazione, ma dotato di
grande senso di responsabiità culturale. Da diversi anni, chiama un
artista internazionale, che sia coreografo o regista di prosa, per «mettere alla prova» i suoi diplomandi,
che non si troveranno così costretti a rimanere nel recinto della pista del circo, ma possano misurare le proprie chances davanti a
pubblici diversi.
Quest'anno l'artista ospite è
l'ungherese Arpad Schilling, regista ben noto al pubblico italiano
(un impegnativo Shakespeare al
Piccolo di Milano) per usare drammaturgicamente la fisicità egli attori. Urban Rabbits (arriverà dal
24 aprile a Roma, Ferrara e Modena) è una favola minimale, che insegue queste creature prodigiose,
più veloci e scattanti di urbani conigli, sulle funi e sulle reti elastiche, sui trapezi e nei capitomboli
clamorosi che con sapore beckettiano reinventano un'arte antica e
spesso logorata, ma che qui sembra riacquistare un senso esistenziale profondo. Gli artisti sono giovanissimi e di nazionalità diversa,
ma comune è il maturo piacere di
parlare attraverso il corpo, sondarne le possibilità, rilanciarne pericolosamente l'espressione, scoprir-
ne la vitalità anche dove uno non
penserebbe.
All'opposto esatto di un ipotetico diagramma spettacolare, va invece una delle star incontestabili
dell'immaginario transalpino, Isabelle Huppert. La gran dama del
teatro e del cinema francese ha costruito a propria millimetrica misura una megaproduzione al prestigioso Odeon diretto da Olivier
Py. Ha chiamato un regista sempre più acclamato della scena europea, il polacco Krysztof Warlicowski, e ha scelto un testo esemplare del novecento, Un tram che
si chiama desiderio di Tennessee
Williams, di cui ha chiesto una
nuova traduzione al canadese/mediorientale Wajdi Mouawad. La vicenda di Blanche Dubois a questo
punto ha preso il titolo più limitato Un tramway (all'Odeon fino al
2 aprile).
Ed è un tram piuttosto spericolato quello che, per tre ore senza
intervallo, procede sul grande palcoscenico avendo come unica bussola per la propria rotta il patrimonio Huppert. Non che manchino
gli altri personaggi (il mitico
Kowalski di Marlon Brando ha
l'asciutta efficacia di un attore polacco in ascesa, Andrej Chyra, prediletto da Wajda), né tanto meno
un grande apparato scenografico,
che Malgorzata Szczesniak dispone in verticale e orizzontale su più
piani, con pavimento che può riflettere o trasparire, muoversi o
scoprire sotto di sé una intera pista di bowling, per un paio di nervosi tiri al birillo di Kovalski. Né
mancano i costumi, e soprattutto
le mises Huppert, dalla guépière
che fa Marlene, al tailleur finale di
quell'azzurro che qui Blanche predilige, perché uguale a quello «delle madonne della pittura italiana
del '400». O almeno così dice l'attrice, che canta, balla (anche da sola, per diversi minuti, in una discoteca di rock duro) interroga e riflette. Quella di Blanche, e della sua
compressione erotica destinata all'infelicità, smette di essere una
sorta di «autobiografia sentimentale» del suo autore, per divenire un
catalogo d'attrice, che può contare anche sui video che ingigantiscono in diretta le espressioni del
viso nei primi piani e le movenze
nei campi più lunghi. Ma la tragedia non c'è più e finisce per scarseggiare anche il desiderio.
il manifesto
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CULTURA&VISIONI
LA VOIX HUMAINE
Poulenc musica Cocteau
È andata in scena a Bologna e avrà repliche a Bolzano (il 22 e 23 marzo) La voix humaine che negli
anni 50 Francis Poulenc realizzò mettendo il musica il monologo femminile scritto da Cocteau negli
anni 20. È un testo col quale si sono cimentate in
scena molte attrici e che ha avuto anche una versione cinematografica con la splendida Magnani,
regia di Rossellini, che qui viene proposto nella
versione in cui la cantante (qui Cristina Zavalloni)
è accompagnata dal solo pianoforte (qui Andrea
Rabaudengo). Per chi sta alla tastiera non ci sono
gran problemi tecnici da superare; per chi canta è
THÉÂTRE DU SOLEIL
Mnouchkine
guida i naufraghi
della speranza
Gherardo Vitali Rosati
PARIGI
V
iaggi avventurosi e utopie politiche si intrecciano ne Les Naufragés du Fol Espoir, il nuovo
spettacolo che il Théâtre du Soleil
porta in scena fino a giugno alle porte di Parigi. Ispirandosi a un romanzo postumo di Jules Verne (Les Naufragés du «Jonathan»), Ariane Mnouchkine, regista e fondatrice del Soleil, orchestra scene epiche e corali,
sempre illuminate da un preciso intento politico. Protagonisti di questa
nuova avventura della sua troupe sono un gruppo di cineasti che nel
1914 si apprestano a mettere in scena il romanzo di Verne. Ecco allora
che i due piani temporali avanzano
parallelamente: alle vicende che precedono la prima guerra mondiale
fanno eco intrighi e avventure di fine
Ottocento, e proprio mentre nel film
si gira la misteriosa scena della morte di Rodolfo d’Asburgo-Lorena,
giunge sul set la notizia dell’attentato di Sarajevo. C’è un che di sinistro
che fin dall’inizio incombe su cineasti e personaggi: da un lato le disavventure dei naufragi che si rovineranno alla ricerca dell’oro, dall’altro la
Grande Guerra pronta a interrompere ogni esperienza artistica. Ma questi pionieri della settimana arte non
perdono mai l’entusiasmo: un po’ come Ariane Mnouchkine e i suoi attori nel loro lavoro quotidiano, sembra-
no quasi trovare maggiore grinta nelle avversità che li circondano. E il regista della storia non può che ricordare la leader del Soleil, con i suoi puntuali tentativi di introdurre tematiche politiche all’interno dell’opera.
Attraverso il cinema nel teatro, i
trentacinque attori della compagnia
– che da sempre si occupano di tutte
le fasi dello spettacolo: dalla scrittura
del testo alla costruzione delle scene
– presentano affascinanti cimeli come antiche macchine da presa o una
pioneristica gru, ma sopratutto si
preoccupano di realizzare vari trucchi di scena. Un ventilatore e un sacchetto di coriandoli bastano a simulare con sufficiente realismo una
tempesta di neve accompagnata da
sibili e tuoni realizzati dal bravo Camille (Jean-Jacque Lemêtre, lo storico musicista del Soleil). Mostrando
esplicitamente gli artifici del teatro,
gli attori possono presentare scene
epiche e impegnative come una disastrosa tempesta nel mare o il naufragio di un enorme bastimento. Ma
questo dispositivo metateatrale non
fa che mostrare apertamente il tradizionale metodo di lavoro del Soleil,
che non si perita mai di svelare i meccanismi del teatro, con attrezzi e scenografie spesso animati dagli attori
sulla scena.
Les Naufragés du Fol Espoir è la
storia di una ostinata resistenza alle
avversità politiche, e se il finale sembra porre fine ad ogni ottimismo, nella complessa drammaturgia ideata
da Hélène Cixous interviene un terzo piano narrativo. La voce fuori
campo, che racconta entusiasta le avventure dei cineasti, è infatti la nipote di uno di loro. Pare allora che la
guerra, con tutti i suoi bombardamenti, non abbia potuto soffocare la
Folle Speranza di quegli ostinati
amanti dell’arte.
tutta una tensione tra il realismo della parola e
l'enfasi lirica della melodia. Cristina non ci è parsa
al suo top, ma abbandonata un po’ troppo sentimentalmente al testo musicale. Del resto non le
giovava la messinscena, con una telecamera che
riproponeva il suo primo piano ingrandito alle
sue spalle, un po’ come quando uno parla dal palco di un congresso popolare. Le luci livide risultavano in un bianco e nero terreo che metteva in
evidenza un personaggio preda della ferita di un
abbandono, il che riduce ad ancor più sciocca
l'immagine della donna abbandonata quale è nel
testo teatrale di Cocteau, così come nella resa di
Poulenc, venata di mondanità anni 40. A Bolzano,
la cantante avrà alle spalle l'orchestra e molto, nell'insieme, potrebbe cambiare. G. Ca.
BERLINALE · Premi a Polanski e Wakamatsu
IDENTITÀ GOLOSE
L’Orso d’oro in Turchia
«Miele» di Kaplanoglu
Niente sprechi,
chi sa cucinare
usa proprio tutto
Cristina Piccino
Francesca Angeleri
BERLINO
MILANO
B
N
al, Miele, del regista turco
Semih Kaplanoglu è l'Orso d'oro di questa sessantesima Berlinale, giuria con presidente Werner Herzog che non
ha voluto dimenticare il magnifico Caterpillar di Wakamatsu
premiando la sua attrice protagonista, Shinobu Terajima, e
nemmeno ignorare il Ghost Writer di Roma Polanski col premio alla migliore regia, che se
suona anche un poco bizzarro
vista la carriera del regista dall'altra parte è forse l'indicazione migliore, il premio a un cinema che inventa se stesso negli
anni, continuando a sorprendere, a essere vitale, a provocare
con intelligenza.
Premiato, con l'Orso d'argento uno dei più favoriri in gara, il
rumeno Se vuoi soffiare soffia
opera prima di Florin Serban,
con un cast di attori non professionisti, che sembrava poter essere il vincitore. Migliore interprete maschile Grigory Dobrygin ex-aequo col suo partner
Sergei Puskepalis coprotagonista di How I Ended this Summer
del regista russo Alexander Popolosky. Dispiace un poco per
The Hunter di Rafi Pitt che nonostante le imperfezioni aveva la
potenza di entrare nella costruzione interiore, emozionale, di
del regime di paura e oppressione che ora governa il suo paese,
l'Iran...
Sembra che la giura (Francesca Comencini, Jean Maria Morales, Yu Nan, Nurredine Farah, Rene Zellweger, Ornella Foboess, oltre al presidente Herzog) abbia scommesso per i premi maggiori su un cinema «nuovo», un esordiente per l'Orso
d'argento che è anche un po' il
premio a una generazione nuova cresciuta negli ultimi anni in
Romania grazie a talenti e alla
sperimentazione di formule
produttive collettive e di reciproco sostegno tra i cineasti.
Kaplanoglu non è un nome
nuovo, il precedente Latte è stato in gara a Venezia mentre Uovo, prima parte di questa trilogia, lo ha lanciato alla Quinzaine di Cannes.
Diciamo che il suo è un cinema nel quale è molto forte quella tendenza «meditativa» di un
certo cinema moderno, giocato
sulle sospensione, i silenzi, l'incanto di relazioni che vivono oltre il tempo, in una realtà non
precisamente connotata, spazio
emozionale più che narrativo.
La relazione del padre e del figlioletto, immersa in una natura
di cui il bimbo, la cui balbuzie lo
fa parlare solo sussurrando, è
probabilmente piaciuta molto a
Herzog, un film come Caterpillar di Wakamatsu era troppo vicino al suo modo di filmare, qui
i personaggi eccentrici e la natura sono vicini ma anche di segno opposto - dovendo trovare
un riferimento siamo più dalle
parti del cinema giapponese di
una Naomi Kawase, il soffio del
vento e il respiro del cuore in
equilibrio sfalsato.
C'è forse un eccesso di compiacimento in questo gesto del
filmare, e certo gli occhioni
del bimbo, i suoi gesti rabbiosi
e di affetto, quel mondo contadino ancora oggi arcaico, ove i
ragazzini conoscono i nomi
dei fiori e il sapore del miele
che gli corrisponde, sono molto concilianti. Non c'è il disturbante pensiero critico, che dissacra i luoghi comuni di un
Wakamatsu.
Diciamo che Bal è un poi quel
tipo di cinema «europeo» che arriva da altri paesi e che però cerca
la sua identità in un immaginario
dell'altrove.
Un cinema più conciliante,
proprio come il film rumeno, nonostante parli di un ragazzo in
carcere e della sua rabbiosa voglia di reagire al mondo.
on c’è niente da fare. Anche i più restii si devono
rassegnare. La cucina è
una cosa seria. E la serietà nasce e
si rigenera nella responsabilità.
Senza voler indulgere troppo sulle
variazioni della carbonara, sulle
performance sempre più sofisticate di alcuni chef, sulla rielaborazione o meno della tradizione culinaria, intorno all’argomento ruota
un universo che, allo stato attuale,
necessita di una codificazione sociale e culturale oltre che papillogustativa. Si verifica sempre più
una necessità di analisi, si spera di
volta in volta più seria.
Identità Golose è un congresso
e perché abbia un senso bisogna
vederlo in questa prospettiva. Quest’anno si è destreggiato (dal 31
gennaio al 2 febbraio) tra le polemiche di Striscia e i contenuti di
Slow Food: «questa non è una fiera per vendere prodotti» - affermaPaolo Marchi, critico gastronomico e curatore - noi cerchiamo di registrare ciò che succede. In questo
momento, ci sono esempi di cucina profondamente legati al rispetto etico delle materie prime. La crisi è anche chiedersi se è ragionevole uccidere una bestia per mangiarne poi solo il filetto. Non a caso il titolo dell’edizione 2010 è stato Il lusso della semplicità, essenzialità nel senso di: io ti presento
una carota, una pasta, un prosciutto ma è il migliore che tu possa
mangiare. È chiaro che è una cosa
d’elite, però in questo modo si alza il livello medio al punto che anche Mc Donald introduce un panino con dentro la bresaola Igp».
Il concetto pare essere quindi
quello di togliere il superfluo per
focalizzarsi sulle materie prime.
Certo, a conti fatti, sono ancora poche le realtà presenti che puntano
sulla coerenza dall’inizio alla fine
del prodotto, da dove arriva, come
ci arriva, le ripercussioni che ha
sull’uomo e sull’ambiente. Ma
qualcosa c’è e anche di abbastanza significativo. Come la cooperativa di pescatori dell’Alaska, luogo
in cui la pesca sostenibile è obbligatoria dal 1951, «ogni specie è
controllata diversamente a seconda di come e dove si pesca. I controlli sono rigidi e la pesca illegale
è contenuta. I cuochi italiani, però, a differenza degli americani o
dei nordeuropei, non sembrano
essere particolarmente interessati
al discorso. Negli Usa si riuniscono in associazioni che stabiliscono, per norma, l’utilizzo unico di
prodotti del mare sostenibili».
Presente al congresso anche
un’azienda biologica italiana, Casa Barone, che tratta la coltivazione del pomodorino nel Parco Nazionale del Vesuvio. Il proprietario
ha rilevato un fondo abbandonato
ubicato su un terreno sorto sulle
eruzioni del vulcano. L’etica agricola potrebbe in futuro fondersi
con l’etica sociale, poiché pare ci
sia in progetto la realizzazione di
una cooperativa formata da extracomunitari.
Certo i prezzi sono più elevati
del normale, ma il sapore piace soprattutto agli chef più giovani, per
i quali la ricerca gastronomica va
oltre il buon sapore. Come per lo
chef californiano Daniel Patterson
del ristorante Coi che dice «credo
che gli chef abbiano la responsabilità di pensare al loro posto nelle
comunità e di creare un esempio
attraverso il modo in cui interagiscono con l’ambiente e con la società». Patterson mira ad andare
oltre il clichè del lusso uguale caviale e champagne, interpretandolo invece come un duro lavoro sulla materia prima e il rispetto di essa. «La cosa più importante è far
capire alla collettività, non solo a
chi lavora nel settore, come si cucina e si mangia il vero cibo. Se sai
cucinare, puoi usare tutto dell’animale. Possiamo avere una dieta
più sana ed ecosostenibile. Questo renderebbe le persone più felici, che mangiano meglio e si connettono in maniera più profonda
tra loro e la propria cultura». Per
questo il piatto che ha presentato
era a base di germogli curati personalmente e amorevolmente da lui
durante il suo passaggio in Italia.
L’unione tra cucina e sostenibilità
è stata servita anche nel piatto dello chef cinese Alvin Leung, tatuaggi e capelli verdi a far da sfondo a
una forte personalità culinaria. Le
sue sperimentazioni passano attraverso l’utilizzo di un formaggio di
latte di Yak prodotto da una piccola comunità del Quebeq. «È una
fondazione di beneficienza che
collabora con l’Università del
Wisconsin. I quebecans di norma
utilizzano solo il burro e la carne
di yak. Questo formaggio potrà
rendere la loro economia meno
precaria anche perché ci sono circa 138 milioni di yak sul territorio.
Io lo uso nel piatto Yak and Mac,
che è la trasposizione del vostro
cacio e maccheroni». È più forte
del parmigiano, ma: perché no?