L`ardimento. Racconto della vita di don Gnocchi

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L`ardimento. Racconto della vita di don Gnocchi
L'ardimento. Racconto della vita di
don Gnocchi
di Stefano Zurlo
ed. Rizzoli BUR, 2006
Don Carlo Gnocchi: nell’accoglienza, l’incontro con Cristo
crocifisso
Durante la campagna di Russia don Carlo Gnocchi abbracciava i moribondi per
accompagnarli all’estremo passo. Era il suo modo di incarnare il proprio compito di cappellano
militare. Poi caricava la sua bisaccia di lettere, di foto e di ricordi degli alpini lasciati nella neve
ghiacciata, impegnandosi a consegnarli alle famiglie. Ma un giorno un alpino che moriva gli
fece una richiesta molto più impegnativa: «Il mio bambino lo raccomando a lei, signor
cappellano». Fu come un brivido. Don Carlo si assunse questa responsabilità, fino in fondo:
«Stai tranquillo, ci penserò io». Qui, nei meno cinquanta gradi della terra di Russia, prima della
tragica battaglia di Nikolajevka da cui ben pochi dei nostri alpini riuscirono ad uscire vivi
dall’accerchiamento russo, maturò la vocazione di carità di don Carlo Gnocchi.
Un uomo innamorato dell’uomo
E’ una vita, quella di don Carlo Gnocchi, sempre di corsa, che fosse in treno o con la sua
Topolino o con il mitico Galletto, all’insegna dell’incontro con l’altro uomo, dell’amore a tutto
l’uomo, la cui piena verità è la croce di Cristo. Quella croce che don Carlo ha voluto abbracciare
fin dentro la tragedia della guerra, avendo scelto lui stesso di lasciare il suo incarico di
assistente al liceo Gonzaga per condividere la tragedia della guerra, fino all’apocalisse della
ritirata di Russia, dove egli vide in faccia la morte di centinaia dei suoi alpini e perfino la sua
propria morte, dalla quale fu salvato per miracolo: un amico lo riconobbe, ormai abbandonato
nel ghiaccio, e lo risollevò dal destino collettivo già incontrato da molti, di uno sfinimento per
fame e gelo. Cristo tra gli alpini è il libro in cui don Carlo ha raccolto le sue memorie di
quell’immane tragedia, che è anche all’origine della sua particolare, impressionante vocazione
di carità.
Una vita all’incrocio di tante storie
In questo bel libro di Stefano Zurlo troviamo intrecciate molteplici storie: la storia di un uomo verso la santità, fiorito
dentro la Chiesa ambrosiana, coi suoi uomini e le sue opere: l’Istituto salesiano sant’Ambrogio, dove aveva studiato al
liceo, Don Orione e i suoi piccoli disabili, il liceo Gonzaga e i Fratelli delle scuole cristiane, padre Gemelli e
l’Università Cattolica, il cardinal Schuster, il cardinal Montini. E il popolo di Milano, che intorno a queste personalità
ha costruito fatti di carità; c’è anche un pezzo di storia della medicina, coi suoi progressi verso un’attenzione totale alla
persona del malato: la nascita dei primi centri di riabilitazione motoria e di fisioterapia nell’Italia degli Anni ‘50-60, e la
prima esperienza – allora illegale – di trapianto delle cornee in Italia: erano quelle di don Gnocchi, prelevate nel 1956 e
trasferite su due ragazzi, uno dei quali indicato dallo stesso don Gnocchi prima di morire. L’anno dopo sarà varata la
legge italiana sulla donazione degli organi, dopo che anche Pio XII avrà legittimato sostenuto i trapianti sotto il profilo
dell’etica cristiana.
«Tutta la guerra negli occhi di questi bimbi»
Ma innanzitutto la grande storia: il fascismo con la sua ideologia totalitaria, la tragedia della guerra, di cui la ritirata di
Russia è uno degli emblemi più tragici, e il primo dopoguerra, quando un’Italia che rinasceva stentava a riconoscere il
debito contratto con le vittime più indifese del suo passato: gli orfani e i mutilati di guerra, quando ancora per molti anni
gli ordigni disseminati sul terreno continuavaono ad esplodere tra le mani di bambini ignari - 15.000 in Italia i bambini
devastati nel corpo - ; i mulattini, figli di nessuno, lasciati come “dono” dall’esercito di liberazione alleato: “E’ nata ‘na
criatura, è nata nira…”, si cantava nel dopoguerra a Napoli sulla musica della Tamburriata nera; infine anche le nuove
emergenze, aggravate dai ritardi della politica sanitaria italiana di allora: nel ‘57 i casi di poliomielite erano 4000, nel
‘58 raddoppiarono. Solo nel 1966 il vaccino Sabin, già da tempo collaudato, divenne obbligatorio in italia.
Una vocazione educativa
La passione educativa di Don Gnocchi lo porta a non tirarsi mai indietro dalle provocazioni e dalle contraddizioni della
storia. Come quando, divenuto nel 1928 cappellano dell’Opera Nazionale Balilla, si illude di poter piegare il pensiero di
Mussolini ai principi del cristianesimo. Ma la passione per la persona umana non viene mai meno, come quando prende
posizione in difesa della libertà di coscienza di chi non desidera partecipare alla messa. Senza libertà, egli sosteneva,
non c’è neppure religione (pag. 94).
Dopo il rientro dalla Russia, don Gnocchi prese contatto con un gruppo della Resistenza cattolica operante a Milano,
che si prodigava tra l’altro per ottenere documenti di espatrio per gli antifascisti e per gli ebrei. Dopo la liberazione, don
Gnocchi chiederà a questi stessi amici di salvare i fascisti che erano a rischio della loro vita. Prese poi contatto con
padre Gemelli ed entroò come assistente nell’Università Cattolica, ma a Gemelli don Gnocchi appariva troppo poco
dedito al suo compito, mentre a questi il fondatore della Cattolica appariva lontano dal suo ideale educativo: «Lui,
Gemelli, intendeva l’educazione come mettere dentro qualcosa, io la intendevo come estrarre qualcosa». Sarà così
costretto a dover scegliere tra la Cattolica e i crescenti impegni che gli stava chiedendo la sua opera per i mutilatini,
insediatasi nel 1946 ad Arosio, in Brianza, in una villa ricevuta in donazione.
Un dato appare singolare: don Gnocchi non ebbe in mente a priori la fondazione di un’opera e non fondò un proprio
ordine religioso: egli sentì fortemente la vocazione a dedicarsi alle piccole vittime della guerra e l’opera gli crebbe tra le
mani al di là di ogni immaginazione, mentre la sua frenetica attività lo risucchiava quasi controvoglia dentro a questa
che all’inizio era solo una tra le tante attività di don Gnocchi. Anzi, egli implorò padre Gemelli di poter a contatto con i
giovani universitari, perché il suo impegno con la casa di Arosio gli appariva all’inizio ben poco rispondente ad una
vocazione strettamente educativa: doveva amministrare, più che educare.
La bellezza: strada per un’educazione integrale della persona
La storia della sua opera smentirà questa sua impressione di lontananza dall’ideale educativo, grazie anche alla
concezione integrale della persona che don Carlo aveva già ben chiara ai tempi del Gonzaga. “Perché – si chiede don
Carlo – rinunciare a gustare un brano di Bach o di Beethoven?” E “un canto di Dante o di Leopardi?”» (pag. 39). Don
Gnocchi ama il teatro, la montagna, il mare. Ama la vita. Questo sentimento del bello diventa guida e criterio per il
recupero e l’educazione dei suoi piccoli mutilati, che hanno diritto a crescere secondo l’integralità dei fattori umani non
meno di quanto non ne abbiano i ragazzi della borghesia milanese del Gonzaga. Don Carlo porterà i suoi ragazzi in giro
per l’Italia, li avvierà ad ogni tipo di sport, con la creatività dei santi che non conosce limiti: per i ciechi il pallone sarà
ricoperto di latta, i bambini senza mani giocheranno a ping-pong, ma soprattutto, ecco la grande intuizione pedagogica:
essi hanno diritto a scuole capaci davvero di accrescere le loro risorse e di preparare il loro futuro: diverse nella
struttura, perché i ragazzi sono eguali per diritto: «I mutilatini sono diventati adulti – scriverà nel 1947 – così da aver
bisogno di rieducazione professionale; e questa non può non essere differenziata e proporzionata alle residue facoltà
lavorative degli stessi» (pag. 95). Quanto parcheggio invece, senza prospettive, sembra esserci ancora oggi, in nome di
un’astratta quanto impotente e perfino discriminante “uguaglianza”, in tante nostre scuole che hanno fatto sì il grande
passo dell’integrazione, ma senza strumenti adeguati e senza progettazione di un futuro possibile!
Don Gnocchi ci insegna che la differenza non è motivo di scandalo, quando sia accompagnata dalla stima sacrale per
l’eguale dignità di ogni persona. Una volta portò tre piccoli mutilati ad una cena in onore di Evita Peron: li tenne con sé
al tavolo «con la stessa fede e la stessa coscienza scomoda con cui Emmanuel Mounier invitava a casa i grandi di
Francia e schierava fra i commensali, addirittura a capotavola, la figlioletta Françoise, devastata da un’encefalite acuta»
(pag. 161).
La scienza e la politica al servizio della carità
L’intuizione pedagogica di don Gnocchi era innovativa: egli prese coscienza che la sua strada
della carità passava anche attraverso la scienza e le tecniche riabilitative più complesse. Iniziò
così la stagione dei grandi convegni internazionali sulla riabilitazione. A questo si accompagnò
l’impegno con la politica: dinanzi ai rischi di una monopolizzazione statale dell’assistenza, don
Gnocchi lottò a fondo in difesa del principio di sussidiarietà. Il cardinal Schuster, che già si era
opposto a ben altre ideologie di stampo statalista, nel confermarlo su questa strada lo invitò
anche a proteggere la sua opera: «Provvedi a norma di leggi. Non c’è nulla di più pericoloso
dello “Stato fa tutto”» (pag. 120).
Il mistero del dolore innocente
Ma la lotta contro la visione laicista dell’assistenza assume per don Gnocchi anche il significato
più profondo della difesa di una concezione cristiana - non risentita o rabbiosa - del dolore
innocente, cui egli annette un particolare significato salvifico per il mondo. Alle angosciate
domande sull’ingiustizia del dolore dei bambini, don Carlo risponde: «La sofferenza dei bimbi è
destinata ad aiutare chi non ha fede, a redimere chi opera il male» (pag. 150). Osserva
l’autore del libro che tale risposta è l’esatto capovolgimento della consueta idea che fa del
dolore dei bambini un’obiezione alla fede, che non piuttosto un aiuto ad essa. Su questi temi
don Gnocchi costruì una sua spiritualità specifica, che confluirà nel suo libro del 1956,
Pedagogia del dolore innocente.
Un principio evangelico guida l’intera opera di don Gnocchi: «Qui facit veritatem venit ad
lucem» (Gv 3, 21). Alla lettera: «Colui che fa la verità viene alla luce». La verità non si dice,
non si immagina, la verità si fa. L’uomo è sempre, come anche ha scritto don Giussani, un io in
azione. Anche l’accoglienza non si dice, ma si fa: così tutto ciò che don Gnocchi scrive e dice
appare piuttosto come una riflessione sulla sua propria esperienza di carità che non una serie
di teorie astratte, e perfino la sua spiritualità del dolore è messa alla prova dell’esperienza:
come quando, dinanzi ad un bambino saltato su una bomba, rimasto senza gambe e senza un
occhio, con vaste ferite ovunque, don Carlo gli chiede a bruciapelo: «Quando ti strappano le
bende, ti frugano nelle ferite e ti fanno piangere, a chi pensi?». L’incapacità del piccolo di
comprendere perfino la domanda stessa convinse don Carlo che c’è tanta più sofferenza,
quanto più essa non ha senso, dal momento che non si ha nessuno per la quale valga la pena
offrirla: «Io ebbi la precisa, quasi materiale, sensazione di una immensa, irreparabile sciagura:
della perdita di un tesoro, più prezioso di un quadro d’autore o di un diamante di inestimabile
valore. Era il grande dolore innocente di un bimbo che cadeva nel vuoto, inutile e insignificante
(…) perché non diretto all’unica meta nella quale il dolore di un innocente può prendere valore
e trovare giustificazione: Cristo crocifisso» (pag. 81).
Era la percezione angosciata della forza negativa del nichilismo, incapace di sostenere il senso
della vita e del dolore, a meno che la sofferenza non sia coscientemente incorporata a Cristo,
come bene avevano saputo, invece, molti dei suoi alpini caduti in Russia, educati
cristianamente. Quando don Carlo, in punto di morte, dopo avere dettato il testamento e
celebrato la messa, chiede di ascoltare Stelutis alpinis, il canto degli alpini caduti, aveva certo
coscienza di questo significato cristico, di offerta che era inconsapevolmente racchiuso in quelle
semplici parole:
«Quando a casa tu sei sola / e di cuore pregherai per me,/ il mio spirito volerà attorno a te; /
io e la stella alpina saremo con te».
Una «baracca» nata dalla carità
E’ straziante l’ingresso di uno dei primi mutilatini, nel dicembre 1945, nella nuova casa di
Arosio: una donna porta a don Carlo un bambino di otto anni, cui una bomba aveva strappato
la gamba. Aveva speso tutto per le cure e da due giorni non mangiava: «Non ce la faccio più –
lo implorava-. Me lo prenda lei, padre, il bambino. Che almeno possa vivere. Io posso gettarmi
sotto un treno». La madre baciò la sua creatura, poi scappò gridando: «vai con lui, Paolo, vai
con lui». Il piccolo gridava e invocava la mamma. Per due giorni delirò per la febbre, graffiava
e picchiava don Carlo e invocava la mamma la quale, fatta ricercare, sembrava dileguata nel
nulla. Fu uno strazio, poi accadde l’impossibile: «Il sacerdote non si separa mai da lui. Lo aiuta
a mangiare, gli parla (…), dorme con lui, l’occhio sempre aperto (…). Poi, dopo quarantotto
ore, Paolo getta le braccia al collo di don Carlo. Piangono insieme, abbracciati, come un padre
e un figlio. E’ la svolta» (pagg. 79-80).
Era l’impatto con la tragedia dell’abbandono e insieme l’esperienza unica di una nuova
paternità. Don Gnocchi amava chiamare «la mia baracca» l’opera cui diede origine. Come
scrisse il «Corriere della Sera» alla sua morte, egli «aveva cominciato con pochi ragazzetti: e
adesso erano migliaia e migliaia. Non poneva un limite alla capacità dei soccorsi, come non lo
poneva alla necessità di approfondire la conoscenza del dolore umano», ma il suo immenso
lavoro diede speranze insperabili: «il cieco, il fanciullo senza gambe, il ragazzo “mulatto”
piegato nel complesso del colore, non erano più i dolenti dispersi nell’amaro deserto della vita.
Se un bambino senza mani scriveva, se un fanciullo con le stampelle giocava al pallone, se un
“mulattino” gli chiedeva di imparare a suonare uno strumento, il passo verso la speranza era
compiuto» (pag. 159).
Una considerazione in margine: oggi una legge ha imposto la chiusura degli istituti per minori.
Don Gnocchi creò degli istituti per minori. Era un altro momento storico, ed è bene che oggi sia
maturata una diversa sensibilità in proposito. Ma occorre non dimenticare che ciò che oggi è
perfino denigrato all’origine nasceva da una cultura dell’accoglienza che si poneva
all’avanguardia rispetto alle scarse risorse messe in campo da uno stato spesso assente e alla
miseria anche materiale della società del tempo. Creare oggi comunità familiari di accoglienza
è allora nello stesso solco di quella storia della carità e di quella creatività della tradizione
cristiana del nostro popolo che ha dovuto far fronte al vuoto di umanità prodotto da ideologie
stataliste e spesso antiumane.
Il maturare di un’opera
La carità, che sempre nasce da incontri concreti e particolari, in don Gnocchi crebbe fino a farsi
carico dell'opera nelle sue dimensioni più larghe e istituzionali: don Carlo divenne perfino
partecipe dell’ONIG, l’ente statale nato inizialmente in concorrenza con la sua opera, e che lui
seppe piegare al principio di sussidiarietà, in modo che agisse di concerto con la sua nuova
fondazione, la Pro Juventute. La carità crebbe dentro un immenso e incessante lavoro, sempre
su più fronti, anche internazionali, sempre creativo, come quando per sponsorizzare le proprie
iniziative organizzò la storica trasvolata atlantica a bordo dell’Angelo dei bimbi, il monomotore
che realizzò nel 1949 il record di 14 ore di volo, o come quando nello stesso anno organizzò,
lui, prete motociclista, il raid motociclistico Milano-Oslo: venticinque scout in sella alle loro
Guzzine.
Il rischio di una riduzione sociologica della carità
Don Carlo è efficace, non è efficientista. Così si trova in crisi, quando ad un certo momento si
accorge che l’opera nata intorno a lui rischia pesantemente una sorta di “riduzione
sociologica”. Nel 1951 scrive: «Ho avuto (…) oggi come non mai la sensazione della mia
solitudine spirituale e ne ho molto sofferto (…). La ragione vera e intima della mia tristezza è
(…) quella di non sentirmi più circondato dalla poesia della carità e dall’ideale di fare il bene
per il bene, in quelli che ora sono diventati i miei collaboratori. Ho degli “impiegati” intorno a
me; distaccati dal lavoro che attendono, che non hanno l’angoscia dell’economizzare il tempo,
il gusto del sacrificio; che calcolano la loro prestazione, che fanno sentire quanto danno in più
del dovuto, che non s’interessano, per godere o per soffrirne, delle sorti buone o tristi
dell’istituzione, che non hanno progetti, disegni, critiche da fare ma si accontentano di
eseguire; che insomma non lavorano con me o come me, ma accanto a me» (pag. 136). E’ la
tentazione del tecnicismo, del professionismo che mette in valore più le cose da fare che non le
persone, e così si fanno male le cose e non si guarda più al bene delle persone.
Amare il mistero della persona in Cristo crocifisso
Un’opera che non nasca dalla carità in prima persona e da una fede “coralmente vissuta”
sarebbe un’opera già morta. Paradossalmente è dinanzi alla morte che questa esigenza di
verità dell’esperienza gli si fa a lui più chiara. Scrive don Barbareschi, che lo accompagnò fino
alla suprema soglia: «Don Carlo supera la sua crisi di fede quando si innamora della persona di
Cristo. Non si capisce niente di don Carlo se non si approfondisce questo aspetto: il suo
rapporto con la persona di Cristo». In punto di morte, don Carlo chiede che gli vengano letti
alcuni brani: i primi sono versi di padre David Maria Turoldo dagli accenti esistenziali, perfino
carnali:
«Eppure mi tenta ancora questa avventura del Figlio prodigo / … / Potere un giorno / dire coi
sensi che le cose /gridano a un essere più alto, / a una più alta gioia /… / sono i sensi il tempio
/ di una incrollabile fede».
Don Carlo commentò così questi versi: «Se devo aggiungere qualcosa di mio, direi così: sono
innamorato del mistero di ogni persona umana e della sua libertà» (pag. 140). Chi conosce un
po’ l’opera di quell’altro grande frutto della Chiesa ambrosiana del dopoguerra che è don Luigi
Giussani, che com elui amava Leopardi e Péguy, e non può fare a meno di coglierne una
profonda sintonia di pensiero. Un’identica sintonia affiora nella scelta dell’altro brano meditato
da don Gnocchi in punto di morte: è la famosa professione di fede di Dostoevskij, scritta in
prigionia:
«…Credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole,
di più coraggioso, né di più perfetto del Cristo (…). Più ancora: se qualcuno mi avesse provato
che il Cristo è al di fuori della verità… avrei preferito restare col Cristo piuttosto che con la
verità» (pag. 141).
Don Gnocchi spirò così, il 28 febbraio 1956, all’età di 53 anni, aggrappato in ultimo sforzo al
crocifisso per baciarlo, così come aveva fatto innumerevoli volte nella campagna di Russia,
quando, stringendo tra le braccia i suoi alpini prima che venissero deposti per l’ultima volta
nella neve, abbracciava in loro Cristo stesso.
GC
Stefano Zurlo, L'ardimento. Racconto della vita di don Carlo Gnocchi, ed. BUR