La guerra non è finita il 25 Aprile

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La guerra non è finita il 25 Aprile
Giulia Romano - “La guerra non è finita il 25 Aprile”
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La guerra non è finita il 25 Aprile
Quando non andava mondina, la Madela al Giobia puliva
sempre la casa della so madrina, Maddalena Sùclona, di cui le
avevano dato il nome quand l'avevan battezzaia.
Il cognome della donna non era davvero Sùclona, l'era al nom
con cui tutti ciamavu al so papà, al Sùclon, perché finché era
stato vivo aveva fatto il ciabattino.
Madela, al Giovedì, faceva la pulizie mentre sua sorella piccola,
la Luciana, faceva il bucato e stirava, che quest'ultima l'era una
di quelle cose che a Madela proprio non andava di fare.
Ed era così che pagavano parte dell'affitto dell'appartamento due
piani più sotto, che tutto il palasi l'era dla Sùclona. Ed era questo
che Madela cercava di ricordarsi ogni volta che arrivava dantla
stanza che lasciava sempre per ultima, la camera da letto della
donna.
Perché ai piedi dal let stava, bella lucida, la cass dal mort.
Quando al Sùclon aveva ricevuto la prima commessa importante
da li fascisti aveva subito investito in due casse da morto, una
per lui e una per la figlia, che non si sapeva mai come si poteva
stare a soldi al dì in cui si saliva ant al ciel. E così, fin da quando
Madela era piccola, in quella stanza c'era stata la cass dal morto
con la croce sopra.
Madela doveva rifare il letto, passare lo straccio per terra, dare
aria all'armadio e fare la polvere ai mobili. E alla cassa.
E ogni Giobia, che già si faceva tardi perché aveva perso tempo
prima, Madela di solito prendeva una strass pulito e lo faceva.
Talvolta, quando la paura l'era tropa, chiudeva gli oči.
Quel Giobia però Madela l'aveva un posto in cui andare, così entrò nella stanza facendo ben attenzione a non guardare, fece
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quello che era solita fare in tutta fretta e poi, occhi ben chiusi, si
fece il segno della croce e infilò la mano nella scollatura della
maglietta a sfiorar la foto che teneva sempre lì, la foto dal Sandro, che la teneva lì da quand l'era andà partigian, e mai più tornato.
Occhi chiusi si inginocchiò e prese a spolverar al coperchi dla
caša, frucciando bene la parte in rilievo del crocifisso avvolto
dalle spine.
“Maddalena!”, la voce della so madrina la costrinse ad aprire gli
occhi. La donna stava sulla porta con quell'aria che spaventava
tutti, anche se l'era alta come un tappo ed esile come una fune.
La Sùclona la guardava dalla porta, sporgendo in avanti il capo e
strizzando gli occhi dietro spesse lenti scure “T'ha già finì?”, le
chiese, “T'è appena arrivaia”. Madela le disse che aveva fatto in
fretta, quel giorno, ma tutto ugualmente per bene. “Duvria
andè...”.
“Lo sù mi, dove t'vuria andè, cara la me mata”, la interruppe la
Sùclona, e aveva il tono che teneva sempre in classe, che Madela non ce l'aveva avuta come maestra, ma una volta aveva fatto
una supplenza e Madela se la ricordava, perché l'aveva messa in
castigo dietro la lavagna.
E proprio perché l'aveva quel tono, Madela sapeva che non pudiva parlè, così chinò il capo e, nel farlo, lo sguardo le cadde sulla
cass dal mort. E le venne subito caldo, caldo d'un colpo e vide
tutto un poc bianc e un poc neri.
E poi, un dolore forte al fianchi che la riscosse tutta, “Lassa
ste'”, le stava dicendo la Sùclona che, per non chinarsi, le aveva
tirato un calcio nel fianco “Lassa ste'”.
Madela si alzò, sentendosi ancora un po' accaldata e con un po'
di nausea che avrebbe volentieri placato con una delle caramelle
che la donna teneva forse da sempre in una giara in salotto: talvolta riusciva a rubarne una, prima di andarsene, si appiccicavano al palato ma erano dolci, sapevano di rosa e mele, ma quel
giorno non aveva voglia nessuna di farsi sgridare.
Non disse neppure a sua sorella che andava: prese la porta e poi,
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dopo essere uscita sul ballatoio, raggiunse le scale e scese. Voleva cambiarsi, ma quando entrò in casa la so mari, grembiule addosso e mano corposa sul fianco, le sventolò contro il mestolo
“Al to fradel l'è anda'. Ma tu va nen, sta' ca'!”, la accolse così
agitata che i capelli le erano tutti scappati dalla crocchia stretta,
mezzi bianchi e mezzi castani, e anche se la guardava da sotto in
su, sua mamma l'era periculusa, anche senza il mestolo. Ai bastavu quegli occhietti marroni che la guardavano fissa fissa, e la
ruga in mezzo alla fronte che si formava solo quando l'era preoccupaia davvero.
“Mama”.
“Va nen. Sta ca'”.
Al Gildu, suo padre, l'era nen a ca'. L'era a lavurè alla fornace,
ma se suo fradel l'era andato, al Gildu l'avrebbe scoperto presto.
“Madela, va nen”, ripeteva sua madre.
E se non fosse che in quel momento dal cortile iniziarono a chiamarla, forse Madela sarebbe rimasta in casa. Ma l'Ausilia la stava chiamando, e la Teresina, e suonavano i campanelli delle biciclette, e Madela andò a mettersi la maglia buona e a prendere
al fasulet par la testa.
“Va nen, sta ca'”, stava ancora dicendo la Cichina mentre Madela scendeva in cortile. La vide così, mentre si annodava il fazzoletto in testa, sporgersi dalla ringhiera e guardar giù, il mestolo
inerte in una mano e i capelli quasi sciolti. Le sue amiche la salutarono, ma Madela chinò il capo e prese la bici.
Al disivu che la guerra l'era finita il 25 Avril.
Ma l'era nen ver.
C'erano cose di ogni tipo per strada, come durante le alluvioni,
solo che non c'era acqua, né fango. I materassi erano accantonati
lungo i muri, gli oggetti, i vestiti sparpagliati per terra o in grossi
scatoloni, se non già sui carretti che se li portavano via, chissà
dove. Madela vedeva carte bruciacchiate svolazzare di continuo
in giro, facendo neve di Maggio, soprattutto nei pressi del Municipio.
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L'odore di bruciato si sentiva sempre per le strade, di quei giorni. C'era il fuoco che sembrava un altro mondo, quand entravu e
trovavan le carte.
Al disivu che non avrebbero smesso finché tutto dant li casi dli
fascisti saria stat cenere.
Madela aveva lasciato la bicicletta all'ingresso della contrada.
Camminava a braccetto con le amiche, ascoltava la Teresina raccontare dal cinema, che la Teresina l'era così brava che ti pareva
di vedertelo proprio lì, al cinema, con i suoi attori e le sue attrici
e le storie d'amore.
Avrebbero cantato, ma c'era tropa gent par la strada, tutti che andavano come loro alla piazza, in gruppi o da soli.
E l'Ausilia allora diceva che sarebbero tornate a cantare anche
loro, tra poco. Una settimana e poco più, e si tornava a mundà al
ris, in bicicletta alle cinque del mattino sino ai riseri, quelle vicine e quelle lontane, che le più fortunate sarebbero andate all'abbazia di Lucedio che i pagavan ben e l'era nen luntano, o alla Salera, propri vicin al pais, ma erano poche e loro tre già sapevano
che li aspettavan li chilometri, andè e turnè tutti i dì.
L'an pasà, Madela l'aveva bacià al Sandro, prima d'andé mondina. Al Sandro, che l'era andà partigiano e mai più tornato.
La Teresina già cantava “Son la mondina son la sfruttata...”, ma
si stavano avvicinando alla piazza, e pareva brutto, cantare. Ma
c'era la voglia, che raschiava la gola, c'era la voglia perché ora si
camminava per strada, si pulivano i vetri dal nero e la sera chi
l'aveva accendeva la luce.
“Par noi altri, al cambierà nient”, diceva sempre suo padri, al
Gildu, e Madela lo stava dicendo alle amiche, ma intanto al fradel grand di Madela era tornato a casa dalla guerra e anche se
non fosse cambiato niente, questo bastava. E poi, pensava Madela, nessuno sarà più costretto a fare il quadro svedese al Sabat
Fascista, che lei l'aveva sempre avut paura dal quadro svedese.
“Con la munda, mettiamo la energia elettrica”, stava dicendo invece l'Ausilia, e stava per chiederle qualcosa, Madela, quando
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arrivarono alla piazza.
Di gente già ce n'era, dantla piaza. C'era la Sandra Spadina, con
le altre amiche e mentre loro si avvicinavano videro in mezzo ad
un gruppetto di uomini con i fazzoletti rossi al collo una bella
madamina, ancora giuvna, ma con i capelli color dla neve “L'è la
maestra Bianchina!”, stava dicendo l'Ausilia, e Madela che l'aveva avuta quando ancora non era la maestra Bianchina, si sentì
un po' triste di non aver riconosciuto la donna, che prima della
fine della guerra “...di casa mica l'usciva”, continuava a dire
l'Ausilia, con la sua vocetta, e proseguiva “L'è venuta a veghi si
fan al fascista quel che vulevan fa al so marì”.
Avevan bruciato il fienile, li fascisti, par andè veghi se si nascondeva lì e l'uomo s'era buttato appena in tempo nella roggia.
Ma la maestra Bianchina, che l'ava nen vist che era scappato, l'era svenuta e si era svegliata con tutti i capelli bianchi. E Madela
non riusciva a smettere di guardarla, tanto che finì tutta bella
contro la Sandra Spadina.
“L'era la ton maestra, ne Madela?”, le fece l'altra ragazza ridendo e tirandola su. L'aveva i capelli lunghi che teneva sulle spalle,
la Sandra, capelli neri che non si sapeva come facesse a tenerli
tanto belli.
“L'era la me maestra”, confermò Madela, e guardò nella folla di
ragazze e ragazzi, uomini e vecchi, madri e nonne e vide per la
prima volta che erano tanti, da tutte le contrade, erano forse tutti
quelli che non dovevan lavorare, lì per vedere.
“L'è al prim che ci fan veghi”, fece la Teresina, come se avesse
capito da come si guardava attorno Madela a cosa stesse pensando.
La gente vuole vedere.
Madela strinse forte al bras dell'Ausilia.
“L'han truvà al Rus mort, l'autri dì, sul canal. Al prufessur Rusi”,
bisbigliò la Sandra “Con autri des. Al Renzo dla pastiseria e son
mat. Tutti giù, ant al canal”.
La gente vuole vedere.
“L'erano i fascisti grami. Mica quelli che l'avevan la tessera per
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lavurè”, disse qualcuno, ma Madela iniziava a sentir caldo,
come a casa della Sùclona.
“E infatti, nessuno ha preso al Bastianin Rus. Han preso al professur ma non son fradel, perché l'è un brav om”.
Al Bastianin portava la lolla. Sacchi di lolla a tutti quelli che non
sapevano di che altro scaldarsi. L'era an brav om, al Bastianin.
“E il Corbelaru?”, chiese Madela allora.
“Gram”, risposero solennemente le amiche.
“E l'è pure un codardi”, ricordò qualcuno.
Al Corbelaru l'era uno che faceva i conti, questo Madela sapeva,
e quand l'aveva vist che l'era finita la guerra aveva fatto il malavi credinda da scapà. Ma il son andalu pià.
E ci fu silenzio.
An poc più di prima, almeno. La gente ancora al parlava, ma l'era come se ci fosse al silenzi. E lo portarono al centro della piazza, al Corbelaru, né alt né bas, la testa bruna e grigia, una barbetta misera. Pariva ch'al piansiva, ma poteva benissimo essere al
sol ad Magi.
E prima che Madela potesse capire, l'avevan girà darera, e gli'eran gli uomini con i fucili, e Madela non sentì tanto il suono,
perché tutto attorno a lei l'era strano, lontano, non sentì il suono
ma vide al Corbelaru sauter, sauter andietro, e poi, poi l'aveva
vistu drucà, drucà dant la piazza.
Ora Madela non si sentiva più male.
Ma sapeva già, lo sapeva già in quel momento, che di tutte le
cose accadute nella guerra, non si sarebbe dimenticata dal Sandro, il Sandro che era così bello e le sorrideva così bene e che
era morto a Chivasso, né dei proiettili che l'avevano quasi colpita pasand sut al ponte, né del Corbelaru e della sua schiena, di
come l'aveva sautà e poi l'era drucà. No, non si sarebbe dimenticata mai.
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C'era il silenzio vero, per un momento.
E poi qualcuno battè le mani, qualcun altro si mise a urlare, e l'era gioia.
Mentre la gente iniziava a sparpagliesi, par nen vardà la schiena
e il sangue e al roc dla piaza farsi rosse fitte, qualcuno iniziò a
cantare e c'era la voce della maestra Bianchina sopra tutte le altre “Una mattina mi son svegliato, o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao! Una mattina mi son svegliato e ho trovato
l'invasor”.
E le ragazze, ora in silenzio, anche l'Ausilia e la Teresina, e le
ragazze mentre al turnavan vers le biciclette, presero a cantare a
mezza voce quella che l'era la vera canzone, la canzone originaria, la canzone che era stata presa loro.
Alla mattina appena alzata
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
alla mattina appena alzata
in risaia mi tocca andar
un duro lavoro mi tocca far
e tra gli insetti e le zanzare
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
il capo in piedi col suo bastone
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
il capo in piedi col suo bastone
e noi curve a lavorar.
O mamma mia o che tormento
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
o mamma mia o che tormento
io ti invoco ogni doman.
Ma verrà un giorno che tutte quante
o bella ciao bella ciao
bella ciao ciao ciao
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verrà un giorno che tutte quante
lavoreremo in libertà.
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Nota conclusiva: quella presente nel testo non vuole essere una fedele trascrizione del
dialetto di Trino Vercellese, quanto rendere delle atmosfere e nel contempo far sì che
anche i non vercellesofoni comprendessero la storia.
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