Articolo x Rivista Scientifica “Transmit” - Traccia

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Articolo x Rivista Scientifica “Transmit” - Traccia
“L’uomo può compiere oggi cose più grandi che non gli
eroi e i semidei della cultura; ha risolto molti problemi
insolubili. Ma anche tradito la speranza e distrutto la
verità che venivano conservate nelle sublimazioni
dell’alta cultura “
Herbert Marcuse “L’uomo a una dimensione” (1964)
L’oro “blu”: la nuova era energetica ?
Arriva il gas, il petrolio non perde quota (almeno per ora), aumenta la produzione e il
consumo del carbone.
- Claudio Magagna -
INTRODUZIONE
Eppure c’erano i presupposti per ben sperare: le nazioni inserite nell’Allegato 1 del
Protocollo di Kyoto (24 paesi dell’OCSE e 12 dell’ex blocco sovietico) nell’arco di tempo
2010 – 2030 dovevano stabilizzare il consumo di petrolio a 48 trilioni di Btu (British Termal
Unit: unità di misura dell’energia impiegata in GB e USA, che corrisponde a poco più di 1
kilojoule), favorire il calo dell’impiego di carbone (18,5 trilioni di Btu contro gli attuali 20,2),
aumentare il gas naturale da 30 trilioni di Btu a 39, ridimensionare appena il nucleare da
13,4 a 12,5 trilioni Btu, spingere le rinnovabili da 13,4 a 16,2 trilioni di Btu.
Inoltre, lo scenario elaborato nella conferenza di Exter (1), in Gran Bretagna nel 2005,
prevedeva nei prossimi decenni la sostituzione di 1400 GW di centrali a carbone con
quelle a gas; la dismissione del carbone per 700 GW, sostituendolo con il nucleare; un
efficientamento delle centrali a carbone fino al 60%; il mantenimento del carbone nel
sottosuolo, con incentivi e normative atte a migliorare l’uso dei terreni, per un calo delle
emissioni da 2,3 a 6,4 Gt di Co2 eq/anno; e un ulteriore calo delle emissioni di 2,4 – 4,7 Gt
di CO2 eq/anno con imposizioni fiscali ai carburanti fossili e incentivi alle rinnovabili.
Stiamo percorrendo questa strada ? Pare proprio che sia difficile intraprendere questo
percorso.
Dalle buone intenzioni alla dura realtà
Ecco cosa è accaduto nel frattempo. Anche l’ultima conferenza delle nazioni Unite sul
clima, tenutasi a Doha (Qatar) non ha avuto gli esiti attesi o promessi: “ un bicchiere per ¾
vuoto” ha commentato il ministro dell’Ambiente italiano Corrado Clini. E’ stato presentato
una nuova proposta “Kyoto 2”, un accordo “ponte”, che dovrebbe essere sottoscritto entro
il 2015, per essere operativo dal 2020 (l’ennesimo escamotage attendista, per prendere
ancora tempo, così com’è accaduto in questi anni; come se i cambiamenti climatici
aspettassero la buona volontà della politica), ma il suo impatto è stato molto deludente:
USA, Canada, Giappone, Russia e Nuova Zelanda continuano a rimanere fuori
dall’accordo internazionale; e le stesse realtà ad esso vincolate, come l’Europa, la
Svizzera, la Norvegia e l’Australia, che comunque hanno un peso sulle emissioni di gas
serra del 15%, faticano a far fare passi in avanti. E d’altra parte paesi come la Cina, che
ha il 29% delle emissioni totali, o la Russia, non hanno alcuna intenzione di invertire
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questa rotta attendista, mettendo così e rischio il percorso per la messa in sicurezza,
indispensabile, del clima (climate gateway). La stessa Russia capeggia un fronte formato
da Polonia (che ha nuovi potenziali giacimenti di gas non convenzionale “shale gas”) ,
Kazakistan, Bielorussia ed Ucraina, e rivendicano il diritto a commercializzare i propri
crediti di carbonio (oltre 5 miliardi di tonnellate).
I numeri esibiti dai singoli stati, come obiettivi propri per ridurre le emissioni, rivelano un
taglio che è 10 volte inferiore a quello richiesto dalle Nazioni Unite. Secondo l’Unep (il
programma ambientale dell’ONU) per mantenere il riscaldamento sui 2° C, le emissioni di
gas serra (misurati in termini di equivalenza all’ anidride carbonica) dovrebbe scendere
almeno a 44 miliardi di tonnellate entro il 2020, contro gli attuali 50 mld, che senza azioni
correttive al 2020 arriverebbero a 58 miliardi. Le riduzioni annunciate sono invece appena
nell’ordine di 1 miliardo di tonnellate. Questa maggiore emissione di 8–13 miliardi di
tonnellate di carbonio non è stato ancora scelto come abbassarla. Doha ha deciso di
proseguire verso l’obiettivo di aiutare i paesi poveri (Green Found) per una transizione
tecnologica che permetta loro di disporre di un assetto produttivo a basso impatto
ambientale. Nella prossima conferenza di Varsavia verrà formalizzato il programma di aiuti
per 100 mld di dollari per il periodo 2013-2020: sotto forma di tecnologie verdi, know how
e altre risorse necessarie per mitigare le conseguenze di eventuali catastrofi climatiche.
A proposito il 21 settembre scorso, sette famiglie hanno abbandonato il loro isolotto
nell’arcipelago Carteret Islands della Papua Nuova Guinea; sono i primi profughi
ambientali che hanno lasciato il loro territorio per i cambiamenti climatici. Le Carteret infatti
sono a rischio desertificazione per i terreni bagnati dall’acqua salata, che non permette le
coltivazioni; uno studio tedesco parla di una data limite verso questo disastro, il 2045.
Secondo il governo locale sono 2500 gli abitanti che dovranno evacuare. L’operazione va
a rilento per la mancanza di fondi per ricollocare questi profughi.
Per il Green Found finora l’Inghilterra ha promesso 2,2 mld per 2 anni, la Francia 2 mld per
1 anno, la Germania 1,8 mld e poi Danimarca, Olanda, Norvegia; per una disponibilità di
circa 8 miliardi fra un anno.
IL PARADOSSO DEL PROTOCOLLO DI KYOTO
L’accordo firmato nel 1997 per contenere le emissioni di CO2, dopo che è ormai da 15
anni nelle agende dei governi, sta dando risultati non esattamente in linea con gli obiettivi
prefissati: le emissioni sono infatti cresciute, anziché diminuite. Cosa è successo ?
In molte nazioni, dove si tende a rispettare le prescrizioni del Protocollo, c’è stato lo
spostamento di industrie, le più inquinanti, verso realtà che non si attengono propriamente
al patto internazionale, ad esempio la Cina. Per suffragare questo assunto portiamo
l’esempio della Gran Bretagna. Il territorio oltre la Manica ha diminuito le sue emissioni del
23% rispetto al 1990 (pur avendo un obiettivo del 5,2%), ma ha prodotto un risultato
paradossale: misurando le emissioni procurate per le merci prodotte all’estero e poi
importate, si registra un aumento del 10% dei gas serra. Perché è potuto accadere
questo ? Perché molte lavorazioni industriali ad alto impatto ambientale sono state
trasferite verso nazioni con minor attenzione all’inquinamento e che utilizzano ancora
processi produttivi con un elevato impiego di energia, in particolare il carbone. E quindi c’è
chi si è posto (Dieter Helm dell’università di Oxford) la domanda: “Ha senso ridurre le
emissioni in Europa, se poi questa scelta incoraggia lo spostamento delle industrie più
energivore e inquinanti verso paesi dove l’inquinamento non è tenuto sotto controllo e
dove non vengono applicate regole per un miglioramento ambientale, magari perché
anche inesistenti ?” .
A riguardo è interessante notare come la conferenza di “Rio+20”, svoltasi a Rio de Janeiro
nell’estate 2012, sullo sviluppo sostenibile, non abbia fatto passi in avanti verso
un’economia “verde” e rispettosa delle risorse, equilibrata, così come si erano prefissati gli
organizzatori. Il documento cardine, “Il futuro che vogliamo”, non ha ricevuto il necessario
sostegno. In esso erano contenuti gli obiettivi del taglio ai sussidi per i combustibili fossili, il
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trasferimento delle tecnologie verdi ai Paesi in via di sviluppo, la disponibilità per l’uso
dell’energia elettrica a quasi 1/5 della popolazione mondiale ancora priva (2 miliardi ); il
tutto cercando di andare oltre il vecchio modello di sviluppo energivoro e inquinante. Tutto
questo è successo, nonostante che ci sia qualche spiraglio in giro per il mondo: 10mila
imprese hanno sottoscritto un patto per un’economia più sostenibile (Global Compact,
proposto dalle Nazioni Unite). Tra queste ci sono la Nike con la scelta di un sistema
produttivo “closed loop”, per abbattere l’inquinamento; l’Unilever impegnata ad utilizzare
materie prime da fonti rinnovabili entro il 2020; la Microsoft che intende arrivare all’opzione
“zero” di emissioni di CO2; la Group Bread cinese che produce condizionatori non elettrici,
con un’efficienza 200 volte superiore a quelli tradizionali; e tanti altri esempi.
IL SORPASSO DEL CARBONE SUL PETROLIO
E’ l’IEA (Agenzia Internazionale dell’Energia, organismo internazionale, riconosciuto da 28
nazioni, tra cui buona parte dell’Europa, dal Giappone, dal Canada, dall’Australia, dalla
Corea del Sud, dagli USA, dalla Turchia e dalla Svizzera), nel suo Medium-Term Coal
Market Report (MCMR) (2), a evidenziare che nell’ultimo decennio la domanda di carbone
è salita del 55%, con incrementi annuali del 3-4%; e che lo stesso trend si avrà in questo
decennio, portando questo fossile ad essere il primo combustibile usato per produrre
energia. Solo il Nord America è escluso da questa forte incidenza, visto che negli ultimi tre
anni sta usufruendo del boom dei cosiddetti “shale gas” e cioè il metano estratto dalle
rocce (USA) e “oil sands”, cioè il petrolio ricavato dalle sabbie bituminose (Canada). L’IEA
prevede che nel 2017 l’uso del carbone sarà di 4,32 miliardi di tonnellate equivalenti
petrolio, contro i 4,4 mld per il greggio. La Cina ogni settimana apre due centrali a
carbone; in particolare per ricavare energia elettrica, che rappresenta il suo 65% della
disponibilità (60 GW di elettrico da carbone). Ma la stessa immensa nazione è anche il
principale produttore mondiale del fossile, con 1956 milioni di tonnellate equivalenti
petrolio (tep), seguito dagli USA, nettamente staccati con 557 milioni/t/eq petrolio. La Cina
è anche il principale consumatore con 1839 mil/t/eq petrolio (dati 2011).
La World McKenzie, società specializzata in queste analisi, sottolinea il fenomeno
dell’aumento dell’uso del carbone, dichiarando che nel 2010 il fossile ha avuto una
crescita mondiale del 6%, il doppio del gas e quattro volte il petrolio; solo le rinnovabili
hanno un trend superiore al carbone, ma hanno anche numeri notevolmente più bassi di
produzione energetica. Il carbone sta attualmente coprendo il 40% della produzione
mondiale di energia; percentuale che sale al 70% se facciamo riferimento al comparto
della siderurgia, molto energivoro. Inoltre il fossile nero è responsabile del 43% delle
emissioni di CO2 nel 2009; ed a parità di energia primaria disponibile, le sue emissioni
sono 30% superiori a quelle del petrolio e 70% di quelle del gas naturale.
Scenario mondiale del carbone
In questo lustro comunque la tendenza verso il carbone dovrebbe rallentare, attestandosi
attorno ad un +2,6%, rispetto al 4,3% di questi anni.
I numeri però rimangono impressionanti: tra cinque anni bruceremo 1,2 miliardi di
tonnellate di carbone in più, rispetto al 2012; la stessa quantità che USA e Russia
utilizzano in questo momento. Sono la Cina e l’India a guidare questa crescita: la Cina
userà oltre il 50% della produzione mondiale di carbone (anche se il suo PIL rallentasse
sul 4,6%), mentre l’India diventerà il primo importatore del minerale, superando il
Giappone e sarà il secondo consumatore al mondo. Ma anche gli altri mercati emergenti
faranno un uso esteso di questo combustibile. Solo in Europa, nel 2017, calerà la
domanda di carbone, per il crescente sviluppo delle rinnovabili, per lo smantellamento
delle vecchie centrali del fossile e nonostante le importazioni a buon prezzo dagli USA;
visto che gli Stati Uniti utilizzeranno il loro gas non convenzionale, anziché il combustibile
solido.
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Le cause del forte balzo del carbone sono essenzialmente due: il suo prezzo è molto più
competitivo di quello del gas, nonostante che la forte produzione USA di shale gas, con
un’ abbondante offerta, abbia ridimensionato il valore d’acquisto del gas stesso. Secondo,
c’è una grossa disponibilità per l’export del carbone statunitense, visto che questo
combustibile è stato sostituito dal nuovo gas non convenzionale, estratto dalle rocce. La
revisione al ribasso del valore d’acquisto del gas ha inciso in particolare sul mercato “spot”
(forniture via nave), mettendo in crisi i contratti a lungo periodo “top” (take or pay), che si
avvalgono della fornitura via gasdotto.
Questo sorpasso del carbone (già ora prima fonte mondiale per l’energia elettrica) sul
petrolio è molto preoccupante. Infatti per l’impiego del carbone non è sufficiente disporre di
soli impianti più efficienti, serve anche la tecnologia per la cattura e lo stoccaggio
dell’anidride carbonica (CCS – Carbon Capture and Sequestration); e al momento questa
condizione non è una certezza. Proprio per questo, nonostante che la Comunità Europea
abbia bandito la possibilità di finanziare progetti per questa tecnologia, nessun Governo o
investitore privato hanno dato la disponibilità a rischiare verso questa soluzione; che
darebbe un minor impatto ambientale al carbone.
Ma vediamo chi sono le altre realtà “sorprese” che contribuiscono ad incrementare
l’utilizzo del carbone. Dal 2015 l’Australia, che fa parte del Protocollo di Kyoto, è
intenzionata ad aumentare la produzione di carbone di 408 milioni di tonnellate/anno,
rispetto agli attuali livelli; con un’emissione di CO2 nel continente tre volte superiore
all’odierna. Gli USA, pur puntando sull’esportazione del carbone, hanno comunque
un’incidenza di 420 milioni di tonnellate/anno di anidride carbonica; più di quanto ora ne
procura il Brasile. E in Europa sono previste 69 nuove centrali a carbone. Oltre all’azione
della Cina, che ne sta aprendo 2 settimanalmente.
C’è perciò il pericolo di un forte incremento delle emissioni di CO2: se non si dispongono
soluzione tecnologiche appropriate, se il consumo sale e non vi sono all’orizzonte opzioni
alternative al carbone. L’IEA ipotizza che questo boom del carbone possa creare le
condizioni per un innalzamento della temperatura fino a 6° C entro il 2050. Mentre
secondo Greenpeace, il rilancio del carbone, il sostegno al petrolio e l’espansione del gas
naturale porterà al 2020 un aumento di CO2 pari a 6,34 miliardi di tonnellate; livello che
supera le attuali emissioni negli USA.
PETROLIO ANCORA PROGONISTA
Lo “Scenario Mondiale sull’Energia” (WEO – 2012) dell’Agenzia Internazionale
dell’Energia (IEA) afferma: “Anche prendendo in considerazione tutti i nuovi sviluppi e le
nuove politiche, non si è ancora riusciti ad indirizzare il sistema energetico mondiale lungo
un percorso più sostenibile. La domanda di energia aumenta di oltre un terzo da oggi
(2012 – ndr) al 2035; con Cina, India e Medio Oriente che assorbono il 60% della crescita
(sottolineatura del redattore). Nell’area OCSE i consumi di energia aumentano appena …
E i combustibili fossili rimangono dominanti nel mix energetico mondiale, supportati da
sussidi che nel 2011 ammontano a 523 miliardi di dollari, in aumento di circa il 30%
rispetto al 2011 e 6 volte superiori agli incentivi erogati a favore delle rinnovabili
(sottolineatura e grassetto del redattore) … Nello “Scenario Nuove Politiche”, il livello di
emissioni atteso è coerente con un aumento della temperatura media mondiale nel lungo
termine di 3,6°C “. (3)
L’analisi dell’IEA la dice lunga sul petrolio in via di declino. L’accantonamento, o il
ridimensionamento dell’oro nero non è in nessuna agenda nazionale o internazionale. Anzi
“i crescenti fabbisogni energetici globali guidati nelle economie emergenti dall’aumento del
reddito e da quello della popolazione; e dalla necessità di garantire alla parte più povera
della popolazione mondiale l’accesso all’energia” (WEO – 2012) non lasciano dubbi
all’idea che la fine del petrolio sia vicina. Con l’impiego della tecnologia “up stream” (5
miliardi di investimenti solo nel Nord America), che consente di estrarre “light tight oil”
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(petrolio) e “shale gas” (gas), gli Stati uniti diventeranno nel 2020 il maggior produttore di
petrolio, togliendo la supremazia storica all’Arabia Saudita.
E siccome sono anche previste misure di efficientamento nel settore dei trasporti
statunitensi (notoriamente energivoro), quindi una minore richiesta di petrolio, si assisterà
nei prossimi anni ad una riduzione delle importazioni petrolifere sul territorio USA; con la
conseguenza che nel 2030 gli Stati Uniti diventeranno un “esportatore netto di petrolio”.
E’ evidente perciò che se gli USA diventano il principale attore/produttore di oro nero, con
annesso il conseguente sviluppo economico, è assai poco probabile che di questo
combustibile si possa parlare in termini di ridimensionamento. A sostegno di questa
posizione c’è la persistente crescita della domanda di petrolio nelle economie emergenti,
in particolare nel comparto “trasporti” della Cina, dell’India e del Medio Oriente; che andrà
a compensare il minor consumo nell’area OCSE.
La domanda petrolifera aumenterà da 87,4 mb/g del 2011 (miliardi di barili su galloni) a
99,7 mg/b nel 2035 (miliardi di galloni su barile; quest’ ultima locuzione indica il rapporto
energetico con un barile di greggio; ndr)); con prevedibile aumento del prezzo dagli attuali
125 dollari/barile (area OCSE e altri, come USA) a 215 dollari al barile nel 2035.
Il maggior consumo di petrolio è riservato al comparto dei trasporti per oltre il 50%.
Questa percentuale è destinata ad espandersi in quanto ci sarà una crescita dei veicoli per
il trasporto di persone fino a 1,7 miliardi di unità; accompagnato da un incremento
sostenuto del trasporto di merci su gomma. I mezzi pesanti stanno provocando infatti un
innalzamento del 40% della domanda petrolifera mondiale, con un trend in rialzo più
veloce che non quello per il traferimento delle persone; visto lo scarso efficientamento dei
camion nel consumo di carburante.
Puntualizza l’IEA nel suo ultimo World Energy Outlook (WEO – 2012): “Nel decennio in
corso la produzione petrolifera non-OPEC aumenta, ma dopo il 2020 l’offerta mondiale
dipenderà in misura crescente dall’OPEC”. L’attuale maggiore disponibilità è infatti da
attribuire all’estrazione “non convenzionale” dei pozzi light tight (frazione liquida del gas
naturale) negli USA e alle sabbie bituminose del Canada, oltre che ai giacimenti in acque
profonde del Brasile; con un incremento non-OPEC dai 49 mb/g (miliardi di barili su
galloni) del 2011 ai 53 mb/g dopo il 2015. La produzione di petrolio nei prossimi anni avrà
la tendenza a rimanere stabile fino al 2030, per poi calare a 50 mg/b (miliardi
galloni/barile) nel 2035.
Incognita Iraq
C’è in questo scenario anche l’incognita Iraq. Se questa nazione riuscirà a rivitalizzare il
suo settore petrolifero, creando condizioni per una sua espansione, dopo anni di
turbolenze politiche e sociali, per il 2020 l’IEA prevede 6 mb/g (miliardi barili/galloni) di
greggio iracheno, con la punta di oltre 8 mb/g nel 2035. L’Iraq diventerà il fornitore
d’eccellenza per i mercati in espansione dell’Asia, in particolare la Cina; e arriverà ad
essere il maggiore esportatore mondiale agli inizi degli anni ’30, superando la Russia.
Si ipotizza che senza l’apporto dell’Iraq, i mercati incontrerebbero serie difficoltà, con
prezzi superiori di circa 15 dollari al barile. Se Bagdad sarà protagonista nell’estrazione del
greggio, le sue esportazioni frutteranno , nell’arco di 25 anni, circa 5.000 miliardi di dollari,
circa 200 miliardi/anno (dati IEA); offrendo così buone opportunità alla nazione di
ridisegnare il suo futuro. Per ottenere questi risultati all’Iraq servono forti investimenti, in
particolare nei processi di recupero e di riprocessazione del gas associato, che in questa
fase viene bruciato “in torcia”. Questo permetterà al territorio del Tigri e dell’Eufrate di
rispondere alla sua domanda di elettricità, che avrà il picco attorno al 2015.
I colpi del petrolio contro il clima
Come per carbone, anche per il petrolio sono in vista prospettive/progetti che andrebbero
ad incidere sulle possibilità di contenere l’innalzamento della temperatura.
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Vediamo nel dettaglio (dati Greenpeace 2013). Gli USA con l’estrazione annua di 310
miliardi di metricubi di “shale gas” contribuiranno all’emissione di 280 milioni di tonnellate
di CO2 dal 2020. La produzione e l’esportazione di greggio dell’Indonesia produrranno
460 milioni di t. di anidride carbonica all’anno. In Canada (Alberta) la quantità di “oil sands”
(petrolio bituminoso) triplicherà al 2035; questa fornitura comporterà le stesse emissioni di
gas serra dell’Arabia Saudita, patria dei pozzi petroliferi. Ma per il governo canadese
questo petrolio bituminoso è un’opportunità epocale (non a caso il Canada è uscito dal
Protocollo di Kyoto): si parla di 300 mila posti di lavoro (ben renumerati) e ricavi
elevatissimi. Quindi è in atto un’azione per avviare una grande fase di esportazione del
combustibile, sia verso l’Europa, che negli Stati Uniti (con l’oleodotto di Keystone XL).
Finora il presidente Obama, soddisfatto dell’altrettanto conveniente e nuova estrazione
(fracking) di gas nel territorio della Pennsylvania, non ha approvato il progetto
dell’oleodotto Canada-Usa, che avrebbe potuto avere un prolungamento fino alle coste del
Golfo del Messico. Ma le lobbies canadesi stanno spingendo comunque molto, tanto che
l’Europa ha sospeso l’approvazione di una direttiva contro l’importazione dei carburanti
derivati dal “petrolio pesante” tra cui l’oil sands canadese. Le big oil canadesi non si
rassegnano: pensano al mercato cinese, visto che gli asiatici hanno investito 35 miliardi di
dollari in questa recente estrazione canadese; e nonostante che ci sia l’ opposizione degli
abitanti di Alberta all’oleodotto Gateway Enabridge, che porterebbe il petrolio canadese
sulla sponda del Pacifico. Nell’Artico l’estrazione di petrolio è di 8 milioni di barili al
giorno; le conseguenze: 520 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2020 e 1200 milioni entro
il 2030. Nell’arco di 17 anni l’Artico sarà più contaminato di anidride carbonica del Canada.
Lo stesso Brasile produrrà 4 milioni di barili/giorno, ammorbando l’atmosfera di 600 milioni
di t. di CO2. Le compagnie proseguono l’estrazione dell’oro nero nel Golfo del Messico,
con tanta CO2 quante le emissioni della Francia. In Venezuela la produzione di petrolio
raggiungerà nel 2035 la ragguardevole quantità di 2,3 miliardi di barile al giorno. Altri 2,5
miliardi di b/g verranno messi in commercio in questi anni dal Kazakistan, estraendoli dal
mar Caspio.
Sempre in questo mare, Turkmenistan, Azerbaijan e Kazakistan ricaveranno gas per
100 miliardi di metricubi. Gas anche in Africa, dove è prevista l’estrazione di 64 miliardi di
mc di gas dal 2015 e 250 miliardi entro il 2035).
Secondo Greenpeace queste nuove estrazioni comporteranno per il 2020 un aumento
annuale delle emissioni di CO2 di 6,34 miliardi di tonnellate.
E ancora il Royal Institute of International Affairs Chatman House, think-tank inglese,
critica la mancanza di innovazione da parte delle majors petrolifere, che finora non hanno
adottato modelli di estrazione e di stoccaggio più consoni a garantire riserve di petrolio
congrue alle nuove esigenze di mercato. Si assiste infatti ad un immobilismo, a parte il
gigante russo Rosneff e le industrie saudite, di tutte le altre compagnie petrolifere, rimaste
ferme alle vecchie modalità di estrazione e di deposito; senza tener conto che dal 2005 il
prezzo del greggio si è innalzato di molto. Nel frattempo però c’è stato tra l’altro un
modesto efficientamento nei consumi di combustibile delle auto e dei camion, che ha
portato una parziale riduzione (statistica) “media” di utilizzo del carburante nell’ambito dei
trasporti (ovviamente è solo un calcolo statico, e quindi non reale, quantitativo, visto che i
veicoli sono invece aumentati e cresceranno ancora di molto).
Il petrolio bituminoso del Canada
Chiudiamo il capitolo sul petrolio, riprendendo ancora la questione delle estrazioni dell’oil
sands (petrolio da sabbie bituminose) nello stato dell’Alberta in Canada. Si calcola che in
questa regione grande più dell’Inghilterra (140 mila metri quadrati) ci siano riserve per 135
miliardi di barili; quantità inferiore solo all’Arabia Saudita, ma davanti al Venezuela. Il
petrolio canadese viene estratto “a cielo aperto”, arrivando a scavare fino a 70/100 metri in
profondità; e per un barile servono almeno 5 tonnellate di sabbia. La maggior quantità di
greggio si trova però in depositi sotto i 100 metri di profondità; quindi è più difficoltosa
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l’estrazione, per cui in questi casi si adotta il metodo di processare/separare il petrolio
sottoterra, con getti di vapore di centinaia di metri a 250° C, usando enormi quantità
d’acqua e di energia. A questo si aggiungono i cosiddetti “laghi ghiacciati”, che non sono
altro che siti di decantazione (occupano già una superficie di 180 km quadrati) per far
depositare gli elementi tossici contenuti nelle acque di lavorazione, come benzene,
arsenico, mercurio, piombo. Si parla della possibile contaminazione delle acque del fiume
Athabasca. Ma già nel luglio 2010 c’è stato un incidente, con la fuoriuscita del bituminoso
dall’oleodotto di una società di Calgary, che trasporta questo petrolio alle raffinerie del
Midwest americano. In quell’occasione nel fiume Kalamazoo e nel lago Morrow sono stati
sversati oltre 1 milione di galloni di petrolio, con un potenziale pericolo anche per il lago
Michigan. Di contro, i responsabili della produzione di questo greggio si giustificano,
parlando dell’adozione di nuove tecnologie che potranno ridurre sia l’uso di energia che
dell’acqua. Intanto la foresta boreale viene distrutta, penalizzando l’equilibrio tra CO2 e
atmosfera; e anche questo è un pesante contributo per modificare le condizioni del clima.
IL GAS NATURALE PER UNA NUOVA ERA/OPPORTUNITA’ ENERGETICA
Da World Energy Outlook 2012 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA): “Il gas
naturale è il solo combustibile fossile la cui domanda è in espansione in tutti gli scenari
(sottolineatura del redattore), nonostante i diversi indirizzi di politica energetica presi in
considerazione; tuttavia le prospettive variano a seconda della regione considerata. Cina,
India e Medio Oriente mostrano una crescita sostenuta: un sostegno politico attivo e
riforme normative spingono in alto i consumi cinesi, che si incrementano da circa 130
miliardi di mc nel 2011 a 545 miliardi di mc nel 2035. Negli Stati Uniti, i bassi prezzi e
l’abbondanza dell’ offerta fanno si che il gas diventi il combustibile dominante nel mix
energetico attorno al 2030, superando il petrolio. In Europa ci vorrà invece almeno un
decennio prima che la domanda di gas torni ai livelli più elevati visti fino al 2010;
similmente, le prospettive del gas in Giappone risentono dei prezzi sostenuti e dell’enfasi
politica posta sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica”.
Il gas “non convenzionale”
Altro elemento di novità riguarda il cosiddetto “gas non convenzionale”, quello ad
esempio che ora si estrae in grandi volumi dalle rocce (fracking) in Pennsylvania. Si
calcola che il 50% nella crescita della produzione mondiale di gas al 2035 sia data dalle
estrazioni “non convenzionali”; principalmente della Cina, degli USA e dell’Australia.
Il gas non convenzionale è ancora in una fase di avvio, se si esclude l’esperienza
americana; visto che non si hanno ancora certezze sull’estensione e sulla qualità delle
risorse disponibili. E’ certo invece che il “non convenzionale” può modificare i flussi
commerciali; visto che il suo prezzo è più basso del gas convenzionale (russo e
nordafricano).
Negli Stati Uniti, per questo meccanismo, si è già ridotto l’uso del carbone, favorendo
anche la sua esportazione in Europa, dove può sostituire il gas naturale poco conveniente.
E sempre in territorio stelle e strisce, in questa periodo di lancio del non convenzionale, il
prezzo del gas naturale ha visto una clamorosa caduta: nel 2012 ha toccato il livello
minimo e cioè 1/5 del prezzo in Europa e 1/8 della valutazione giapponese.
L’avvento del gas “roccioso” ripropone la Pennsylvania come la madre per eccellenza
delle nuove ere energetiche: a fine ‘800 fu lì che si scoprirono i primi pozzi di petrolio, ora
è lì che si è avviata l’estrazione del nuovo gas; con la sorpresa che in questo territorio si
nasconde quasi la metà delle riserve di gas degli USA. E il “shale gas” americano è già
oggi un terzo delle forniture totali (dati Standard & Poor’s) di gas non convenzionale, con
una potenzialità che pone la Pennsylvania dietro solo a South Pars (tra il Qatar e l’Iran).
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Secondo Citigroup (4) il gas roccioso può trasformare l’America in un nuovo Medio
Oriente. La stima è un 3% di PIL, con 3,6 milioni di occupati entro il 2020; quando gli USA
avranno superato sia l’Arabia che la Russia nella produzione energetica.
Il Dipartimento del Lavoro della Pennsylvania valuta dal 2009 una nuova occupazione di
150 mila posti (420 addetti per ogni pozzo), con salari medi annui superiori agli 80 mila
dollari; e con indennizzi ai 50 mila proprietari dei terreni, per i diritti di sfruttamento, di oltre
400 milioni di dollari all’anno.
Questo gas non convenzionale, oltre ad aver fatto accantonare una buona quantità di
carbone, utile all’esportazione sia in Europa che in Cina, ha procurato agli Stati Uniti la
riduzione delle importazioni di petrolio del 17%, rispetto ai massimi del 2005; mentre nel
2013 dovrebbero scendere al 39%, record dal 1991.
Questa nuova disponibilità di combustibile ha permesso di ridurre il prezzo del gas negli
USA agli attuali 3,5 dollari al barile; ma già nel 2008 c’è stato un calo a 12 dollari.
Quindi l’energia negli Stati Uniti è diventata meno onerosa per l’industria (1/5 dei costi nel
settore metallurgico); tanto che il presidente Obama ha parlato della sua nazione come la
nuova Cina, invitando le imprese a rimanere sul suolo americano per rilanciare il
manifatturiero. Nel suo discorso “all of the above” (tutta l’energia possibile) ha sottolineato
la potenzialità di nuovi 600 mila posti di lavoro a breve solo nel comparto del gas.
Il gas non convenzionale ha rivoluzionato anche l’approvvigionamento energetico oltre
oceano. Al 2010 negli USA la produzione di gas tradizionale era pari a 10 miliardi di mc
(51%), contro il 26% di tight gas (spremuto) e 23% di shale gas (frantumato); al 2035 si
rovesceranno i rapporti: 49% di gas frantumato, 21% di spremuto e 31% di tradizionale.
Nuova frontiera (energetica) o ennesimo rischio ambientale ?
Come ogni epopea che si rispetti, anche questa sulla scoperta del shale gas in
Pennsylvania ha la sua filmografia. Nonostante che ci siano preoccupazioni diffuse per il
pesante impatto ambientale che può avere anche questa nuova estrazione di combustibile
fossile. E’ già uscito il film “Promised land” con Matt Damon nella parte di Steve, che
promette ai contadini felicità e milioni di dollari, tacendo però sul rischio di inquinamento
della falda acquifera; minaccia derivante dal sistema di estrazione (fracking) dalle rocce,
con la frantumazione idraulica. Rompendo infatti le rocce con la pressione dell’acqua,
miscelata da agenti chimici, tenuti segreti da tutte le compagnie estrattive, i pericoli di
inquinamento della falda acquifera non sono risibili.
Francia e Bulgaria hanno già detto no (2011) a questa modalità estrattiva; ma l’Europa è
divisa al riguardo. In Italia si sta cercando questo combustibile sugli Appennini, ma finora
senza riscontri; mentre in Polonia si valuta una potenzialità di 5,3 miliardi di mc/anno
(stima IEA). Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, non condivide tutto
l’ottimismo che si è creato sulle potenziali disponibilità dei gas non convenzionali (stimate
attorno ai 900 miliardi di mc, contro l’attuale volume di 200 miliardi di mc), perché le
estrazioni devono fare i conti con l’opposizione ambientalista. Secondo questo esperto, sia
l’estrazione di “shale gas” (frantumato), sia quella di “tight gas” (spremuto) hanno
comunque meno rischi dei pozzi tradizionali. Il motivo è che l’attuale estrazione di gas non
convenzionale si ottiene a poche decine di metri e in seguito si avrà dai 700 ai 1000 metri;
quindi una produzione non eccessivamente onerosa e forse anche non troppo pericolosa.
Mentre il gas storico si ottiene a profondità ben maggiori, anche 3-4 mila metri (così come
il petrolio), con l’impiego di una forte pressione idraulica: quindi con modalità che sono
risultate pericolose. E’ il caso del pozzo Macondo di BP nel Golfo del Messico, il 20 aprile
2010; anche se in questo caso si parla di petrolio.
Peso delle fonti energetiche al 2030, dopo l’avvento dei gas non convenzionali
Per comprendere meglio la portata del gas non convenzionale come nuova fonte
energetica, sviluppiamo altri dati.
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Nel 1970, percentualmente, l’energia mondiale si otteneva da un poco più dello 0% dal
nucleare, da un abbondante 5% dall’acqua, da quasi un 20% dal gas, da un 30% dal
carbone (che poi è diminuito, risalendo negli ultimi anni) e da un 45% dal petrolio.
Nel 2010 c’è un poco più del 2% di rinnovabili (avviate all’inizio degli anni ’90), il 5% di
nucleare e di acqua, il 24% di gas, il 30% circa di carbone, il 33% circa di petrolio.
Al 2030, rinnovabili, nucleare e acqua raggiungeranno ciascuna circa l’ 8%, il petrolio
calerà di 5 punti (o di ben 17 rispetto al 1970) al 28%, un po’ meno il carbone con gli stessi
valori percentuali, mentre il gas starà in loro compagnia, però con una continua crescita.
Questi trend, forniti dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), evidenziano il
progressivo sviluppo del gas, a spese del petrolio e in piccola parte del carbone.
Se poi andiamo ad analizzare i consumi di energia per fonte vediamo, secondo le stime di
Nomisma, che c’è sempre l’incremento del gas (fino al 2030), accompagnato dal carbone,
mentre il petrolio avrà un andamento appena in calo.
Prospettive del mercato del gas
Per capire lo sviluppo del gas, è’ interessante il focus su Italia e USA (fonti IEA e GSE),
analizzando l’attuale mix energetico utile a produrre elettricità. L’energia elettrica negli
Stati Uniti si ottiene con il 45% di carbone, mentre nel nostro paese siamo al 14,6%; con il
19,6% di nucleare (USA) e l’ 1,8% in Italia; da fonti rinnovabili: 36,7% Italia e solo il 4,1%
oltre oceano; e solo in Italia con il 6,2% di idroelettrico; siamo invece quasi appaiati con il
petrolio circa 1%. Il dato che emerge è l’adozione del gas: 40% Italia, 24% Stati Uniti.
Anche questi dati evidenziamo l’impatto crescente che il gas avrà in futuro.
I nuovi giacimenti scoperti, l’evoluzione tecnologica e le scelte finanziare spingono verso
questa opzione energetica.
Ad esempio, è risultato molto interessante l’individuazione di un nuovo bacino metanifero
nella parte orientale del Mediterraneo, il Leviatano, compreso tra le coste di Israele,
Libano, Siria, Turchia e Cipro. Se non vi fossero evidenti problemi politici (la guerra civile
in Siria, Israele e Libano, Turchia e Grecia su Cipro), magari ci sarebbero già le estrazioni.
Ma le grandi majors comunque si muovono in attesa delle prospettive che possano aprire
questi nuovi giacimenti. Ad esempio l’ENI è interessata a convogliare il gas levantino nel
gasdotto South Stream (di cui è socio), con destinazione l’Europa, assetata di gas.
Secondo gli analisti il bacino levantino può contenere riserve per 3.500 miliardi di metricubi
di gas; se fossero confermate le stime della Us Geological Survey sarebbe il 5° giacimento
al mondo di oro blu; la stessa la quantità che l’Italia utilizza per più di 40 anni.
La società americana Noble Energy e l’israeliana Delek hanno avviato le introspezioni del
Leviatano (l’area è suddivisa in 12 blocchi) e hanno individuato nel giacimento di Tamar,
ad una profondità di oltre 1500 metri, una riserva di 240 miliardi di mc di gas; poi hanno
proseguito nel Blocco 12 e hanno stimato una potenzialità estrattiva di 280 miliardi di mc.
Gli esperti assicurano che un’azienda come la Noble Energy non ha però i mezzi finanziari
sufficienti per passare alla fase dell’estrazione; perciò saranno ancora una volta le grandi
compagnie a sostenere questo impegno. Nel frattempo c’è chi intravvede un’alleanza
Israele – Cipro per le estrazioni nel Leviatano, che superando le logiche dei gasdotti e
delle difficoltà politiche storiche, potrebbe favorire l’isola del Mediterraneo ad essere il
grande hub del gas nel mare “nostrum”, adottando il processo di liquefazione del
combustibile e permettendo così il suo trasporto con le navi.
Non solo. Il prezzo del petrolio è ancora sopra i 100 dollari al barile, nonostante la
recessione europea; mentre negli Stati Uniti, con la scoperta del gas non convenzionale,
le importazioni dell’oro nero sono calate, attestandosi ai livelli del 1999. Questi elementi,
connessi con l’attuale produzione di 142 milioni di mc di shale gas in Pennsylvania e in
prospettiva con la disponibilità di altri potenziali giacimenti americani, stanno modificando
le strategie sugli investimenti, stanno spingendo alla revisione dei progetti sui
rigassificatori, e non ultimo stanno focalizzando la ricerca verso nuove tecnologie, per
9
nuovi sistemi di estrazione. Insomma tutto il quadro mondiale sull’uso del gas è in fase di
revisione profonda: con molte implicazioni di ordine politico, ma soprattutto commerciale.
La Cina, ad esempio, viene considerata una terra promessa del shale gas
(frantumazione); sul suo immenso territorio si calcola una riserva di 25 miliardi di mc, che
equivalgono a garantire gli attuali consumi interni per altri 200 anni.
E’ ineludibile, il gas diventerà il nuovo “oro blu” per i prossimi decenni, anche se non è
esente da implicazioni di ordine ambientale, soprattutto per le modalità di estrazione.
L’Europa, ridimensionando il nucleare (con la rinuncia della Germania e con il referendum
in Italia, ma anche con la progressiva dismissione in Francia), avrà bisogno di gas per
produrre energia elettrica. Queste scelte comportano che il metano costerà 5 volte di più
che non in America, andando a penalizzare il comparto manifatturiero nel vecchio
continente. E questo nonostante che la “diplomazia del tubo” della russa Gazprom intenda
sostenere le forniture e a non disertare e strangolare i mercati europei. Infatti attraverso il
gasdotto North Stream sono arrivati in Germania, via mar Baltico, 27 miliardi di mc di gas;
provenienti principalmente dalla grande produzione siberiana (80%). Ma anche la rete del
South Stream, attraverso il mar Nero, la Bulgaria, la Serbia e la Slovenia ha dato un buon
apporto di metano all’Europa: 30 miliardi/anno di mc; e nel caso quantità facilmente
raddoppiabile.
Il mercato italiano del gas
L’attivismo, o l’apparente disponibilità di Gazprom per la fornitura di gas, magari
conveniente e senza implicazioni, non sono logiche che comunque sono condivise e
accolte con facili entusiasmi da tutti, almeno qui in Italia. Secondo Leonardo Maugeri, ex
direttore delle strategie di ENI, il nostro paese paga troppo caro il gas russo, proprio per la
condizione di “monopolio” instaurata dal sistema instaurato dagli stessi tubi russi.
L’esperto, che ora insegna in America, ritiene che ci voglia più offerta a livello mondiale
dell’oro blu, se vogliamo ridimensionare l’impatto degli stoccaggi e ci vuole più
concorrenza, non solo di fornitori, ma soprattutto di modalità di trasferimento del
combustibile: quindi non solo gasdotti (russo e algerino), ma anche l’opzione del trasporto
con le navi (ora modesta in Italia; con gli arrivi solo dal Qatar e dall’Algeria).
In questo momento il consumatore italiano paga il gas attorno agli 80 centesimi a mc,
mentre alla frontiera costa meno della metà: 35/40 centesimi; e all’origine in Russia costa
solo 3 centesimi a metro cubo.
Sul versante degli stoccaggi, altro forte condizionamento sul valore del metano, la SNAM
(preposta alle distribuzione sulla nostra penisola) ha investito 7 miliardi di euro per
allargare la disponibilità dei depositi: ha portato la capacità (overcapacity) da 10 miliardi di
mc a 14,7 miliardi di metri cubi; ma lo stesso non si sono avvertiti riscontri positivi per
rendere il gas più appetibile sul mercato nostrano. Ed inoltre c’è la grossa contraddizione
dell’operato dell’ENI, che non aiuta di certo una svolta positiva nella nostra economia e
non solo.
Il ruolo dell’ENI
L’ENI, su iniziativa della Comunità europea, è stata costretto a vendere la sua rete di
gasdotti sul territorio continentale, ma ha comunque mantenuto una forma di
renumerazione per i diritti di passaggio dei tubi (in virtù di vecchi accordi). Rimane nella
sostanza anche “un po’ distributore” (visti i corrispettivi che introita), oltre che ad essere un
grande fornitore. In questa sua doppia veste, ed essendo anche compartecipe di quote di
Gazprom (attraverso il coinvolgimento azionario nel gasdotto South Stream), non ha
pienamente le mani libere per potersi divincolare dai contratti “capestro”, cosiddetti “take
or pay” (top - paghi anche se non ritiri il gas), stipulati con la stessa azienda russa. In
Italia, di fronte alla crisi economica, i consumi di gas sono calati da 77,8 miliardi di mc agli
attuali 70 miliardi di mc (10% in meno; stesso percentuale anche nel resto dell’ Europa) ; e
nonostante questo, comunque dobbiamo pagare la differenza di 10 miliardi di mc di
10
metano al gigante russo, seppur non li abbiamo utilizzati. Questa riduzione dei consumi ha
messo l’ENI, firmataria dei contratti “Top”, nelle condizioni di dover pagare “penali” per
non aver ritirato 1,4 miliardi di mc di gas nel biennio 2009/2011. Si impone quindi la
necessità di dover rinegoziare queste clausole contrattuali. Già questa operazione è stata
fatta dalla tedesca EON con Gazprom, dalla Edison con il Qatar (gas liquido) e
dall’olandese Gas Terra. L’ENI in questo momento preferisce non mettere in discussione
gli accordi con i russi, attraverso un arbitrato; giustificando questa scelta con l’esigenza di
garantire comunque la “quota di sicurezza” (stoccaggio) che il governo italiano esige.
Vincolo che, secondo altre voci, è invece un grimaldello per non garantire una maggiore
fluidità e flessibilità del mercato e quindi di non avere prezzi più competitivi.
Altro elemento di “contraddizione” dell’ENI è che non è molto propenso a rivedere i prezzi
del gas, in quanto esso stesso è produttore del combustibile: in Libia, in Polonia (shale
gas), in Ucraina e in Nigeria (liquefatto). Ma di fronte a queste posizioni discutibili, se non
contraddittorie dell’ENI, c’è l’impatto del cosiddetto mercato libero “spot” del gas, che ha
ormai conquistato la quota del 20% e adotta prezzi decisamente più bassi. Nel 2012 da
gennaio ad ottobre i contratti a lungo termine (top – take or pay) hanno tenuto il prezzo dai
358,6 euro per 1000 mc (all’inizio dell’anno) ai 360,2 euro/1000 mc (a ottobre), con la
punta di 391,7 euro a luglio. Il mercato “spot” ha registrato il prezzo di 236,4 euro per 1000
mc (a gennaio) e 286,8 euro per 1000 mc (a ottobre). La differenza media tra le due
opzioni contrattuali nella fornitura di metano è di 106,5 euro (circa un 35% di valore tra i
due mercati).
Ritornando sulla “overcapacity” (maggior stoccaggio), la questione sta assumendo
connotazioni discutibili. C’è chi afferma che è la soluzione per aver garantita comunque la
disponibilità del combustibile; e c’è chi dice che è inutile e non ha senso investire su nuovi
stoccaggi, o su nuovi rigassificatori. Almeno nel mercato italiano, che è attualmente
chiuso e per nulla flessibile; e quindi è una realtà per nulla esposta né a turbolenze
passive, né ad azioni attive, come ad esempio l’ export. La stessa bozza di SEN (Strategia
Energetica Nazionale) sottoscritta dai ministri Clini e Passera all’inizio di marzo ’13 (7),
parla di trasformare l’Italia in un hub continentale per il gas e di limitarsi alla realizzazione
“obbligatoria” di un solo rigassificatore da 8 miliardi di metri cubi l’anno. E a riguardo ci
sono delle domande a cui vanno dati dei riscontri. Ad esempio, che uso ne faremo del
nuovo gas proveniente dall’Algeria, con il gasdotto Galsi (via Sardegna) ? La risposta può
essere nella nostra capacità di avviare una fase di export e non solo import del gas,
abbassando nel contempo i prezzi, ed essere perciò concorrenziali. Sul
ridimensionamento del ruolo dei rigassificatori, ci sono stati due fatti emblematici e nello
stesso tempo esemplificativi: in Italia la British Gas ha cancellato il terminale di Brindisi;
mentre in Spagna i rigassificatori, tanto celebrati come risolutivi, nell’inverno 2011 hanno
lavorato al minimo di combustibile, soprattutto per mancanza di sbocchi commerciali, ma
anche perché la nazione iberica non ha connessioni metanifere con il Nord Europa.
Lo spread energetico in Italia
Intanto il sistema Italia paga salato per questo suo spread energetico. Le imprese
continuano ad ottenere energia a prezzi troppo elevati rispetto agli altri mercati più affini.
Nel 2012 l’acquisto di energia elettrica ha segnato il raddoppio dei prezzi rispetto
all’eurozona: + 12,7% contro +5,2%. Un KWh costa un terzo di più: 16,86 centesimi contro
i 12,37 centesimi. Lo stesso prezzo del gas, fino al 2011 inferiore alla media europea, è
lievitato del 2012 del 5,8%. Pagano questo scotto soprattutto le piccole aziende, mentre i
grandi consumer, sopra 1,2 milioni di KWh, usufruiscono di sgravi sulle imposte.
Chiudiamo il capitolo, illustrando le percentuali del gas importato dall’Italia.
La fetta più grossa è con l’Algeria (21,3%), poi con la Russia (19,6%), quindi con l’Olanda
(3,6%), con la Norvegia (3,5%), la Libia (2,3%), Croazia (0,3%), altri (10,9%); poi c’è la
disponibilità del gas liquefatto e trasportato con le navi: dal Qatar e altri (7,2%) e Algeria
(1,6%).
11
I punti di scambio del combustibile sono: Mazara (25,9 miliardi di mc), Tarvisio (22,5
miliardi di mc), Gela dalla Libia (9,4 miliardi), Passo Gries dalla Norvegia e Olanda (7,8
miliardi), Cavarzere dal Qatar, liquefatto (7,1 miliardi di mc) e Panigaglia dall’Algeria,
liquefatto (2,0 miliardi).
Lo stoccaggio è di 14,7 miliardi di mc, realizzato nei vecchi giacimenti esauriti, soprattutto
in pianura Padana.
DIBATTITO
Una lenta decadenza del nucleare ?
Dopo Fukushima nulla è più come prima; almeno nei paesi OCSE. L’Italia ha nuovamente
bocciato il nucleare con l’ennesimo referendum, dopo quello del 1987; la Germania ha
detto “no nuke”; la Francia da deciso, dopo l’elezione del nuovo presidente F. Hollande, di
rivedere il suo assetto energetico nucleare, portando l’attuale dipendenza dal 75% al 50%
entro il 2025. Intanto nel 2016 viene chiusa la centrale più vecchia, quella di Fessenheim
in Alsazia. Il Giappone intende rinunciare all’atomo entro il 2040; contrariamente
all’indirizzo pre-Fukushima, quando l’obiettivo era invece di portare il nucleare al 50% delle
dipendenza energetica nazionale. Il nuovo target giapponese è di spingere molto
sull’energie rinnovabili, arrivando al 30% del totale; sostenere con forza l’ottimizzazione
dei consumi; incrementare le importazioni di petrolio, carbone e gas naturale; con una
spesa aggiuntiva di circa 40 miliardi di dollari per l’approvvigionamento energetico.
Le centrali nucleari giapponesi verranno chiuse man mano che arriveranno alla soglia dei
40 anni di attività. In questo momento, solo 2 reattori (ce ne sono 50) sono accesi; mentre
gli altri sono sottoposti a verifiche di sicurezza; e comunque c’è l’intenzione di riattivarli.
Questo il quadro nipponico, almeno fino alle prossime elezioni politiche, previste nel 2013.
L’uso dell’energia nucleare è prevista in crescita solo nei paesi non-OCSE; in particolare
in Cina, con la costruzione di nuovi 4 reattori, in Corea del sud, Russia, USA, Emirati Arabi
per altri 7 impianti. Attualmente sono attivi nel mondo 437 reattori (2 in più rispetto al
2011). Sono in fase di progettazione 67 centrali, 47 delle quali in Asia, 5 solo in Corea.
Negli ultimi 25 anni sono stati spenti 13 reattori. Questi dati (AIEA – Agenzia
Internazionale dell’Energia Atomica – marzo 2013) delineano uno scenario in cui nel 2012
l’energia nucleare si è leggermente ripresa, dopo il traumatico calo del 2011, aumentando
la produzione di energia elettrica di 3,7 gigawatt e raggiungendo la quota totale di 372,5
gigawatt.
Secondo la SEN italiana (Strategia Energetica Nazionale; ancora bozza di decreto, seppur
firmata dai ministri competenti): “In occidente non si prevedono sviluppi significativi (in
particolare in Europa), sia a causa di un profilo economico di costi/rischi elevati, sia per i
timori sulla sicurezza dell’attuale tecnologia ...”.
Ma sull’utilizzo dell’energia nucleare segnaliamo anche uscite per lo meno curiose, per
non dire folcloristiche, o quanto meno, con basi scientifiche per lo meno dubbie. E’ il caso
della proposta italiana dell’Istituto di Metrologia di Alberto Carpinteri, che ha suggerito di
recuperare energia con la tecnologia del “piezonucleare” e cioè “strizzare” la pietra con
pacchetti di onde fononi (5); ipotesi bocciata con un appello di 800 studiosi.
O dello scienziato inglese James Lovelock (6), autore della teoria “Gaia” del 1979
(secondo la quale tutte le componenti del pianeta, viventi e non viventi, formano un unico
sistema), il quale afferma che l’uso del nucleare aiuta il nostro pianeta. Per il quasi
centenario studioso, i siti che sono stati contaminati dalla radioattività sulla terra, sono
diventati più ricchi di vita (non considerando le morti e altri episodi negativi conseguenti),
come Cernobyl o gli atolli nell’oceano Pacifico, luoghi di sperimentazione nucleare ai
primordi. Rimanendo su questa posizione, Lovelock è convinto che le radiazioni non
incidano in modo assoluto sulla capacità di vita degli essere viventi, ma sia invece più
determinante sul loro destino l’inquinamento provocato dall’anidride carbonica. L’ispiratore
di “Gaia” è inoltre assertore che le teorie ufficiali sui cambiamenti climatici non siano
appropriate e che dedurle da modelli fisico-chimico, peraltro sviluppati al computer, non
12
siano corrette. Secondo lo studioso inglese vanno ribaltati i termini. La biosfera e in
particolare gli oceani non sono elementi passivi, così come, secondo lo scienziato, afferma
la letteratura scientifica sui cambiamenti climatici, ma giocano un ruolo centrale nel climate
change. Il calore assorbito dagli oceani viene immagazzinato in profondità e “non
sappiamo quando accadrà, ma prima o poi quel calore verrà rilasciato e porterà un brusco
cambiamento climatico dell’intero sistema terra”.
In questo dibattito scientifico, o pseudo, restano delle certezze: i costi delle centrali
nucleari rincareranno ancora di molto, in particolare per l’aggiunta di nuovi e più complessi
sistemi di sicurezza. E’ già noto che oggi un reattore EPR costa 6 miliardi di euro, ma
all’approntamento dell’impianto atomico quanto sarà la spesa totale ?
E restano anche le questioni gravi sulla sicurezza. Nel febbraio 2013, in ordine di tempo, è
stata denunciata la fuoriuscita di liquido radioattivo dai serbatoi dell’impianto di stoccaggio
di scorie nucleari nella località di Hanford nello stato di Washington, che si trova a 400
metri dal fiume Columbia. Questo deposito è risalente ancora alla seconda guerra
mondiale ed ha funzionato per tutto il periodo della guerra fredda; quando gli americani
realizzarono 60 mila armi atomiche. Questi serbatoi hanno superato i 20 anni di età e per il
loro smaltimento il Governo federale spende ogni anno 2 miliardi di dollari (di recente la
spesa è stata incrementata a 3,5 miliardi/anno per accelerare i tempi per lo stoccaggio
definitivo), con un piano di bonifica che andrà avanti per anni e con l’impiego di 11mila
persone. Questa lentezza nel risolvere il problema è data dall’incertezza della nuova
struttura che dovrà accogliere questo materiale, che si prevede sia terminata entro il 2019:
a riguardo c’è stato uno stanziamento di oltre 12,3 miliardi di dollari.
LA PROSPETTIVA IRRINUNCIABILE DELL’EFFICIENZA ENERGETICA
E’ convinzione unanime a livello mondiale, che la chiave di volta per il contenimento
dell’uso dell’energia, e quindi delle conseguenti emissioni di CO2, che provocano le
variazioni climatiche, sia l’adozione di un’elevata efficienza e di un forte risparmio
energetici. Secondo lo scenario “Mondo efficiente” dell’WEO 2012, è indispensabile
“rimuovere le barriere che ostacolano l’implementazione delle misure di efficienza
energetica”. La valutazione dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) è che serve un
investimento iniziale di 11.800 milioni di dollari in tecnologie per l’efficienza, che andrebbe
a compensare una minor spesa sul consumo dei combustibili; conseguentemente una
minore incidenza delle emissioni di anidride carbonica.
Questa svolta favorirebbe un aumento cumulato della produzione economica mondiale
pari a 18.000 miliardi di dollari; con incrementi del PIL in India, in Cina, negli USA e in
Europa. E nello stesso tempo le emissioni in atmosfera raggiungerebbero il loro picco
prima del 2020, per poi avviarsi ad una diminuzione, coerente con l’aumento della
temperatura sui 3°C nel lungo termine. L’Outlook dell’IEA sull’energia mondiale (WEO –
2012) propone: “Anche se le specifiche azioni da realizzare variano da paese a paese e
per settore, si individuano sei ambiti in cui è necessario intervenire”. Secondo l’ WEO 2012
l’efficienza energetica deve essere”chiaramente tangibile, rafforzando la quantificazione
dei benefici economici ad essa correlati …. L’attenzione in materia deve essere integrata
nei processi decisionali di governo, industria e società …. I decisori politici devono
migliorare l’accessibilità all’efficienza energetica, creando e supportando modelli di
business, strumenti di finanziamento ed incentivi, per assicurare agli investitori un
adeguato ritorno economico ….Sviluppare un sistema di regole teso a scoraggiare gli
approcci meno efficienti … rendere le tecnologie alla portata di tutti. Il monitoraggio, la
verifica ed un efficiente controllo …. Queste azioni dovrebbero essere sostenute da
maggiori investimenti nella capacità di governance e di gestione dell’efficienza a tutti i
livelli”. (sottolineature a cura del redattore)
La Strategia Energetica Nazionale (SEN) del governo italiano, con un’ipotesi di decreto
interministeriale all’inizio di marzo 2013, porta le seguenti puntualizzazioni sull’efficienza
13
energetica: “Gli interventi di efficientamento degli edifici possono aprire la strada a un
ripensamento delle stesse modalità di pianificazione e gestione urbanistica della città,
considerando che il 70% dell’energia è consumata in contesti urbani … In attuazione dei
programmi di azione dell’Unione Europea (Smart Cities – Città intelligenti), saranno
avviate azioni … di pianificazione innovativa dei servizi urbani e dei flussi energetici, di
efficienza delle reti, di mobilità e riqualificazione del tessuto edilizio …le iniziative nazionali
saranno inserite e aggiornate nel quadro della nuova direttiva sull’efficienza energetica
(direttiva 2012/27/UE) che, pure senza fissare obiettivi vincolanti per gli Stati membri,
stabilisce …. I risultati attesi dalle misure sopra descritte sono importanti, sia in valore
assoluto che di mix: rispetto agli interventi di efficientamento degli ultimi anni – che si
sono focalizzati sul settore residenziale – gli interventi qui descritti comporteranno risparmi
molto importanti anche dal settore industriale e dei trasporti (che congiuntamente
rappresentano oltre il 60% del risparmio atteso)…. In termini di energia finale, la quota
maggiore di risparmio energetico (circa l’80%) riguarderà i consumi termici e il settore
trasporti …. L’insieme delle misure di supporto comporterà un esborso stimato di circa 25
miliardi di euro di supporto pubblico cumulato da qui al 2020 (incluse le somme già
impegnate), in grado di stimolare 50-60 miliardi di euro di investimenti complessivi …. E
con un risultato al 2020 di circa 8 miliardi di euro l’anno di risparmi in combustibile
importato”.
L’ Agenzia Internazionale dell’Energia nel dossier citato del 2012 sottolinea che se si vuole
tenere aperta la porta dei 2°C di aumento della temperatura del pianeta, è necessaria “una
rapida diffusione delle tecnologie per l’efficienza energetica”, oltre che adottare “un utilizzo
diffuso delle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS). E annota a quest’ultimo
riguardo, “che tuttavia, con pochissimi progetti su scala commerciale attualmente operativi,
la velocità di diffusione di queste tecnologie per la cattura dell’anidride carbonica rimane
molto incerta”. Secondo Fatih Birol (8), capo economista dell’IEA, puntando sull’efficienza
energetica sarà possibile dimezzare i consumi al 2035, mentre “dal 2020 la domanda di
greggio potrebbe iniziare a diminuire”. E assieme alle prospettive sull’efficienza energetica
vanno accomunate quelle sulle fonti rinnovabili, perché far ricorso solo al gas, rispetto al
carbone, “non riuscirà a fermare l’innalzamento delle temperature”.
L’efficienza energetica in Italia
In Italia sono attualmente disponibili due strumenti a supporto dell’efficienza energetica: il
primo, la bozza di decreto sottoscritta l’8 marzo 2013 dai ministri competenti sulla
Strategia Energetica Nazionale (SEN), voluto dal governo Monti (dopo che da 25 anni
mancava un piano nazionale sull’energia); il secondo, il cosiddetto “Conto Termico”,
decreto emanato all’inizio del 2013. Gli obiettivi da raggiungere con le due proposte, oltre
mirare alla de-carbonizzazione dell’energia nostrana, sono l’efficientamento degli edifici
della pubblica amministrazione, con rimborsi fino al 40% delle spese sostenute
(disponibilità di 200 milioni di euro) e l’incentivazione dell’utilizzo di energia rinnovabile
termica (900 milioni di euro). Assieme a questi strumenti, al momento, rimane il
meccanismo delle detrazioni del 55%.
L’Italia, è stato certificato nel 2012 dal 1° Rapporto sull’Efficienza Energetica, redatto
dall’ENEA (9), è un paese con standard di uso dell’energia non eccessivamente elevati;
anzi il suo consumo finale di energia/abitante è tra i più bassi d’Europa. Dal 2007 al 2010
abbiamo avuto un risparmio annuo di 47.800 GWh (gigawattora); certo c’è di mezzo anche
la crisi, che ha spinto a questa riduzione dei consumi. Ma come abbiamo fatto a
raggiungere questi risultati? Gli esperti citano gli “standard minimi di prestazione
energetica” e cioè tutte le misure adottate per ridurre il consumo negli edifici e i cosiddetti
“certificati bianchi”, cioè l’impegno delle grandi aziende a contenere l’uso finale, altrimenti
devono acquistare appunto i titoli di efficienza da chi è più virtuoso. Queste due leve
hanno totalizzato un risparmio del 82%, mentre il restante contenimento è avvenuto con le
detrazioni fiscali del 55%.
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Solo il settore dei trasporti ha prodotto bassi indici di efficienza: solo 1,1% in dieci anni.
I motivi? Nel nostro paese l’86% delle merci è trasportato su gomma, contro una media
europea del 73%; abbiamo una flotta di veicoli vecchia rispetto al resto d’Europa; ed
abbiamo un livello di carico basso dei nostri tir rispetto ai camion continentali.
In Italia il trasporto su rotaia è aumentato del 10%, tra il 1999 e il 2009, mentre è stato il
doppio in Francia e il triplo in Gran Bretagna.
Ha fatto meglio la nostra industria, in particolare nei comparti chimico e siderurgico. Dal
2005 al 2009 l’efficienza energetica nella nostra industria è cresciuta del 27%, dovuta in
particolare ai “certificati bianchi”.
Il residenziale italiano mostra anch’esso segni positivi. Negli ultimi 20 anni l’efficienza
energetica nelle nostra case è aumentata del 23,9%. Su questo versante il direttore di
Kyoto Club, Gianni Silvestrini, propone di andare oltre, arrivando ad un calo del 30% dei
consumi di energia negli edifici, attraverso l’implementazione di azioni ad ampio raggio di
“green deal immobiliare”, riqualificando il 2,5% all’anno di stabili di proprietà dello Stato e
dei Comuni. Simile proposta è stata messa in cantiere dal governo britannico, il quale
prevede 65 mila nuovi posti di lavoro nell’edilizia entro il 2015.
A sostegno di questa gamma di azioni ci sono due direttive europee, la 31/2010/CE e la
27/2012/CE. La prima impone agli Stati membri un Piano per l’efficienza energetica
(PAEE); alcuni paesi hanno già recepito la direttiva, come la Germania, la Gran Bretagna,
la Francia, la Spagna, l’Austria e la Danimarca. La seconda direttiva invece non pone
obiettivi vincolanti per le varie nazioni, ma stabilisce un quadro comune per la promozione
dell’efficienza energetica e definisce un tetto ai consumi al 2020.
Secondo la Comunità Europea i margini di risparmio energetico per i diversi settori sono:
21% nei trasporti, 24% nel residenziale, 17% nel terziario, 13% nell’industria; con un totale
di contenimento di energia del 5-6% entro il 2020 e del 5% sulle emissioni di CO2 alla
stessa scadenza; ma anche con un incremento dell’occupazione dai 280 ai 450 mila
addetti.
CONCLUSIONI
Vediamo in rapida rassegna alcune esperienze internazionali che evidenziano come le
comunità locali o governative intendono fra fronte agli eventuali sconvolgimenti climatici,
che potrebbero succedere sul loro territorio, a seguito dell’aumento della temperatura; e
che già adesso si manifestano attraverso periodi di siccità, alluvioni violente, scioglimento
dei ghiacci e conseguente innalzamento della superficie marina.
Il rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente ha descritto le iniziative a livello del nostro
continente. Nessuna proposta di rilievo dall’Italia; mentre emergono proposte dal Nord
Europa e dalla Gran Bretagna. Londra ha studiato barriere e individuato zone di
inondazione lungo il Tamigi per le eventuali maree anomale che potrebbero risalirlo.
L’Olanda intende fermare il mare, arretrando le dighe a difesa dei terreni bassi, ma
soprattutto predisponendo una nuova pianificazione che permetta più spazi liberi per lo
sfogo delle inondazioni, creando anche nuovi parchi e zone ricreative. Stoccarda, seguita
da Berlino, ma anche da Malmoe in Svezia e da Kobe in Giappone, realizza il primo
atlante climatico locale, per pianificare con nuovi parametri il suo tessuto urbanizzato;
creando così corridoi verdi per il passaggio dei venti e combattendo il fenomeno della
cosiddetta “isola del calore”; che può determinare un rialzo della temperatura anche di
10°C, rispetto al non urbanizzato. Ma ci sono anche le proposte per il raddoppio delle
superfici verdi per rinfrescare e per combattere l’evaporazione dell’acqua; ci sono i progetti
per rendere più permeabile il suolo, togliendo l’attuale massiccia impermeabilizzazione; c’è
la rinaturalizzazione dei fiumi e dei canali, per poter imbrigliare la furia delle acque.
Chicago, con il suo Climate Action Plan, ha l’obiettivo di ridurre di un quarto le emissioni
di anidride carbonica, l’80% entro il 2050. E si propone di realizzare, entro il 2020, 500
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terrazze erbose (6,5 milioni di metri quadrati di giardini pensili), di piantare 80 mila alberi
ogni anno, di disporre di un 20% in più di strade permeabilizzate, di realizzare 120
“corridoi verdi”, di coprire il 20% del fabbisogno energetico locale con fonti rinnovabili, di
incrementare del 30% il trasporto elettrico e ferroviario. L’impegno del governo della
Corea è di ridurre le sue emissioni del 30% entro il 2020, nonostante che sia considerata
un’economia emergente (13° posto a livello mondiale e 8° nelle esportazioni) e un paese
ad alta densità energetica (fa un largo uso di nucleare: il 30% del suo fabbisogno
elettrico). La peculiarità è di sviluppare la sua economia per mezzo di tecnologie a basse
emissioni; ma non solo, nel 2012 ha annunciato la predisposizione di un sistema di
“scambio di emissioni”, il primo del suo genere in Asia, da implementare entro il 2015.
Chiudiamo parlando dell’area Saudita, che si sta convertendo all’energia solare,
nonostante sia la bandiera del petrolio. L’Arabia Saudita ha investito 109 miliardi di dollari
per avviare la costruzione delle sue prime due “solar farm” con l’obiettivo di disporre di una
capacità di 41 gigawatt: 16 dal fotovoltaico e 25 dal solare concentrato. Tantissimi sono i
motivi di questo suo cambio di rotta energetica. Secondo Citigroup, se l’Arabia
continuasse a far crescere la domanda interna di energia a questi ritmi, nel giro di 15 anni
dovrebbe importare petrolio! Ora produce 12 milioni di barili al giorno (un quinto delle
riserve planetarie). Ma per i governanti sauditi, adesso “il petrolio è più prezioso sotto
terra”, come fonte di ricchezza da usare con oculatezza e da non sperperare. Infatti
l’Arabia ha in questo momento diverse criticità sociali: 10,5% di disoccupazione, 1 milione
di sussidi di disoccupazione, 18 milioni di persone che lavorano nel settore della pubblica
amministrazione (su quasi 28 milioni di abitanti). E quindi ragionano come non dissipare il
greggio, sapendo che è la loro prima risorsa economica e che in questi anni potrà essere
ancora più utile, con l’aumento del suo prezzo; quindi un valido strumento per affrontare i
problemi interni. Anche il Kuwait ha fissato l’obiettivo di avere il 10% di energia dalle fonti
rinnovabili entro il 2020 e del 15% al 2030; puntando sull’eolico e sul solare. Infine gli
Emirati Arabi, che ospitano la sede dell’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili
(Irena), si sono prefissati di generare il 7% dell’energia elettrica con le fonti rinnovabili
entro il 2020.
La vulnerabilità climatica
Chiudiamo affermando che c’è un 20% di probabilità che la temperatura terrestre aumenti
di 4°C entro il 2100; e se le emissioni continuassero ai livelli attuali, questo rischio
verrebbe anticipato al 2060. Questa condizione danneggerebbe gli ecosistemi e farebbe
innalzare i mari di un metro. “Scientific American” di dicembre 2012 ha illustrato uno
scompenso climatico già in atto: sono i periodi di forte rigidità e nevosità degli ultimi inverni
nell’emisfero boreale, a fronte di annate (ultimo decennio) molto calde, con un aumento di
temperatura di 0,8°C, rispetto a cento anni fa. Questa contraddizione del clima viene
spiegata con la diminuzione dei ghiacci dell’Artico. Da due decenni queste superfici
ghiacciate si stanno restringendo, toccando l’estensione minima nel 2012 e con solo un
quarto dell’oceano Artico ancora ricoperto di ghiaccio. La crosta ghiacciata d’inverno si
allarga, ma non compensa la perdita estiva. E così si assiste alla riduzione della superficie
bianca che riflette la luce solare e all’aumento di quella scura delle acque; la loro azione
congiunta mette gli oceani nelle condizioni di assorbire più calore. Inoltre lo scioglimento
dei ghiacci libera carbonio bloccato dal permafrost liquefatto, che va ad aggiungersi in
atmosfera. Questi fenomeni, spiegano esperti come Jiping Liu dell’ University of California,
aumentano la pressione atmosferica, la quale a sua volta va ad indebolire il “vortice
polare”. Questa corrente, circolare, fino a qualche anno fa tratteneva l’aria più fredda
nell’area artica, ora invece si riversa sull’Europa e il Nord America.
La scomparsa estiva del ghiaccio artico era prevista per la fine del XXI secolo, ora si
ipotizza già al 2040, se non prima.
I cambiamenti climatici mettono a rischio tutti. Ma ci sono realtà più esposte di altre. Il
centro studi inglese Maplecroft ha stilato una lista delle situazioni più a rischio (Climate
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Change Vulnerability Index). La nazione più esposta ai cambiamenti climatici è Haiti,
seguita dal Bangladesh, poi ci sono vari paesi africani e la Cambogia e le Filippine; questo
per quanto riguarda i primi dieci stati esposti agli sconvolgimenti climatici. Tra i parametri
utilizzati per definire il grado di rischio dei singoli stati c’è anche la capacità finanziaria di
affrontare, o prevenire le eventuali catastrofi naturali. Secondo Charlie Beldon che ha
coordinato questo rapporto, “metropoli come Manila, Jakarta e Calcutta sono a rischio
vulnerabilità climatica; e siccome sono centri di assoluto rilievo dei mercati mondiali
emergenti, ci potrebbero essere pesanti impatti anche per gli investitori internazionali”.
marzo 2013
Fonti bibliografiche
(1) Conferenza di Exter (Gran Bretagna – febbraio 2005)
(2) Medium-Term Coal Market Report (Agenzia Internazionale dell’Energia – IEA 2012)
(3) World Energy Outlook 2012 (Agenzia Internazionale Energia – IEA dicembre 2012)
(4) Rapporto “Nordamerica, il nuovo Medio Oriente?” (Citigroup 2012)
(5) Quotidiano La Repubblica – 5 giugno 2012
(6) Quotidiano Il Corriere della Sera – 10 febbraio 2013
(7) Strategia Energetica Nazionale (SEN) Italia – decreto interminist.le (bozza) marzo ‘13
(8) Settimanale L’Espresso – 20 dicembre 2012
(9) Primo Rapporto sull’Efficienza Energetica – ENEA (Italia) 2012
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