Intervista ad Abele Blanc, il grande scalatore valdostano

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Intervista ad Abele Blanc, il grande scalatore valdostano
Scout Gruppo Roma 65 FSE
Intervista ad Abele Blanc, il grande scalatore valdostano
Inviato da capogruppo
venerdì 07 agosto 2009
Ultimo aggiornamento venerdì 07 agosto 2009
Abele Blanc, da 30 anni in attività sulle montagne di tutto il mondo, ci racconta la sua filosofia. " I monti non vanno
conquistati, ma avvicinati con religioso rispetto".
"Fotografo il mondo dal K2 per scoprire le piccole cose"
«Ciao amici, mi chiamo Abele Blanc, ho 48 anni ed esercito il mestiere più bello del mondo: la guida alpina». Con questo
semplice ottimismo si presenta sul suo sito internet. In realtà Abele Blanc, valdostano, ha scalato tredici delle quattordici
vette oltre gli ottomila metri, è maestro di sci nordico, istruttore di sci-alpinismo e di soccorso alpino, artista e fotografo.
Le sue opere sono esposte nella mostra «Verso l’alto. L’ascesa come esperienza del sacro» al Forte di
Bard, di cui si parla in questa stessa pagina.
Il suo spazio web - blancabele.com – era nato quando progettava la salita alla vetta himalayana mancante,
l’Annapurna, tentata cinque volte e segnata da una serie di maledizioni: un compagno travolto e ucciso da una
valanga durante l’impresa, un figlio che si è tolto la vita in un parcheggio poco distante dall’abitazione di
famiglia ad Aymavilles. Blanc non ne parla. Con gesti e opere racconta invece la sua filosofia. E ci dice che, in fondo, il
paradiso è sulla terra.
Abele Blanc, che cosa si prova a raggiungere certe altezze?
«Da giovanissimo toccare una vetta equivaleva a una sfida. Era soddisfazione personale e dimostrazione delle mie
capacità. Poi, crescendo, è diventato perfino un bisogno dell’ego. Andare in montagna affinava la mia abilità
mediatica: ero qualcuno che aveva una marcia in più, a caccia di successo e notorietà. In questa terza fase, più matura,
mi misuro con il naturale declino delle mie capacità fisiche e sono entrato in un momento più spirituale».
L’alpinismo comporta grandi rischi. Ne vale davvero la pena?
«Della montagna si parla solo quando si verificano tragedie e la colpa di questo è anche del bisogno di sensazionalismo
di giornali e televisioni. Certo che si affrontano pericoli. Ci sono anche in mare, attraversando la strada, prendendo un
aereo. Appendersi a una parete sfidando la forza di gravità significa andare lassù, nel silenzio. E ti obbliga a ragionare. È
una scuola di vita. Non bisogna affrontare un’ascensione o una qualunque passeggiata con in mente solo la meta
del viaggio. Vanno assaporate la fatica e la gioia di salire, così come ogni piccolo frammento che ci circonda. Vivere nella
natura è qualcosa di magico. Noi non siamo più capaci di pensare che l’avventura ci arricchisce».
Quindi non più cime da conquistare?
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«Oggi nessun posto è inaccessibile e la conquista è un concetto che ho superato. Rientrava in quella mia seconda fase
della vita nella quale approfittavo dell’ambiente alpino per farmi conoscere. Oggi cerco di trasmettere agli altri la
passione. È un peccato che molti miei colleghi “usino” la montagna senza comprenderne il valore, senza
spiegarne la bellezza. Ricorrere al paradiso per dire quanto si è bravi è limitante».
E la spiritualità che cosa ha a che vedere con la montagna?
«La vicinanza al mondo incontaminato ti costringe a pensare. E a farlo in modo diverso. Osservi tanti piccoli miracoli: una
formica, un fiore. E dall’alto ti rendi conto di quanto sia inutile lottare per emergere, per accumulare denaro, per
possedere oggetti. La bellezza più importante è in noi, abbiamo il dovere di riconoscerla, di cercare la nostra unicità.
Quando sei a ottomila metri anche il concetto di morte assume un significato differente».
Non ha mai avuto paura di morire?
«È normale, a certe quote, temere la morte. Non farlo ti mette ancora più a rischio. Ma di fronte alla grandiosità di un
paesaggio ci accorgiamo che anche noi, in fondo, siamo solo energia che si rinnova. Non faccio discorsi buddhisti, dico
che ho imparato a dare alla vita un valore diverso. Ci distinguiamo dagli animali perché siamo capaci di provare amore e
sentimenti, è la cosa più preziosa che possediamo».
Andare verso l’alto avvicina a Dio?
«Il concetto della mostra al Forte di Bard è proprio questo: l’alpinismo come conoscenza, come religione in sé.
Quel che faccio mi è servito a capire me stesso, a migliorare il mio fisico anche attraverso qualche rinuncia.
L’uomo deve fare il suo cammino senza farsi influenzare. Nessun guru può insegnarci la verità o darci risposte.
Rimane il nostro osservare, il sentire la natura vivere tra gli alberi e sulle creste. Io sono un ottimista, penso che il nostro
futuro sia libero dal possesso. Vivere senza l’avidità per le cose materiali, nel rispetto dei nostri simili, ecco
l’inevitabile evoluzione. E porterà pace. Anche le religioni, tutte quante, parlano di questo. Invece vengono
interpretate come continui incitamenti alla prevaricazione».
Fonte: Il Giornale
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