Introduzione a Bearing Wetness

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Introduzione a Bearing Wetness
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“Bearing Witness”
Anna Sabatini e Andrés Gautier
“My good people don’t forget; go and tell, my good
write it down” (Wieviorka).
people
INTRODUZIONE
Negli ultimi decenni nelle istituzioni di salute mentale e negli studi privati giungono
richieste di aiuto che chiedono al terapeuta di misurare il suo tradizionale discorso teorico con gli
eventi che insanguinano diverse aree del pianeta. Capitoli di storia pregni di orrore e di morte la cui
deriva trascina in terre diverse e lontane colonne di disperati, naufraghi di una terra e una cultura
che vengono loro forzosamente sottratte. Fuoriusciti da lembi di territori oppressi da guerre,
genocidi, brutalità sociale e politica; esuli strappati dai loro legami affettivi che hanno assistito al
disfarsi dei loro modelli culturali, tradizioni, riti e ritmi quotidiani che regolavano la vita
comunitaria e contenevano le ansie collettive.
Molti di loro hanno conosciuto pesanti detenzioni e torture; oltraggio traumatico che li
risucchia in un vortice di insicurezza. Fuggiaschi che si misurano con un fallimento difficile da
decifrare, con il venir meno delle strutture comunitarie nelle cui reti si tesse, in modo per lo più
inconscio, il sincronico disporsi delle trame dell’intrapsichico, dell’intersoggettivo e del
transoggettivo (Puget). Ricaduta del macrocontesto sociale sul loro mondo interno e di questo sul
primo. L’anomia sociale li espone a stati di intensa confusione, ad una fragilità narcisista prima
ignota ed ora esasperata dallo sradicamento dalle loro terre e dalla inospitalità, se non aperta ostilità,
dei paesi in cui approdano.
Uomini e donne segnati da lasciti traumatici che, come sanno gli operatori della salute
mentale, vanno ben al di là della riduttiva categoria diagnostica del PTSD. Un’eredità di sofferenza,
una ‘decantazione’, un deposito di morte che danneggia la loro integrità mentale, offusca il loro
sentire e colonizza il loro mondo interno. Conturbante polisemia, densa contraddittorietà di fatti,
che annienta la loro parola e riduce le capacità della loro memoria.
Agli operatori della salute mentale, testimoni di queste drammi, spetta il compito di
avvicinarsi al nucleo di queste violazioni, di farsi sensibili contenitori di memorie che non potranno
mai essere tradotte e alleggerite in pensieri e parole. Di affacciarsi sul Maelström, sulle terrificanti
immagini, sui livelli di sentire - a volte spesso e duro non sentire - con cui giornalmente questi
individui si misurano. Di cogliere ombre di rappresentazioni che, non registrate dall’immaginario
cosciente, tessono inattese sinapsi tra le ‘simmetrie’ dell’inconscio (Matte Blanco).
Nelle migrazioni forzate, negli stati di detenzione di cui si parla in questo volume, il farsi
carne dell’essere umano è totale. L’orrore, i soprusi con cui i pazienti hanno convissuto non sono
stati che il prologo che ha preceduto l’entrata in scena di ciò che li ha indelebilmente segnati:
l’esperienza del Male. La presenza dell’inumano nell’umano, l’esperienza in vita della morte.
La morte non li ha sfiorati e fuggevolmente toccati, li ha attraversati e nutriti con false
esecuzioni, con l’agonia del corpo che impazzisce sotto la sferza di una sofferenza impensabile ed
incontenibile, con assassini, con suicidi di cui, contro la loro volontà, sono divenuti testimoni. Alla
morte, al suo carico di angoscia, al suo funesto presentimento hanno ripetutamente stretto la mano e
la morte ha scavato in loro aree di risucchio, di fatale attrazione.
A questo lascito difficile da disincrostare accorre aggiungere l’interiorizzazione dell’abuso.
Ad esso, in nome dei valori etici, dei diritti umani, con la forza dell’indignazione, dell’odio e
dell’ira, si sono opposti; ma ad esso - per effetto delle violenze subite, dell’indebolimento del corpo,
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dell’isolamento, del venire meno dei legami affettivi e della violenza morale del sistema – si sono
nel contempo piegati. La forza del potere li ha schiacciati e resi complici del “male” che li colpiva.
La logica del terrore, tramite l’interiorizzazione dell’orrore e della colpa, dopo aver corroso
spazi della loro autonomia di pensiero e grazie alla collusione di aree arcaiche della psiche, si è
insidiata nella mente. L’esterno tirannico interiorizzato ha circuito e deposto il Super-io paterno.
Tragica interiorizzazione che, ricalcando, riattualizzando altre interiorizzazioni, ha trasformato
l’abuso operato dall’esterno in abuso interno. Il potere ha in tale modo sigillato il suo dominio
sull’intera persona.
Ma la compressione degli affetti che li ha schiacciati, lo stridio che ha soffocato la loro
persona non si arresta davanti alla loro resa e al loro silenzio. Gli affetti non possono essere
rimossi. Gli affetti che non trovano adeguata espressione si ripresentano in blocco sul corpo oppure
generano rilevanti e debilitanti fragilità psichiche per poi ripresentarsi nei figli e segnare il loro
futuro. L’elaborazione emotiva ed affettiva che una generazione non riesce a portare a termine,
viene affidato, quali “candele della memoria” (Dina Wardi), alle generazione dei figli, con ricadute
sulla loro identità e il loro ventaglio emozionale.
La supposta dicotomia tra indenni e colpiti apre faglie che riversa sui primi il male che ha
colpito i secondi e affida al testimone il compito di restituire la voce a chi soffre. Se ciò non
avviene, se tale elaborazione viene dalle generazioni arrogantemente e trionfalmente evitata,
l’orizzonte si tinge di persecuzione e prende corpo un’inquietante spirale in cui il trauma genera
altri traumi, il passato ripropone le sue scelte nel presente e al dolore di ieri si somma quello di
oggi.
Nel 1957 Albert Camus, testimone del cataclisma del secondo conflitto mondiale, alla
consegna del premio Nobel per la letteratura disse tra l’altro: “Noi scrittori del ventesimo secolo
[…] dobbiamo sapere […] che la nostra sola giustificazione […] è di parlare, per quanto i nostri
mezzi lo permettono, per coloro che non possono farlo”.
Le pagine di questo volume raccolgono articoli di psicoterapeuti che da anni lavorano con
pazienti la cui vita è sconvolta da improvvisi cambiamenti sociali e politici. Terapie che operano per
rammendare le trame da cui fuoriescono immagini di paure e spinte all’agire, che dietro immagini
di distruzione e morte colgono le ombre che riverberano nelle menti dei pazienti rappresentazioni
consce e inconsce di violenza e crudeltà.
Depositi di “identificazioni radioattive” (Gampel), interiorizzazioni di aspetti violenti e
distruttivi della realtà esterna, esposizione e identificazione a vissuti drammatici che chiedono ai
terapeuti di differenziare la parte di distruttività connessa alla conflittualità soggettiva e alla
sofferenza esistenziale, dalla parte legata alla brutalità e alle atrocità di cui i pazienti sono stati
vittime e testimoni. Di decifrare l’inscrizione impressa nelle profondità del loro mondo interno
dall’ordine statuale oppressore, dalla forza del potere che, dopo aver piegato ai suoi disegni le
strutture giuridiche, culturali e religiose - baluardi metasociali che sorreggono e inquadrano la vita
collettiva – ha innescato nel mondo interno l’implosione dei garanti metapsicologici (Kaës).
Di aiutare il paziente a superare le resistenze che lo fanno straniero alla sua storia, lo
alienano dal suo sentire, oscurano il suo com-prendere senza, nel contempo, sottovalutare le
difficoltà proprie all’analista a dare lettura e farsi testimone delle piaghe, dei livelli di isolamento e
di dissoluzione del senso del Sé, impressi sull’essere umano da un altro essere umano.
Gli scenari traumatici di cui si parla nel volume sono espressioni limite di una realtà storica
e politica che estende ombre di intensa incertezza sull’intero pianeta. Il trauma, l’inatteso, il
patologo è così presente nella vita quotidiana, che Paulina Ceppi di Lecco Reyes e Alejandro
Reyes, misurano nel loro articolo il concetto di trauma e di situazione traumatica con i sentimenti
individuali e collettivi di impotenza, con la sensibilità ripetutamente corrotta dalle visioni di orrori,
da vissuti di confusione, ambiguità emozionale e cognitiva, di non differenziazione, oggi propri a
tutti noi, testimoni traumatizzati degli orrori di questo tempo storico. Di fronte al venire meno
dell’eccezionalità del trauma, perché, con ricadute su tutti noi, si è alzata la soglia di “trauma
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estremo”, spetta agli analisti, e su questo terreno si muovono gli autori, di rivedere la teorizzazione
traumatica. Elaborare cioè una griglia di pensiero che permetta di offrire un aiuto adeguato a coloro
che in prima persona hanno sofferto la sferza della persecuzione e della tortura. Unico modo per
non diluire il loro dramma, i loro sentimenti di morte, la loro perdita netta di soggettività, sullo
sfondo di una società fortemente traumatizzata, per non lasciarli soli e ignorarli.
Dell’alta soglia di traumaticità ci parlano tutte le pagine del volume. Le presentiamo
iniziando dagli articoli degli analisti che lavorano rispettivamente in Israele, in Sud Africa e in
Bolivia, paesi ove uno stesso ‘terreno di insicurezza’ coinvolge terapeuti e pazienti. La loro
attenzione e sensibilità, allertata dalle esperienze non dissimili da quelle vissute dai loro pazienti,
rende difficile, se non impossibile, lasciare fuori della stanza di terapia il mondo esterno. Con esso è
impossibile non fare i conti pur se, con un sottile lavoro di cesello, gli autori cercano di ristabilire i
confini tra la sfera pubblica e quella privata, confini sconvolti dalla spirale perversa che avvita la
storia politica, i rapporti sociali e agli atteggiamenti individuali.
In queste terapie vediamo come in modo flessibile ed attento gli analisti adeguano i loro
paradigmi teorici e tecnici alle condizioni di instabilità politica e economica in cui operano. Come il
desiderio del terapeuta di avvicinarsi al paziente spesso contrasta con il timore, conscio e
inconscio, di essere danneggiati dalla violenza dei suoi sentimenti, di abbordare sacche della sua
ambiguità emotiva e misurarsi con le sue posizioni ideologiche. Gabriela Mann parla delle
difficoltà dell’analista ad aprirsi alle ragioni e alle difese psichiche del paziente, specie quando
questi appartiene ad una diversa area politica; dell’analisi a cui sottopone le proprie idee e la propria
posizione ideologica, affinché l’esposizione alle ragione dell’altro non corroda il legame empatico
e non occluda la possibilità di aprirsi alle sue ragioni perché, sempre e comunque, il paziente giunge
in terapia con pesanti sacche di oppressione e di angoscia.
Il saggio di Katharina Ley, si articola su due coordinate. La disgregazione sociale, la
violenza e i crimini che - dopo trecentocinquanta anni di apartheid e poco più di un decennio di
autonoma democrazia – attraversano trasversalmente la società del Sud Africa e l’antica cultura
della narrazione orale; il narratore, il cantastorie connesso ad una antica e profonda tradizione
culturale, vicino al linguaggio del sogno e dell’immaginazione. Condizionamenti storico/politici e
paradigmi socioculturali di cui occorre conoscere tutte le valenze per disporsi ad accogliere e
interloquire con l’agonia di generazioni traumatizzate. Tradizioni culturali e riferimenti immaginari
cui attingere quale cemento del sentire comunitario.
André Gautier, che nel gennaio del 2003 in qualità di psichiatra e psicoterapeuta ha prestato
ascolto alla sofferenza dei pensionati boliviani in marcia su La Paz, riflette sul valore della
testimonianza. “When [the patient] begins to speak, -he writes - his desire is both to declare the
insurmountable aspect of his experience, and to re-establish contact with mankind, with his fellow
human being. His testimony thus represents an attempt to re-create some type of link at the point
where the break took place”. La sua lunga esperienza di operatore della salute mentale lo spinge a
chiedere agli psicoanalisti - al di là del lavoro nella stanza d’analisi, della cura attenta e riservata
con sui si avvicinano alle sofferenze, che si riverberano lungo tutto l’asse della personalità dei loro
pazienti – di assumere il ruolo di testimoni. A loro – conoscitori privilegiati delle ombre che
invadono e piegano la psiche dei loro pazienti, che sanno che gli affetti non possono essere rimossi,
ma attraversano le generazioni, si ripresentano nei figli e segnano il futuro della specie - spetta il
compito di alzare il velo sulla violenza delle istituzioni. Violenza che scatena una barbarie
relazionale in grado di spegnere la voce di un popolo e riverberare sulle generazioni successive
ombre di profondo isolamento, depressione, panico e rinnovata violenza.
Gli articoli degli psicoterapeuti che lavorano in Europa ci mostrano come dislivelli culturali
ed economici, difficoltà di comprensione linguistica, riferimenti religiosi e transoggettivi diversi e
reciprocamente sconosciuti, rendano difficile l’alleanza terapeutica con i pazienti che dai paesi del
sud del mondo sono giunti nelle ricche aree europee. Negli articoli leggiamo del dolore muto, delle
difficoltà che li rinserrano in loro stessi. Dell’attenzione, della gradualità, dei piccoli passi con cui
l’analista si avvicina al paziente e l’aiuta a rammendare le relazioni oggettuali lacerate e a riparare
le trame affettive. A de-identificarsi dal marchio di ‘inumanità’, a risanare la frattura che l’ha
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decretato ‘sub-umano’, nemico da sopprimere, degradato e reso difficile la presentazione di sé a se
stesso.
Ci parlano dello strappo violento, cruento, dai luoghi di nascita; dei segni impressi nella
memoria implicita che, privi di riscontro con la realtà che circonda il paziente, lo confondono e
spengono la speranza. Speranza non quale amore impossibile, ma quale mappa ove iscrivere la
realizzazione di sé. Speranza quale motore di progetti, la cui spinta lascia intravedere possibili
cambiamenti e rinnovamenti, speranza quale dimensione della mente in grado di trascendere la
realtà.
Per un sortilegio giuridico/sociale, a questi cittadini del mondo è negato il diritto di abitare
negli spazi europei, ad essi è chiesto di rinnovare continuamente il loro ‘permesso’ di soggiorno e
confinarsi – quali extracomunitari – ai margini della società. Condizione di sopravvivenza che si fa
certamente patologica se ad essi - arresi, privi di fiducia nelle proprie capacità, disperati - viene
impedita la narrazione. Se alla loro nefasta estraniazione interna, alla negazione della loro
sofferenza, si somma l’arte di non vedere e sapere della società che li accoglie, difesa che, se
permette alle comunità ospitanti di fuggire dalle proprie responsabilità sociali ed evitare la pena,
rende queste ultime quanto mai miopi e incapaci di programmare un futuro di reciproca e creativa
convivenza.
Dei danni di questo silenzio è ben consapevole Francois Fleury che al legame narratologico,
che congiunge gli abitanti della terra ai loro mitici progenitori, affida un importante compito
terapeutico. La narrazione come primo spazio ove contrastare livelli espliciti ed impliciti di non
riconoscimento, l’assenza di protezione, le incertezze con cui quotidianamente si misurano e i loro
momenti di profonda confusione. Narrazione come spazio ove contrastare il circolo vizioso che
vorrebbe chiudere le loro bocche. Perché l’ambiente sociale che non desidera conoscerli, non
spenga il loro desiderio di essere conosciuti ed essi non releghino le espressioni del loro sé nell’area
del disturbo mentale e dei sintomi psicosomatici. Francois Fleury incentra il suo saggio attorno al
ruolo della parola, all’attenzione alle storie individuali, allo spazio dell’ascolto ove il paziente può
fare vivere le sue storie e i suoi legami narrativi. Restituire voce all’Aedo che è in loro, li avvicina
alla possibile elaborazione della loro sofferenza, permette di cogliere le connessioni con la storia
del loro popolo e i simboli della loro cultura. Dà loro un telaio narrativo che permette alla loro
storia di transitare verso coloro che l’ascoltano e viceversa. La riappropriazione della parola
permette di elaborare quel distanziamento che nella storia dell’umanità ha dato vita alle grandi
costruzioni epiche e ai miti degli eroi che, grazie all’astuzia e all’ingegno, sono usciti illesi
dall’incontro con il sopruso e la violenza.
Una attenta e per lo più tacita analisi dei sogni permette a Liselotte Grünbaum di flettere la
crosta di depressione, il torpore che annichilisce il tempo, il pensiero, le capacità di apprendimento
e di inserimento sociale del suo giovane paziente. La Grünbaum si avvicina agli incubi e ai
frequenti stati di terrore che scuotono l’apatia del giovane cercando di cogliere in essi, non tanto e
non solo l’aspetto evacuativo di contenuti psichici insopportabili, quanto i segni, le pietre miliari di
significativi punti di rottura: testimonianza del crollo dei legami primari. Ad essi si avvicina e da
essi muove i primi passi per ridare vita al pensiero simbolico e alle relazioni oggettuali congelate.
Un lavoro necessario per saturare gli spazi vuoti, nei quali la reazione traumatica, tagliata fuori dal
flusso continuo della simbologia inconscia, si riproduce continuamente.
La difesa nell’ambiguità, il rifugio regressivo in stati arcaici della mente ove si rende
possibile la connivenza con sistemi sociali violenti e si fanno accettabili situazioni di vita al di là del
tollerabile, sono i temi al centro della riflessione di Silvia Amati Sas. Analista con lo sguardo
attento alle interconnessioni tra le storie individuali e le storie collettive, al nucleo ambiguo (Bleger)
che, depositato nelle sfere profonde della mente, in determinate condizioni sociali, può intrappolare
l’individuo nell’indistinto e nell’indifferenziato. Non perdendo mai di vista la sfera
dell’intrapsichico, dell’intersoggettivo e del transoggettivo, l’Amati Sas aiuta la paziente a ritrovare
i fili del sé interno forzati dal contesto violento e perverso dei carcerieri. La soccorre a liberarsi
dalle introiezioni forzate, dal richiamo perverso verso l’indifferenziato che avevano tracciato orme
significative nella sua mente.
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Nei giardini del Natural Growth Project, nella natura come spazio transizionale, luogo di
un primo possibile avvicinamento alle ferite del corpo e della psiche, Mary Raphaely colloca il
seme di un possibile incontro terapeutico. Progetto che affianca al lavoro nel parco gruppi di
psicoterapia e, qualora possibile, incontri individuali. Dalla vita della natura, con i tempi e modi a
loro propri, deriva un avvicinamento alla vita emotiva dei pazienti, al loro mondo interno e agli
spazi gelati del loro sentire.
Il lavoro clinico con un adolescente africano, che in lunghi mesi di prigionia e tortura ha
conosciuto una catastrofica accelerazione affettiva sensoriale, mostra – nel caso presentato da Anna
Sabatini Scalmati - come la terapia con questi pazienti, per riuscire a riattivare processi mentali di
differenziazione, ambivalenza e contraddizione, è chiamata a farsi ricettacolo e luogo di
depositazione di aspetti di vergogna, rabbia, dolore, sensazioni di piccolezza e sentimenti di morte.
Se il terapeuta riesce ad avvicinarsi ai luoghi bui, umidi e sporchi ove sensazioni di disgusto fanno
sentire disgustosa la vita, ove sono state sistematicamente lacerate le reti di relazioni interne,
diviene possibile al paziente operare una scissione in grado di realizzare una netta differenziazione
tra prigioniero e carceriere, primo passo per tornare a ritrovare se stesso e riprendere nonostante le
sue ferite un posto nella vita.
Bibliografia
Matte Blanco, I., Inconscio come insieme di infiniti. Saggio sulla bilogica, Torino, Einaudi, 2000
Bleger, J., (1967) Simbiosi e ambiguità, Loreto, Libreria Editrice Lauretana, 1992
Gampel Y. (1996) The interminable uncanny. In Psychoanalysis at the Political Border. In L.
Rangell & R. Moses-Hrushovski. Madison: International Universities Press.
Gampel Y. (1999) Between The background of safety and the background of the uncanny in the
context of social violence. In Bott Spillius, Psychoanalysis on the Move. London: Routledge
Kaës, R. Il disagio del mondo moderno e la sofferenza del nostro tempo. Saggio sui garanti
metapsicologico, Psiche, 2, 2005
Puget¸ J. (1995) Psychic Reality or various realities. In International Journal of Psychoanalysis