Burning heart
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Burning heart
BURNING HEART * RACE WAR SAGA racconto * Questa storia è completamente frutto di pura fantasia. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistenti è puramente casuale. * Il titolo di questo racconto è tratto dal brano omonimo dei Survivor (qui), colonna sonora di Rocky IV. * Quest'opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by- nc-nd/3.0/ o spedisci una lettera a Creative Commons, 171 Second Street, Suite 300, San Francisco, California, 94105, USA. Opera di Glauco Silvestri http://www.glaucosilvestri.it http://blog.glaucosilvestri.it Burning Heart Strinse i capelli raccolti in una coda, e sollevò con forza il volto terrorizzato dell’uomo che fronteggiava in modo che potesse guardarlo negl’occhi. Il sorriso dipinto sul viso del persecutore, un sorriso pazzo, disperato, forse esasperato, si proiettava nel terrore della vittima per disegnare una allegoria di lacrime e sudore. La Beretta 92F era piantata con fermezza contro la tempia dell’uomo. La sua bocca era serrata con del nastro da imballaggio. Il corpo nudo era costretto in ginocchio nel bel mezzo di un lago di sangue. Non era il suo sangue, e neppure era il sangue del persecutore. Era il sangue di Marta. La ragazza giaceva poco distante, ancora sul letto, a gambe divaricate, braccia legate alla spalliera, capelli mori scarmigliati, l’espressione sorpresa, e gli occhi spalancati. Il ventre di Marta era martoriato da tagli profondi scavati con un rasoio. Tagli che andavano dalle zone del piacere alle curve sinuose dei suoi fianchi, e che risalivano le dune del suo seno per giungere fino alla gola. Il rasoio giaceva a terra, bagnato dal sangue vermiglio, a pochi centimetri dalle ginocchia sbucciate dell’uomo minacciato con una pistola. Mugugnava, si agitata, ma la stretta sui capelli era ferma e non avrebbe ceduto tanto facilmente. E poi bastava un colpo di Beretta per terminare quell’agonia appena cominciata. Marta non aveva potuto esimersi dalle attenzioni di Don Luciano. Ventidue anni, figlio di un Boss della malavita, abituato ad avere tutto ciò che voleva, e a eliminare tutto ciò che gli andava di traverso. Marta ci aveva provato, a spiegare a Don Luciano che lei era già promessa. Don Luciano non accettava il rifiuto, anche se gentile, anche se giustificato, anche se non aveva alcuna intenzione di offendere, di mancare di rispetto, mai. Il negozio del padre di Marta era andato a fuoco dopo il rifiuto di lei. Avrebbe potuto andare peggio, Marta ne era sicura, per questo aveva accettato l’invito. «Robé - aveva detto lei - cosa sarà mai... Una cena, una palpatina, una scopata. Poi si dimenticherà di me. In paese ce ne sono di belle ragazze - aveva detto - Mi lascerà in pace, vedrai, però Antonio non lo deve sapere, capito?». Antonio era il fidanzato. Migrato al nord per guadagnare i soldi necessari al loro matrimonio, alla casa che avrebbero acquistato, alla famiglia che avevano intenzione di costruire. Non poteva fare nulla per scongiurare quella situazione ignobile, ed era meglio che Antonio non sapesse. Don Luciano, nonostante le occhiate sospettose di padre, madre, e fratello di Marta, si era comportato da gran signore. Aveva preso Marta a casa, l’aveva portata al ristorante, aveva cenato, e l’aveva riportata a casa. La prima volta non era accaduto nulla. Il negozio era stato sistemato senza che il padre dovesse aprire il portafogli. Marta era uscita una seconda volta con Don Luciano, e poi una terza, una quarta. In ognuna di queste uscite lei tentava di allontanare gli interessi del ragazzo, e puntualmente questi faceva finta di nulla, oppure lanciava una velata minaccia, cosicché Marta si trovasse comunque costretta a ‘fare il proprio dovere di donna piacente’. La ritrosia della ragazza non passava comunque inosservata. Tutti in paese sapevano che era promessa, e tutti sapevano che Don Luciano la importunava. Alla quinta sera in molti cominciarono a bisbigliare, a commentare, ad additare. E ciò non passò inosservato agl’occhi del Don, tant’è che un mattino, arrivò la telefonata dei carabinieri, questura di Milano. Antonio era stato aggredito mentre tornava dal lavoro, ed era stato trovato morto, la mattina successiva, dall’edicolante della zona. Scese il silenzio più completo. Scese l’omertà. La sesta notte Marta non fece ritorno a casa. La sesta notte Marta era stata seviziata brutalmente da Don Luciano. Roberto, il fratello, non aveva potuto fare nulla per evitarlo. Era arrivato tardi per salvare la sorella. L’aveva trovata nel letto, agonizzante, con quell’insetto nudo ancora a cavalcioni su di lei, il rasoio nella destra, il collo di lei nella sinistra. Si muoveva a scatti grugnendo come un porco in calore. Abusava del corpo in fin di vita di Marta e ghignava come una iena sadica e perversa. Il primo colpo della Beretta era stato per sua sorella. Erano stati gli occhi di lei a chiederlo. Quel bastardo aveva scavato tanto a fondo nel suo corpo da strapparle lembi di carne dai fianchi, dai glutei, dal ventre. Aveva sparato senza che lui si accorgesse di nulla. Un colpo in fronte. Marta era trasalita. Il suo corpo aveva sobbalzato per la violenza dell’impatto, e poi si era rilassato. L’aveva lasciata così. Aveva preso per i capelli Don Luciano, lo aveva sbattuto a terra. Appena lui aveva tentato di parlare gli aveva ficcato un proiettile nella spalla. Si concesse il tempo di farlo tacere con il nastro da pacchi trovato su un mobile di quella camera delle torture. E si concesse il tempo di dare un ultimo saluto alla sorella. Stava per chiuderle gli occhi quando si accorse che l’animale si era alzato per tentare una fuga goffa, con quel suo corpo nudo macchiato di sangue, verso chissà dove, visto che si trovavano nel bel mezzo del nulla. Fece fuoco. Don Luciano urlò e stramazzò al suolo dopo che il proiettile si portò via metà del suo ginocchio destro. Roberto lasciò la sorella per recuperare il corpo del suo aguzzino. Lo costrinse in ginocchio, gli puntò la Beretta alla tempia, e tirandogli i capelli, gli sollevò il volto per guardarlo direttamente in quella fogna di occhi. «Riconosci la tua pistola? - ringhiò a denti stretti Roberto - La prossima volta non lasciarla sulla sedia assieme ai tuoi luridi vestiti... », sorrise «Sempre che ci sia una prossima volta». Don Luciano tentò di parlare, inutilmente. Roberto costrinse il ragazzo a guardare la ragazza «Mia sorella non meritava tutto questo. Era pura, innocente...». Tirò i capelli fino a far urlare Don Luciano, lo costrinse a sollevarsi in piedi, quindi puntò la canna della Beretta direttamente sui testicoli di quel corpo ormai privo di dignità «Dovrei farti saltare le palle con un proiettile». Invece che fare fuoco lasciò la presa di scatto. Don Luciano cadde malamente sulle ginocchia, urlò disperato, e scivolò al suolo immergendosi nel sangue di Marta. Roberto aggirò il letto dove ancora giaceva la sorella e finalmente le chiuse gli occhi «Riposa in pace, sorella mia», sussurrò. Don Luciano aveva il respiro pesante. Il sangue della donna ribolliva attorno alle sue labbra a ogni espirazione. Gli occhi erano rivolti al soffitto. Cercava di capire dove fosse Roberto. Sentiva i suoi passi. Sentiva il frusciare dei suoi abiti. Sentiva la sua voce «La mia famiglia è povera disse - ma comunque abbiamo una dignità da difendere», Roberto rovistava tra gli abiti del mafioso «Tuo padre è un uomo d’onore, lui comprende il significato della parola ‘dignità’ aggiunse - Ma tu sei feccia, tu sei un animale, tu non hai nulla di caldo che scorre nelle vene». Trovò quello che cercava «Credi che tutto ti sia dovuto perché sei ricco, sei potente, sei intoccabile - sorrise - Solo che non è vero!». Finalmente Don Luciano riuscì a vedere Roberto; gli voltava la schiena e si stava allontanando. Forse si sarebbe salvato. Forse avrebbe avuto modo di vendicarsi. L’avrebbe torturato come un cane, l’avrebbe pregato di ucciderlo, gli avrebbe estorto la richiesta di perdono, l’avrebbe umiliato come e più di quanto lui stesso aveva subito, e alla fine l’avrebbe ucciso ridendogli in faccia. Roberto stava commettendo un grosso errore a lasciarlo vivo. La vendetta sarebbe stata succosa da assaggiare. Sorrise tirando le labbra costrette a stare serrate dal nastro adesivo; poi vide Roberto tornare con due taniche. Spalancò gli occhi. Il primo getto di benzina lo colpì in pieno volto. Chiuse gli occhi appena in tempo. Ma la ferita alla spalla, il ginocchio, e le parti intime cominciarono a dolergli come se fossero state avvolte dalle fiamme. Il secondo getto di benzina avvolse il corpo della sorella. Il terzo getto irrorò l’intera stanza. Le due Taniche furono svuotate completamente. Don Luciano non riusciva a tenere aperti gli occhi, ma sentiva il rumore di uno zippo che ostinatamente rifiutava di accendere una fiamma. Pregò che fosse scarico. Pregò che Roberto non riuscisse a fare ciò che aveva in mente. Le sue preghiere non furono accolte. Lo zippo donò una calda e brillante fiamma che riverberò intensa nel buio della stanza. «Ci rivedremo all’inferno, Don Luciano», Roberto lanciò lo zippo tra le gambe del ragazzo. La benzina prese fuoco all’istante. Le fiamme avvamparono attorno alle grida di Don Luciano. Questi si rotolò al suolo, alimentò la benzina sparsa per la stanza, appiccò il fuoco ai tendaggi, al letto, agli abiti di Marta che ancora giacevano sparsi sul pavimento. Bastarono pochi istanti perché l’intera stanza si trasformasse in un vero e proprio forno crematorio. Roberto attese sulla soglia finché il calore non fu insopportabile, quindi uscì dal casolare. A poca distanza, nel piazzale, era parcheggiata la sua vecchia Ritmo bianca. Il portellone del bagagliaio era ancora aperto. Si avvicinò all’auto con passo claudicante. Si sentiva svuotato di ogni energia. Tra le mani aveva ancora la Beretta di Don Luciano. Sulla pelle aveva ancora il sangue di sua sorella. Roberto si appoggiò alla fiancata dell’auto. Inspirò; alzò lo sguardo verso il cielo, osservò il fumo proveniente dal casolare mentre si innalzava pigramente macchiando di fuliggine la bella giornata primaverile. Il vento ad alta quota disturbava la colonna di fumo e la schiacciava come se si stesse formando un’area di bassa pressione. Si chiedeva se anche l’anima delle persone volasse in cielo come fosse fumo. Si chiedeva cosa avesse fatto Marta per meritare un destino tanto ingrato. Si puntò l’arma alla testa. Spinse con tutte le sue forze contro la tempia. Grugnì di rabbia. Voleva morire. Ma non voleva veramente morire. Semplicemente non sopportava di vivere in un mondo dove tutte le sue certezze erano crollate tanto velocemente a causa di uno stronzo, e di una lama di rasoio. Roberto abbassò lentamente la canna dell’arma. Inserì la sicura e la infilò tra la pelle e l’orlo dei pantaloni, dietro la schiena. Sputò a terra e maledì l’intera famiglia dei Cattaneo. Soprattutto maledì Don Luciano Cattaneo, uno stronzetto ventenne che credeva di poter fare tutto ciò che voleva. Si girò verso l’altra vettura parcheggiata nel piazzale. Sembrava un’astronave. Bassa sul terreno, con forme sinuose e curve, nera, lucida, con finiture in arancione che parevano disegnate da menti aliene. Vi fece un giro intorno. Il muso era strafottente come la faccia da culo di Don Luciano. Quella presa d’aria ovale che andava contro a ogni regola aerodinamica, quei fanali stretti e avvolgenti come bende, il cofano bombato come il ventre flaccido di un grassone. Sprigionava cattiveria. Sembrava un Rottweiler pronto ad azzannare qualcuno. Il posteriore era frutto di un romanzo di fantascienza. Niente di ciò che aveva visto fino a quell’istante somigliava al posteriore di quell’auto. Con una mano accarezzò le linee feline di quella vettura. Sapeva che cos’era. L’aveva vista in televisione. La conosceva di fama. Aveva guidato sufficientemente a lungo per sapere che quella era una Bugatti Veyron, ma non una Veyron qualunque. Don Luciano non si sarebbe mai accontentato di una Bugatti ‘qualunque’. Lui si era preso una Veyron Super Sport, l’auto di serie più veloce al mondo. Si vantava ovunque per quell’auto. Tutti in paese sapevano che la sua Bugatti faceva i 430 chilometri all’ora, che era persino più veloce di un elicottero della polizia. Roberto ebbe l’istinto di bruciarla assieme al casolare. Aveva preso le chiavi della Bugatti dai pantaloni di Don Luciano. Sorrideva all’idea di metterla in moto, inserire la prima, e mandarla a bruciare assieme al corpo del suo proprietario. Entrò nell’abitacolo che pareva essere un mix perfetto tra la cabina di una astronave e un salotto di lusso. Pelle, finiture sportive, dettagli eleganti, una plancia avveniristica, la leva del cambio piccola, ergonomica, comoda, soprattutto il volante che, sfrontato, mostrava a Roberto il logo della Bugatti come fosse uno schiaffo in piena faccia. Inserì la chiave nell’apposito vano e spinse il tasto start. Il rombo del motore lo fece trasalire. Un vero e proprio ruggito, seguito da un borbottio sommesso che ispirava potenza allo stato brado. Sfiorò il pedale dell'acceleratore. Il contagiri schizzò come un pazzo. Il motore aggredì l’aria gridando la propria forza. Roberto sentì crescere sui suoi avambracci la pelle d’oca. Non aveva più voglia di scagliare quella creatura tra le fiamme. Guardò la sua Fiat Ritmo bianca, vent’anni e passa di vita, oltre trecentomila chilometri, la portiera del passeggero bloccata da ormai cinque anni senza possibilità di riuscire ad aprirla se non con un apriscatole. Tornò a guardare ciò che lo avvolgeva. «Rifletti Roberto - si disse - Non agire d’impulso». Innestò la prima e toccò nuovamente l'acceleratore. La Bugatti scattò in avanti come se dovesse scappare da quel luogo il più lontano possibile. Roberto aveva letto qualcosa sulla Veyron Super Sport. Bastavano due secondi per portare quella vettura a cento chilometri all’ora. Doveva stare attento. Di sicuro non poteva paragonarla alla scassata Ritmo di famiglia. Davanti ai suoi occhi il casolare continuava ad ardere rabbiosamente. Parti del tetto crollavano nel crogiolo delle fiamme mentre le mura si sgretolavano a poco a poco. Roberto decise di tenere l’auto. Gli sarebbe stata utile, visto che non poteva certo tornare a casa come niente fosse. La sua vita era appesa a un filo. I Cattaneo non avrebbero lasciato correre l’uccisione del proprio figlio, unico ed erede dell’intero impero di famiglia, anche se avvenuto per motivi più che legittimi. Era una questione di onore, probabilmente, anche se non capiva bene come venissero attribuiti i valori relativi all’onore di famiglia. Un ventenne stupratore e usurpatore dei diritti altrui non era forse portatore di disonore alla famiglia? Roberto non si lasciò travolgere dai pensieri che torturavano la sua mente, e si concentrò su un piano di fuga. La Bugatti gli sarebbe venuta utile. Nessuno poteva starle dietro. Aveva bisogno di lei. Per salvarsi... Roberto doveva correre, e tra le mani aveva un’auto nata per farlo. Pubblicato a Dicembre 2013 Prima Edizione Opera di Glauco Silvestri http://www.glaucosilvestri.it http://blog.glaucosilvestri.it