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EMOZIONI DI CARTA 6 Rossella Luongo LATTE ACIDO © 2012, Edizioni della Sera di Giovinazzo Stefano Prima edizione: ottobre 2012 ISBN 978-88-97139-26-3 00148, Roma Tel. 320.4126622 www.edizionidellasera.com Proprietà letteraria ed artistica riservata Tutti i diritti riservati © chris3d - Fotolia.com Progetto grafico: Elisa Bonfadini Latte acido Alle mie figlie Alessandra e Federica “Perché vedi, qui dentro non c’ è niente che non abbia vissuto di persona, ma il racconto, ripetuto tante olte, unito al ostro ascolto appassionato, ha lentamente trasformato tutto, tanto che oggi non so più il confine tra falso e verità nella mia storia." Paolo Rumiz Una storia che scuote la coscienza. Attraverso gli occhi di Roberto scorrono le vicende di un gruppo di liceali, sullo sfondo della Campania degli anni novanta: i drammi futili, le piccole vittorie, le ipocrisie, i compromessi, i “sogni bucati”, quando ci si è resi conto di essere diventati ormai grandi. Dopo il conseguimento molto sofferto della laurea, Roberto si trasferisce a Bologna per lavoro e ritrova Francesca, amica d’infanzia, che lo aiuterà a risollevarsi da un passato torbido e doloroso con lo scambio di una dolce “promessa”. Una cronaca di eventi si incastra fino a trasformarsi nella denuncia sociale del giovane: la solitudine e l’abbandono di un’infanzia negata, un’adolescenza traumatica; la relazione incompiuta con la madre, e quella contorta con le suore “sconsacrate” del collegio, infine il trauma vero, la relazione devastante con una nonna psicopatica che l’ha costretto a “giochi” inconfessabili. Dopo il distacco dalle radici, la morte del padre e Roberto è solo di fronte alle difficoltà e attraversa una crisi profonda che lo spinge a verificare la sua identità sessuale. Si sente smodatamente attratto da Andrea, il suo migliore amico, e con lui vivrà una storia disordinata e spiacevole. Ma solo specchiandosi in se stesso e accettando di guardarsi nel profondo, riuscirà a raggiungere un obiettivo nuovo, ricollocando e reinventando la sua “storia vera”. 9 1. L’amico della porta accanto «Mi avevi chiesto tu di farlo. Eccomi a te, amica mia». Abitiamo nello stesso palazzo, Francesca e io, per lei sono l’amico della porta accanto. Entrambi proveniamo dalla stessa città "del Sud" e siamo stati compagni di scuola, dalle elementari fino all'ultimo anno di liceo. Pur avendo terminato a fatica gli studi in giurisprudenza, io non farò mai l'avvocato. Francesca, invece, non si è mai iscritta all’università e, dopo un anno di lavori saltuari, ha vinto il concorso all’ di Bologna. Da qualche mese mi ha trovato un lavoro qui e mi ha invitato a trasferirmi vicino a lei. Anche se ad aprile compio ventisei anni, sono un professionista mancato e non ho un lavoro decente. Ho la faccia da ragazzino e l'aria alla Clark Kent ma non ho né i muscoli né i poteri di Superman e non ho mai salvato nessuno in vita mia. Tantomeno me stesso. Vivo da solo e non so ancora cosa farò da grande. Lavoro in un locale a due isolati da qui e saluto il netturbino al 11 Rossella Luongo mattino o il portiere di sera, dipende dai turni di lavoro. Sono occupato part-time e ogni tanto fumo una sigaretta con Cesare, il cuoco. Lui è stufo del suo lavoro, lo vedo peggio di me, borbotta sempre, si lamenta, bestemmia, a volte si abbrutisce come un orso e per giorni non rivolge la parola a nessuno. Secondo me tra qualche mese si spara in bocca o si lancia giù dalla finestra. Se accadrà, gli porterò una rosa, è sicuro. Non posso fare nient’altro per lui, è cieco e sordo nei confronti della gente. Io, invece, guardo tutto e ascolto tutti, anche se il risultato non cambia. La desolazione resta, lo smarrimento pure. Tuttavia, almeno per me, una svolta c'è stata: ho iniziato lavorando in cucina ma, già da un paio di mesi, dopo che il proprietario mi ha sentito suonare il pianoforte, sono diventato l’attrazione del sabato sera e adesso faccio anche il pianobar. "Roby at the piano: the jewel in the night!" è lo slogan sulle locandine attaccate alla porta del locale per gli stranieri, accanto al menù fisso italian style; all'interno, invece, c'è una scritta color argento sul pianoforte per i clienti abituali: "Roberto al piano: il gioiello della notte!". Il mio repertorio resta scorrevole e asciutto, anche se un po' monotono: una scaletta di evergreen, alternata a qualche tentativo mal riuscito di jazz. Ma sono fiero di aver ripreso a suonare in pubblico e i complimenti della 12 Latte acido gente, che viene lì apposta per ascoltarmi, sono impagabili. Purtroppo sono sempre stato un coniglio. Me lo diceva pure mia madre da bambino. Ero il suo dolce coniglietto profumato e mi voleva sempre cortese, grazioso. Dovevo essere tutto solo per lei. Mia nonna poi ha fatto il resto, ci ha pensato lei a profumarmi bene, bene e a fondo. Con le sue mani sporche mi ha messo il talco dentro l’anima, me lo ha infilato fin dentro le mutande. Francesca adora il suo lavoro. La sua mansione di impiegata è niente male: due rientri a settimana, sabato e domenica a casa. Le dispiace non aver potuto portare il pianoforte con sé, anche lei suonava, le avrebbe di sicuro fatto compagnia, ma l’appartamento è troppo piccolo. uando torna dal lavoro le mancano la musica e l’amore. ualche anno fa ha conosciuto un militare di Benevento. Si chiama Fausto. Lui aspetta lei, lei aspetta il trasferimento. Non ci vorrà molto. Nel frattempo Francesca si esercita ai fornelli e nei lavori domestici, la casa è impegnativa e solo ora se ne sta rendendo conto. Da ragazzina prendeva in giro la Cenerentola delle fiabe. Oggi, mi svela, vorrebbe sentirsi una principessa. Non una casalinga a metà, che al mattino si inganna con le previsioni dello zodiaco e nel pomeriggio ascolta i neomelodici napoletani per tenersi compagnia. Una sua vicina 13 Rossella Luongo di casa, l'amica più cara che ha trovato a Bologna, la invita ogni giovedì a frequentare un corso di pasticceria. Si chiama Rosa e, anche se si avvicina ai quaranta, mostra un luminoso aspetto giovane e affascinante. uesta donna, mi dice Francesca, riesce a fare tutto in maniera eccellente. Per lei i dolci non sono passatempi, sa lavorare bene a maglia, sa ricamare a punto croce e riesce a creare proprio di tutto. Francesca ha sempre pensato che i lavori di cucito avessero degli schemi spiegati nei libri ma, da quando conosce Rosa, ha imparato che le idee non hanno tecnica. Cartonaggio, cross-stitch, découpage, stencil. Significanti senza significato. Nomi sconosciuti per Francesca. Fino a ora. Rosa le ha spiegato che i trucchi ci sono per ogni arte o mestiere, anche per togliere le macchie servono suggerimenti che, a volte, si rivelano molto utili. Le ha insegnato il linguaggio dei fiori e il significato dei colori, ha una risposta a tutte le sue curiosità e le frasi che pronuncia hanno il sapore unico dell’amicizia. Di tutto Francesca si è inventata, appena l’ha conosciuta, per attirare la sua attenzione. Mi racconta di averle dedicato anche foto di paesaggi, che spesso lasciava sulla lavagnetta magnetica appesa in cucina, mentre Rosa preparava il ragù, ma non le sono mai servite per esprimerle ciò che sentiva. Eppure sarebbe bastato così poco per 14 Latte acido avvicinarsi. A volte pensiamo di dover fare chissà cosa per avere l'attenzione degli altri, quando invece la soluzione è a portata di mano. Ci vuole poco quando si trova la giusta chiave d'accesso. Francesca si rammarica di non essere stata abbastanza attenta ai consigli di Rosa e, quando resta da sola a vagheggiare sul matrimonio, il solo pensiero di smacchiare e stirare le camicie di Fausto la preoccupa. uanta cura ipotizza per quest’uomo. Un professionista in carriera sempre impeccabile ma scontato, che ha come unico problema esistenziale l’essere perdutamente innamorato di lei. Anche l'unto sulle piastrelle in cucina e l’ordinaria pulizia di casa la stressano. Francesca non fa altro che ripetermi: «Non so come farò quando tornerò giù, Rosa non verrà certo con me!» Superata l’instabilità del loro periodo iniziale, Francesca e Fausto continuano bene anche a distanza, penso che siano felici. Li immagino tranquilli nel loro complementare equilibrio. Francesca non vede l’ora di andare a vivere con lui, per raggiungere la sua condizione sociale di donna sistemata. Un pensiero costante però la sfiora di nostalgia: sua madre. Ne abbiamo parlato parecchie volte, è stata questa l’assonanza che ha legato Francesca e me sin dalle scuole elementari, dov’è stata mia compagna 15 Rossella Luongo di banco quando eravamo in collegio dalle suore di Santa Rita. Anche mia madre Renata mi resta dentro con tristezza e angoscia, come un sogno non realizzato, un aquilone mai spiegato in volo. Da bambino ho sempre avuto timore di farlo volare. Era difficile trovare l’attimo giusto tra l’alzarsi del vento e il lancio. Mi restava sempre tra le mani insieme al mio insoddisfatto bisogno di vederlo aprire, distendersi in tutti i suoi colori. Non sono mai riuscito a distinguerli del tutto. Ricordo quando, una volta, in un dettato scrissi aquilone con la coppia cq. La parola "acquilone" è stata la vergogna della mia infanzia, come i pensieri distorti che facevo o i comportamenti strani che avevo nei confronti dei miei compagni di classe, in quel collegio di suore sconsacrate. La suora mi sottolineò l’errore tre volte con la matita blu e mi strappò il foglio in due. Tornato a casa recitai la mia quotidiana cronaca scolastica e, puntualmente, mia madre mi rimproverò. «È un errore così stupido!» sentenziò lapidaria. Con mia madre e con suor Adele non si poteva sbagliare. Mai. Era sempre una figuraccia. Mia madre, come me, la temeva. Alla prima comunione la suora mi regalò un diario con le macchinine di legno e gli orsetti di pezza disegnati sulla copertina. Suor Adele e mia madre erano amiche a loro modo. Un’amicizia particolare e 16 Latte acido anomala: nessuna mamma aveva la confidenza e la complicità che mia madre creava con le suore e con tutte le donne in genere, con lei addirittura le suore si abbandonavano a commenti e toni poco consoni alla tonaca, che toccavo spesso per cercare un contatto con quelle figure così fredde ai miei occhi. Distaccate. Sporche. Le suore mi hanno sempre dato l’impressione del sudicio, le loro vesti mai lavate strette dal cordone bianco, i veli a nascondere capelli corti e unti, le magliette a celare corpi di donne castrate. uesto pensavo da piccolo, o qualcosa del genere. In fondo ero solo un piccolo alunno, uguale a tutti gli altri. Con le divise grigie dell’istituto, nei banchi di scuola di fronte alla lavagna. L’odore di gesso, la cartina dell’Italia che ci sembrava enorme, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta. Lo stivale di un gigante lasciato in mare senza un perché. uando la suora ci interrogava sui nomi dei mari, in palio c’erano le "buonenote", delle tessere colorate dai diversi punteggi che alimentavano le naturali competizioni tra noi bambini, fino a metterci gli uni contro gli altri, nel giorno della premiazione a fine anno. Anche i premi che compravano erano stupidi. «Premi simbolici!» Dicevano perché l’importante era partecipare. Ho sempre pensato che la motivazione fosse un’altra: taccagneria. Alla fine non arraffavano le rette mensili che i nostri genitori versavano? E io, 17 Rossella Luongo qualunque fosse il mio posto in “classifica”, mi sentivo sempre in colpa, anche quando ero attento e diligente. E lo ero quasi sempre. Nonostante tutto mia madre, come la madre di Francesca, aspetta ansiosa il mio ritorno a casa. «Devi tornare a trovarci almeno una volta al mese!» mi ha detto quando ho deciso di partire per venire a lavorare qui a Bologna. La mia storia sembra inchiodata da qualche parte a quella di Francesca, con qualche dolore in più e qualche gioia in meno, infilata tra i tasti bianchi e neri del pianoforte. Da bambini provavamo, a turno, il Cavaliere selaggio di Schumann e il Preludio in do minore di Bach, gareggiando a chi faceva le migliori esecuzioni. Avevamo un dolce patto: chi dei due suonava con meno "buchi" doveva offrire all’altro un gelato. Di solito, dopo pranzo, scendevamo al bar Jonny che stava proprio sotto casa mia. Tra i giochi elettronici che cambiavano schermata e i flipper rumorosi, Francesca e io ci godevamo il nostro cono pistacchio e fragola. Vicini e sorridenti. Sentivo la fragranza di muschio sulla sua pelle delicata. Mi è rimasta dentro Francesca. Con il suo sorriso, con il suo profumo. Per me è stata un’amica importante, una consigliera saggia. La sorella che ognuno desidererebbe. Sarebbe la donna della mia vita, se fossi un uomo normale. Francesca mi fa morire dal ridere quando prende in giro sua madre, un po’ per rabbia, un po’ per 18 Latte acido gioco. La aspetta nella loro casa a Colle Ventoso, dice, per prepararle la pasta al forno, la ciambella e altre sue specialità come la pastiera di grano e la parmigiana di melanzane. Ma ormai Francesca ha imparato a cucinare secondo il proprio gusto e la propria esperienza, raggiungendo uno stile del tutto personale. La ciambella della sua infanzia lascia lo stampo al plum-cake con lo yogurt e la base per il ripieno di grano è davvero friabile, non un disco biscottato come quella che mangiava da piccola, sembrava creta, altro che frolla! Per non parlare poi della saporita, ricca parmigiana di melanzane. I gusti cambiano con l’età e le generazioni, senza per questo disdegnare le ricette "sane e leggere" come le definisce sua madre Magda, perennemente a dieta per il colesterolo. Una signora originale, un po' disorganizzata, a volte aggressiva ma sostanzialmente innocua. Sua nonna materna, invece, Vittoria, è una vecchietta spiritosa e permalosa, saputella e ballerina. Alla nonna di Francesca è sempre piaciuto calcare le balere con suo marito, nonno Fulvio, stretti e volanti nell’aria in tre quarti dei valzer. Mia madre mi raccontava che anche lei, da piccola, era stata rinchiusa da mia nonna in un collegio di suore, dopo che suo padre era stato dichiarato disperso durante il secondo conflitto mondiale, in Russia. Era trascorso appena un 19 Rossella Luongo anno dal giorno in cui i genitori si erano uniti in matrimonio, allorquando era giunta la tragica notizia. I compagni di mio nonno, scampati ai bombardamenti e agli assalti, stavano ritornando a uno a uno dalle mogli, dai figli, dalle famiglie. Ma mio nonno no, lui non ritornò più. Sepolto tra migliaia di corpi di soldati valorosi ma sventurati come lui, eroi a cui la sorte aveva tranciato la vita nel cuore della giovinezza. ualcuno disse che mio nonno Biagio, militante nei Bersaglieri, era stato "sparato" alle spalle, perché era tornato indietro a salvare il comandante della truppa che aveva invocato il suo nome, più volte. Raccontarono che entrambi erano stati perforati da una pallottola avversaria ed erano rimasti lì, immobili nel gelido campo dei caduti tra le sterpaglie morte sulle sponde del Don, abbracciati l’uno sull’altro. Straziati di sangue e, pochi mesi più tardi, incoronati di onore. Furono queste le storie raccontate a mia madre da chi voleva bene a mio nonno, soprattutto per consolare una giovane vedova sull’orlo della follia e una bimba indifesa, la piccola Renata, rimasta orfana dopo pochi mesi di vita. Una neonata fasciata di nero e sfortuna, abbandonata tra le grinfie di una donna malata la quale, anziché risposarsi e sfogarsi secondo il naturale istinto di sopravvivenza umano, ha pensato di rovinare la vita alle donne accanto a lei. Mia madre, le mie cugine. Mi ci metto anch’io 20 Latte acido in questa schiera. Solo che io non ero donna. Fui l’ultimo maschietto battezzato nel Santuario della Madonna Nera, la Mamma Schiavona di Montevergine, una mattina di primavera tra le braccia di Ada, la mia affezionata madrina. Io, ultimo della stirpe dannata di Spuntéri, resto ancora terrorizzato e violato in quel paese caldo e sporco di spazzatura, fetido come l’inferno, un posto diviso dal resto del mondo dove il ponte con la civiltà sembra essersi spezzato da un secolo. Il paese delle mie violenze, rimaste infossate con gli anni miei più belli, tra le case aggrappate alle falde del vulcano spento. Lì abita mia nonna materna, la vedova. Si chiama Tonia. È una vecchia avida, la pelle bianca, ruvida e secca come foglie autunnali. Il sorriso a denti finti sovrasta sul volto scarnificato. È alla fine dei suoi giorni, forse. Ha vissuto una vita dannata. Nella solitudine e nella malvagità. uando stavamo da lei durante le vacanze estive mi rimpinzava di cibo come aveva fatto con sua figlia. Mia madre. Povera donna, in fondo. Cresciuta tra le mani perfide di mia nonna, alla quale piaceva l’orzo, la fresella bagnata con i pomodori, la cotognata e la liquirizia in tronchetti. uando restavo a pranzo da lei mi preparava la carne. Di solito la bistecca. Al sangue. Una sensazione di vuoto bruciava nell’aria di fuoco mentre lei si muoveva insinuante con il suo 21 Rossella Luongo grembiule largo e datato. Come una strega in una torre di corvi. Dopo mangiato restavo fermo al tavolo, la vedevo sparecchiare e lavare quei pochi piatti incrostati di carne ancora viva. uando la cucina era in ordine preparava nella moka, quella per una sola persona, un caffè ristretto. Amaro. Dopo averlo sorseggiato mi guardava. Bramosa. Si aggirava per la casa muovendo il corpo rinsecchito e curvo. Sempre profumata di talco, lo stesso che mi infilava sotto la canottiera e ai bordi delle mutandine, quando ero sudato, per asciugarmi e non farmi raffreddare. Me lo strofinava sulle parti intime, il "gioco del ragnetto", così lo chiamava lei. Me lo passava sul piccolo sesso, tirandomi giù la pelle del glande, su e giù con forza, diverse volte. E mi spingeva il talco fin dentro i glutei. Ogni volta che poteva. Negli anni a seguire sono cresciuto, la peluria sulle gambe e sul pube si infoltiva, sul volto iniziava a divenire barba. Sbilanciato e dissestato tra i miei stati emotivi, mi sono ritrovato adolescente allo specchio, sciupato e con qualche brufolo in viso. Un mezzo ragazzo che non era mai stato bambino. Sudavo molto, quando stavo da mia nonna, dopo mangiato nell’ora di calore, a letto per il riposino quotidiano. I "giochi" tra me e lei non erano belli. A perdere ero sempre io. Poche parole sussurrate e gelide, alternate a pause profonde di silenzio. Marmoree. Pochi sguardi bramosi, omicidi, 22 Latte acido che si alternavano a strofinamenti, palpamenti. Sotto i miei vestiti. Nelle mie mutande. Dopo quei momenti interminabili restavo a letto accanto a lei che rantolava nel sonno. Stavo immobile, non respiravo per paura di svegliarla. Sentivo il cuore rimbombare ingabbiato nel torace e avevo paura di fare rumore. Restavo in apnea per alcuni secondi e non mi spostavo neanche di un millimetro. Le mani e la fronte sudate. Fingevo di dormire, perché non volevo che ricominciasse. Mi faceva schifo tutta, dentro e fuori, mia nonna. Mi ripugnavano il suo odore, le sue mani. La sua faccia. E mi facevo schifo io per averla, ancora una volta, assecondata. In silenzio. Mentre lei russava, una corda mi stringeva la gola e avevo voglia di urlare, di sfondare tutti i mobili di quella camera, intorno a me. Avevo voglia di morire. Dormiva per un tempo breve. Poco dopo si alzava. La sentivo trascinare le pantofole per casa, mentre entrava e usciva da una stanza all’altra. Poi mi alzavo. Con i sogni rotti e un buco acido in gola. Andavo in bagno a lavarmi, restavo lì dentro chiuso per un’ora. Mi sentivo sporco, infetto, contaminato. Dalla cucina la sentivo chiamarmi in continuazione. Imprecava contro i vivi e i morti, parlava da sola come una pazza. Io rispondevo sempre che non avevo ancora finito. Poi mi avvicinavo in punta di piedi in cucina, prendevo un cucchiaino dal 23 Rossella Luongo cassetto e lo riempivo di zucchero. Lo mettevo in bocca e lo tenevo appoggiato tra la lingua e il palato, lasciando che la dolcezza si sciogliesse. Rituffavo il cucchiaino nella zuccheriera due, tre volte almeno. Finché non mi veniva sete e bevevo, con le mani unite a coppa, l’acqua fresca che sgorgava dal rubinetto. Avrei voluto stare lontano chilometri da lì, da quel posto lugubre, da quella prigione. Dopo mi guardavo intorno. Mi sembrava che tutto vorticasse: i mobili, la dispensa, i pensili, il tavolo, le sedie, le piante rampicanti fuori dalla finestra. Mi girava la testa e non vedevo bene. Avevo le gambe incapaci e bloccate come fossero state ingessate per un mese. Passavo lo strofinaccio bagnato sul piano di lavoro per ripulirmi di uno sporco che non si toglieva, sempre più duro di dolore, e rabbia. Non ero riuscito ancora una volta a varcare la soglia della sua stanza, per sfuggirle, non le avevo saputo dire ancora una volta che non volevo sottostare a quei "giochetti". Di che cosa avevo paura non so: della cucchiaia di legno? Dei lividi nell’interno coscia o sui glutei? Di quali altre minacce? Intanto lei si prendeva gli anni della mia infanzia. Non mi faceva mai pasticciare in cucina, né mettere disordine in quella casa che sembrava un santuario. Potevo solo disegnare sui quadernoni portati da casa. Con le mie matite. Non mi restava che guardarmi attorno: stanze 24 Latte acido vuote, fredde, immobili. L’unica cosa bella era la foto di mio nonno in uniforme militare, con le piume sul cappello e un fisico statuario. Ho sempre desiderato essere come lui. Diventare bello, maschio, virile. Morire anche come lui. Da eroe. Ricordato per l’onore e la gloria. Ho sempre voluto che mio nonno non fosse mai morto. Forse avrebbe salvato mia madre, l’avrebbe aiutata a crescere. L’avrebbe amata. Vorrei che fosse stato vivo per giocare con me all’aria aperta, nel giardino intorno a casa loro, arso dal sole che scottava la pelle, quando mi affacciavo sulla ringhiera del balcone dopo il riposo pomeridiano. Soffrire il caldo insieme, accanto a quella povera pianta senz’acqua, la barba di San Giuseppe, che mi faceva pena perché sembrava la testa decollata del santo. uando mia madre veniva a prendermi, con il suo modo di bussare svogliato, le aprivo la porta con il cuore in gola. Sentivo di averla tradita. Mi sentivo più grande, un ometto dai segreti inconfessabili che, finalmente, non le avrei svelato. Appena mi guardava, abbassavo gli occhi. Non reggevo il suo sguardo. Lei mi riteneva ingenuo e timido, non il bambino malizioso che ero. Subivo una complicità imposta senza possibilità di opposizione e, al posto dei segreti, avevo voragini di panico per l'angoscia di essere scoperto. Andando via da quella casa tiravo forte il cancello come per chiudere tutto un mondo 25 Rossella Luongo dietro di me. E avevo le mani fredde, anche se era estate. Ritornato a casa con il mal stomaco, dopo essere stato sballottato nella 128 rossa per il tragitto dissestato, ascoltavo musica nel vecchio giradischi. Liù era la colonna sonora di quei pomeriggi in cui dal caldo non si respirava. La puntina sui vinili segnava un solco nella mia esistenza, richiudeva i bottoni della mia bocca e la cerniera della mia infanzia. Le cicale ripetevano ossessionanti il loro stridio nell’aria profumata di magnolie, sul giardino dal grande cancello verde, mentre io conservavo l’odore di talco e il sapore del male. Un giorno, poi, era giugno e l'aria fuori era pregna della sensuale fragranza dei fiori. Avevo da poco compiuto dodici anni e io e mia nonna eravamo nella camera delle torture. Durante i suoi disgustosi "giochi" sentii un dolore fortissimo. Una consapevolezza ripugnante mi attraversò in un attimo, lacerandomi come la lama di un coltello. Ebbi la certezza che quella donna mi aveva rovinato per sempre. Da quel momento, ho maledetto mia nonna, mia madre e tutta la mia vita. uest’incubo è durato per me un tempo breve ma infinito, e per lei fino a quando ho eiaculato per la prima volta tra le sue dita sporche e appiccicose. Bianche di male. uel giorno, non so il perché, ha smesso di farlo lei e ho cominciato io. Da solo però. E senza talco. Ogni volta pensavo a lei. Pensavo a come me lo aveva fatto lei, a come e se me lo avrebbe fatto ancora. 26 Latte acido Mia madre non mi ha mai protetto. Non ne era capace o non ci è riuscita mai. I vestiti della mia mamma avevano un profumo inconfondibile. Un'essenza malinconica, debole, antica. I seni morbidi e caldi, sfatti nel loro bianco d’avorio erano il luogo dove affondavo le mie manine di bimbo solo, la testa e i capelli, dopo aver bevuto il mio latte di sera. uand’ero piccolo, qualche attimo prima che il sonno mi avvolgesse nel lettino, ricordo che la luce della luna trapelava nella mia cameretta e danzava sul pavimento portando con sé le ombre della notte dalle persiane semichiuse. Spesso la sognavo. Immaginavo di chiamarla nella speranza che, almeno una volta, mia madre venisse a consolarmi. A volte dormiva, a volte non sentiva o non ce la faceva ad alzarsi. Io, dopo aver studiato le mappe della luna sulle mattonelle della mia stanza, i giochi d’ombre, abbracciavo il cuscino e mi addormentavo. Oggi la sto ancora aspettando, mia madre. Lei sostiene di avermi conservato nel suo grembo cotonato per preservarmi dalla cattiveria del mondo. Ma la cattiveria del mondo, a volte, è dentro casa nostra e il mostro è in ciascuno di noi, pronto ad azzannare. A uccidere. Per mia nonna provo un sentimento troppo indefinito per distinguerlo dalla rabbia o dall’odio. Mia madre forse la ama, forse la disprezza. Non riuscirò mai a capirlo. La vecchia, ora che è moribonda, chiede ancora di me a mia madre. Senza rispetto. Senza ritegno. 27 Rossella Luongo Anche la nonna di Francesca, impaziente per il trasferimento di sua nipote, chiede sempre di lei a sua madre, che scoppia d’ansia quando va a trovarla, per paura di essere giudicata ed essere messa sull’attenti – magari a passo di polka! – da donna Vittoria. Mia madre aspetta con apprensione che io trovi un "lavoro serio" e soffre perché non potrà mai parlarne a mia nonna, non l’ascolterebbe. Per questo mi accusa di trascurarla e di una serie di cose che mi rinfaccia da anni. Non ho mai capito perché mi ha sempre scaricato addosso una catena di guai. Oggi, realizzo che me li lascia in eredità insieme ai soldi di sua madre. (Continua...) 28