il primo capitolo qui

Transcript

il primo capitolo qui
EMOZIONI DI CARTA
6
Rossella Luongo
LATTE ACIDO
© 2012, Edizioni della Sera di Giovinazzo Stefano
Prima edizione: ottobre 2012
ISBN 978-88-97139-26-3
00148, Roma
Tel. 320.4126622
www.edizionidellasera.com
Proprietà letteraria ed artistica riservata
Tutti i diritti riservati
© chris3d - Fotolia.com
Progetto grafico: Elisa Bonfadini
Latte acido
Alle mie figlie
Alessandra e Federica
“Perché vedi, qui dentro non c’ è niente
che non abbia vissuto di persona,
ma il racconto, ripetuto tante olte,
unito al ostro ascolto appassionato,
ha lentamente trasformato tutto,
tanto che oggi non so più il confine
tra falso e verità nella mia storia."
Paolo Rumiz
Una storia che scuote la coscienza.
Attraverso gli occhi di Roberto scorrono le
vicende di un gruppo di liceali, sullo sfondo della
Campania degli anni novanta: i drammi futili,
le piccole vittorie, le ipocrisie, i compromessi, i
“sogni bucati”, quando ci si è resi conto di essere
diventati ormai grandi. Dopo il conseguimento
molto sofferto della laurea, Roberto si trasferisce
a Bologna per lavoro e ritrova Francesca, amica
d’infanzia, che lo aiuterà a risollevarsi da un
passato torbido e doloroso con lo scambio di
una dolce “promessa”. Una cronaca di eventi
si incastra fino a trasformarsi nella denuncia
sociale del giovane: la solitudine e l’abbandono
di un’infanzia negata, un’adolescenza traumatica;
la relazione incompiuta con la madre, e quella
contorta con le suore “sconsacrate” del collegio,
infine il trauma vero, la relazione devastante
con una nonna psicopatica che l’ha costretto a
“giochi” inconfessabili. Dopo il distacco dalle
radici, la morte del padre e Roberto è solo di
fronte alle difficoltà e attraversa una crisi profonda
che lo spinge a verificare la sua identità sessuale.
Si sente smodatamente attratto da Andrea, il
suo migliore amico, e con lui vivrà una storia
disordinata e spiacevole. Ma solo specchiandosi in
se stesso e accettando di guardarsi nel profondo,
riuscirà a raggiungere un obiettivo nuovo,
ricollocando e reinventando la sua “storia vera”.
9
1.
L’amico della porta accanto
«Mi avevi chiesto tu di farlo.
Eccomi a te, amica mia».
Abitiamo nello stesso palazzo, Francesca e io,
per lei sono l’amico della porta accanto. Entrambi
proveniamo dalla stessa città "del Sud" e siamo
stati compagni di scuola, dalle elementari fino
all'ultimo anno di liceo.
Pur avendo terminato a fatica gli studi in
giurisprudenza, io non farò mai l'avvocato.
Francesca, invece, non si è mai iscritta
all’università e, dopo un anno di lavori saltuari, ha
vinto il concorso all’ di Bologna. Da qualche
mese mi ha trovato un lavoro qui e mi ha invitato
a trasferirmi vicino a lei.
Anche se ad aprile compio ventisei anni, sono
un professionista mancato e non ho un lavoro
decente. Ho la faccia da ragazzino e l'aria alla
Clark Kent ma non ho né i muscoli né i poteri
di Superman e non ho mai salvato nessuno in
vita mia. Tantomeno me stesso. Vivo da solo e
non so ancora cosa farò da grande. Lavoro in un
locale a due isolati da qui e saluto il netturbino al
11
Rossella Luongo
mattino o il portiere di sera, dipende dai turni
di lavoro. Sono occupato part-time e ogni tanto
fumo una sigaretta con Cesare, il cuoco. Lui
è stufo del suo lavoro, lo vedo peggio di me,
borbotta sempre, si lamenta, bestemmia, a volte si
abbrutisce come un orso e per giorni non rivolge
la parola a nessuno. Secondo me tra qualche mese
si spara in bocca o si lancia giù dalla finestra.
Se accadrà, gli porterò una rosa, è sicuro. Non
posso fare nient’altro per lui, è cieco e sordo nei
confronti della gente. Io, invece, guardo tutto e
ascolto tutti, anche se il risultato non cambia. La
desolazione resta, lo smarrimento pure. Tuttavia,
almeno per me, una svolta c'è stata: ho iniziato
lavorando in cucina ma, già da un paio di mesi,
dopo che il proprietario mi ha sentito suonare il
pianoforte, sono diventato l’attrazione del sabato
sera e adesso faccio anche il pianobar. "Roby at
the piano: the jewel in the night!" è lo slogan
sulle locandine attaccate alla porta del locale per
gli stranieri, accanto al menù fisso italian style;
all'interno, invece, c'è una scritta color argento sul
pianoforte per i clienti abituali: "Roberto al piano:
il gioiello della notte!".
Il mio repertorio resta scorrevole e asciutto,
anche se un po' monotono: una scaletta di
evergreen, alternata a qualche tentativo mal
riuscito di jazz. Ma sono fiero di aver ripreso
a suonare in pubblico e i complimenti della
12
Latte acido
gente, che viene lì apposta per ascoltarmi, sono
impagabili.
Purtroppo sono sempre stato un coniglio. Me
lo diceva pure mia madre da bambino. Ero il suo
dolce coniglietto profumato e mi voleva sempre
cortese, grazioso. Dovevo essere tutto solo per lei.
Mia nonna poi ha fatto il resto, ci ha pensato lei a
profumarmi bene, bene e a fondo. Con le sue mani
sporche mi ha messo il talco dentro l’anima, me lo
ha infilato fin dentro le mutande.
Francesca adora il suo lavoro. La sua mansione
di impiegata è niente male: due rientri a settimana,
sabato e domenica a casa. Le dispiace non aver
potuto portare il pianoforte con sé, anche lei
suonava, le avrebbe di sicuro fatto compagnia, ma
l’appartamento è troppo piccolo. uando torna
dal lavoro le mancano la musica e l’amore. ualche
anno fa ha conosciuto un militare di Benevento.
Si chiama Fausto. Lui aspetta lei, lei aspetta il
trasferimento. Non ci vorrà molto. Nel frattempo
Francesca si esercita ai fornelli e nei lavori
domestici, la casa è impegnativa e solo ora se ne sta
rendendo conto. Da ragazzina prendeva in giro la
Cenerentola delle fiabe. Oggi, mi svela, vorrebbe
sentirsi una principessa. Non una casalinga a metà,
che al mattino si inganna con le previsioni dello
zodiaco e nel pomeriggio ascolta i neomelodici
napoletani per tenersi compagnia. Una sua vicina
13
Rossella Luongo
di casa, l'amica più cara che ha trovato a Bologna,
la invita ogni giovedì a frequentare un corso di
pasticceria. Si chiama Rosa e, anche se si avvicina
ai quaranta, mostra un luminoso aspetto giovane
e affascinante. uesta donna, mi dice Francesca,
riesce a fare tutto in maniera eccellente. Per lei
i dolci non sono passatempi, sa lavorare bene a
maglia, sa ricamare a punto croce e riesce a creare
proprio di tutto. Francesca ha sempre pensato che
i lavori di cucito avessero degli schemi spiegati nei
libri ma, da quando conosce Rosa, ha imparato
che le idee non hanno tecnica. Cartonaggio,
cross-stitch, découpage, stencil. Significanti senza
significato. Nomi sconosciuti per Francesca. Fino
a ora.
Rosa le ha spiegato che i trucchi ci sono per
ogni arte o mestiere, anche per togliere le macchie
servono suggerimenti che, a volte, si rivelano
molto utili. Le ha insegnato il linguaggio dei fiori
e il significato dei colori, ha una risposta a tutte
le sue curiosità e le frasi che pronuncia hanno il
sapore unico dell’amicizia.
Di tutto Francesca si è inventata, appena l’ha
conosciuta, per attirare la sua attenzione. Mi
racconta di averle dedicato anche foto di paesaggi,
che spesso lasciava sulla lavagnetta magnetica
appesa in cucina, mentre Rosa preparava il ragù,
ma non le sono mai servite per esprimerle ciò che
sentiva. Eppure sarebbe bastato così poco per
14
Latte acido
avvicinarsi. A volte pensiamo di dover fare chissà
cosa per avere l'attenzione degli altri, quando
invece la soluzione è a portata di mano. Ci vuole
poco quando si trova la giusta chiave d'accesso.
Francesca si rammarica di non essere stata
abbastanza attenta ai consigli di Rosa e, quando
resta da sola a vagheggiare sul matrimonio, il
solo pensiero di smacchiare e stirare le camicie
di Fausto la preoccupa. uanta cura ipotizza
per quest’uomo. Un professionista in carriera
sempre impeccabile ma scontato, che ha come
unico problema esistenziale l’essere perdutamente
innamorato di lei.
Anche l'unto sulle piastrelle in cucina e
l’ordinaria pulizia di casa la stressano. Francesca
non fa altro che ripetermi: «Non so come farò
quando tornerò giù, Rosa non verrà certo con me!»
Superata l’instabilità del loro periodo iniziale,
Francesca e Fausto continuano bene anche a
distanza, penso che siano felici. Li immagino
tranquilli nel loro complementare equilibrio.
Francesca non vede l’ora di andare a vivere con lui,
per raggiungere la sua condizione sociale di donna
sistemata. Un pensiero costante però la sfiora di
nostalgia: sua madre.
Ne abbiamo parlato parecchie volte, è stata
questa l’assonanza che ha legato Francesca e me sin
dalle scuole elementari, dov’è stata mia compagna
15
Rossella Luongo
di banco quando eravamo in collegio dalle suore
di Santa Rita. Anche mia madre Renata mi resta
dentro con tristezza e angoscia, come un sogno
non realizzato, un aquilone mai spiegato in volo.
Da bambino ho sempre avuto timore di farlo
volare. Era difficile trovare l’attimo giusto tra
l’alzarsi del vento e il lancio. Mi restava sempre
tra le mani insieme al mio insoddisfatto bisogno
di vederlo aprire, distendersi in tutti i suoi colori.
Non sono mai riuscito a distinguerli del tutto.
Ricordo quando, una volta, in un dettato scrissi
aquilone con la coppia cq. La parola "acquilone"
è stata la vergogna della mia infanzia, come i
pensieri distorti che facevo o i comportamenti
strani che avevo nei confronti dei miei compagni
di classe, in quel collegio di suore sconsacrate. La
suora mi sottolineò l’errore tre volte con la matita
blu e mi strappò il foglio in due. Tornato a casa
recitai la mia quotidiana cronaca scolastica e,
puntualmente, mia madre mi rimproverò.
«È un errore così stupido!» sentenziò
lapidaria.
Con mia madre e con suor Adele non si
poteva sbagliare. Mai. Era sempre una figuraccia.
Mia madre, come me, la temeva. Alla prima
comunione la suora mi regalò un diario con le
macchinine di legno e gli orsetti di pezza disegnati
sulla copertina. Suor Adele e mia madre erano
amiche a loro modo. Un’amicizia particolare e
16
Latte acido
anomala: nessuna mamma aveva la confidenza e
la complicità che mia madre creava con le suore e
con tutte le donne in genere, con lei addirittura
le suore si abbandonavano a commenti e toni
poco consoni alla tonaca, che toccavo spesso per
cercare un contatto con quelle figure così fredde
ai miei occhi. Distaccate. Sporche. Le suore mi
hanno sempre dato l’impressione del sudicio, le
loro vesti mai lavate strette dal cordone bianco, i
veli a nascondere capelli corti e unti, le magliette a
celare corpi di donne castrate.
uesto pensavo da piccolo, o qualcosa del
genere. In fondo ero solo un piccolo alunno, uguale
a tutti gli altri. Con le divise grigie dell’istituto,
nei banchi di scuola di fronte alla lavagna. L’odore
di gesso, la cartina dell’Italia che ci sembrava
enorme, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta. Lo stivale
di un gigante lasciato in mare senza un perché.
uando la suora ci interrogava sui nomi dei
mari, in palio c’erano le "buonenote", delle tessere
colorate dai diversi punteggi che alimentavano
le naturali competizioni tra noi bambini, fino a
metterci gli uni contro gli altri, nel giorno della
premiazione a fine anno. Anche i premi che
compravano erano stupidi. «Premi simbolici!»
Dicevano perché l’importante era partecipare.
Ho sempre pensato che la motivazione fosse
un’altra: taccagneria. Alla fine non arraffavano le
rette mensili che i nostri genitori versavano? E io,
17
Rossella Luongo
qualunque fosse il mio posto in “classifica”, mi
sentivo sempre in colpa, anche quando ero attento
e diligente. E lo ero quasi sempre.
Nonostante tutto mia madre, come la madre
di Francesca, aspetta ansiosa il mio ritorno a casa.
«Devi tornare a trovarci almeno una volta al
mese!» mi ha detto quando ho deciso di partire
per venire a lavorare qui a Bologna. La mia storia
sembra inchiodata da qualche parte a quella di
Francesca, con qualche dolore in più e qualche
gioia in meno, infilata tra i tasti bianchi e neri del
pianoforte. Da bambini provavamo, a turno, il
Cavaliere selaggio di Schumann e il Preludio in do
minore di Bach, gareggiando a chi faceva le migliori
esecuzioni. Avevamo un dolce patto: chi dei due
suonava con meno "buchi" doveva offrire all’altro
un gelato. Di solito, dopo pranzo, scendevamo al
bar Jonny che stava proprio sotto casa mia. Tra
i giochi elettronici che cambiavano schermata e
i flipper rumorosi, Francesca e io ci godevamo
il nostro cono pistacchio e fragola. Vicini e
sorridenti. Sentivo la fragranza di muschio sulla
sua pelle delicata. Mi è rimasta dentro Francesca.
Con il suo sorriso, con il suo profumo. Per me è
stata un’amica importante, una consigliera saggia.
La sorella che ognuno desidererebbe. Sarebbe la
donna della mia vita, se fossi un uomo normale.
Francesca mi fa morire dal ridere quando prende
in giro sua madre, un po’ per rabbia, un po’ per
18
Latte acido
gioco. La aspetta nella loro casa a Colle Ventoso,
dice, per prepararle la pasta al forno, la ciambella
e altre sue specialità come la pastiera di grano e la
parmigiana di melanzane. Ma ormai Francesca ha
imparato a cucinare secondo il proprio gusto e la
propria esperienza, raggiungendo uno stile del
tutto personale. La ciambella della sua infanzia
lascia lo stampo al plum-cake con lo yogurt e la
base per il ripieno di grano è davvero friabile, non
un disco biscottato come quella che mangiava
da piccola, sembrava creta, altro che frolla! Per
non parlare poi della saporita, ricca parmigiana
di melanzane. I gusti cambiano con l’età e le
generazioni, senza per questo disdegnare le ricette
"sane e leggere" come le definisce sua madre
Magda, perennemente a dieta per il colesterolo.
Una signora originale, un po' disorganizzata, a
volte aggressiva ma sostanzialmente innocua. Sua
nonna materna, invece, Vittoria, è una vecchietta
spiritosa e permalosa, saputella e ballerina. Alla
nonna di Francesca è sempre piaciuto calcare le
balere con suo marito, nonno Fulvio, stretti e
volanti nell’aria in tre quarti dei valzer.
Mia madre mi raccontava che anche lei, da
piccola, era stata rinchiusa da mia nonna in un
collegio di suore, dopo che suo padre era stato
dichiarato disperso durante il secondo conflitto
mondiale, in Russia. Era trascorso appena un
19
Rossella Luongo
anno dal giorno in cui i genitori si erano uniti
in matrimonio, allorquando era giunta la tragica
notizia. I compagni di mio nonno, scampati ai
bombardamenti e agli assalti, stavano ritornando
a uno a uno dalle mogli, dai figli, dalle famiglie.
Ma mio nonno no, lui non ritornò più. Sepolto tra
migliaia di corpi di soldati valorosi ma sventurati
come lui, eroi a cui la sorte aveva tranciato la
vita nel cuore della giovinezza. ualcuno disse
che mio nonno Biagio, militante nei Bersaglieri,
era stato "sparato" alle spalle, perché era tornato
indietro a salvare il comandante della truppa
che aveva invocato il suo nome, più volte.
Raccontarono che entrambi erano stati perforati
da una pallottola avversaria ed erano rimasti
lì, immobili nel gelido campo dei caduti tra le
sterpaglie morte sulle sponde del Don, abbracciati
l’uno sull’altro. Straziati di sangue e, pochi mesi
più tardi, incoronati di onore. Furono queste le
storie raccontate a mia madre da chi voleva bene a
mio nonno, soprattutto per consolare una giovane
vedova sull’orlo della follia e una bimba indifesa,
la piccola Renata, rimasta orfana dopo pochi mesi
di vita. Una neonata fasciata di nero e sfortuna,
abbandonata tra le grinfie di una donna malata
la quale, anziché risposarsi e sfogarsi secondo
il naturale istinto di sopravvivenza umano, ha
pensato di rovinare la vita alle donne accanto a
lei. Mia madre, le mie cugine. Mi ci metto anch’io
20
Latte acido
in questa schiera. Solo che io non ero donna. Fui
l’ultimo maschietto battezzato nel Santuario
della Madonna Nera, la Mamma Schiavona di
Montevergine, una mattina di primavera tra le
braccia di Ada, la mia affezionata madrina.
Io, ultimo della stirpe dannata di Spuntéri, resto
ancora terrorizzato e violato in quel paese caldo e
sporco di spazzatura, fetido come l’inferno, un
posto diviso dal resto del mondo dove il ponte con
la civiltà sembra essersi spezzato da un secolo. Il
paese delle mie violenze, rimaste infossate con gli
anni miei più belli, tra le case aggrappate alle falde
del vulcano spento.
Lì abita mia nonna materna, la vedova. Si
chiama Tonia. È una vecchia avida, la pelle bianca,
ruvida e secca come foglie autunnali. Il sorriso
a denti finti sovrasta sul volto scarnificato. È
alla fine dei suoi giorni, forse. Ha vissuto una
vita dannata. Nella solitudine e nella malvagità.
uando stavamo da lei durante le vacanze estive
mi rimpinzava di cibo come aveva fatto con
sua figlia. Mia madre. Povera donna, in fondo.
Cresciuta tra le mani perfide di mia nonna,
alla quale piaceva l’orzo, la fresella bagnata
con i pomodori, la cotognata e la liquirizia in
tronchetti. uando restavo a pranzo da lei mi
preparava la carne. Di solito la bistecca. Al sangue.
Una sensazione di vuoto bruciava nell’aria di
fuoco mentre lei si muoveva insinuante con il suo
21
Rossella Luongo
grembiule largo e datato. Come una strega in una
torre di corvi. Dopo mangiato restavo fermo al
tavolo, la vedevo sparecchiare e lavare quei pochi
piatti incrostati di carne ancora viva. uando
la cucina era in ordine preparava nella moka,
quella per una sola persona, un caffè ristretto.
Amaro. Dopo averlo sorseggiato mi guardava.
Bramosa. Si aggirava per la casa muovendo il
corpo rinsecchito e curvo. Sempre profumata di
talco, lo stesso che mi infilava sotto la canottiera
e ai bordi delle mutandine, quando ero sudato,
per asciugarmi e non farmi raffreddare. Me
lo strofinava sulle parti intime, il "gioco del
ragnetto", così lo chiamava lei. Me lo passava sul
piccolo sesso, tirandomi giù la pelle del glande,
su e giù con forza, diverse volte. E mi spingeva il
talco fin dentro i glutei. Ogni volta che poteva.
Negli anni a seguire sono cresciuto, la peluria sulle
gambe e sul pube si infoltiva, sul volto iniziava a
divenire barba. Sbilanciato e dissestato tra i miei
stati emotivi, mi sono ritrovato adolescente allo
specchio, sciupato e con qualche brufolo in viso.
Un mezzo ragazzo che non era mai stato bambino.
Sudavo molto, quando stavo da mia nonna, dopo
mangiato nell’ora di calore, a letto per il riposino
quotidiano. I "giochi" tra me e lei non erano belli.
A perdere ero sempre io. Poche parole sussurrate
e gelide, alternate a pause profonde di silenzio.
Marmoree. Pochi sguardi bramosi, omicidi,
22
Latte acido
che si alternavano a strofinamenti, palpamenti.
Sotto i miei vestiti. Nelle mie mutande.
Dopo quei momenti interminabili restavo a
letto accanto a lei che rantolava nel sonno. Stavo
immobile, non respiravo per paura di svegliarla.
Sentivo il cuore rimbombare ingabbiato nel torace
e avevo paura di fare rumore. Restavo in apnea per
alcuni secondi e non mi spostavo neanche di un
millimetro. Le mani e la fronte sudate. Fingevo
di dormire, perché non volevo che ricominciasse.
Mi faceva schifo tutta, dentro e fuori, mia nonna.
Mi ripugnavano il suo odore, le sue mani. La sua
faccia. E mi facevo schifo io per averla, ancora una
volta, assecondata. In silenzio.
Mentre lei russava, una corda mi stringeva la
gola e avevo voglia di urlare, di sfondare tutti i
mobili di quella camera, intorno a me. Avevo
voglia di morire. Dormiva per un tempo breve.
Poco dopo si alzava. La sentivo trascinare le
pantofole per casa, mentre entrava e usciva da
una stanza all’altra. Poi mi alzavo. Con i sogni
rotti e un buco acido in gola. Andavo in bagno
a lavarmi, restavo lì dentro chiuso per un’ora.
Mi sentivo sporco, infetto, contaminato. Dalla
cucina la sentivo chiamarmi in continuazione.
Imprecava contro i vivi e i morti, parlava da sola
come una pazza. Io rispondevo sempre che non
avevo ancora finito. Poi mi avvicinavo in punta
di piedi in cucina, prendevo un cucchiaino dal
23
Rossella Luongo
cassetto e lo riempivo di zucchero. Lo mettevo
in bocca e lo tenevo appoggiato tra la lingua e
il palato, lasciando che la dolcezza si sciogliesse.
Rituffavo il cucchiaino nella zuccheriera due,
tre volte almeno. Finché non mi veniva sete e
bevevo, con le mani unite a coppa, l’acqua fresca
che sgorgava dal rubinetto. Avrei voluto stare
lontano chilometri da lì, da quel posto lugubre,
da quella prigione. Dopo mi guardavo intorno.
Mi sembrava che tutto vorticasse: i mobili, la
dispensa, i pensili, il tavolo, le sedie, le piante
rampicanti fuori dalla finestra. Mi girava la testa
e non vedevo bene. Avevo le gambe incapaci e
bloccate come fossero state ingessate per un mese.
Passavo lo strofinaccio bagnato sul piano di lavoro
per ripulirmi di uno sporco che non si toglieva,
sempre più duro di dolore, e rabbia. Non ero
riuscito ancora una volta a varcare la soglia della
sua stanza, per sfuggirle, non le avevo saputo dire
ancora una volta che non volevo sottostare a quei
"giochetti". Di che cosa avevo paura non so: della
cucchiaia di legno? Dei lividi nell’interno coscia
o sui glutei? Di quali altre minacce? Intanto lei si
prendeva gli anni della mia infanzia.
Non mi faceva mai pasticciare in cucina, né
mettere disordine in quella casa che sembrava
un santuario. Potevo solo disegnare sui
quadernoni portati da casa. Con le mie matite.
Non mi restava che guardarmi attorno: stanze
24
Latte acido
vuote, fredde, immobili. L’unica cosa bella era
la foto di mio nonno in uniforme militare, con
le piume sul cappello e un fisico statuario. Ho
sempre desiderato essere come lui. Diventare
bello, maschio, virile. Morire anche come lui. Da
eroe. Ricordato per l’onore e la gloria. Ho sempre
voluto che mio nonno non fosse mai morto. Forse
avrebbe salvato mia madre, l’avrebbe aiutata a
crescere. L’avrebbe amata. Vorrei che fosse stato
vivo per giocare con me all’aria aperta, nel giardino
intorno a casa loro, arso dal sole che scottava la
pelle, quando mi affacciavo sulla ringhiera del
balcone dopo il riposo pomeridiano. Soffrire il
caldo insieme, accanto a quella povera pianta
senz’acqua, la barba di San Giuseppe, che mi faceva
pena perché sembrava la testa decollata del santo.
uando mia madre veniva a prendermi, con il
suo modo di bussare svogliato, le aprivo la porta
con il cuore in gola. Sentivo di averla tradita.
Mi sentivo più grande, un ometto dai segreti
inconfessabili che, finalmente, non le avrei svelato.
Appena mi guardava, abbassavo gli occhi. Non
reggevo il suo sguardo. Lei mi riteneva ingenuo e
timido, non il bambino malizioso che ero. Subivo
una complicità imposta senza possibilità di
opposizione e, al posto dei segreti, avevo voragini
di panico per l'angoscia di essere scoperto.
Andando via da quella casa tiravo forte il
cancello come per chiudere tutto un mondo
25
Rossella Luongo
dietro di me. E avevo le mani fredde, anche se era
estate. Ritornato a casa con il mal stomaco, dopo
essere stato sballottato nella 128 rossa per il tragitto
dissestato, ascoltavo musica nel vecchio giradischi.
Liù era la colonna sonora di quei pomeriggi in cui
dal caldo non si respirava. La puntina sui vinili
segnava un solco nella mia esistenza, richiudeva
i bottoni della mia bocca e la cerniera della mia
infanzia. Le cicale ripetevano ossessionanti il
loro stridio nell’aria profumata di magnolie, sul
giardino dal grande cancello verde, mentre io
conservavo l’odore di talco e il sapore del male.
Un giorno, poi, era giugno e l'aria fuori era
pregna della sensuale fragranza dei fiori. Avevo
da poco compiuto dodici anni e io e mia nonna
eravamo nella camera delle torture. Durante i suoi
disgustosi "giochi" sentii un dolore fortissimo. Una
consapevolezza ripugnante mi attraversò in un
attimo, lacerandomi come la lama di un coltello.
Ebbi la certezza che quella donna mi aveva rovinato
per sempre. Da quel momento, ho maledetto mia
nonna, mia madre e tutta la mia vita. uest’incubo
è durato per me un tempo breve ma infinito, e per
lei fino a quando ho eiaculato per la prima volta tra
le sue dita sporche e appiccicose. Bianche di male.
uel giorno, non so il perché, ha smesso di farlo
lei e ho cominciato io. Da solo però. E senza talco.
Ogni volta pensavo a lei. Pensavo a come me lo aveva
fatto lei, a come e se me lo avrebbe fatto ancora.
26
Latte acido
Mia madre non mi ha mai protetto. Non ne era
capace o non ci è riuscita mai. I vestiti della mia
mamma avevano un profumo inconfondibile.
Un'essenza malinconica, debole, antica. I seni
morbidi e caldi, sfatti nel loro bianco d’avorio
erano il luogo dove affondavo le mie manine di
bimbo solo, la testa e i capelli, dopo aver bevuto
il mio latte di sera. uand’ero piccolo, qualche
attimo prima che il sonno mi avvolgesse nel lettino,
ricordo che la luce della luna trapelava nella mia
cameretta e danzava sul pavimento portando con
sé le ombre della notte dalle persiane semichiuse.
Spesso la sognavo. Immaginavo di chiamarla nella
speranza che, almeno una volta, mia madre venisse
a consolarmi. A volte dormiva, a volte non sentiva
o non ce la faceva ad alzarsi. Io, dopo aver studiato
le mappe della luna sulle mattonelle della mia
stanza, i giochi d’ombre, abbracciavo il cuscino e mi
addormentavo. Oggi la sto ancora aspettando, mia
madre. Lei sostiene di avermi conservato nel suo
grembo cotonato per preservarmi dalla cattiveria del
mondo. Ma la cattiveria del mondo, a volte, è dentro
casa nostra e il mostro è in ciascuno di noi, pronto
ad azzannare. A uccidere. Per mia nonna provo
un sentimento troppo indefinito per distinguerlo
dalla rabbia o dall’odio. Mia madre forse la ama,
forse la disprezza. Non riuscirò mai a capirlo. La
vecchia, ora che è moribonda, chiede ancora di
me a mia madre. Senza rispetto. Senza ritegno.
27
Rossella Luongo
Anche la nonna di Francesca, impaziente per il
trasferimento di sua nipote, chiede sempre di
lei a sua madre, che scoppia d’ansia quando va a
trovarla, per paura di essere giudicata ed essere
messa sull’attenti – magari a passo di polka! – da
donna Vittoria.
Mia madre aspetta con apprensione che io
trovi un "lavoro serio" e soffre perché non potrà
mai parlarne a mia nonna, non l’ascolterebbe. Per
questo mi accusa di trascurarla e di una serie di
cose che mi rinfaccia da anni. Non ho mai capito
perché mi ha sempre scaricato addosso una catena
di guai. Oggi, realizzo che me li lascia in eredità
insieme ai soldi di sua madre.
(Continua...)
28