Tra i colori del Madagascar

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Tra i colori del Madagascar
Storie di fede ROSARIO VOLPI
Nella grande isola africana
Da quasi sette anni, Rosario è educatore
in una terra difficile. Accoglie e ascolta
tutte le persone che ogni giorno bussano
alla sua porta
“Per essere felici,
una sola cosa è davvero
necessaria: l’amore”
nale volontario (Focsiv) conferisce ogni
anno a chi si distingue nell’impegno
a favore degli ultimi. “Possiamo ricoprire i nostri ragazzi di cose, di vestiti,
possiamo riempir loro lo stomaco e gli
occhi, ma sempre più spesso – sottolinea – mi accorgo che un sorriso, un abbraccio, l’amore dimostrato attraverso
piccoli gesti, possono fare miracoli”.
Cosa ti ha portato in quest’isola
dell’Oceano Indiano?
Tra i colori del
Madagascar
Premiato dalla Focsiv come volontario
dell’anno, Rosario racconta cosa ha imparato
dai ragazzi più poveri di Ambalakilonga
di Stefania Careddu
“I
poveri devono sapere che
li amiamo”, ripeteva Madre Teresa di Calcutta. Ad
Ambalakilonga, nel lontano Madagascar, Rosario Volpi ha scoperto “che è proprio l’amore che fa la
differenza, che può rimettere in moto i
cuori assopiti di ragazzi abbandonati,
indesiderati, non voluti, dimenticati”.
Trentaquattro anni, originario di Calatafimi, in provincia di Trapani, Rosario ha ricevuto il premio Volontariato
internazionale 2013 che la Federazione
organismi cristiani servizio internazio-
Lo tsunami del sud-est asiatico del
dicembre 2004 mi ha spinto a farmi
delle domande: quelle immagini di devastazione e dolore mi hanno scosso.
In tanti si sono mobilitati per aiutare
a ricostruire case, villaggi, città, per far
ripartire attività economiche e commerciali. Ho cominciato a chiedermi
quale aiuto può portare un educatore
in contesti devastati dalla natura, dalla
povertà, dalla guerra, dall’uomo. Cosa
possiamo fare? Restare a guardare?
No! A noi tocca “ri-costruire” l’uomo,
ridare fiducia e speranza nella vita. A
noi tocca camminare insieme, tenere
per mano, stare vicino, sanare le ferite, le nostre e le loro. A noi tocca il
coraggio di guardare negli occhi, uomini e donne, vittime degli tsunami o
degli uragani e tempeste della vita, e
dire che si può sempre ricominciare,
che se siamo sopravvissuti c’è un’altra
possibilità di vita, di vita vera. In quei
giorni don Antonio Mazzi presentava in tv Educatori senza frontiere che
muoveva i suoi primi passi. Mi sono
messo in contatto con Cristina Mazza,
la nostra coordinatrice, ho seguito la
formazione e nel 2006 ho fatto il mio
primo viaggio. Nel 2007 c’era bisogno
di un educatore nella comunità di Ambalakilonga e, dopo aver riflettuto, ho
deciso che a 27 anni potevo lanciarmi
in questa nuova avventura. Dopotut-
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to era solo per due anni… e ora ne
sono passati quasi sette. Guardandomi
indietro, mi rendo conto che questa
scelta è stata preparata dall’educazione
ricevuta in famiglia, dove ho imparato cosa vuol dire prendersi cura delle
persone che ami. Ma anche dall’educazione alla fede e al servizio ricevute in
parrocchia da don Francesco Campo,
da sua sorella Dina e dalle catechiste,
dalla vita itinerante delle Sorelle Francescane del Vangelo (Sfv) che mi hanno lasciato questo imprinting di andare
nel cuore.
Che ruolo ha nella tua vita
la fede e in particolare la figura
di San Francesco?
La fede per me è una questione di incontri. Quando ho capito che Gesù
mi era venuto incontro, per restare
nella mia vita, per accompagnarmi,
per camminare insieme a me, non ho
potuto più fare a meno di Lui, nonostante i miei tradimenti, le fragilità,
le imperfezioni. È solo Lui che mi
fa felice. È stato così con le persone
che mi hanno insegnato a cercarlo, a
Per gli altri – “La mia vocazione
è camminare, incontrare, ascoltare,
non fare ma stare”, ci racconta
con entusiasmo
A Sua Immagine riconoscerlo e ad amarlo. Ed è stato
così anche con Francesco d’Assisi,
da cui ho imparato a restare nudo davanti al Signore, senza difese, senza
attaccarmi a nulla e senza ipocrisia.
Da lui ho imparato che ‘quando avete fatto quello che dovevate fare dite:
Siamo servi inutili’. Fare tutto senza
aspettarmi niente in cambio, nessuna
ricompensa, né in denaro o regali, né
in complimenti. Francesco mi piace
perché era un uomo libero: dalle cose,
nelle relazioni e sapeva confidare solo
in Dio, Onnipotente, Uno e Trino,
ma anche rifugio, fortezza, sicurezza,
amore e dolcezza.
Di cosa ti occupi concretamente?
Vivo ad Ambalakilonga, che in italiano vuol dire “il villaggio dei ragazzi”.
Qui si trovano una comunità, dove ci
prendiamo cura di orfani e abbandonati, ex ragazzi di strada e giovani in
difficoltà e un centro di formazione
professionale, che in due anni di corso
forma gli allievi in cinque specialità
(carpenteria, falegnameria, saldatura, elettricità e informatica). C’è, poi,
un piccolo dispensario a servizio dei
giovani della comunità e degli allievi
della scuola, che è anche punto di riferimento per gli ammalati dei villaggi
limitrofi. All’interno di queste tre macroaree si inseriscono tutte le attività
educative e formative che il nostro centro propone al territorio. Io mi occupo di coordinare queste attività con
la preziosa collaborazione dei nostri
operatori malgasci, soprattutto Jacques e Jocelyn, due educatori, e i volontari italiani. Passo la maggior parte
del tempo ad accogliere e ascoltare le
persone che continuamente bussano
alla nostra porta. Spesso i problemi, le
difficoltà della gente sono più grandi di
me, di noi, ma sempre di più mi rendo
conto che non sono chiamato a fare
miracoli, né a lasciarmi prendere da un
senso di onnipotenza che ti fa pensare
di avere una soluzione per tutto e per
tutti. Gesù camminava insieme alla
gente, si accostava a uomini e donne,
Più spazio ai
diritti dell’uomo
L’idea di Educatori senza frontiere
nasce da un viaggio in Madagascar
nel 2003. A caratterizzare questa
esperienza fin dall’inizio è il dialogo
e la negoziazione con le autorità
e le istituzioni locali: chi prende
parte al progetto itinerante
deve rendersi disponibile a
partecipare alla vita civile del Paese
d’intervento, ponendosi con spirito
critico e umiltà referenziale. Il
modello è quello di Exodus, la onlus
di don Antonio Mazzi, il sacerdote
noto per l’impegno a favore dei
minori. L’obiettivo è la crescita
dei diritti dell’uomo attraverso
la promozione dello sviluppo dal
basso, proiettando l’operato dei
volontari secondo i ritmi dettati dal
luogo. Per maggiori informazioni:
www.educatorisenzafrontiere.org.
li ascoltava con tenerezza. Ecco, credo
sia questa la nostra, la mia vocazione:
camminare, incontrare, ascoltare, non
fare ma stare.
Chi eri prima di questa esperienza
e chi sei ora?
Credo che questa esperienza mi abbia
spogliato di tante sicurezze, di tante
idee che avevo su cosa sia la povertà.
Incontro talvolta persone avide che
chiedono sempre, che pretendono,
che abbandonano i loro figli, persone
superbe che non mostrano un minimo di solidarietà tra loro. Perché due
prospettive così diverse? Perché due
visioni così lontane? Non è facile rispondere, ma forse la prima cosa onesta che posso fare è riconoscere che
io per primo sono povero, che non so
vedere gli altri se non attraverso i miei
schemi e le mie categorie. Poi, accettare
l’altro nella sua povertà materiale ma
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“Villaggio dei ragazzi” – Ospita una comunità, un dispensario e un centro di formazione professionale
dove si istruiscono gli allievi in carpenteria, falegnameria, saldatura, elettricità e informatica
soprattutto spirituale, accettare che
l’altro non è e non sarà come lo voglio
o lo immagino io. Povero tra i poveri:
forse è questa l’unica risposta possibile. È noto l’episodio di un giornalista
americano che vedendo Madre Teresa
china a medicare le piaghe sanguinanti
e purulente di un lebbroso, le aveva
detto che lui non l’avrebbe fatto neanche per un milione di dollari. Madre
Teresa rispose disarmante: “Per una
tale cifra, nemmeno io. Però lo faccio
gratis per Gesù”. È questo l’insegnamento che faccio mio: possiamo ritrovare lo slancio per chinarci, inchinarci
all’altro come anche don Antonio ama
ripetere e ci invita a fare. Piegarci per
accogliere, per raggiungere il povero e
farci raggiungere da lui: non uno qualunque, ma a cominciare dai ragazzi
delle nostre comunità, i nostri colleghi,
i nostri amici e familiari, qualcuno che
ha un volto, un nome, e fare un pezzo
di strada insieme.
Cosa ti ha colpito arrivando
in Madagascar e cosa continua
ad affascinarti dopo diversi anni?
I colori, così intensi e forti. Il rosso
della terra, il verde della vegetazione
rigogliosa, il colore del cielo e i tramonti rosa, arancio e oro. Colori che
non si affievoliscono nemmeno durante la stagione delle piogge in cui spesso, anzi, sono incorniciati da splendidi
arcobaleni. Mi ha colpito l’età media
della popolazione, giovanissima rispetto alle società del “nord” del mondo.
La quantità di bambini, ma anche e
soprattutto la carenza di padri che sanno prendersi cura dei loro figli. Questo
non mi affascina, ma mi interroga e
mi fa arrabbiare, ed è anche questo
il nostro lavoro: educare i giovani a
essere uomini e padri più consapevoli
quando toccherà a loro.
Papa Francesco non si stanca
di ripetere che bisogna andare
verso le periferie…
Per noi che nelle periferie tentiamo di
viverci, l’invito del pontefice rappresenta la conferma che ci troviamo nel
posto giusto. Il Madagascar è certamente una periferia del nostro mondo,
un’orma nell’Oceano Indiano, un’isola
unica e diversa da tutte le altre. Per
raggiungerla, a diecimila chilometri
dall’altra più piccola da cui mi sono
mosso, la Sicilia, ci sono 12 ore di volo.
Per arrivare ad Ambalakilonga, poi,
ce ne vogliono altre dieci su un pulmino spesso scassato e stracarico di
gente che attraversa la RN7, la strada
“A noi tocca ridare
fiducia e speranza,
camminare con la gente”
nazionale, che è quasi la spina dorsale dell’isola rossa. Ci sono anche le
periferie del cuore, dell’esistenza, che
incrociano le storie e la vita degli uomini e delle donne, che fanno i conti con
l’ignoranza, le ingiustizie, i pregiudizi,
le schiavitù dell’uomo: è qui che noi vogliamo stare perché nessun educatore
dovrebbe mai diventare indifferente
alle miserie dell’uomo. Vogliamo esserci, mano nella mano con chi soffre,
come passi, orme, tracce di Dio che
cammina sempre con i suoi figli, sorriso che illumina la strada.
Cosa significa per te essere
il volontario dell’anno?
Accogliere nelle mie mani un dono
che, in realtà, è un premio agli sforzi
che Educatori senza frontiere ha fatto in questi anni, nella formazione e
nell’educazione degli uomini e delle
donne che hanno camminato insieme
a noi. Amiamo ripetere che siamo
educatori educabili, perché cresciamo
insieme alle persone, ai bambini, ai giovani che ci vengono affidati. Questo
è un premio al coraggio che i nostri
ragazzi, nonostante storie tristissime,
fatte di solitudine, abbandoni, miseria,
dimostrano nell’affrontare la vita. È
un premio a quello che loro mi hanno insegnato in questi anni, che una
sola cosa è essenziale per essere felici:
l’amore.
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