Stralcio volume

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2) Paragg. 13, 14 e 15, del cap. I
13. Giustizia amministrativa e processo amministrativo. Diritti soggettivi, diritti affievoliti, interessi legittimi
Tradizionalmente la giustizia amministrativa viene contrapposta a
quella civile, sul presupposto che mentre quest’ultima come abbiamo
visto si occupa della tutela dei diritti soggettivi, la prima avrebbe ad oggetto quella degli interessi legittimi.
a) Tale distinzione, che sembra avallata anche dall’art. 24, primo
comma, Cost., appare però riduttiva almeno per due ragioni. La prima è
quella per cui in certi casi gli organi di giustizia amministrativa possono
avere giurisdizione anche in materia di diritti soggettivi, come avviene
nel caso della c.d. giurisdizione esclusiva. La seconda è quella per cui in
certe ipotesi, le contese fra il privato e la pubblica amministrazione esu lano dal campo della giustizia amministrativa e rientrano in quello della
giurisdizione ordinaria. Tale situazione è raffigurata dall’art. 113, primo
comma, Cost., il quale appunto fa palese che contro gli atti della pubblica amministrazione, è sempre ammessa la tutela dei diritti e degli inte ressi legittimi di fronte «agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa».
Dunque il problema dell’individuazione del raggio di applicazione
della giustizia amministrativa è molto più complesso di quello della giu stizia civile, sia perché non si riporta ad un concetto unitario e sia anche
perché la stessa situazione sostanziale tipica del privato a cui tale tutela è
correlata, cioè la figura dell’«interesse legittimo», non ha alcuna defini zione normativa precisa. Ad esempio, mentre il codice civile individua il
contenuto dei vari tipi di diritti (ad es. del diritto di proprietà all’art. 832;
del diritto di superficie all’art. 957; dei diritti di obbligazione all’art. 1176,
ecc.), non v’è nessuna norma che identifichi i vari tipi di interessi legittimi
o il loro contenuto.
La realtà è che il concetto di interesse legittimo, non ha un contenuto
normativo, ma solo dottrinario, trattandosi appunto di un istituto creato
dalla dottrina, la cui tutela è riconnessa alla giustizia amministrativa ma
non la esaurisce.
Ragion per cui, per comprendere appieno il carattere della giustizia
amministrativa, occorre necessariamente impostare il problema storica mente. Cosa che se non viene fatta, come comunemente avviene nei vari
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scritti sull’argomento, determina il rischio di condurre a soluzione fuor vianti.
b) Il punto di partenza per comprendere il problema è dato dalla l. 20
marzo 1865, n. 2248, all. E, la quale aboliva i tribunali del contenzioso
amministrativo e introduceva il principio della giurisdizione unica (art. 1),
stabilendo all’art. 2 che la tutela dei diritti soggettivi spettava sempre all’autorità giudiziaria ordinaria, quand’anche la violazione degli stessi
avesse avuto luogo attraverso un provvedimento amministrativo (la dizione del cit. art. 2 era quella per cui dovevano ritenersi devoluti alla giurisdizione ordinaria tutte le materie in cui si faceva questione di un « diritto» civile o politico « comunque vi possa essere interessata la pubblica
amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa»).
Ciò significa che dal punto di vista dell’accertamento della lesione di
un diritto, non v’era alcuna differenza fra l’ipotesi in cui ciò fosse avvenuto in conseguenza di un atto di un soggetto privato o della pubblica amministrazione. L’accertamento diveniva sempre oggetto del sindacato del l’autorità giudiziaria ordinaria.
La divergenza aveva luogo soltanto con riferimento al momento suc cessivo a quello dell’accertamento, cioè quello della reintegrazione del
diritto offeso. Ciò nel senso che mentre nel caso in cui il diritto di un soggetto era leso da un atto privato, l’autorità giudiziaria ordinaria provvedeva anche alla reintegrazione del diritto leso, nel caso in cui la lesione fosse
opera del potere amministrativo, il sindacato del giudice ordinario doveva fermarsi solo all’accertamento dell’illegittimità dell’atto (art. 4, l. cit., il
quale affermava che in tale ipotesi, i tribunali si limiteranno «a conoscere»
degli effetti dell’atto: con evidente allusione quindi al solo accertamento
del vizio): ma il giudice ordinario non poteva provvedere anche all’eliminazione dell’atto amministrativo illegittimo. Il che poteva avvenire solo ad
opera dell’autorità amministrativa, che doveva conformarsi al giudicato
del giudice ordinario che aveva dichiarato l’atto illegittimo e di conse guenza annullarlo (cioè era espresso dal secondo comma del cit. art. 4, il
quale proseguiva affermando che l’atto dichiarato illegittimo non poteva
essere «revocato o modificato», se non ad opera delle competenti «autorità
amministrative», le quali «si conformeranno al giudicato dei tribunali in
quanto riguarda il caso deciso»).
In sostanza, mentre il sistema di tutela per la lesione dei diritti soggettivi avvenuta ad opera di soggetti privati era unitario, quello relativo alle
violazioni compiute dalla pubblica amministrazione si frazionava in due
momenti. Il primo, quello dell’accertamento, spettante alla giurisdizione
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dell’autorità giudiziaria ordinaria (fase giurisdizionale); ed il secondo,
quello dell’annullamento dell’atto illegittimo spettante alla competenza
dell’amministrazione attiva (fase amministrativa).
Tale sistema c.d. della doppia tutela, finiva ovviamente per essere lento
e pesante, anche perché molto spesso le cose si complicavano allorché
l’autorità amministrativa non provvedeva ad uniformarsi al giudicato dell’autorità giudiziaria e non annullava l’atto. In tal caso bisognava ricorrere all’unica autorità giudiziaria esistente nel campo amministrativo, cioè al
Consiglio di Stato onde ottenere un provvedimento che consentisse l’ottemperanza della pubblica amministrazione al giudicato del tribunale
(art. 26, r.d. 26 giugno 1924, n. 1054: T.U. delle leggi sul Consiglio di
Stato). Ed ognun vede come in tale caso la tutela si complicava ancora di
più, prevedendo anche un terzo possibile passaggio (accanto ai primi due)
di fronte ad un organo ancora una volta diverso.
c) Il sistema delineato dalla l. n. 2248 del 1865, se da un lato sarebbe
stato superato da uno snellimento della tutela avvenuto come vedremo nel
1971, dall’altro è però stato fondamentale in quanto ha posto le basi per
tutta una successiva elaborazione dottrinaria che non si limitava al campo
del processo, ma investiva lo stesso diritto sostanziale e che avrebbe portato all’elaborazione dei concetti di «interesse legittimo» e di «diritto
affievolito», come situazioni giuridiche nuove rispetto a quella rappresentata dal diritto soggettivo. Infatti va tenuto presente quanto in precedenza si diceva (v. supra, lett. a) e cioè che tali due figure non sono individuate e descritte dalla legge come invece avviene per il diritto soggettivo, ma
la loro creazione è solo «dottrinaria» ed è avvenuta per effetto del citato
sistema normativo del 1865.
Pur dovendosi ridurre ai minimi termini l’esposizione, va rilevato che
con riferimento all’art. 4, primo comma, l. n. 2248 del 1865, la situazione
che si verifica allorché su un diritto soggettivo incide un atto amministrativo emanato nell’interesse pubblico, è quella per cui tale diritto cede di
fronte all’interesse pubblico: cioè si degrada o, in una parola, si «affievolisce». È la situazione del diritto affievolito, che è la prima che si è venuta a
creare per effetto dell’elaborazione verificatasi a seguito della legge del
1865. Si pensi alla proprietà privata, che viene espropriata dallo Stato per
un interesse pubblico (ad es. per costruirvi un’autostrada, una linea ferroviaria, ecc.). Qui il privato non potrebbe invocare il diritto di proprietà,
per opporsi all’iniziativa della pubblica amministrazione. Se l’esproprio
ha avuto luogo in nome dell’interesse pubblico, il privato deve cedere e
basta. Ciò non toglie che egli, secondo l’art. 4, l. n. 2248 del 1865, poteva
sempre fare accertare se tale interesse pubblico effettivamente sussisteva,
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e cioè fare sindacare l’atto di espropriazione se lo riteneva illegittimo, nei
modi e con gli effetti previsti dalla norma citata.
In sostanza, nel caso visto il diritto soggettivo si degrada a semplice
interesse, che ha come unico contenuto quello del controllo che l’attività
della pubblica amministrazione si sia svolta secondo la legge. È però un
interesse giuridicamente protetto, in quanto se si accertava l’illegittimità
del comportamento della pubblica amministrazione, il soggetto poteva
essere reintegrato nella pienezza dei poteri del suo diritto, sia pure attraverso la tortuosa strada fatta palese dall’art. 4, l. n. 2248 del 1865.
L’affievolimento del diritto soggettivo a semplice interesse ed il fatto
che tale interesse può comunque essere protetto nei termini di cui sopra,
hanno portato a creare la categoria dell’interesse legittimo, anche se per la
verità essa è propria di situazioni formalmente diverse, non contemplate
dall’art. 4, cit., ma create dalla successiva ricerca dottrinale.
Accade infatti in molteplici casi che il singolo non è titolare di una
situazione sostanziale a tutela piena (diritto soggettivo) o di una situazione sostanziale degradata da un provvedimento amministrativo (diritto
affievolito), ma di una semplice aspettativa che potrà trasformarsi in una
situazione sostanziale solo attraverso un provvedimento amministrativo
legittimante. Si pensi ad esempio ad un concorso pubblico. T utti coloro
che presentano certi requisiti possono candidarsi ed aspirare al posto
(aspettativa), ma soltanto alcuni potranno riuscire vincitori. Gli esclusi
avranno comunque il potere di controllare se il provvedimento che non li
ha ammessi sia legittimo o meno. L’aspettativa si trasforma cioè in un interesse al controllo della legittimità dell’azione amministrativa. Anche qui
dunque, abbiamo un interesse legittimamente protetto. Il contenuto dei
poteri è analogo a quello del diritto affievolito: diverso è però il modo
attraverso cui sorge l’interesse, che nel caso del diritto affievolito si crea a
seguito della degradazione di un diritto soggettivo (si potrebbe dire dal l’alto verso il basso), mentre nell’altro caso promana da una semplice
aspettativa che si trasforma in un interesse legalmente protetto (dal basso
verso l’alto).
È questo il campo del vero e proprio interesse legittimo, che pur avendo lo stesso contenuto del diritto affievolito, ne diverge per il modo di formazione. Si può sintetizzare il tutto affermando che il diritto affievolito è
il «diritto soggettivo» che viene limitato da un provvedimento amministrativo emesso nell’interesse pubblico, mentre l’interesse legittimo è
un’«aspettativa» che abbisogna di un provvedimento amministrativo per
legittimarsi. Ciò che va rilevato è comunque che in entrambi i casi il contenuto dei poteri è identico, giacché diritto affievolito e interesse legittimo
sono entrambi situazioni giuridiche la cui violazione non è repressa di per
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se stessa (come invece avviene nel caso del diritto soggettivo), ma solo in
quanto comporta anche una violazione dell’interesse pubblico. È per questo che le due situazioni vengono denominate anche come interessi occasionalmente protetti: protetti cioè solo se coincidenti con l’interesse della
collettività.
La dottrina ha successivamente assorbito il tutto nella figura dell’interesse legittimo, che è il solo ad essere previsto accanto al diritto soggetti vo dall’art. 24 Cost., nonostante che di esso non vi fosse traccia nella legge
del 1865.
d) Posta questa importante elaborazione dottrinale conseguente alla l.
n. 2248 del 1865, non bisogna però dimenticare quanto si diceva alla fine
del punto b) che precede e cioè che la tutela che essa offriva nei confronti dell’azione illegittima della pubblica amministrazione era di per sé farraginosa, talché nel 1971, essa sarebbe stata modificata attraverso la costituzione di un meccanismo di reazione contro l’attività illecita dei pubblici poteri offerto dalle normative rispettivamente del d.p.r . 24 novembre
1971, n. 1199 (sulla semplificazione dei procedimenti in materia di ricorsi amministrativi) e della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 (sull’istituzione dei
tribunali amministrativi regionali), che avrebbero consentito lo svolgi mento della tutela di fronte ad un unico organo, o attraverso i ricorsi
amministrativi (d.p.r. n. 1199 del 1971) o attraverso i ricorsi giurisdizionali (l. n. 1034 del 1971, così come modificata dalla successiva l. 21 luglio
2000, n. 205, ed oggi dal codice del processo amministrativo emanato con
il d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104).
I primi chiamati anche ricorsi gerarchici, prevedono che la reazione si
svolga di fronte ad un organo amministrativo sopraordinato, per cui è pur
sempre la pubblica amministrazione che decide sulla legittimità o meno
del proprio atto. La tutela quindi si svolge su base meramente amministrativa, per cui l’operato dell’organo giudicante si attua secondo il criterio di imparzialità previsto dall’art. 97 Cost.
I secondi, cioè i ricorsi giurisdizionali, si svolgono invece di fronte a
veri e propri organi giurisdizionali, che sono i tribunali amministrativi
regionali (in primo grado) ed il Consiglio di Stato (in secondo grado). Qui,
ancorché gli organi decidenti siano del tutto particolari, la reazione ha
luogo secondo le regole e con le garanzie proprie della giurisdizione. Per
cui si realizza, oltre che il requisito dell’imparzialità, anche quello della
terzietà dell’organo (art. 111, secondo comma, Cost.). Tale caratteristica,
nonché tutta una serie di garanzie ulteriori, sono oggi assicurate anche dal
codice del processo amministrativo.
Questo duplice concorrente ordine di tutele (vedremo poi come esse si
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coordinano fra di loro: v. infra, parag. 14), spiega perché quando si esaminino i mezzi di reazione contro l’atto illegittimo della pubblica ammini strazione, si parli genericamente di giustizia amministrativa anziché di
«processo amministrativo». Ciò appunto in quanto, come si è detto, si è di
fronte al concorso fra mezzi di difesa giurisdizionali e mezzi di difesa non
giurisdizionali, per cui il termine di «processo amministrativo» si può
attagliare tecnicamente solo ai primi.
e) A chiusura di questa parte generale, si deve dire che caratteristica
fondamentale della giurisdizione amministrativa (cioè di quel particolare
segmento che concerne la tutela di fronte agli organi giudiziari) è che neppure essa appare unitaria, distinguendosi in tre filoni essenzialmente
diversi: e cioè nella giurisdizione di legittimità (che costituisce la parte preponderante della materia), nella giurisdizione esclusiva e nella giurisdizione di merito (art. 7, terzo comma del cod. proc. amm.).
Si tratta di una distinzione di estrema importanza, che se sottovalutata
rischia di non fare comprendere l’esatta portata del sistema di giustizia
amministrativa.
14. a) Giurisdizione di legittimità
La giurisdizione di legittimità (detta anche di annullamento), come si è
accennato rappresenta la più tipica espressione della giustizia ammini strativa ed è quella attraverso la quale, secondo l’opinione consolidata, si
tutelano le lesioni degli interessi legittimi.
Pur essendo esatta tale impostazione, è però molto più chiarificatrice
l’affermazione che considera tale tipo di tutela come diretta all’impugnativa dell’atto amministrativo illegittimo. Si tratta quindi di un criterio
(questo è l’importante), che più che fare leva sulla situazione soggettiva
sostanziale del rapporto fra il cittadino e la pubblica amministrazione, si
basa sul princìpio processuale dell’impugnazione di un atto. È preferibile
quindi che l’interprete consideri il fenomeno da questo punto di vista, più
che da quello delle categorie sostanziali dell’interesse legittimo o del diritto affievolito, giacché solo nel primo modo si può arrivare alla comprensione di certi particolari problemi, che sarebbe praticamente impossibile
cogliere dal punto di vista del rapporto sostanziale sottostante (v . infra,
cap. II, parag. 12).
Inoltre, identificare il ricorso agli organi di giustizia amministrativa
con la violazione dei diritti affievoliti e degli interessi legittimi, può appa-
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rire anche fuorviante con riferimento alle frequenti ipotesi in cui, attra verso un atto amministrativo, venga leso un diritto fondamentale a contenuto non patrimoniale costituzionalmente protetto. Si pensi ad es. alla
violazione del diritto alla salute degli abitanti di un certo luogo, che può
verificarsi a seguito di un’ordinanza dell’organo pubblico che disponga lo
smaltimento in quel luogo di rifiuti tossici (il caso si è posto in pratica). In
tale situazione, il diritto alla salute come diritto fondamentale dell’in dividuo costituzionalmente protetto, non dovrebbe potersi degradare a
diritto affievolito. Eppure, la reazione va portata ugualmente di fronte agli
organi di giustizia amministrativa. E ciò proprio perché la violazione è
avvenuta attraverso un atto amministrativo, per cui non ne sarebbe concepibile l’annullamento ad opera dell’autorità giudiziaria ordinaria. V i
sono molte ipotesi del genere nelle quali si è tentato in passato di ricorrere a quest’ultima, attraverso il provvedimento d’urgenza previsto dall’art.
700 c.p.c. proposto di fronte all’autorità giudiziaria ordinaria. La risposta
è quasi sempre stata negativa: difetto di giurisdizione e potere riservato
esclusivamente agli organi di giustizia amministrativa (anche se gli artt. 55
e 56 del cod. proc. amm., consentono oggi di proporre misure cautelari
ante causam, pur se con un’intensità minore rispetto al processo civile).
Ciò porta comunque a concludere che la giurisdizione amministrativa
opera in ogni caso in cui si debba sindacare la legittimità di un atto amministrativo, indipendentemente dalla situazione sostanziale che si ritiene
violata. Quando tratteremo dell’azione nel processo amministrativo,
vedremo l’importanza di queste precisazioni (v. infra, cap. II, parag. 12).
L’individuazione del raggio di applicazione della giurisdizione di annullamento, con quello dell’impugnativa dall’atto amministrativo illegittimo,
consente agevolmente di vedere quand’è che la reazione contro l’attività
della pubblica amministrazione vada proposta di fronte all’ autorità giudiziaria ordinaria. Ciò si verificherà infatti quando tale attività non è sorretta
dalla presenza di un atto amministrativo. Il che avviene in due ipotesi:
a) Quando il diritto soggettivo è leso da un atto materiale della pubblica amministrazione (cioè da un atto non sorretto da alcun provvedimento
amministrativo). Ad es., se i dipendenti di un Comune occupano un’area
privata senza alcuna delibera dell’ente, la reazione potrebbe svolgersi
nelle forme degli artt. 1168 c.c. e 703 c.p.c. di fronte al giudice ordinario.
b) Quando il diritto soggettivo è leso da un comportamento della pubblica amministrazione che abbia agito non come organo dotato di poteri
pubblicistici (iure imperii), ma nell’ambito di un’attività di diritto privato
(iure gestionis). Si tratta cioè di quella attività residuale della funzione
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amministrativa, che viene esercitata nell’ambito di rapporti paritari con i
cittadini, secondo le regole del codice civile. In questi casi la pubblica
amministrazione non agisce come persona giuridica pubblica, ma come
soggetto privato che dà vita a negozi giuridici, né più né meno come i normali cittadini fanno fra di loro. Si pensi all’ipotesi di un Comune che
abbia preso in affitto un locale per adibirlo a scuola. Qui il rapporto è regolato dal codice civile. Pertanto, se il Comune cessa di pagare il canone,
può impiegarsi il rimedio dell’art. 658 c.p.c. di fronte al giudice ordinario.
Va poi precisato che è esclusivamente nel campo della tutela di annullamento (e non in quello della giurisdizione esclusiva o della giurisdizione
di merito), che opera la concorrenza fra i già ricordati ricorsi amministrativi e i ricorsi giurisdizionali. Ed è appunto con riferimento a tale ipotesi
che si parla in genere di «giustizia amministrativa», più che di «processo
amministrativo», stante appunto la presenza anche dei mezzi di difesa
non giurisdizionali.
In proposito va tenuto presente quanto segue.
a) I ricorsi amministrativi, si propongono come si è detto ad un organo
amministrativo sovraordinato, per struttura o per imputazione legislativa.
Nel primo caso (sovraordinazione per struttura) si ha il ricorso gerarchico proprio, nel quale la reazione si propone all’organo che sta al «ver tice» di quella determinata branca della pubblica amministrazione, e cioè
al Ministro. Nel secondo (sovraordinazione per imputazione legislativa)
si ha il ricorso gerarchico improprio, nel quale è il legislatore che indica
caso per caso a chi deve essere rivolto il ricorso. Un esempio di tale
seconda ipotesi è quello del ricorso al prefetto contro molti provvedi menti del questore. Il prefetto non è un superiore gerarchico del questore, ma un organo con funzioni diverse inserito nella stessa branca amministrativa (quella del Ministero dell’interno): quindi la possibilità che sia
costui a decidere contro gli atti del secondo, deve essere espressamente
prevista.
Ne consegue che il ricorso gerarchico proprio, è mezzo di tutela generale, mentre il ricorso gerarchico improprio deve essere espressamente
previsto dalla legge. Ovviamente, quando è previsto quest’ultimo, il
primo è escluso.
Il ricorso gerarchico si propone nel termine di 30 gg. dalla comunicazione dell’atto impugnato.
Il ricorso giurisdizionale, che costituisce espressione del vero e proprio
processo amministrativo, si propone invece ai tribunali amministrativi
regionali ed in appello al Consiglio di Stato.
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Il termine per ricorrere al tribunale è di 60 gg. dalla comunicazione
dell’atto impugnato (art. 29 cod. proc. amm.).
Ne consegue che di fronte ad un atto amministrativo illegittimo, il soggetto leso ha a disposizione in via concorrente, a scelta, i due mezzi difensivi di cui sopra.
b) Prima dell’emanazione del cod. proc. amm., il rapporto fra la tutela
attuata con i ricorsi amministrativi e quella oggetto dei ricorsi giurisdizionali si svolgeva secondo precise regole di coordinamento, la più impor tante delle quali era fornita dall’art. 20, primo comma, l. T.a.r. (cioè la l. n.
1034 del 1971) secondo cui la proposizione del ricorso gerarchico contro
il provvedimento amministrativo interrompeva il termine (di 60 gg.) per
proporre il ricorso giurisdizionale, che riprendeva a decorrere dal
momento della pronunzia negativa sul ricorso gerarchico o dallo scadere
dei 90 gg. dalla proposizione del ricorso gerarchico (in quest’ultimo caso,
poiché l’omissione dell’organo decidente di provvedere entro quel termine, equivaleva ad un provvedimento di rigetto). In pratica, era consentito
l’impiego di entrambi i mezzi di tutela, senza che i termini per proporre il
ricorso giurisdizionale fossero bruciati dall’esperimento preventivo di
quello amministrativo (non era però vero il contrario: la proposizione
immediata del ricorso giurisdizionale, non interrompeva infatti i termini
per proporre quello amministrativo). Oggi tale principio non esiste più, in
quanto l’art. 4 dell’allegato IV al codice del proc. amministrativo ha abrogato il cit. art. 20 l. T.a.r. Ne consegue che se la parte vuole utilizzare
anche il ricorso giurisdizionale, deve proporlo contemporaneamente a
quello amministrativo (non si configura in proposito alcuna litispendenza).
c) Va inoltre precisato che l’oggetto dei ricorsi amministrativi e di quelli giurisdizionali non è coincidente. Se i secondi sono maggiormente garantistici in quanto costituiscono esempi di vera e propria giurisdizione, sono
però i primi ad avere un oggetto più ampio permettendo, come si è detto,
oltre al sindacato di legittimità (controllo se il provvedimento ammini strativo è stato emanato contra legem, il che si verifica nei tre noti casi di
incompetenza, violazione di legge, eccesso di poter e: art. 29 cod. proc.
amm.), anche il controllo di merito, che si estrinseca nella valutazione
della opportunità del provvedimento sotto il profilo dell’interesse pubblico. Quest’ultimo tipo di controllo è invece precluso per i ricorsi giurisdizionali.