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MEDIO ORIENTE
E AFRICA DEL NORD
rapportoannuale.amnesty.it
I PAESI
Algeria
Arabia Saudita
Bahrein
Egitto
Emirati Arabi Uniti
Giordania
Iran
Iraq
Israele e Territori Palestinesi Occupati
Kuwait
Libano
Libia
Marocco e Sahara Occidentale
Oman
Palestina
Qatar
Siria
Tunisia
Yemen
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Panoramica regionale
su Medio Oriente e Africa del Nord
Mentre il 2014 volgeva al termine, il mondo rifletteva su un anno catastrofico per milioni di persone
nell’intera regione del Medio Oriente e Africa del Nord; un anno che ha visto il perpetuarsi del conflitto
armato e orrendi abusi in Siria e Iraq, i civili di Gaza sostenere il peso maggiore della più micidiale
serie di combattimenti mai visti finora tra Israele e Hamas e la Libia che appariva sempre più uno
stato incompiuto, bloccato dall’incombere di una guerra civile. Anche lo Yemen rimaneva caratterizzato
da una società profondamente divisa, le cui autorità centrali si sono dovute confrontare con i gli
insorti sciiti nel nord, un movimento che a gran voce chiedeva la secessione del sud e le ininterrotte
attività insurrezionali nel sud-ovest.
Guardando l’anno in prospettiva, le ambiziose speranze di cambiamento, che avevano guidato le
rivolte popolari che avevano scosso il mondo arabofono nel 2011 e che avevano visto la destituzione
di regimi duraturi in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen, sono parse essere un ricordo lontano. Eccetto in
Tunisia, dove le nuove elezioni parlamentari si sono svolte senza problemi a novembre e dove le
autorità hanno dato prova di voler almeno tentare di perseguire i responsabili delle gravi violazioni
dei diritti umani commesse negli anni precedenti. Per contro, la situazione in Egitto non dava molto
spazio all’ottimismo. Qui, il generale militare che aveva guidato la destituzione del primo presidente
post-rivolta del paese nel 2013 ha assunto la presidenza dopo le elezioni e ha continuato un’ondata
di repressione che ha preso di mira non soltanto i Fratelli musulmani e i loro alleati ma anche
attivisti di molte altre affiliazioni politiche, oltre che operatori dell’informazione e attivisti dei diritti
umani, con migliaia di persone incarcerate e centinaia di altre condannate a morte. Nel Golfo, le
autorità del Bahrein, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti (United Arab Emirates – Uae) si
sono dimostrate inflessibili nei loro tentativi di reprimere il dissenso e di soffocare qualsiasi segno di
opposizione ai detentori del potere, sicuri che i loro principali alleati tra le democrazie occidentali difficilmente avrebbero sollevato obiezioni.
Il 2014 ha inoltre visto i gruppi armati impegnati nei conflitti in corso in Siria e Iraq impiegare metodi
d’inaudita ferocia umana, in particolare il gruppo autoproclamatosi Stato islamico (Islamic State –
Is, noto in precedenza come Isis). In Siria, combattenti dell’Is e altri gruppi armati hanno controllato
vaste aree del paese, compresa gran parte della regione di Aleppo, la principale città della Siria, e ha
imposto “punizioni” che comprendevano uccisioni, amputazioni e fustigazioni attuate in pubblico per
quelle che considerava trasgressioni alla propria interpretazione della legge islamica. L’Is ha inoltre
conquistato favore nelle roccaforti sunnite dell’Iraq, dove ha stabilito un regno del terrore in cui il
gruppo ha sommariamente messo a morte centinaia di soldati governativi catturati, membri di mino457
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ranze, musulmani sciiti e altri, compresi uomini delle tribù sunnite che si opponevano al loro dominio.
L’Is ha inoltre preso di mira minoranze religiose ed etniche, cacciando i cristiani e costringendo
migliaia di yazidi e altri gruppi di minoranza ad abbandonare le loro case e terre. Le forze dell’Is
hanno ucciso sommariamente, freddandoli con modalità tipiche di un’esecuzione, uomini e ragazzi
yazidi e hanno rapito centinaia di donne e ragazze yazide riducendole in schiavitù e costringendo
molte di loro a diventare “mogli” dei loro combattenti, che comprendevano migliaia di volontari
stranieri provenienti dall’Europa, dal Nord America, dall’Australia, dall’Africa del Nord, dalla regione
del Golfo e da altre parti.
A differenza di coloro che pur compiendo uccisioni illegali cercano di tenere segreti i loro crimini, l’Is
è stato brutalmente plateale nelle proprie azioni. Si è assicurato che i propri cameramen fossero
pronti a riprendere i suoi atti più inauditi, comprese le decapitazioni di giornalisti, operatori umanitari
e soldati libanesi e iracheni catturati. Ha quindi divulgato i massacri in video di buona qualità ma
dal contenuto orrendamente macabro, che sono stati postati su Internet a scopo di propaganda,
come strumento di contrattazione sugli ostaggi e di reclutamento.
La rapida avanzata militare ottenuta dall’Is in Siria e Iraq, unita alle uccisioni sommarie di ostaggi
occidentali e altri, a settembre hanno spinto gli Usa a formare un’alleanza contro l’Is, che ha visto
coinvolti oltre 60 stati, tra cui Bahrein, Giordania, Arabia Saudita e gli Uae, e che ha poi lanciato
attacchi aerei contro avamposti dell’Is e altri gruppi armati non statali, causando morti e feriti tra i
civili. In altre zone, le forze statunitensi hanno continuato a lanciare attacchi con droni e di altro tipo
contro gli affiliati di al-Qaeda nello Yemen, mentre i combattimenti tra forze governative e gruppi
armati non statali assumevano sempre più una dimensione sovranazionale. Nel frattempo, la Russia
continuava a far da scudo al governo siriano davanti alle Nazioni Unite, mentre trasferiva armi e munizioni per alimentare lo sforzo bellico, senza curarsi dei crimini di guerra e altre gravi violazioni che
le autorità siriane stavano commettendo.
Gli abusi dell’Is, la loro ampia divulgazione e il senso di crisi politica che questi hanno suscitato
hanno per un po’ messo in secondo piano la persistente brutalità su vasta scala delle forze governative
siriane, che combattevano per difendere le aree sotto il loro controllo o per riprenderne altre, strappandole ai gruppi armati con un apparente assoluto disprezzo per le vite dei civili e per i loro obblighi
sanciti dal diritto internazionale umanitario. Le forze governative hanno effettuato attacchi indiscriminati su aree in cui avevano trovato riparo i civili, non esitando a impiegare tutta una serie di armi
pesanti, come bombe artigianali, carri armati e fuoco d’artiglieria; hanno mantenuto interminabili
assedi che hanno negato alla popolazione civile l’accesso a cibo, acqua e forniture mediche; hanno
attaccato ospedali e personale sanitario. Hanno inoltre continuato a detenere un gran numero di
persone critiche e sospetti oppositori, sottoponendone molti a tortura e a condizioni spaventose e
compiendo uccisioni illegali. In Iraq, il governo ha risposto all’avanzata dell’Is schierando a fianco
delle proprie forze di sicurezza milizie sciite filogovernative, lasciandole libere di agire contro le
comunità sunnite considerate antigovernative o simpatizzanti dell’Is, mentre lanciava attacchi aerei
indiscriminati su Mosul e altri centri in mano alle forze dell’Is.
Come per la maggior parte dei conflitti dell’era moderna, il tributo più alto al conflitto è stato pagato
dai civili e le forze in guerra hanno ignorato i loro obblighi internazionali di risparmiare la popolazione
civile. Nei 50 giorni di conflitto tra Israele e Hamas e i gruppi armati palestinesi a Gaza, la portata
della distruzione, dei danni alle case e alle infrastrutture palestinesi, dei morti e dei feriti civili, ha
assunto proporzioni spaventose. Le forze israeliane hanno compiuto attacchi contro case abitate, in
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alcuni casi uccidendo interi nuclei familiari, e contro strutture mediche e scuole. Sono state deliberatamente distrutte abitazioni e infrastrutture civili. A Gaza, sono stati uccisi oltre 2000 palestinesi,
circa 1500 dei quali sono stati identificati come civili, compresi oltre 500 bambini. Hamas e i gruppi
armati palestinesi hanno sparato indiscriminatamente migliaia di razzi e colpi di mortaio su zone
israeliane abitate da civili, uccidendone sei, compreso un bambino. Uomini armati di Hamas hanno
inoltre ucciso sommariamente almeno 23 palestinesi che accusavano di collaborazionismo con Israele,
compresi detenuti non processati, dopo averli portati fuori dal carcere. Entrambe le parti hanno commesso impunemente crimini di guerra e altri gravi abusi durante il conflitto, reiterando uno schema
fin troppo noto anche negli anni precedenti. Il blocco degli spazi aerei, marittimi e di terra attuato da
Israele su Gaza, in vigore ininterrottamente dal 2007, ha aggravato l’impatto devastante di 50 giorni
di conflitto, gravemente ostacolato gli sforzi di ricostruzione e imposto una punizione collettiva, che
costituisce un crimine di diritto internazionale, a 1,8 milioni di abitanti di Gaza.
Tensioni politiche e di altro genere in tutta la regione del Medio Oriente e Africa del Nord hanno
raggiunto i livelli più estremi nei paesi dilaniati dal conflitto armato ma nel suo complesso l’intera
regione è stata caratterizzata da debolezze istituzionali, e non solo, che hanno contribuito sia ad alimentare tali tensioni sia a impedire una loro relativa attenuazione. Queste comprendevano una
generale mancanza di tolleranza da parte dei governi e di alcuni gruppi armati non statali verso le
critiche o il dissenso; organi legislativi deboli o svuotati, che avrebbero potuto agire da freno o da
contrappeso agli abusi delle autorità di governo; la mancanza d’indipendenza della magistratura e
sistemi giudiziari subordinati alla volontà degli esecutivi e il mancato accertamento delle responsabilità,
anche in relazione agli obblighi degli stati derivanti dal diritto internazionale umanitario.
REPRESSIONE DEL DISSENSO
I governi dell’intera regione hanno continuato a reprimere il dissenso, imponendo restrizioni al diritto
di libertà di parola e altre forme d’espressione, compresi i social network. Legislazioni che criminalizzavano opinioni ritenute offensive nei confronti del capo dello stato, del governo o delle autorità giudiziarie, o anche dei leader di governo esteri, sono state impiegate per mandare in carcere voci
critiche in Bahrein, dove un tribunale ha condannato una nota attivista a tre anni di reclusione per
aver strappato una fotografia del re, oltre che in Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Kuwait, Marocco
e Oman. In Iran, persone che avevano espresso critiche nei confronti delle autorità hanno affrontato
procedimenti giudiziari con varie accuse, tra cui quella di moharebeh (“inimicizia verso Dio”), un
reato capitale. Negli Uae, le autorità hanno continuato a emettere lunghe sentenze di carcerazione
nei confronti di filoriformisti, al termine di processi iniqui, e hanno introdotto nuove norme antiterrorismo
dal contenuto talmente vago da equiparare le proteste pacifiche al terrorismo, un reato punibile
anche con la pena di morte.
Gli Uae e altri stati del Golfo, compresi Bahrein, Kuwait e Oman, si sono dotati o hanno impiegato
strumenti per penalizzare persone che avevano espresso critiche in modo pacifico, privandole della
cittadinanza e di conseguenza dei loro diritti in quanto cittadini di quello stato, rendendole potenzialmente apolidi. Bahrein, Kuwait e gli Uae hanno fatto ricorso a questi poteri durante l’anno.
La libertà d’espressione è stata gravemente limitata. Molti governi non hanno permesso l’esistenza
di sindacati indipendenti. Alcuni, compreso quello dell’Algeria e del Marocco e Sahara Occidentale,
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hanno stabilito l’obbligo per le associazioni indipendenti, comprese le organizzazioni per i diritti
umani, di ottenere il rilascio di un’autorizzazione ufficiale per poter operare legalmente ma hanno
impedito loro di registrarsi o hanno sottoposto a vessazioni quelle registrate prima dell’introduzione
della nuova legge. In Egitto, le autorità hanno minacciato l’esistenza stessa delle Ngo indipendenti.
Il diritto di riunione pacifica, tanto importante nelle proteste che scossero la regione nel 2011, è stato
gravemente limitato da molti governi nel 2014. Le autorità algerine hanno spento sul nascere le
proteste, bloccando l’accesso ai punti di ritrovo e arrestando gli attivisti. In Kuwait, le autorità hanno
ancora proibito le proteste dei membri della comunità bidun, molti dei quali continuavano a vedersi
negare la cittadinanza kuwaitiana. In Bahrein, Egitto e Yemen, le forze di sicurezza hanno fatto uso
eccessivo della forza, compresa forza letale non necessaria, contro i manifestanti, provocando morti
e feriti. In Cisgiordania, soldati e polizia di frontiera israeliani hanno sparato contro i palestinesi che
lanciavano pietre e altre persone che protestavano contro gli insediamenti dei coloni, il muro/barriera
e altri aspetti della perdurante occupazione militare imposta da Israele.
In altre zone, uomini armati non identificati hanno commesso uccisioni illegali nell’impunità, in
alcuni casi prendendo di mira coloro che si erano espressi apertamente in difesa dei diritti umani e
dello stato di diritto. In Libia, Salwa Bughaighis, un’avvocata per i diritti umani che era stata una
delle voci protagoniste della rivolta popolare del 2011, è stata uccisa a colpi d’arma da fuoco da
uomini armati entrati nella sua abitazione a Bengasi, poco dopo che aveva rilasciato un’intervista in
cui criticava i potenti gruppi armati illegali.
SISTEMA GIUDIZIARIO
Arresti e detenzioni arbitrari, detenzione prolungata senza processo, sparizioni forzate e processi
iniqui sono stati fenomeni comuni in tutta la regione, una costante dimostrazione della corruzione
presente all’interno del sistema di giustizia penale, e sono stati utilizzati dalle autorità come strumenti
di repressione. Migliaia di persone sono state trattenute in Siria, Egitto, Iraq e Arabia Saudita, alcune
delle quali detenute senza accusa né processo e altre incarcerate al termine di processi iniqui. In
misura minore, detenzioni sono state effettuate anche in Bahrein, Iran, Uae e in altre parti; in alcuni
casi, le persone fermate sono state poi vittime di sparizione forzata. Le autorità israeliane hanno
trattenuto circa 500 palestinesi in detenzione amministrativa senza processo; migliaia di altri palestinesi stavano scontando pene carcerarie in Israele. Le autorità palestinesi, sia della Cisgiordania
sia di Gaza, hanno continuato a detenere oppositori politici; a Gaza i tribunali militari, e non solo,
hanno emesso condanne a morte nei confronti di presunti “collaborazionisti” con Israele.
In Libia, le milizie rivali hanno trattenuto migliaia di detenuti, alcuni dei quali si trovavano in
detenzione dalla caduta di Mu’ammar al-Gaddafi nel 2011, sottoponendone molti a condizioni dure e
degradanti, senza alcuna prospettiva di un prossimo rilascio.
In gran parte della regione, i tribunali hanno processato e condannato gli imputati con scarsa considerazione per le procedure dovute, spesso comminando lunghe pene carcerarie e in alcuni casi
condanne a morte sulla base di “confessioni” ottenute con la tortura e di accuse dalla formulazione
talmente vaga e ampia da garantire di fatto un sicuro verdetto di colpevolezza. In Egitto, un giudice
ha emesso condanne a morte preliminari contro centinaia di persone accusate di aver preso parte ad
attacchi mortali contro alcuni commissariati di polizia, al termine di due procedimenti giudiziari pro460
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fondamente viziati; un altro giudice ha condannato tre noti operatori dell’informazione a lunghe pene
carcerarie, in assenza di prove suffragate e il nuovo capo di stato ha concesso più ampi poteri ai tribunali militari, notoriamente iniqui, per far processare civili per accuse in materia di terrorismo e
altri reati. Sia in Bahrein sia negli Uae, i tribunali hanno assecondato il volere del governo nei
processi a persone accusate di reati in materia di terrorismo o di oltraggio alle autorità. In entrambi
i paesi, i tribunali hanno comminato pene carcerarie a familiari che si erano mobilitati per ottenere il
rilascio dei loro congiunti ingiustamente incarcerati. I tribunali rivoluzionari iraniani hanno continuato
a emettere verdetti di colpevolezza basati su accuse dal contenuto non ben definito e a comminare
dure sentenze, compresa la pena di morte. In Arabia Saudita, tra le persone prese di mira e condannate
al carcere, c’erano avvocati che avevano assunto la difesa in procedimenti giudiziari per accuse in
materia di sicurezza e che avevano criticato l’iniquità dei tribunali.
Arabia Saudita, Iran e Iraq sono rimasti i tre stati con il più alto numero di esecuzioni nella regione;
in tutti e tre, le autorità hanno messo a morte decine d’imputati, molti dei quali erano stati condannati
al termine di processi iniqui. Tra le persone messe a morte in Arabia Saudita, dove molte delle vittime
(26 nel solo mese di agosto) sono state decapitate in pubblico, c’era un uomo condannato per stregoneria e altri giudicati colpevoli di reati in materia di droga; per crimini che dunque non implicavano
violenza. L’Egitto ha ripreso le esecuzioni a giugno, dopo un’interruzione di oltre 30 mesi, verosimilmente
prevedendo un considerevole incremento delle esecuzioni durante l’anno, una volta che varie centinaia
di sostenitori dei Fratelli musulmani e altri condannati a morte avessero esaurito tutti i gradi d’appello.
Anche la Giordania ha ripreso le esecuzioni a dicembre dopo otto anni. In Libano, i tribunali hanno
continuato a emettere condanne a morte ma le autorità non hanno dato il via libera alle esecuzioni e
altrettanto hanno fatto le autorità di Algeria, Marocco e Tunisia, che hanno mantenuto una moratoria
de facto sulle esecuzioni.
TORTURA E ALTRI MALTRATTAMENTI
In tutta la regione, le forze di sicurezza hanno torturato e altrimenti maltrattato detenuti sotto la loro
custodia; talvolta su vasta scala. In Siria, tra le vittime c’erano anche minori e sono giunte segnalazioni
di numerosi decessi di detenuti in seguito a tortura e altri maltrattamenti, che tuttavia spesso sono
state difficili da verificare. A gennaio, sono emerse prove fotografiche di migliaia di decessi di
detenuti in custodia del governo siriano, morti a quanto pare in seguito a percosse o altra tortura o di
stenti. La tortura ha avuto carattere endemico in Egitto, dove le vittime andavano dai sospettati di
reati comuni agli attivisti dei Fratelli musulmani, rastrellati nel giro di vite del governo. I metodi di
tortura comunemente riferiti in questi e in altri paesi comprendevano percosse sotto la pianta dei
piedi, colpi inflitti mentre il detenuto era tenuto sospeso per gli arti, lunghi periodi in piedi o
accovacciato in posizioni di stress, scosse elettriche applicate ai genitali e su altre parti sensibili del
corpo, minacce contro il detenuto e la sua famiglia e in alcuni casi stupro e altri abusi sessuali.
Spesso, la tortura è stata impiegata per raccogliere informazioni che avrebbero portato alla detenzione
di altri sospettati o per ottenere “confessioni” che i tribunali avrebbero potuto poi utilizzare per
emettere condanne al carcere nei confronti di critici od oppositori del governo. Ma questi metodi sono
stati impiegati anche per degradare, umiliare e ferire psicologicamente e fisicamente le vittime. In
generale, i responsabili di tali azioni hanno potuto agire nell’impunità: i governi hanno frequentemente
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ignorato il loro obbligo sancito dal diritto internazionale di condurre indagini indipendenti sulle
accuse di tortura, raramente hanno provveduto a perseguire penalmente i presunti torturatori e,
quando l’hanno fatto, ancor più di rado, per non dire quasi mai, hanno garantito la loro condanna.
IMPUNITÀ
Non soltanto i torturatori hanno beneficiato dell’impunità. Altrettanto è stato per i leader politici e
militari, che sono stati a tutti gli effetti i responsabili o i mandanti dei crimini di guerra e di altre violazioni del diritto internazionale commessi dalle forze governative duranti i conflitti in Siria, Iraq,
Libia e Yemen, dalle forze israeliane e dai gruppi armati palestinesi a Gaza e in Israele; e per coloro
che gestivano dall’alto le violazioni dei diritti umani su vasta scala compiute in Egitto, Iran, Arabia
Saudita e Uae, e in altri stati. In Bahrein, il governo si è impegnato ad avviare indagini indipendenti
sulle torture commesse nel 2011, in risposta ai risultati di un’inchiesta indipendente condotta da
esperti internazionali, ma a fine anno non aveva ancora tenuto fede all’impegno. In Algeria, le autorità
hanno ribadito il loro continuo rifiuto di autorizzare indagini sulle uccisioni illegali e altre violazioni
compiute in passato; nello Yemen, l’ex presidente del paese e i suoi più vicini collaboratori hanno
continuato a beneficiare dell’immunità concordata quando abbandonò la carica in seguito alle
proteste del 2011, durante le quali le forze sotto il suo comando uccisero molti manifestanti. In
Tunisia, le nuove autorità hanno perseguito alcuni ex alti funzionari e membri delle forze di sicurezza
per le uccisioni illegali di manifestanti durante la rivolta nel paese ma poi un tribunale militare ha
ridotto sia le imputazioni sia le condanne a loro carico, a tal punto da lasciare a piede libero coloro
che erano stati condannati.
In un contesto di fallimenti o d’incapacità da parte dei sistemi giudiziari nazionali di affrontare l’impunità in Siria, i gruppi impegnati nella difesa dei diritti umani, compresa Amnesty International,
hanno più volte sollecitato il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a deferire la situazione in corso
in Siria e in Israele e nei Territori Palestinesi Occupati alla giurisdizione dell’Icc ma tali richieste sono
rimaste inascoltate. Nel frattempo, la Libia è rimasta sotto la giurisdizione dell’Icc su decisione del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nel 2011 ma la procuratrice dell’Icc non ha provveduto ad
avviare nuove indagini, malgrado il susseguirsi di nuovi crimini di guerra mentre la situazione nel
paese sfociava in aperta guerra civile.
DISCRIMINAZIONE – MINORANZE ETNICHE E RELIGIOSE
In uno scenario di tumulti politici, divisioni e settarismi sul piano religioso ed etnico che hanno attraversato la regione, i governi e i gruppi non statali hanno guardato alle minoranze con crescente
sospetto e intolleranza. Questo aspetto è emerso in maniera particolarmente evidente e brutale nei
conflitti in Iraq e Siria, dove molte persone sono state arrestate, rapite, cacciate dalle loro case a
scopo di “pulizia etnica” o uccise sulla base del loro luogo d’origine o appartenenza religiosa, ma è
stato palese anche in Libia, dove gli omicidi per motivi legati all’appartenenza etnica o tribale erano
frequenti e in aumento.
Nell’area del Golfo, il governo iraniano ha continuato a incarcerare i baha’i, a impedire loro di accedere
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all’istruzione superiore e a limitare i diritti di altre minoranze religiose oltre che i diritti di azeri, curdi
e altre minoranze etniche; pare abbia anche messo a morte in segreto attivisti dei diritti degli arabi
ahwazi. In Arabia Saudita, le autorità hanno proseguito la repressione delle persone critiche verso il
governo di fede sciita nella Provincia Orientale, la regione petrolifera del paese, e condannato attivisti
per i diritti civili a lunghe pene carcerarie, e in almeno un caso alla pena di morte, al termine di
processi iniqui. In Kuwait, le autorità del paese hanno continuato a revocare a decine di migliaia di
residenti bidun la cittadinanza e i diritti ad essa associati.
RIFUGIATI E SFOLLATI INTERNI
Nel 2014, la crisi siriana ha surclassato qualsiasi altra crisi analoga, diventando la peggiore al
mondo in termini di flussi di rifugiati e di sfollati. A fine anno, le persone scappate dal conflitto in
Siria erano all’incirca quattro milioni. La stragrande maggioranza di queste, circa il 95 per cento, era
ospitata nei paesi vicini: almeno 1,1 milioni in Libano, oltre 1,6 milioni in Turchia, più di 600.000 in
Giordania, oltre 220.000 in Iraq e più di 130.000 in Egitto, secondo i dati forniti dall’Unhcr, l’agenzia
delle Nazioni Unite per i rifugiati. Gli interventi di soccorso internazionali non disponevano di fondi
sufficienti per soddisfare le necessità degli sfollati. A dicembre, il piano annuale delle Nazioni Unite
per il 2014 relativo alla Risposta regionale per i rifugiati della Siria rimaneva fermo al 54 per cento
dei fondi necessari e il Programma alimentare mondiale è stato costretto a sospendere temporaneamente un piano di aiuti alimentari per 1,7 milioni di siriani, a causa della mancanza di fondi. In
molte località, il rapido flusso di un numero tanto elevato di rifugiati ha gravato enormemente sulle
risorse dei principali paesi ospitanti, innescando un clima di tensione tra le popolazioni rifugiate e le
comunità locali. Sia le autorità giordane sia quelle libanesi hanno cercato d’impedire l’ingresso dei
rifugiati palestinesi dalla Siria e, sempre più spesso, di chiunque cercasse rifugio dalla Siria; le
autorità egiziane hanno rimandato con la forza in Siria alcuni rifugiati.
In territorio siriano, c’erano altri 7,6 milioni di sfollati interni, molti dei quali erano stati costretti ad
abbandonare le loro case a causa dei combattimenti o degli attacchi settari. Alcuni erano stati
sfollati più volte; molti si trovavano in località che non erano raggiungibili dagli aiuti delle agenzie
umanitarie internazionali o erano intrappolati in aree poste sotto assedio dalle forze governative o
dai gruppi armati non statali. La loro situazione era estremamente rischiosa, con poche prospettive
di qualche miglioramento.
Se da un lato niente è stato paragonabile alla portata della crisi siriana, il suo sconfinamento in
territorio iracheno ha causato lo sfollamento interno di migliaia di persone, in parte a causa della
violenza e degli abusi dell’Is ma anche degli attacchi e degli abusi compiuti dalle milizie sciite filogovernative. In Libia, migliaia di persone costrette ad abbandonare la città di Tawargha nel 2011
dalle milizie armate di Misurata non hanno potuto tornare alle loro case e sono state soggette a
ulteriore sfollamento quando a metà anno la capitale Tripoli, assieme ad altre zone, è sprofondata in
pieno conflitto armato. A Gaza, i bombardamenti israeliani e altri attacchi hanno distrutto migliaia di
case, causando varie migliaia di sfollati durante i 50 giorni di aperto conflitto armato iniziato l’8
luglio. Anche in Israele, le autorità hanno detenuto i neo richiedenti asilo provenienti dal Sudan, dall’Eritrea e da altri paesi, presso una struttura situata nel deserto del Naqab/Nagev, rimandandone
altri nei rispettivi paesi d’origine secondo una procedura di rimpatrio che a loro dire sarebbe stata di
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carattere “spontaneo”, che non prevedeva salvaguardie per la sicurezza dei rimpatriati e che li
esponeva a elevato rischio di refoulement.
DIRITTI DEI MIGRANTI
I lavoratori migranti sono stati il motore dell’economia di molti stati nell’intera regione e non di meno
negli stati ricchi di petrolio e gas naturale dell’area del Golfo, dove hanno svolto un ruolo vitale nell’industria delle costruzioni, e non solo, oltre che nel settore dei servizi. Nonostante la loro importanza
per le economie locali, nella maggior parte degli stati i lavoratori migranti hanno continuato a non
essere adeguatamente tutelati dalle legislazioni locali sul lavoro e sono stati vittime di sfruttamento
e abusi. La designazione del Qatar quale paese ospitante della Coppa del mondo di calcio per il 2022
ha fatto sì che le politiche e le prassi adottate dalle autorità del paese, in relazione ai lavoratori
assunti in vista della costruzione dei nuovi stadi e di altre strutture correlate, fossero poste sotto costante vaglio internazionale. In risposta a tali pressioni, il governo si è impegnato a realizzare una
serie di riforme. Ciononostante, in Qatar, come in altri stati del Golfo, il sistema degli sponsor
conosciuto come kafala, utilizzato per assumere e regolamentare l’impiego dei lavoratori migranti,
ha facilitato violazioni dei loro diritti, aggravate dalla comune assenza nei vari ordinamenti nazionali
di specifici strumenti legislativi a tutela dei diritti dei migranti. Molti lavoratori migranti nella regione
sono stati obbligati dai loro principali a superare il tetto massimo di ore lavorative, senza poter
usufruire di riposi o di giornate libere e di fatto è stato loro impedito, pena l’arresto o l’espulsione, di
lasciare il datore di lavoro che abusava di loro.
Le più vulnerabili di tutte sono state forse le varie migliaia di donne di provenienza asiatica, che in
particolare erano impiegate come lavoratrici domestiche, e che erano esposte a violenze fisiche e di
altro tipo, compresi abusi sessuali, oltre che ad altre forme di abusi sul lavoro senza, o quasi, poter
accedere ad adeguati strumenti di rimedio giuridico. Le autorità saudite hanno intrapreso una serie
di espulsioni di massa di lavoratori migranti “superflui” verso lo Yemen o altri paesi, spesso dopo
averli detenuti in dure condizioni. In altre zone, in paesi come la Libia dove l’illegalità era prevalente,
i lavoratori migranti hanno subito episodi di discriminazione e altri abusi, comprese violenze e rapina
a mano armata durante il controllo dei documenti, presso i posti di blocco stradali o per le strade
delle città.
Migliaia di persone, molte delle quali erano cadute preda di trafficanti di esseri umani e di contrabbandieri senza scrupoli, hanno cercato di fuggire e di rifarsi una vita salendo a bordo d’imbarcazioni
spesso sovraffollate e inidonee alla navigazione, per attraversare il Mediterraneo. Alcune sono arrivate
in Europa; altre sono state recuperate in mare dalla marina militare italiana e almeno 3000 sono annegate.
SGOMBERI FORZATI
In Egitto, le autorità hanno continuato a sgomberare gli abitanti degli insediamenti informali del
Cairo e altrove, senza fornire un adeguato preavviso o un alloggio alternativo o un risarcimento. Tra
le persone colpite dagli sgomberi c’erano abitanti che avevano costruito le loro case in zone definite
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“insicure” dalle autorità e sono stati spostati per facilitare la costruzione di nuove aree commerciali.
L’esercito ha inoltre sgomberato con la forza almeno 1000 famiglie che abitavano lungo il confine con
Gaza, nel dichiarato intento di creare una zona “cuscinetto”. Anche le autorità israeliane hanno
attuato sgomberi forzati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, hanno attuato azioni punitive
distruggendo le abitazioni di palestinesi che avevano lanciato attacchi contro civili israeliani e hanno
demolito decine di abitazioni di palestinesi che affermavano essere state costruite senza opportuna
licenza. In Israele, le autorità hanno sgomberato con la forza beduini che abitavano in villaggi “non
riconosciuti” ufficialmente nella regione del Naqab/Negev.
DIRITTI DELLE DONNE
In tutta la regione, donne e ragazze hanno subito discriminazione nella legge e nella prassi, generata
dalle politiche ufficiali, e non sono state adeguatamente tutelate contro la violenza sessuale e di
altro tipo. La discriminazione contro le donne era profondamente radicata nella società e pochi sono
parsi essere i miglioramenti ottenuti durante l’anno. A tre anni dalle rivolte popolari che avevano attraversato la regione nel 2011, in cui le donne avevano manifestato con una visibilità senza precedenti,
proprio loro sono parse essere tra le principali vittime dei mutamenti politici che ne sono seguiti. In
Egitto, gruppi di uomini hanno attaccato e aggredito sessualmente donne che manifestavano nelle
strade adiacenti a piazza Tahrir, al Cairo. La Tunisia ha rappresentato un’eccezione degna di nota.
Qui, due poliziotti ritenuti colpevoli di stupro sono stati condannati a lunghe pene carcerarie, il
governo ha revocato le riserve poste dalla Tunisia alla Cedaw e ha nominato un comitato d’esperti,
incaricato di redigere un quadro normativo per combattere la violenza contro donne e ragazze. Anche
le autorità algerine e marocchine hanno adottato alcune positive misure legislative, benché limitate:
le prime hanno finalmente riconosciuto il diritto a ricevere un risarcimento per le donne stuprate da
membri di gruppi armati durante il conflitto interno degli anni Novanta; le seconde hanno abolito una
disposizione contenuta nel codice penale che consentiva agli stupratori di evitare sanzioni penali se
sposavano la vittima.
Nell’area del Golfo, malgrado la loro reciproca ostilità sul piano politico e religioso, i governi iraniano e
saudita sono stati accomunati da dati spaventosi in tema di diritti delle donne. In Iran, dove negli
ultimi anni sono stati detenuti o incarcerati molti attivisti per i diritti delle donne, le autorità hanno detenuto ragazze e donne che avevano manifestato contro il divieto imposto loro di assistere a eventi
sportivi. In Arabia Saudita, le autorità hanno arrestato o minacciato le donne che avevano osato sfidare
il divieto di mettersi alla guida di un veicolo. In entrambi i paesi, le autorità hanno inoltre applicato
rigidi codici di abbigliamento e di comportamento per le donne e hanno mantenuto leggi che punivano
l’adulterio con la pena di morte. Nello Yemen, donne e ragazze sono rimaste soggette a matrimoni
precoci e forzati e, in alcune province, il tasso di mutilazioni genitali femminili è rimasto elevato.
In un contesto di generale inerzia da parte dei governi, che non hanno saputo garantire a donne e
ragazze adeguati strumenti di protezione contro la violenza sessuale e la violenza domestica, gli
eccessi delle forze dell’Is in Iraq, dove verosimilmente migliaia di donne e ragazze appartenenti a minoranze etniche o religiose sono state rapite con la forza e vendute per diventare “mogli” o schiave di
membri dei gruppi armati, hanno rappresentato davvero il punto più basso mai raggiunto, riuscendo
tuttavia a strappare solo una fievole condanna da parte dei leader religiosi.
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Il 2014 è stato un anno di spaventose sofferenze per gran parte della regione del Medio Oriente e
Africa del Nord, un anno che ha visto alcuni dei peggiori eccessi della storia recente e che, mentre
volgeva al termine, lasciava intravedere ben pochi segnali di un possibile imminente miglioramento.
Tuttavia, tra i vari scenari di orrore, attori locali e altri attivisti di molte e variegate tendenze politiche
hanno continuato in vari modi a dire in faccia la verità ai potenti, a sfidare la tirannia, ad aiutare i
feriti e gli inermi e a rivendicare non soltanto i loro diritti ma anche quelli degli altri, spesso correndo
elevati rischi personali. È stato proprio l’intrepido coraggio di questi individui, molti dei quali propriamente definiti difensori dei diritti umani, l’aspetto più straordinario e destinato a durare di
questo 2014 e la più grande speranza per il futuro dei diritti umani nella regione.
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