Capitolo 5 Z L`inflazione

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Capitolo 5 Z L`inflazione
Parte quartaLa moneta e il sistema finanziario
Capitolo 5 L’inflazione
Z
Sommario Z 1. Il fenomeno inflazionistico. - 2. Le cause dell’inflazione. - 3. Gli effetti
dell’inflazione. - 4. Il controllo dell’inflazione. - 5. Inflazione e disoccupazione:
la curva di Phillips. - 6. La stagflazione e la spiegazione monetarista. - Schema
riassuntivo.
1.Il fenomeno inflazionistico
Nel suo significato più generale il termine inflazione sta ad indicare l’aumento persistente del livello generale dei prezzi e la conseguente diminuzione del potere d’acquisto
della moneta.
Un continuo aumento dei prezzi può arrecare gravi danni a tutto il sistema economico sia
perché i lavoratori chiederanno salari sempre più alti, per compensare il loro minore potere d’acquisto, sia perchè gli operatori economici potrebbero perdere fiducia nel potere
d’acquisto della moneta ricorrendo a valute estere o ritornando ad un’economia di baratto.
Una tale situazione si verificò in Germania nel 1923 quando il valore del marco aveva subito una tale
svalutazione che la popolazione preferiva utilizzare dollari o scambiare beni piuttosto che utilizzare i
quintali di marchi necessari a comprare i beni di consumo; basti pensare che fu emesso un francobollo del valore di 10 miliardi di marchi.
La moderna teoria riconosce diversi stadi inflazionistici caratterizzati da vari livelli del
tasso d’inflazione.
Inflazione strisciante. L’inflazione non è un fenomeno recente in quanto anche nel secondo dopoguerra si è avuto un tasso di inflazione costante del 2-3% annuo. Un’inflazione contenuta entro questi limiti, detta strisciante, non destava eccessiva preoccupazione
nei governi, in quanto era considerata come il prezzo da pagare per raggiungere l’obiettivo della piena occupazione; inoltre l’inflazione strisciante è facilmente controllabile e non
altera in modo vistoso il potere d’acquisto della moneta.
Inflazione galoppante. Questo tipo di inflazione è caratterizzata da un aumento progressivo dei prezzi dei beni difficilmente controllabile.
Questo accade quando il tasso annuo di inflazione è superiore ad una media del 7-9% e
sale fino al 15-20% ed anche più (a questo livello il valore nominale della moneta si dimezza all’incirca ogni quattro anni).
In una situazione di inflazione galoppante la moneta è trattenuta dai soggetti per periodi non
superiori a quelli necessari per gli acquisti giornalieri, e ciò provoca un vertiginoso aumento
della velocità di circolazione del denaro che, a sua volta, causa un nuovo aumento dei prezzi.
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Iperinflazione. Quando il tasso annuo di inflazione supera il livello precedentemente
definito per l’inflazione galoppante, si è soliti parlare di iperinflazione. A tali livelli (in
genere superiori al 50% mensile) la moneta cessa praticamente di essere un valido intermediario negli scambi, in quanto non è più possibile definire un suo valore.
2.Le cause dell’inflazione
L’inflazione è riconducibile a due cause principali: eccesso di domanda e aumento dei
costi; non vanno però dimenticate altre tipologie di inflazione come l’inflazione settoriale e quella programmata. In realtà, però, l’inflazione difficilmente può essere ricondotta
ad un’unica causa, spesso essa è la risultante di varie spinte concorrenti.
L’inflazione da eccesso di domanda. Si verifica quando la domanda globale supera le
capacità produttive del sistema: essa si verifica cioè in condizioni di piena occupazione
delle risorse disponibili.
Un incremento della domanda richiede un adeguamento dal lato dell’offerta, ovvero della produzione ottenibile sul mercato. Quando, però, la domanda supera il prodotto potenziale ciò non è più realizzabile, in quanto è fisicamente impossibile produrre più di quello
che la capacità produttiva del sistema consente. In questo caso si determina uno scarto
inflazionistico (inflationary gap) fra domanda potenziale ed offerta reale, cosicchè la
crescita della domanda si tramuta semplicemente in una crescita monetaria dell’offerta o
del prodotto, vale a dire in un aumento dei prezzi che colma ex post tale divario.
È il caso tipico dei periodi bellici o pre-bellici, quando l’intera produzione di una nazione è indirizzata
agli armamenti ed alle necessità della guerra più che all’offerta di merci di normale impiego e quando
il richiamo alle armi porta ad una situazione di piena occupazione.
L’inflazione da costi. Si ha allorchè i prezzi dei fattori produttivi (salari, materie prime) aumentano e tali aumenti successivamente si ripercuotono sui prezzi dei beni.
Il fenomeno si presenta, in modo molto schematico, in questi termini: ad esempio, un
aumento dei salari superiore alla produttività del lavoro, ottenuto dai sindacati con i contratti collettivi, induce gli imprenditori ad aumentare i prezzi di vendita dei beni in modo
da lasciare inalterato il loro margine di profitto.
Attraverso l’aumento dei prezzi le imprese riescono a compensare l’aumento dei costi di
produzione, ma ciò danneggia i lavoratori stessi, in quanto il loro precedente incremento
salariale risulta del tutto vanificato in conseguenza dell’aumento dei prezzi. Essi perciò
chiederanno un nuovo aumento che a sua volta determinerà un successivo aumento dei
prezzi.
In questo modo si metterà in moto una spirale prezzi-salari molto difficile da arrestare.
L’inflazione da costi può essere causata anche da un aumento del costo delle materie
prime ed in particolare delle fonti di approvvigionamento energetico. Se un paese come
l’Italia importa una grande quantità di petrolio, un aumento del prezzo di questa materia
prima provocherà un aumento dei costi di produzione e quindi dei prezzi; in questo caso
si è soliti parlare di inflazione importata.
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L’inflazione settoriale. I settori produttivi di un moderno sistema economico sono caratterizzati da diversi gradi di produttività. I settori esposti alla concorrenza internazionale,
ad esempio, hanno bisogno di un elevato grado di flessibilità, dinamicità e capacità d’innovazione. Altri settori, come quello della Pubblica Amministrazione, sono caratterizzati,
per la qualità stessa del prodotto offerto, da una dinamicità molto meno elevata. Poiché,
però, i due settori possono presentare una stessa dinamica salariale pur in presenza di diversi aumenti di produttività (elevato nel settore dinamico, quasi nullo in quello stagnante) possono verificarsi fenomeni inflazionistici.
L’inflazione programmata. Si parla infine di inflazione programmata quando le autorità
politiche decidono l’aumento delle imposte indirette o dei prezzi amministrati (i
prezzi di particolari categorie di beni e servizi pubblici) accettandone le inevitabili ripercussioni inflazionistiche.
3.Gli effetti dell’inflazione
Riguardo gli effetti che l’inflazione provoca sul sistema economico, essa, innanzi tutto,
genera incertezza e sfiducia nelle aspettative. La prospettiva di un livello dei prezzi
crescente pregiudica notevolmente la propensione e, quindi, l’offerta di risparmio perchè
i consumatori, per il timore di futuri aumenti dei prezzi, tendono ad acquistare, al valore
attuale, anche quei beni dei quali avranno bisogno solo in seguito, evitando in ogni caso
la detenzione prolungata di liquidità soggetta a perdita di valore.
La diminuizione dell’offerta di risparmio e l’aumento di domanda di moneta concorrono
poi a determinare un rialzo del tasso di interesse che raggiunge livelli tali da scoraggiare
gli investimenti.
Le conseguenze più gravi riguardano, tuttavia, l’equità nella distribuzione del reddito, in
quanto l’inflazione danneggia i percettori di redditi fissi (impiegati, operai, pensionati) che
avvertono l’erosione dei propri salari in termini reali.
Per evitare tali effetti in passato, sono stati introdotti dei meccanismi automatici che facevano aumentare il salario in relazione al costo della vita.
In Italia questo avveniva attraverso la cosiddetta scala mobile dei salari che, appunto, era costituita
da un continuo adeguamento dei salari all’aumento dei prezzi provocato dall’inflazione. Tale meccanismo di indicizzazione dei salari, dopo una prima modifica, avvenuta nel 1984, è stato definitivamente abbandonato con l’accordo fra Confindustria, Governo e sindacati del luglio 1993.
Alti tassi di inflazione, inoltre, influiscono negativamente sul volume degli investimenti esteri, che si troverebbero esposti ad eccessive fluttuazioni, mentre, quand’anche riuscissero a conseguire una remunerazione in termini reali e non puramente monetaria,
ben poco potrebbero lucrare una volta convertita in valuta forte la moneta dello Stato di
destinazione.
Si determina ancora, nella più gran parte dei casi, un eccesso del valore delle importazioni sulle esportazioni, le prime da pagarsi in valuta forte, non inflazionata, con conseguente aggravio della stabilità dei cambi. Su questi ultimi, infatti, l’inflazione produce effetti
negativi, in quanto ad essa generalmente seguono fenomeni di svalutazione della moneta.
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Il rapporto, tuttavia, tra i due meccanismi non è così automatico come generalmente si ritiene, non
potendosi affermare, per esempio, che ad un tasso di inflazione del 10% faccia riscontro una svalutazione della moneta nazionale nella stessa misura. La svalutazione della moneta, invece, presuppone il raffronto con il valore della moneta di altro Stato e la sua misura è data dal differenziale di inflazione dei due Stati. Se, quindi, in un paese il tasso di inflazione è del 10% ed in un altro del 12%, si
può affermare, in linea di massima, che la moneta del secondo si è svalutata nell’anno di riferimento
del 2% rispetto a quella del primo.
Tutto ciò, è evidente, ha immediato effetto sul volume dell’occupazione: la caduta degli
investimenti, nazionali ed esteri, determinando la diminuizione delle capacità produttive
del sistema, induce ad una minore utilizzazione di forza lavoro. Lo stesso dicasi per quanto riguarda la perdita di competitività dei prodotti nazionali sui mercati esteri: l’inflazione
rende le merci prodotte all’interno più costose, mentre risultano più convenienti quelle
importate. In entrambi i casi la minore domanda di prodotti nazionali determina un calo
della produzione e, quindi, dell’occupazione interna.
4.Il controllo dell’inflazione
Per combattere l’inflazione si è soliti adottare una politica economica che tende a rallentare i consumi interni utilizzando due strumenti fondamentali: la politica fiscale e la politica monetaria.
Nel primo caso si aumenta la pressione fiscale o si riduce la spesa pubblica, provocando
una contrazione della domanda globale (più imposte vengono pagate, meno soldi per
consumi si hanno a disposizione); nel secondo caso, si opera una politica monetaria restrittiva attraverso una contrazione dell’offerta di moneta e, di conseguenza, degli investimenti e del reddito disponibile.
Con il tempo, a queste tradizionali «ricette» deflazionistiche (di chiara ispirazione keynesiana)
si sono aggiunte altre tecniche, la più importante delle quali è senz’altro la politica dei redditi.
Come si è visto, un’inflazione da costi può innescare una rincorsa tra salari e prezzi per
cui, ad un aumento dei salari, corrisponde un aumento dei costi e quindi dei prezzi. Per
poter bloccare questo processo è stata sperimentata in vari paesi la cosiddetta politica dei
redditi. Essa si attua, sostanzialmente, in due modi:
— blocco dei prezzi e dei salari. In questo caso il governo decide di bloccare ogni ulteriore
aumento dei prezzi dei prodotti e dei salari dei lavoratori spezzando così il circolo che si
era precedentemente innescato. Chiaramente, questa politica è perseguibile soltanto per
brevi periodi in quanto nel lungo periodo è molto difficile controllare i prezzi ed i salari
senza creare delle tensioni sociali (nel caso in cui si tratti di un’economia non pianificata);
— il patto sociale. In tale ipotesi il freno all’aumento dei salari e dei prezzi è il risultato
di un accordo tra le varie categorie sociali raggiunto con l’intermediazione delle autorità governative.
I lavoratori e gli imprenditori decidono di contenere le rivendicazioni salariali e gli
aumenti dei prezzi entro limiti circoscritti (in genere l’aumento di queste due grandezze è determinato in proporzione agli aumenti di produttività dei lavoratori).
Un tale tipo di accordo è stato sperimentato in Italia con il già ricordato accordo del
luglio 1993. In quell’occasione, infatti, oltre ad abolire la scala mobile, ha anche so-
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speso la contrattazione a livello aziendale in materia retributiva ed ha portato al blocco dei salari nel pubblico impiego.
Altre politiche anti-inflazionistiche dette TIP (tax incentive plans) sono basate su incentivi fiscali volti a ridurre l’inflazione invogliando i lavoratori e le imprese a mantenere ridotti gli aumenti dei salari e dei prezzi.
In questo caso si applicano aliquote fiscali più alte a quelle imprese che concedono aumenti salariali
superiori ad una certa soglia. Il problema è che non è sempre facile distinguere fra aumenti salariali
dovuti al costo della vita e aumenti dovuti a promozione o lavoro straordinario: di qui le difficoltà di una
corretta gestione dei TIP. Inoltre, come qualsiasi altro strumento di controllo diretto o indiretto dei
salari, anche i TIP devono confrontarsi con le necessità di assicurare a prezzi e salari un’ampia flessibilità, affinchè le risorse siano allocate in modo efficiente.
5.Inflazione e disoccupazione: la curva di Phillips
Nel corso degli anni Sessanta i sistemi economici dei paesi più industrializzati erano stati interessati da una situazione prossima al pieno impiego e da un moderato livello di aumento dei prezzi. D’altra parte era opinione diffusa che un ritmo di espansione economica così sostenuto avesse come contropartita un modesto livello di inflazione.
Questa convinzione trovava il suo fondamento in una ricerca empirica condotta nel 1958
dall’inglese A.W. Phillips ed espressa nella cosiddetta «curva di Phillips», la quale portava a concludere che esisteva una relazione inversa tra tassi di variazione dei salari
monetari (e, quindi, in senso lato, dei prezzi) e il livello percentuale di disoccupazione
del sistema. In altre parole un’occupazione elevata (quindi un basso tasso di disoccupazione) facendo aumentare la domanda di lavoro provocava una crescita nei salari monetari, mentre una minore occupazione (quindi un’offerta inferiore di lavoro e un alto tasso
di disoccupazione) favoriva una diminuizione del tasso di variazione dei salari monetari.
Infatti, quando la disoccupazione è bassa, le imprese hanno difficoltà a trovare la forza lavoro di cui
necessitano; di conseguenza, esse sono disposte ad offrire salari più alti, determinando un aumento
dei saggi salariali. Se invece si è in presenza di un alto saggio di disoccupazione, la concorrenza tra
i lavoratori terrà bassi i salari.
Tasso di variazione dei salari
°
w
P1
P3
P2
°B
w
B
B1
°A
w
A
A1
O
u0
u*
Disoccupazione percentuale
Fig. 1 - La curva di Plillips
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Diffusasi in un clima (quello degli anni Sessanta) dominato dall’ortodossia keynesiana, la curva di
Phillips fu considerata una specie di ricettario per la politica economica. Da un lato essa indicava che
una certa disoccupazione aveva come costo una determinata lievitazione dei prezzi; dall’altro lato che
la stabilità dei prezzi aveva come costo un certo livello di disoccupazione. La scelta consisteva nel
combinare in modo ottimale inflazione e disoccupazione.
Sembrava, dunque, del tutto naturale adottare politiche che contenessero la disoccupazione entro
limiti ritenuti socialmente accettabili (4-5%). Se, però, tali politiche espansive «surriscaldavano» i
prezzi, si interveniva in modo restrittivo per frenare l’inflazione.
Questo tipo di politica è conosciuta col nome di «stop and go», ovvero di «arresto e spinta», in quanto dapprima arresta la crescita economica, creando una depressione per combattere l’inflazione,
mentre successivamente spinge il sistema verso la crescita, generando nuovamente spinte inflazionistiche, allo scopo di combattere la depressione precedentemente creatasi.
Già nel 1967, Friedman e Phelps avevano sostenuto che la curva di Phillips è una relazione valida
solo nel breve periodo, mentre nel lungo periodo non esiste alcun trade-off fra saggio di variazione
dei prezzi e disoccupazione poiché quest’ultima tenderà sempre a stabilizzarsi intorno al saggio naturale di disoccupazione.
La relazione stabile fra inflazione salariale e saggio di disoccupazione, riscontrata lungo l’arco di
quasi un secolo, venne sintetizzata dallo stesso Phillips nell’omonima curva. Essa presenta alcune
interessanti caratteristiche. Innanzitutto è inclinata negativamente: a minori saggi di disoccupazione
corrispondono, per quanto detto, tassi di variazione dei salari più alti.
Inoltre, nel punto in cui la curva incontra l’asse orizzontale (detto saggio naturale di disoccupazione),
il tasso di variazione dei salari è nullo.
Infine, l’inclinazione della curva non è costante ma diminuisce al crescere della disoccupazione.
Se si suppone che i prezzi di vendita siano fissati in base al costo medio più un certo margine di
profitto (mark up), è possibile considerare la relazione fra disoccupazione ed inflazione.
Si può allora scegliere, fra i diversi punti della curva, di diminuire la disoccupazione (a patto di
accettare una maggiore crescita dei prezzi) o di stabilizzare i prezzi (a patto di ridurre l’occupazione).
Secondo Phelps e Friedman, infatti, i lavoratori non sono interessati ai salari nominali, ma a quelli
reali poiché solo questi ultimi determinano la loro effettiva capacità d’acquisto. Al momento della
contrattazione salariale, dunque, i lavoratori terranno ben presente il tasso d’inflazione atteso e sulla
base di questo chiederanno dei salari adeguati a mantenere costante, anche nel futuro, la precedente capacità d’acquisto. Quindi, quanto più alta è l’inflazione attesa, tanto più rapidamente aumenteranno i salari nominali: la curva, dunque, sarà traslata verso l’alto.
e
L’equazione della curva di Phillips diventa, dunque: p° = f(u) + p° dove f(u) è la relazione inversa
e
esistente nel breve periodo fra inflazione e disoccupazione, mentre p° indica il tasso d’inflazione atteso. Si parte da una situazione in cui la disoccupazione è pari a u*: una politica di sostegno dell’occu°
pazione può ridurre il tasso a u0 cui corrisponde un tasso di aumento dei salari WA. Si sviluppano ora
attese infla­zionistiche: nel grafico ciò significa che a tassi d’inflazione attesi più alti corrispondono
curve più alte (da P1 a P2). Di conseguenza, la disoccupazione ritorna al tasso u* cui corrisponde un
tasso di variazione dei salari (inflazione) A1. Nel lungo periodo queste traslazioni comportano, secondo Friedman, che la curva di Phillips diventi verticale in corrispondenza di u*, il saggio naturale di disoccupazione.
6.La stagflazione e la spiegazione monetarista
La possibilità di poter effettuare questo trade-off, questo scambio fra occupazione ed inflazione, venne bruscamente meno negli anni Settanta del secolo scorso: per la prima
volta i sistemi economici dei paesi più industrializzati videro la contemporanea e prolungata coesistenza di due fenomeni ritenuti fino ad allora mutuamente escludentisi quali
l’inflazione e la disoccupazione. Per il nuovo fenomeno venne coniato il nome di stagfla-
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zione (stagnazione + inflazione) e di fronte ad esso le politiche d’impronta keynesiana
rivelarono numerosi limiti.
Furono così rivalutate le teorie della scuola monetarista che, in netta antitesi con l’economista inglese, si richiama alla teoria quantitativa. In effetti, la spiegazione della stagflazione fornita da Friedman, il massimo esponente della scuola monetarista, sembrò per
lungo tempo l’unica convincente.
Friedman non pone in discussione l’esistenza, nel breve periodo, della correlazione inversa prezzi-disoccupazione. Nel lungo periodo, però, tale correlazione viene meno e la
curva di Phillips diventa verticale in corrispondenza del tasso naturale di disoccupazione
(vedi figura 1).
Oltre all’ipotesi del tasso naturale di disoccupazione altri punti qualificanti del pensiero
monetarista sono:
— la fiducia nella stabilità intrinseca del mercato;
— il considerare la moneta unicamente come una delle possibili forme di attività patrimoniale, così che gli operatori ripartiranno la propria ricchezza fra attività finanziarie
e beni reali;
— il considerare determinante, nelle scelte del consumatore, non tanto il reddito attuale
quanto quello permanente, ovvero il reddito che l’individuo prevede di conseguire in
media nell’arco della sua vita.
Queste proposizioni fondamentali portano i monetaristi ad affermare che la domanda di
moneta è stabile nel tempo. La conseguenza di ciò è che le uniche perturbazioni all’equilibrio del mercato monetario (ed al sistema nel suo complesso) possono provenire solo
dall’azione dell’operatore pubblico.
Da quanto detto segue che una politica monetaria attiva non può che avere un effetto destabilizzante sia perché essa opera con ritardi lunghi e variabili (impossibilità del fine tuning)
sia perché, nel lungo periodo, provoca inflazione. Poiché quest’ultima ha sempre un’origine monetaria e poiché la domanda di moneta è essenzialmente stabile, l’unica valida
politica monetaria consiste nell’aumentare la quantità di moneta in circolazione ad un
tasso equivalente a quello dell’aumento del reddito reale del sistema economico; se
si suppone che il ritmo di crescita del prodotto nazionale sia del 3%, anche l’aumento
dell’offerta di moneta dovrà essere del 3%.
I monetaristi affermano, inoltre, che ogni aumento dell’offerta di moneta deve essere
comunicato agli operatori evitando, in tal modo, che questi ultimi formulino aspettative
negative sul futuro dell’economia.
Il controllo dell’inflazione attraverso l’applicazione di questa «regola semplice» (aumento dell’offerta di moneta equivalente all’aumento del prodotto nazionale) presuppone che
il sistema economico, lasciato a se stesso, possa raggiungere il suo equilibrio naturale. In
tale ipotesi, le politiche keynesiane (aumento della pressione fiscale o restrizione della
spesa pubbica) possono avere effetti soltanto nel breve periodo, ma provocheranno un
aumento dell’inflazione, senza alcun beneficio per il sistema economico, nel lungo periodo per i loro effetti distorsivi.
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Parte quarta - La moneta e il sistema finanziario
SCHEMA RIASSUNTIVO
Inflazione
aumento persistente del livello generale dei prezzi che provoca la riduzione del potere d’acquisto della moneta
Intensità
dell’inflazione
strisciante
galoppante
iperinflazione
Cause
dell’inflazione
aumento della domanda globale
aumento dei prezzi dei fattori produttivi
settoriale
programmata
Effetti
dell’inflazione
aspettative pessimistiche degli operatori circa l’andamento dell’economia
aumenti del tasso di interesse
iniqua distribuzione del reddito
riduzione degli investimenti
Controllo
dell’inflazione
Curva di Phillips
rimedio avanzato
dalla scuola monetarista
aumentare la moneta ad un tasso equivalente a quello dell’aumento del reddito reale
rimedi suggeriti dalla
scuola keynesiana
blocchi dei prezzi
patto sociale
indica la correlazione esistente fra il tasso di cambiamento dei salari nominali ed il tasso di disoccupazione
Questionario
1.Come può definirsi l’inflazione?
(par. 1)
2.Che differenza c’è tra inflazione galoppante e iperinflazione?
(par. 1)
3.Un aumento del prezzo delle materie prime che tipo di inflazione può generare?
(par. 2)
4.Quali effetti genera l’inflazione sul sistema economico?
(par. 3)
5.Quali sono i rimedi contro l’inflazione?
(par. 4)
Capitolo 5 - L’inflazione
6.Che tipo di relazione rappresenta la curva di Phillips?
(par. 5)
7.Che cosa significa il termine stagflazione?
(par. 6)
8.Qual è l’idea dei monetaristi rispetto alla politica monetaria?
(par. 6)
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