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ae 13-14/2013
| agricoltura | alimentazione | economia | ecologia |
agricoltura | alimentazione
economia | ecologia
MONOGRAFIA
EDIZIONI
LARISER
€ 10,00
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ae 13-14/2013
POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. D.L. 353/03 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1 COMMA 1 ROMA AUT. N. C/RM/47/2012 - AE AGRICOLTURA ALIMENTAZIONE ECONOMIA ECOLOGIA - N. 13-14-2013
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ISSN 2036-9948
Rivista trimestrale della FLAI CGIL
Politiche contrattuali e lavoro
■ Le politiche contrattuali,
il lavoro e i lavoratori
■ La crisi italiana nell’Europa tedesca:
per una nuova diplomazia economica
e sindacale
agricoltura | alimentazione
economia | ecologia
■ Il negoziato e la struttura contrattuale
■ La contrattazione collettiva
del settore agricolo.
Tra passato e futuro
■ Le Organizzazioni dei produttori:
una nuova prospettiva contrattuale?
■ Condizioni di sicurezza e d’igiene
nel vitivinicolo: due realtà toscane
e pugliesi a confronto
EDIZIONI
LARISER
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ae 13-14/2013
agricoltura alimentazione economia ecologia
Rivista trimestrale della Federazione lavoratori
agroindustria della CGIL e della Fondazione Metes
Ricerca e formazione nel settore agroalimentare
per il lavoro e la sostenibilità
DIRETTORE
Franco Farina
REDAZIONE
Claudia Cesarini
Massimiliano D’Alessio
Elisabetta Olivieri
Laura Svaluto Moreolo
Alessandra Valentini
EDIZIONI
LARISER
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agricoltura alimentazione economia ecologia
■ RIVISTA TRIMESTRALE N. 13-14 ■ GENNAIO-GIUGNO 2013
Direzione, redazione e segreteria
Via dell’Arco dei Ginnasi, 6 - 00186 Roma
Tel. 39.06.6976131 (centralino)
Fax 39.06.697613226 - E-mail: [email protected]
Direttore responsabile
Franco Chiriaco
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Lariser - Via Leopoldo Serra, 31 - 00153 Roma
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PDE
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n. 491/2001 del Registro della stampa
Poste Italiane spa spedizione in a.p. D.L. 353/03 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46)
art. 1 comma 1 Roma Aut. n. C/RM/47/2012
Proprietà
Lariser
copyright by Lariser 2010
Ediesse s.r.l. 2012
Questo numero è stato chiuso in tipografia il 24 luglio 2013
Questa rivista è
Associata all’Uspi
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■ Sommario
■ Presentazione
La redazione
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■ Monografia | Politiche contrattuali e lavoro
L’argomento
Le politiche contrattuali, il lavoro e i lavoratori
Stefania Crogi
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L’analisi
La crisi italiana nell’Europa tedesca:
per una nuova diplomazia economica e sindacale
Adolfo Pepe
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Temi
Il negoziato e la struttura contrattuale
Franco Farina
33
La contrattazione collettiva del settore agricolo
Tra passato e futuro
Gino Rotella
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Le Organizzazioni dei produttori:
una nuova prospettiva contrattuale?
Massimiliano D’Alessio
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■ Ricerche
Condizioni di sicurezza e d’igiene nel vitivinicolo:
due realtà toscane e pugliesi a confronto
Felice Giordano
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■ Presentazione
La redazione
S. Crogi, Le politiche contrattuali, il lavoro e i lavoratori, apre il fascicolo monografico. Si sofferma sull’emergenza nazionale rappresentata dalla perdita consistente di posti di lavoro, dall’occupazione precaria e dall’erosione del potere d’acquisto
dei salari. Ritiene fondamentale la forza del contratto nazionale, la sua centralità e
le grandi potenzialità della contrattazione di secondo livello. A tale riguardo le politiche contrattuali sono esaminate come indispensabili per il lavoro legale, per l’inclusività di tutti i lavoratori interessati ai cicli produttivi e per il governo dell’organizzazione del lavoro, degli orari, della professionalità e dell’accesso alla formazione.
Si sofferma sulla criticità dell’agricoltura e sulla necessità di una riforma pubblica del
mercato del lavoro di questo settore. Mostra, infine, la relazione tra le politiche contrattuali e la democrazia tramite il protocollo unitario sottoscritto recentemente sulla rappresentanza sindacale.
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A. Pepe, La crisi italiana nell’Europa tedesca: per una nuova diplomazia economica e sindacale, sviluppa, in un’ampia analisi, l’attuale fase della crisi globale.
Considera che questo periodo di recessione economica si risolverà solo con un bilanciamento di potenza tra Stati Uniti ed Europa, cioè con una ridefinizione del
ruolo di leadership americana e del grado di autonomia dell’Europa-Germania. In
questo quadro l’autore rileva che a differenza della Germania, del Giappone, degli Stati Uniti, dove si liberavano la ricerca e l’innovazione e si puntava sulla formazione della forza lavoro, in Italia si smantellavano la ricerca, le grandi imprese,
la formazione, gli investimenti produttivi e le riorganizzazioni innovative delle
fabbriche per una competizione sui mercati secondari. Ritiene che l’involuzione
del capitalismo italiano dipenda dal ceto politico ed economico che si è formato
in Italia, privo di autonomia per esercitare le funzioni primarie della legalità. Individua in una nuova diplomazia economico-sindacale la funzione di un rinnovamento sociale ed economico a patto però che si esca dal gretto classismo e che
si apra ad una cultura dei diritti, delle regole, della responsabilità sociale a beneficio della comunità nazionale. Termina affermando che questo compito richiede
un confronto senza strumentalizzazioni e banalizzazioni con la lezione della Germania nella crisi globale.
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F. Farina, Il negoziato e la struttura contrattuale, si sofferma sul modello contrattuale che si è realizzato nel corso della storia sindacale italiana. Rileva che tale esempio tripolare articolato sul livello confederale, federale e sulla contrattazione aziendale si sostenne sull’autonomia sindacale e politica delle Federazioni sugli aspetti
della struttura contrattuale relativi al contratto nazionale e alla contrattazione articolata. Rimarca che l’affermazione del modello fu la separazione tra politiche rivendicative e politiche dei redditi secondo la necessità autonoma della Cgil di intervenire sulle politiche governative con una direzione rivendicativa e salariale conforme
agli obiettivi di carattere generale. Indica che l’accordo interconfederale del 23 luglio 1993 stabilì per la prima volta la relazione tra struttura contrattuale e politica
dei redditi, ma con la previsione degli impegni governativi sull’occupazione, sulla
gestione delle crisi occupazionali, sulla riattivazione del mercato del lavoro, sul sostegno al sistema produttivo e così via. Osserva che nel corso degli anni gli obiettivi di sviluppo non furono applicati mentre la struttura contrattuale fu fortemente
indebolita dall’accordo separato del 2009 che ha introdotto la riduzione rilevante
del ruolo centrale del contratto nazionale, aziendale e della dinamica salariale. Sostiene che una riforma della struttura contrattuale debba togliere i lacci e laccioli che
avvolgono la contrattazione collettiva per perseguire una diversa redistribuzione del
reddito tra capitale e lavoro, per intervenire sulla disuguaglianza e su un’incisiva rappresentatività del mondo del lavoro.
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G. Rotella, La contrattazione collettiva del settore agricolo tra passato e futuro, ritiene che la contrattazione collettiva del settore agricolo sia giunta a un punto cruciale. Considera che l’attuale contrattazione rischia di non rappresentare più gli effettivi interessi delle parti e di muoversi in un contesto sganciato dal processo di modernizzazione che sta attraversando il settore agricolo. Rileva la necessità di andare
oltre il protocollo sugli assetti contrattuali firmato dalle parti sociali il 22 settembre
2009 per disegnare una profonda riforma che tenga conto di quanto sta avvenendo
sul piano della ristrutturazione dell’assetto agrario e produttivo, della salvaguardia
del potere d’acquisto dei salari, delle modifiche avvenute nel mercato del lavoro e
del più complessivo quadro riformatore in ambito previdenziale di cui il sistema
agricolo ha bisogno.
M. D’Alessio, Le Organizzazioni dei produttori: una nuova prospettiva contrattuale?, mostra la crescente diffusione delle Organizzazioni di produttori e ritiene che
costituiscano un’importante risorsa per il potenziamento della competitività degli
operatori dell’ortofrutta italiana e degli altri comparti produttivi dell’agricoltura nazionale. Valuta il potenziamento delle Op, previsto dalla riforma della Pac post
2013, che dovrebbero ampliare le loro funzioni e il campo di azione. Considera le
F. Giordano, Condizioni di sicurezza e d’igiene nel vitivinicolo: due realtà toscane
e pugliesi a confronto, sulla base della ricerca sul campo delle due realtà ritiene necessaria la promozione di corsi di formazione per i lavoratori più deboli, come i lavoratori stagionali. Rileva che per gli infortuni esiste un sommerso e suggerisce,
quindi, l’opportunità di rivedere le procedure di denuncia. Segnala le precarie condizioni igieniche per molti lavoratori del vitivinicolo che operano nei vigneti, soprattutto per le donne. Conferma che il lavoro nel comparto vitivinicolo è un’importante fonte di sostentamento soprattutto per i lavoratori pugliesi, dove esiste una
buona percentuale di famiglie monoreddito (27% di disoccupati tra i coniugi/conviventi dei lavoratori); indica, inoltre, che i contratti di lavoro in Toscana sono in
maggior percentuale a tempo pieno e più stabili.
Presentazione
Op un riferimento importante per la definizione di un nuovo modello contrattuale più inclusivo e più efficace, data la loro conformità aziendale e territoriale, e l’occasione di una migliore efficienza degli strumenti contrattuali anche attraverso la
sperimentazione di meccanismi negoziali innovativi.
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Monografia
Politiche contrattuali
e lavoro
■ L’argomento
■ L’analisi
■ Temi
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■ L’argomento
Le politiche contrattuali, il lavoro e i lavoratori
Stefania Crogi*
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al 2008 l’economia italiana ha perso 600.000 posti di lavoro, come recentemente riportato dal Rapporto sul mondo del lavoro dell’Ilo. Insieme a
questo dato ve n’è almeno un altro da sottolineare: l’occupazione precaria
nel 2012 ha raggiunto il 32%, grazie anche al contributo non indifferente dell’ex ministro Fornero.
Sono dati che ribadiscono come l’emergenza nazionale sia rappresentata dal lavoro, dalla ricerca di occupazione per i giovani, ma un’occupazione in grado di dare garanzie minime ad ogni individuo per poter programmare la propria esistenza.
La precarietà, il lavoro intermittente, pause e percorsi altalenanti non rappresentano solo una condizione occupazionale, bensì una condizione di vita. Alla mancanza di lavoro si aggiunge la continua erosione del potere d’acquisto dei salari, per i
più fortunati che una occupazione ce l’hanno, ma che comunque faticano ad arrivare a fine mese.
Rimettere al centro il lavoro e renderlo portatore di diritti, tutele, equo salario
significa anche portare in primo piano le politiche contrattuali e con esse la buona
occupazione.
Nell’Italia al tempo della crisi qualcuno – ovviamente non il sindacato – ha pensato che si potesse «sacrificare» il contratto: meglio rinunciare, tanto le regole ci pensa la crisi a dettarle e al lavoratore resta solo la possibilità di prendere o lasciare! La
crisi è stata, da parte di alcuni settori produttivi, un alibi per non rinnovare, non investire, competere al ribasso, comprimere i salari.
Invece no, è proprio in questo contesto che assume importanza fondamentale la
capacità del sindacato di contrattare, di negoziare, di rinnovare i contratti e di ribadire – con i fatti – la forza del contratto nazionale di lavoro e le grandi potenzialità
rappresentate dalla contrattazione di secondo livello.
Politiche contrattuali significa lavoro legale, sicuro e dignitoso, significa qualità
e quindi sviluppo e competitività, parole e concetti chiave per il rilancio dell’economia e del paese, poiché è assolutamente miope e inefficace pensare di poter esse-
* Segretario generale della Flai-Cgil nazionale.
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re competitivi abbassando i diritti, le tutele, la qualità del lavoro e di conseguenza
la qualità di quello che si produce.
Politiche contrattuali significa inclusività, cioè ampliare realmente la platea dei
lavoratori e delle lavoratrici cui ci si rivolge, guardando a chi non ha un contratto
nazionale e attivando tutte le politiche necessarie per tutelare tutti i lavoratori interessati al processo di filiera produttiva, di comparto, di territorio in una logica di
universalità dei diritti. È necessario estendere la contrattazione di secondo livello e
riassumere la frammentazione del ciclo produttivo.
Politiche contrattuali significa anche ribadire la centralità del Ccnl, contro ogni
tentativo di destrutturarlo e svuotarlo, e valorizzare la contrattazione di secondo livello, che si deve prefigurare come un livello di governo delle intese nazionali su organizzazione del lavoro, orari, professionalità e accesso alla formazione. Anzi, a fronte di episodi di crisi che portano a processi di ristrutturazione, è proprio attraverso
gli strumenti della contrattazione che è possibile difendere l’occupazione; si pensi,
ad esempio, alla possibilità di intervenire sull’orario.
Crediamo che in tempo di crisi contrattare si può. La nostra categoria lo fa, e il
comparto dell’industria agroalimentare è stato anticipatore di un sistema contrattuale rinnovato e più moderno, la strada su cui intendiamo andare avanti, anche a
partire dalla prossima stagione di contrattazione integrativa.
Politiche contrattuali è anche guardare al mercato del lavoro: per la nostra categoria il settore dell’agricoltura presenta una grande criticità, la presenza forte del caporalato quale «modalità» di incontro tra domanda e offerta di lavoro è un dato inquietante al quale intendiamo dare risposte attraverso una riforma del mercato del
lavoro, che torni ad essere pubblico; pubblico deve essere il luogo dove domanda e
offerta si incrociano, pubblico il controllo, in un’ottica di trasparenza, praticità, garanzia del rispetto dei contratti e dei salari, ma anche in un’ottica di premialità per
quelle aziende sane che si affidano ad un corretto percorso di ricerca di manodopera. Oggi i Centri per l’impiego, così come sono, non funzionano e non rispondono
alle esigenze del settore, per questo è necessario intervenire, tanto più in un settore
nel quale alle criticità si contrappone un trend positivo in termini di aumento di occupazione e di fatturato.
Infine, non si può ragionare di politiche contrattuali oggi senza fare riferimento
al protocollo sulla rappresentanza da poco sottoscritto, che dà finalmente vita e applicazione piena a quanto definito dall’accordo del 28 giugno 2011. L’accordo sulla rappresentanza, con la certificazione della rappresentatività delle organizzazioni
sindacali, coniuga democrazia rappresentativa e democrazia diretta, ed anche in
questo senso costituisce un risultato storico, tanto più in un momento difficile per
i lavoratori e l’intero paese; in una fase nella quale si è tentato di mettere in discussione il ruolo degli organismi intermedi e della stessa azione negoziale. Oggi regi-
L’argomento
striamo con soddisfazione un risultato importante, che significa per noi un impegno a stringere ancora di più il rapporto con i lavoratori e le Rsu, uscendo dalle sedi e andando nei posti di lavoro. Una formula che come Flai già da tempo stiamo
sperimentando e conducendo con il Sindacato di strada, il Camper dei diritti e Gli
invisibili delle campagne di raccolta.
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■ L’analisi
La crisi italiana nell’Europa tedesca:
per una nuova diplomazia economica e sindacale
Adolfo Pepe*
1. Crescita e occupazione: un nuovo mantra?
La sola opinione universalmente condivisa dagli attori sociali, economici e politici si riferisce alla constatazione che la crisi dell’Europa si riassume nella recessione
e nella conseguente disoccupazione strutturale a fronte delle quali l’insieme degli
Stati nazionali, soprattutto dell’area periferica e mediterranea, non è in condizione
di delineare e realizzare efficaci politiche di risanamento delle finanze pubbliche e di
stimolo alla crescita.
Analogamente l’azione dell’Unione Europea e dei politici di Bruxelles, con le sole eccezioni della Bce e di Mario Draghi, non possiede gli strumenti, le risorse e le
capacità per fronteggiare positivamente le cause e gli effetti della crisi finanziaria e
bancaria tramutatasi in collasso sociale e rischio di default di molte democrazie. Per
questo lo slogan «più Europa» o «Europa diversa» suona sovente retorica e sostanzialmente inutile. Copre una banalità politica con un «nullismo» politico. In effetti
tutti sanno e tutti gli attori operano, ormai da un biennio, nella consapevolezza che
il solo attore in campo di fronte alla crisi è il governo di Berlino, punto di sintesi
politico-diplomatica ed espressione della forza sistemica del modello economico e
sociale della Germania ai cui orientamenti, decisioni e interesse occorre riferirsi per
qualsiasi soluzione di progetti, così per le aree periferiche in sofferenza come per
l’Europa nel suo insieme.
Al motore franco-tedesco, che ancora sembrava essere il propulsore decisivo agli
inizi del biennio 2007-2009, ovviamente non si è sostituita nessun’altra forma geometrica allargata, né un triangolo con l’Italia, né un quadrato con Spagna e Italia,
né la relazione speciale con l’Inghilterra.
Al contrario ognuno di questi paesi è scivolato dalla crisi finanziaria derivata dal
contagio anglosassone alla recessione e alla disoccupazione, sull’onda di una incredibile e traumatica contrazione della propria base produttiva e industriale e dell’esplosione di un marasma dei conti pubblici, deficit e debito, nonché della tenuta
* Università degli Studi di Teramo.
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della funzione del sistema dell’intermediazione creditizia, a cominciare proprio dagli istituti maggiori.
È a questo punto della parabola – mentre si allentano le relazioni transatlantiche
e si registrano le conseguenze dirompenti della crisi in un sistema a moneta unica
con differenti parametri di produttività e di solidità delle finanze pubbliche, di
omogeneità fiscale, di strutture del mercato del lavoro e di formazione e impiego
della forza lavoro – che sono comparse alcune formule magiche. Nate negli Stati
Uniti nelle grandi università, al Tesoro, alla Fed, nell’establishment della Presidenza,
diffuse a man bassa da analisti, alcuni più raffinati, quali quelli del Financial Times,
di Foreign Affaires o dell’Economist, di altri semplici volgarizzatori come Krugman o
da parte di speculatori di lungo corso quali G. Soros, le formule taumaturgiche hanno invaso il dibattito pubblico in Europa imponendosi come la ricetta risolutiva per
il superamento di quella che ormai da tutti viene descritta come la più spaventosa e
terribile catastrofe economica ben oltre la stessa mitica depressione degli anni Trenta seguita alla crisi borsistica del 1929.
Confezionata nella cornice teorica ed economica di una risposta al liberismo della globalizzazione e dunque definita come un aggiornamento delle teorie keynesiane classiche integrate da un inedito ritorno alle politiche di interventismo pubblico, di deficit e di spesa, essa è alla fine approdata all’unica vera novità politica, e in
parte teorica, cioè al keynesismo monetario alimentato dal quantitative easing, giustificato a sua volta dalla tesi che il baricentro della politica monetaria della Fed fosse la lotta alla disoccupazione e che in funzione di questo obiettivo la politica monetaria della Fed integrava e assorbiva i compiti del Tesoro.
Assecondata e anzi forse ispirata da Obama e dal suo team economico, con l’utilizzo sistematico e intensivo, articolato in ben 3 tranche, l’élite politica monetaria
americana ha iniettato quantità imponenti di massa monetaria con la quale ha evitato il crollo ultimo del sistema finanziario e bancario, ha innescato un processo di
traslazione della crisi nelle altre aree economiche, in particolare l’Europa, dove i circoli finanziari e bancari più deboli ed esposti alla speculazione hanno finito per far
precipitare l’equilibrio precario delle finanze pubbliche. Dunque, sono saltati quegli Stati vissuti su bilanci fuori controllo e su ridotte o nulle capacità di esercitare
un’equa ed efficace politica di prelievo fiscale e di razionale e mirata spesa pubblica, che in Europa coincide con la tenuta dei sistemi di protezione sociale e di welfare, i quali determinano così il grado di consenso dei cittadini alle istituzioni democratiche.
L’élite americana ha accompagnato l’artifizio monetario, fra l’altro, senza pagare
il dazio dell’inflazione, con una radicale dedizione al rilancio dell’economia reale.
In base alla formula cara al Presidente della deindustrializzazione, il circolo è
sembrato alla fine tornare virtuoso, con la ripresa delle manifatture (auto), dell’edi-
2. Le soluzioni di Bernanke e Draghi
In realtà tra l’analisi della crisi, le prescrizioni di politica economica e gli obiettivi indicati vengono istituiti dei collegamenti consequenziali puramente astratti
e modellistici. Si seguono le acquisizioni scritte nei manuali di economia delle
università anglosassoni e nelle argomentazioni della Fed, che ovviamente non
vengono applicate né per loro né per i paesi del primo livello di amicizia. Quelle
formule hanno ormai sostituito e capovolto le prescrizioni del Fondo Monetario
e della Banca Mondiale, utilizzate per la crisi finanziaria e i default dei paesi emergenti e periferici nel ventennio seguito alla fine della guerra fredda, dalla Russia al
Messico, dall’Argentina agli Stati asiatici e africani in via di dissoluzione finanziaria e politica.
L’analisi
lizia, con l’utilizzo della share oil e la tendenziale autosufficienza energetica, con il
rafforzamento delle superiorità tecnologiche nell’hi-tech e nella ricerca militare, culminando negli ultimi mesi in una combinazione veramente inedita per l’economia
di quel paese, con l’euforia e la crescita della Borsa e contemporaneamente il riassorbimento della disoccupazione scesa intorno al 7%.
A sanzione di ciò la rielezione di Obama e, in questi ultimi mesi, l’annuncio di
Bernanke che la missione era pressoché compiuta e che presto l’eterodossia del keynesismo monetario usato come leva di politica economica antidepressiva si sarebbe
esaurita.
L’America e le sue autorità pubbliche ritornano ai fondamentali: i mercati, le
Borse, le Banche centrali e gli altri attori privati e statali sono così avvertiti che per
gli Usa è iniziata l’exit strategy dalla crisi. Gli Stati Uniti stanno per entrare nel dopo crisi, hanno recuperato il controllo degli strumenti finanziari, occupazionali e
produttivi e si lanciano di nuovo a testa bassa nella dura lotta per l’ampliamento dei
mercati e per l’assoggettamento sia dell’Europa che dell’area del Pacifico alla «rinascita» della potenza industriale americana.
Senza voler esaminare l’intera trama di questa nuova fase delle relazioni economiche internazionali così come la leggono i decisori di Washington, basta citare
l’imposizione all’Europa, anche in mezzo al guado, della trattativa sull’area di libero scambio transatlantica che nel vertice irlandese del 5 giugno Obama ha imposto
quasi senza discuterne o spiegarla pubblicamente ai propri interlocutori.
Dunque la crescita per l’occupazione o l’occupazione per la crescita sono divenuti in Europa i termini di un binomio lessicale importato e ripetuto oramai con
tale ossessiva perseveranza da tutti e con toni sempre più marcatamente apocalittici
da far sorgere il dubbio che al di sotto della formula (per alcuni un vero mantra) il
re possa essere nudo.
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A prima vista non si riesce a comprendere come si possa non condividere la soluzione monetaria di Bernanke, come si possa non plaudire alla revisione della politica restrittiva del Fmi e della Bce e all’impegno che, nell’ambito della Troika che
gestisce la crisi dei paesi europei periferici, i loro ispettori fondano sulla concessione di dilazioni, sull’allentamento dei parametri del deficit e del debito anche per
quei governi e Stati che non hanno requisiti idonei, sollecitandoli ad impostare e attuare politiche espansive e di deficit spending.
In questa prospettiva appaiono quasi sacre la difesa e la valorizzazione dell’azione di Mario Draghi, il quale, tra assicurazioni formali sul mantenimento per lungo
tempo di bassi tassi, semplici annunzi per i mercati e la speculazione e furbesche
operazioni di trasfigurazioni bancarie e finanziarie della Bce, garantisce liquidità per
il sistema creditizio e disponibilità illimitata ad assorbire l’emissione dei titoli di Stato dei paesi a rischio default e non in grado di finanziarsi sul mercato, se non con
tassi di interesse insostenibili.
Si sono formate, a partire da queste premesse, nuove scorciatoie logiche e politiche, più ancora che economiche, tese, nell’emergenza della recessione e della disoccupazione ovvero nell’ansia di attivare politiche di crescita e di occupazione, a richiedere emissioni di eurobond e mutualizzazione del debito, quasi che si trattasse
non di un’aspra lotta politico-sociale nei diversi paesi bensì di una pacata discussione aritmetica e logaritmica, volta a decidere quali numeri mettere al numeratore o
al denominatore.
La constatazione che sia la politica americana che la sua pedissequa importazione in Europa si sono rivelate, sotto molti aspetti, illusorie e fuori dai processi storici reali, sta nel fondo della cattiva coscienza di tutti i protagonisti che si nascondono dietro questa concezione taumaturgica. Una sola argomentazione viene spesa
con un certo fondamento e concerne il riferimento al «successo» della ricetta americana, successo che non viene tuttavia né contestualizzato a quel paese, né analizzato nei suoi limiti intrinseci. Non si riflette sulla circostanza che non ha alcuna reale possibilità e capacità di imporsi come nuovo paradigma universalmente valido, in
sostituzione di quello del liberismo globalizzante dell’età pre-crisi.
A conferma di ciò basti considerare la peculiare curvatura che Mario Draghi deve dare alla sua politica monetaria, non solo perché è tenuto in riga dalla Bundesbank e dalla Corte costituzionale tedesca, non solo perché la Bce non è la Fed, ma
principalmente perché la sua vocazione a fare come Bernanke è strettamente condizionata dal contesto economico europeo, che lo costringe a relegare il suo naturale orientamento a porsi nella scia delle decisioni americane nella sfera più dell’affinità ideologica che non della convergenza politica reale. Egli ben sa che tra la stretta tedesca e l’adesione piena ai principi della Fed corre lo scarto della divergenza profonda delle politiche monetarie e valutarie o commerciali che separano l’area tran-
L’analisi
satlantica e impediscono una naturale ricomposizione sotto l’ombrello americano
dei due grandi spazi geoeconomici occidentali.
Né minor significato ha poi il rapporto con l’Habe economics, in apparenza un
«clone»», una replicazione, in forma se possibile ancor più esasperata, del modello
degli Usa. In realtà una pericolosa e subdola manovra non per generalizzare una
politica al fine di una convergenza economica, ma per utilizzare un semplice strumento, potenziandolo per far uscire il Giappone dal letargo competitivo e rimetterlo in condizione proprio di disputare alla Cina, ma anche agli Usa, il predominio economico nell’area dell’Asia e del Pacifico. Il governo Habe e la banca centrale di Tokyo sono ben consapevoli che il combinato disposto di immissione di
liquidità e di aiuti pubblici di stampo latamente keynesiano ha il reale intento di
riattivare le esportazioni e i profitti delle grandi concentrazioni industriali giapponesi, di rilanciare la competitività del sistema nipponico anche sfiorando una
guerra valutaria con gli Stati Uniti, attraverso l’alterazione sensibile del cambio
dollaro-yen.
Altro che modello universale neokeynesiano, siamo dentro un moltiplicatore
delle tensioni geoeconomiche tra potenze che si confrontano con estrema durezza
nel tentativo di recuperare margini di vantaggio comparato nelle modalità di uscita
dalla crisi.
Le politiche di Obama e di Bernanke dunque, anche se in apparenza seguite dalla Bce e dal Giappone, non sono la ricetta per ridare unitarietà alle economie capitalistiche principali secondo un nuovo paradigma universale, ma sono decisioni di
interesse esclusivamente americano che determinano più realisticamente la propagazione sismica dell’andamento della crisi. La sola vera novità consiste nel fatto che
il Giappone e la sua leadership conservatrice hanno deciso di confrontarsi nuovamente a viso aperto con la potenza economica americana accettandone i nuovi parametri di confronto.
Al contrario l’Europa per la sua divisione politica e per la prudenza della leadership tedesca, che rifiuta di seguire le sirene anglosassoni che la incitano a guidare il continente, e dunque a sfidare apertamente la politica americana, si muove con
molta cautela. Utilizza la crisi interna del continente più per eludere che per accettare la sfida e le pressioni americane.
La Germania, a differenza del Giappone che si muove come attore nazionale, si
trova ad essere un pivot continentale e in quanto tale può ancora, per un certo periodo, scambiare il consolidamento geoeconomico dello spazio competitivo europeo con una chiara proiezione geopolitica. E con tale mimetismo sperare di evitare,
per il momento, lo scontro diretto con gli Usa sul punto cruciale che appare ufficialmente aggirabile, quello dell’alterità del modello europeo-tedesco rispetto a
quello anglosassone e la conseguente deduzione che solo uno dei due sistemi può
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uscire vittorioso dalla crisi in atto. Giacché il vero punto condiviso, che è alla base
di tutte le riflessioni e le relazioni diplomatiche ed economiche transatlantiche, è che
questa lunga crisi si risolverà solo con un ribilanciamento di potenza tra Stati Uniti ed Europa, solo cioè con una ridefinizione del ruolo di leadership americana o del
grado di autonomia dell’Europa-Germania.
Ritengo che la prima condizione per uscire da questo nefasto e persistente mantra della crescita-occupazione consista nel riconnettere, per quanto possibile, in una
relazione storicamente fondata i termini, la portata e la natura della crisi iniziata nel
2007-2008 fissando, tuttavia, alcuni punti fermi desumibili da un’analisi più ampia
e circostanziata.
La crisi nasce e si sviluppa negli Stati Uniti, matura entro i codici fondamentali
di un sistema economico-finanziario che ha sfruttato al massimo il vantaggio di aver
aperto e controllato la fase dell’internazionalizzazione degli scambi, delle merci e dei
capitali, ma che non è riuscito a vincere il passaggio a una più complessa scacchiera internazionale policentrica.
Il sistema non bilanciando i propri deficit interni esternalizzandoli è imploso, appunto come scoppia una bolla o perché troppo gonfia o perché qualcuno la punge.
Se questa analisi è stata considerata plausibile anche da autorevoli interpreti americani, la vera novità è tuttavia un’altra. Il cambio politico nella leadership alla Casa
Bianca coincide, non a caso, con l’esplosione e l’acutizzarsi della crisi che dunque
appare come il risultato dell’era repubblicana.
La nuova amministrazione democratica ha una funzione decisiva su due piani.
Il primo consiste nell’alimentare una vigorosa reazione, simile a quella degli anni
Trenta. Attraverso spasmodici e dolorosi processi di cauterizzazione e di rilancio selettivo, ha fissato l’obiettivo del recupero, ad ogni costo, della centralità economico-finanziaria. La tesi è che la crisi non deve marginalizzare gli Stati Uniti, non li
deve far precipitare nel vortice del declino. Al contrario, sull’esempio delle vigorose reazioni alle drammatiche crisi seguite al Vietnam, al Watergate, alla vittoria komeinista in Iran, per non parlare dell’11 settembre, le crisi sono occasioni per frustare i fattori dinamici, competitivi o aggressivi del sistema e dell’opinione pubblica, spiegando le energie del paese nella lotta anche in forme feroci e senza più alcun fair play neo-imperiale verso gli stessi paesi amici o convergenti.
Da ciò l’altro stimolo, alleggerire la crisi interna trasferendo parte consistente dei
costi in altre aree economiche, naturalmente quelle ritenute più ricettive, per un verso perché collegate e, per un altro, perché dotate di strumenti simili e di maggiore
integrazione con il sistema centrale colpito. Queste le grandi linee guida della élite
dirigente statunitense: lotta al declino e per il ritorno alla supremazia; trasferimento all’Europa di una parte consistente degli oneri finanziari e bancari dell’implosione del 2007-2008.
L’analisi
Strettamente correlato è il secondo punto. La crisi è sistemica solo nel senso e
nell’ambito transatlantico. È da subito percepita come una dura partita tra gli Stati
Uniti e l’Europa, come per primi intuiscono e concordano i politici e gli analisti tedeschi che individuano nella finanziarizzazione anglosassone e nel capitalismo ultraliberista delle locuste la radice strutturale del crac.
Appaiono crescenti i pericoli di contagio e i rischi che la diffusione di quel sistema può provocare nel tessuto sociale e produttivo europeo, ma con evidenza soprattutto tedesco.
Rimane fermo che l’Oriente e i Brics, che hanno imparato la lezione ventennale della internazionalizzazione dei mercati e dei capitali e l’hanno con buon successo incorporata nella politica economica dei propri Stati, traendone grandi vantaggi
comparati in termini di tassi di crescita e di consolidamento delle élites politiche al
potere, risultano quasi immuni ed estranei all’onda finanziaria susseguente al trauma economico e sociale dell’Occidente. Anzi, ben consapevoli di questa situazione
favorevole, senza infierire per non provocare reazioni letali, tuttavia con molta abilità si sottraggono alle pressanti richieste di assumersi ruoli di corresponsabilità, ovvero di codirezione delle relazioni economiche internazionali. Si limitano a ribadire che la crisi è occidentale e che loro proseguono nelle loro politiche sia finanziarie
che economiche, sia valutarie che commerciali.
L’Occidente ha creato il mondo globale, ma non è in grado né di globalizzare
la crisi né di ottenere un concorso globale per uscirne. Anche nel mondo globale
la crisi è e rimane transatlantica ed è entro questa relazione si debbono trovare le
soluzioni.
La combinazione dei primi due elementi ha prodotto nel quadriennio una sostanziale modifica delle concezioni cooperative multilaterali, secondo i principi dell’ordine internazionale liberale, con l’emergere di uno schema di violenta competizione ai limiti di vere e proprie guerre commerciali, valutarie ed economiche.
Tutti i principali attori e tutti gli spazi economici organizzati sono stati sottoposti a intensi processi di frammentazione, di composizione e scomposizione di alleanze e di soluzioni politico-diplomatiche.
Ognuno ha attinto al proprio fondo genetico per posizionarsi nella deriva geoeconomica in atto sia per difendersi sia, se possibile, per guadagnare posizioni o sfruttare opportunità.
È in questo processo, che ha alterato molti schemi consolidati nel sistema delle
alleanze, che l’Europa dal 2009 ha percepito distintamente non solo di trovarsi al
centro dello scontro transatlantico, ma che il cuore di questo scontro era il centro
dell’Europa, cioè la Germania.
Qui, intorno al governo conservatore sociale di Angela Merkel, ma con un sostanziale consenso informale della Spd e del sindacato, l’urto provocava il compat-
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tamento sul proprio modello economico-sociale, fra l’altro competitivo e vincente,
che diveniva quel fondo genetico originale intorno a cui stringersi per resistere nelle fluttuazioni internazionali.
L’equazione europea diveniva veramente drammatica: l’Europa poteva reggere
l’urto transatlantico solo tenendo forte e coeso il centro tedesco, ma la solidità del
centro provocava, nella sua riproduzione, una crescente marginalizzazione delle aree
periferiche non in grado di reggerne la sostenibilità.
Questa scomposizione nella struttura economica europea, che con rapidità inaudita ha coinvolto il cuore stesso del continente, l’Italia e la Francia, svelandone la debolezza strutturale e la fragilità statale, ha lasciato la Germania pressoché sola a sostenere il ruolo di attore della competizione globale in pieno svolgimento, con fortissimi rischi di non possedere ancora tutti i requisiti politico-diplomatici ed economici per reggerne la sfida e non perdere, con il suo modello di coesione e di efficienza sociale ed economica, anche i fondamenti della democrazia.
Va infine osservato su questo punto che gli Usa hanno puntato con decisione su
questa scomposizione, spingendo nei fatti il cerchio dei paesi periferici, e forse la
stessa Francia, a cavalcare la loro tesi sulla crescita in funzione di indebolire e isolare la Germania, costringendola a «imbastardire» il proprio schema economico «ottimale».
Contestualmente in Europa si è diffusa una tesi volta a sostenere che la Germania non ha altra scelta che seguire le indicazioni d’Oltreoceano e piegarsi ad accettare forme e tempi della risposta alla crisi che provengono dai cerchi periferici, crescita e occupazione al posto di rigore, finanza pubblica in ordine e produttività.
Allo stato ci sembra di poter osservare che le difficoltà di Hollande, la caduta ingloriosa di Monti, gli orientamenti del governo spagnolo, le scelte della Polonia e di
buona parte dei paesi dell’est del Baltico e la stesso profilo dimesso di E. Letta, che
giustamente svicola dalle guasconate di Berlusconi-Brunetta, non lasciano dubbi.
Sebbene in parte aperta, la partita dello spazio europeo nella fuoriuscita dalla crisi non ha nessuna probabilità di finanziare la stessa strategia degli «amici» americani.
La scomposizione europea, pur possibile e pur grave, non ha spostato il baricentro
decisionale, né annullato la forza dell’attore centrale. Sia gli Stati Uniti che i paesi mediterranei rimangono ancorati alle decisioni tedesche, ma queste, a loro volta sottoposte a tensioni incessanti, dopo il voto del 20 settembre non potranno non aprirsi
a scenari che al di là delle loro intenzioni e degli stessi interessi della sua élite economica e politica, si potrebbero tradurre nel passaggio cauto ma irreversibile dalla logica della geoeconomia a embrionali forme di opzioni geopolitiche. Con ciò, è bene
tenerlo presente, non si determinerebbe la normalizzazione occidentale e anglosassone dell’Europa costruita con il centro tedesco, ma si entrerebbe in un complesso orizzonte di frattura transatlantica e di contestuale deriva dell’Europa periferica.
È dunque in questo più complesso scenario, tratteggiato nelle sue linee essenziali, che occorre collocare la riflessione sul declino e sulla crisi italiana.
Più a fondo ci sembra che, solo tenendo presente questo diverso paradigma delle relazioni internazionali, si può comprendere meglio la peculiare situazione della
rappresentanza sociale del lavoro, del suo tortuoso rapporto con la rappresentanza
politica, in larga misura evaporata, e infine il nesso che la lega alla crisi sistemica dell’apparato economico e della funzione assunta dallo Stato e dalle sue politiche. E ciò
soprattutto a partire quanto meno dalla seria crisi finanziaria dei primi anni Novanta e dalle successive decisioni di adozione a Maastricht della moneta unica e,
man mano, proseguendo con la gestione vieppiù subalterna e priva di efficacia delle politiche comunitarie, senza comprendere mai fino in fondo la natura cogente e
inedita del meccanismo che si stava costruendo.
La colpevole e incredibile leggerezza e, insieme, l’arroganza con cui le élites italiane hanno attraversato questi decenni lascia sbigottiti, certo per i toni umilianti
con i quali i governi Berlusconi hanno costretto il paese a vivere la progressiva emarginazione dai processi decisionali, ma certo anche per la superficiale insipienza con
cui i governi di centro-sinistra hanno coperto con il mantra europeo la sostanziale
impreparazione culturale a confrontarsi con la definizione del concetto ineliminabile di interesse nazionale e a giocare la partita apertasi con la rinazionalizzazione
nella costruzione europea.
La ricaduta di questi duplici declini delle élites politiche, Berlusconi e centro-sinistra (in realtà a forte impronta cattolica!), è stata aggravata dall’estraneità del mondo sindacale ai meccanismi in atto, non essendo la Ces struttura in grado di svolgere un adeguato ruolo a livello macronazionale di coordinamento, rappresentanza
e iniziativa rivendicativa e conflittuale.
Analogamente il mondo economico e finanziario, scottato dalle disfatte europee
degli anni Ottanta, non ha proprio compreso che l’uscita dal fordismo non significava la gloriosa entrata nell’eden dell’«immateriale», del senza lavoro, del senza spazio. Sulla scia di una lettura facile dell’internazionalizzazione, i nostri capitani coraggiosi hanno considerato che la meta stesse altrove, che lo spazio e la competizione economica europea fossero cresciuti e che la moneta unica garantisse loro una capacità di operare dappertutto, tranne che in Europa.
Uno strabismo fatale perché incapace di cogliere la cruda realtà che indicava, invece, che era in Europa che si stavano selezionando le élites, le strutture produttive
e le politiche per muoversi nelle competizioni globali e che bisognava vincere in Europa per potersi assicurare poi una collocazione ottimale e permanente nello scenario globale.
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3. Declino e crisi dell’Italia
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Nessuna percezione che occorresse elaborare una geo-economia e alleanze e integrazioni coerenti, lasciando ciò che non reggeva, rinnovando alla radice ciò che era
valido ma arretrato, potenziando ciò che era vitale e genetico nel nostro sistema produttivo, imboccando con coraggio e decisione le strade nuove e inedite che garantivano l’eccellenza e il rispetto dei partners e dei competitori maggiori.
Nessuna sintonia cioè con quegli atteggiamenti selettivi e innovativi pervasi di
furia distruttrice e creativa all’interno delle classi eccedenti che sono sempre stati alla base delle rivoluzioni conservatrici, quando sono i ricchi e i potenti ad avere in
mano il pallino della storia.
Sappiamo invece che il declino è stato accompagnato dalla scelta reazionaria, in
senso cattolico, di un ruolo «piagnone», quasi «accattonesco», verso lo Stato, ma anche verso l’intera comunità sociale e nazionale continuamente rimproverata di non
cedere alle imprese e ai loro dirigenti tutte le risorse che chiedevano. E poi il consueto collante: a struttura d’impresa immodificata scaricare uniti, concordemente,
l’offensiva sul lavoro, sui suoi diritti, sul sindacato, entrambi ricondotti a «costi
aziendali» e perciò additati all’opinione pubblica come la zavorra principale da eliminare se si voleva arrestare il declino.
E quando recentemente il nuovo presidente di Confindustria ha, seppur sommessamente, provato a circoscrivere, se non a capovolgere, questa vera e propria calotta culturale della nostra comunità degli affari, mi sembra che sia stato considerato al pari di un buon uomo che dice ovvietà fuori tempo massimo.
La coerente evoluzione di quella impostazione, virile e vincente, è stata viceversa quella proposta e impostata da Marchionne che non certo casualmente si è posizionato in America, da dove provoca e dileggia l’economia europea da cui era stato
scacciato con una certa dose di ignominia proprio per la sua concezione selvaggia e
la sua cultura aziendale «primitiva».
Laddove in Germania, in Giappone, negli Stati Uniti e nei pochissimi paesi nuovi che si erano consolidati, Cina su tutti, si affondava il bisturi del sistema e si liberavano la ricerca e l’innovazione, si puntava sulla formazione della forza lavoro ai più
alti livelli e al suo collegamento con il processo produttivo, si accettavano la competizione, l’uso della forza e della diplomazia economica, si rivoluzionavano le grandi imprese strategiche, si rinnovava l’organizzazione del lavoro e della fabbrica partendo dal post-fordismo, dal toyotismo, dall’hi-tech, dalla finanza e derivati, si ricercavano nuove materie prime e diversi spazi e istituzioni di regolazione dei mercati e dei capitali, l’Italia smantellava ricerca, grandi imprese, formazione, investimenti produttivi, riorganizzazione delle fabbriche e del mercato dei capitali e si attestava su «piccolo è bello», sui mille campanili, sulla gestione delle imprese secondo il principio della furbizia machiavellica scambiata per forza. Ci s’impegnava nella competizione, ma solo nei mercati e con gli attori secondari, rastrellando non
4. Verso la caduta della sovranità: l’eclissi del centro economico
La crisi si abbatte, dunque, su un paese narcotizzato, non dalla Tv di Berlusconi
e dalle sue stupide barzellette da comiche degli anni Cinquanta, ma dall’eclissi congiunturale di tutto quel ceto economico e politico affermatosi con l’affarismo degli
anni Ottanta che non sa dove si trova, cosa fare, con chi farlo e perché deve farlo.
Saltando Berlino, cioè la Germania riunificata di cui non si intende in alcun modo l’effetto dirompente sull’intera Europa, guardando con sospettosa gelosia la
Francia, alleata allora privilegiata della Germania, questi uomini, questo ceto, hanno pensato e operato nella convinzione che lo status e il rating loro e del paese potessero continuare a derivare dal grido «America, America» e dal fare pedissequamente quello che insegnavano i maestri incantatori anglosassoni.
Si sono poi accorti che l’economia e la società italiana non si erano congiunte in
realtà né a Londra né a New York, ma si erano frazionate fra l’Africa, che la comprimeva con la sua eccedenza di forza lavoro, e Varsavia, tra la Spagna che sgomitava e la Francia e la Germania che ci ignoravano o assoggettavano.
La crisi è arrivata a spazzar via l’illusione ipocrita che questa situazione potesse
perpetuarsi. Agli inizi, nel 2009-2010, quando si cominciò a non poter negare che
la crisi avrebbe reso debole un paese nei suoi fondamentali, pubblici e privati, ci si
è ancora aggrappati a formule gattopardesche, si è cercato di eludere le proprie responsabilità.
La crisi, come evento epocale e quasi metafisico, e l’Europa tedesca, come attore cattivo ed egoista, erano i responsabili della situazione di marasma del paese. Infine, quando la crisi, a partire del 2011, è divenuta una vera tragedia sociale e al declassamento si è sostituito lo spettro della disintegrazione naturale e storica dello
L’analisi
profitti industriali strategicamente orientati al reinvestimento, bensì ricchezze commerciali e rendite finanziarie e speculative.
L’architrave di questa involuzione del capitalismo italiano divengono il Ceo e il
management che, avocato a sé il potere decisionale delle aziende, esautorate le ristrette oligarchie proprietarie, diviene paradossalmente l’artefice non di una nuova
rivoluzione manageriale, ma il becchino del sistema produttivo manifatturiero, il
corifeo della speculazione a breve (la famosa trimestralizzazione dei risultati) per trasformare, distruggendole, le aziende in semplici titoli da giocare alla roulette della
speculazione. La vertigine di essere e di operare come gli uomini della City e di Wall
Street e non come i farisei tristi di Stoccarda, di Amburgo, di Francoforte. Milano e
la Bocconi appaiono come una grottesca scimmiottatura dei centri della finanza
mondiale, laddove Milano era solo il centro della moda e dell’industria del consumo di lusso, per non riferirci al transito dei capitali illeciti.
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Stato e della comunità nazionale, ci si è aggrappati al mantra della crescita e della retorica dell’occupazione, divenuto un valore ormai per qualsiasi fariseo della politica, dell’economia, dei media e degli stessi predicatori di etica e di religione, una sorta di intoccabile idolo sacrale.
Naturalmente, irresponsabili fino in fondo, hanno continuato a sostenere che
anche la crescita e l’occupazione dovevano scaturire dalla revisione della politica europea voluta dai cattivi tedeschi e, insieme, dall’impegno di Draghi e della Bce a seguire la Fed e le sue scelte monetarie. Toccava a loro, infatti, far ripartire la crescita;
era colpa del loro egoismo e delle loro politiche di bilancio e di pareggio, di forte
competitività nazionale e di produttività nazionale, se in Italia non si investiva e non
si creava lavoro.
Al crocevia di questo passaggio il crollo del governo Berlusconi, umiliato dalla
lettera europea dell’estate del 2011 che, indicando i punti e le condizioni per evitare il default dello Stato, certificava il punto d’arrivo della questione italiana in Europa: il paese, i suoi conti pubblici, lo Stato, la ricchezza privata, le banche erano nei
fatti posti sotto tutela; la loro piena sovranità era rimessa in discussione e comunque pesantemente limitata e vincolata.
Appunto, ignorando Berlino e guardando l’America, ci siamo svegliati nella
grottesca riedizione della dottrina Breznev: un paese, uno Stato, un sistema di relazioni sociali, un’economia pubblica e privata nel mezzo di una transizione con le
stesse caratteristiche dell’Europa dell’Est dopo la riunificazione tedesca e la caduta
dell’Urss.
5. Il crollo di Berlusconi e il fallimento di Monti:
«i (mancati) compiti a casa»
Il successivo governo presidenziale di Mario Monti non poteva risolvere, e non
ha risolto, nessuno dei tre nodi incombenti.
Se ha ottenuto, utilizzando le buone maniere della scuola cattolica, educata, infida ed ipocrita, di non essere sbeffeggiato, non ha certo potuto trasformare il contenimento del deficit e il rientro controllato dello spread, pur giovandosi dell’azione
di Draghi sulla liquidità e sui tassi, in una modifica strutturale dello status economico e finanziario del paese. Anche facendo con diligenza «i compiti a casa», che
erano stati prescritti a Berlusconi e che il governo Monti ha eseguito con errori, approssimazioni tecniche e forti sperequazioni sociali, l’Europa che contava non poteva tacere che il debito spropositato e il suo servizio rimanevano un costante elemento di potenziale default dello Stato e che la caduta della produttività e competitività del sistema economico stava raggiungendo quel punto di non ritorno cui recentissimamente ha fatto cenno lo stesso Squinzi.
L’analisi
Inoltre, la riforma del mercato del lavoro, in assenza della cornice di una moderna condivisione delle parti sociali e di un comune impegno sul versante dell’innovazione e della produttività (Monti d’altro canto aveva terziarizzato e favorito l’esclusivismo decisionale del governo e la fine di ogni dialogo con le parti sociali), non
poteva che approdare ad ulteriori rigidità in un gioco dell’oca perverso che ad ogni
mossa faccia corrispondere un peggioramento esponenziale non dell’ingresso, bensì dell’uscita o meglio della rinuncia all’occupazione.
È in questi mesi che la crisi industriale inizia a registrare, oltre all’impennata crescente della Cig, spostamenti della disoccupazione verso le due cifre fino ad attestarsi statisticamente al 12-13% e per quella giovanile superare il 35%.
Per l’Europa non solo una insostenibilità del bilancio e delle finanze pubbliche,
ma un vero gap di qualità e di status del paese. Con quella disoccupazione e caduta
degli indici industriali era il paese che subiva un netto arretramento di status e rating e diveniva non una risorsa per l’Europa, ma un serio fattore di arretramento
strutturale del Continente.
Ancor peggiore la modalità utilizzata per il recupero delle risorse, il cui emblema è stato il blitz sulle pensioni. Aggiungendosi ad una lunga stagione di compressione salariale, contrattuale e di potere d’acquisto, l’Europa ha visto nella situazione
sociale italiana e nelle politiche messe in atto lo specchio di una spaccatura di classe aspra e intollerabile e ha letto qui più che altrove le tracce dell’insostenibilità odiosa di ceti ricchi e ricchissimi che, spingendo sulle restrizioni imposte ai cittadini e ai
ceti medio-bassi, chiedevano aiuti e sostegni per non pagare le tasse, per non assumersi il ruolo che spettava loro nel risanamento finanziario dello Stato.
Il governo Monti ha avuto il merito di evidenziare all’Europa che la crisi italiana aveva al suo centro la miopia classista dei ceti ricchi e privilegiati, i quali intendevano sollecitare aiuti e dilazioni e scorciatoie, in nome del popolo sofferente, in
realtà per non accettare di veder toccare patrimoni, le loro rendite finanziarie e speculative, celare lo status di élite internazionale fermamente intenzionata a continuare a esercitare il proprio peso, il rito di appartenenza a una comunità transnazionale al di sopra dello spazio, del lavoro, della responsabilità sociale.
Queste élites e le nuove forme della politica, che si sono prodotte in Italia con la
pressoché completa delegittimazione della rappresentanza partitica, costituivano come il fascismo negli anni Venti il frutto nuovo e amaro che l’Italia immetteva in Europa, più ancora del berlusconismo con la sua più banale commistione di danaro,
media e potere politico fusi in una persona.
In Italia in realtà si produceva, tra la stagnazione del 2012 e la rottura dei primi mesi del 2013, una traslazione a scala europea di una mancata regolazione sociale interna tra le classi produttive, tra i territori, tra lo Stato e la comunità dei
cittadini.
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La crisi e le politiche di rigore e di bilancio erano per gli Stati maturi null’altro
che la frusta con cui venivano regolati i conti sociali interni. L’Italia attraverso le sue
classi dirigenti ha evitato di fare questo, che era il vero compito a casa, ed ha rimesso la sua crisi nella crisi europea. È sembrata sagacia, astuzia, capacità politica, duttilità, invece rimane solo la prova provata per l’Europa che l’Italia è un vettore culturale, sociale ed economico inaffidabile.
Puntuali il crollo di Monti e le vicende politiche di questi ultimi mesi, culminate nella inedita riconferma del Presidente della Repubblica e nella formazione di
un secondo governo presidenziale anomalo. A chi sappia leggere con attenzione, le
valutazioni europee appaiono la conferma che l’Italia è priva di una classe dirigente
responsabile e quindi è priva di un’autonoma capacità di esercitare le funzioni primarie della legalità.
Siccome è tramontata l’era delle annessioni e dei malati d’Europa come l’impero ottomano nell’Ottocento l’Italia al pari di ogni altro paese europeo di secondo o
terzo livello, rimane sottoposta a vigilanza e tutela sulle questioni economiche che
hanno una più vasta ripercussione sull’Europa.
Per il resto, non essendo l’Europa uno spazio politico uniforme, ciascuno Stato
è lasciato nel suo brodo nazionale a dibattersi con la questione della regolazione sociale interna tra classi, ceti, interessi e culture, nonché con il problema della coesione territoriale degli spazi subnazionali.
L’esito del percorso, proprio come insegna l’esperienza nei paesi ex comunisti, si
potrebbe definire ininfluente per l’Europa in quanto tale e tuttavia esso rinvia a sua
volta a un ulteriore ragionamento.
Se è così, in ogni paese sussistono ampi margini per l’attuazione della regolazione sociale interna, le cui modalità, pur divenute del tutto particolari e diverse, hanno assunto caratteristiche di discontinuità rispetto ai processi di costruzione degli
Stati nazionali, dei relativi sistemi di welfare nazionale e democrazia politica.
Le comunità nazionali, come l’Italia, che hanno subito una dislocazione di status nella comunità internazionale e in ispecie nelle comunità di riferimento diretto, quali l’Europa, non possono considerare la sovranità statale, quella per intenderci sancita a Westfalia nel 1648, né come un obiettivo da raggiungere né come
una condizione pacifica e riconosciuta su cui fondare la propria azione interna e
internazionale.
6. Attori sociali e nuova diplomazia economico-sindacale
Solo muovendo da questa realistica presa d’atto è possibile avviare un’analisi che
individui i potenziali attori della comunità nazionale ancora in grado di esercitare e
svolgere una funzione nel reale scenario entro cui sono obbligati ad agire, fissando
L’analisi
con precisione gli uni e l’altro. In questo senso, se gli attori sociali e i produttori non
possono che essere l’espressione dinamica e propositiva della comunità nazionale,
essi a loro volta possono essere considerati equivalenti ed ugualmente utili solo a
condizione che siano modificate radicalmente le concezioni, le strategie e i comportamenti dell’attore capitalistico nei riguardi del lavoro e della sua rappresentanza sociale e con ciò nei riguardi dell’intera questione economica.
Giacché il nodo irrisolto della moderna regolazione sociale tra le classi e i ceti altro non è che la maturazione della comunità degli affari verso una coscienza che superi il gretto classismo e si apra a una cultura dei diritti, delle regole, della responsabilità sociale, cioè verso l’assunzione senza condizioni della sua funzione a beneficio della comunità nazionale.
Lo scenario più plausibile, in presenza di una ormai irrevocabile restrizione della comunità statale, non può essere quello della generica apertura al mondo del generico business globale sperando con questo di aggirare le radici della crisi nazionale. Non è la Cina che delimita la nostra sovranità o determina la caduta della nostra
economia, e non saranno i commerci con la Cina a risolvere i dilemmi dello status
economico e politico del paese.
La lezione della crisi di questi ultimi anni è impietosa, chiara e ineludibile: i conti vanno fatti da parte degli attori sociali rimasti in campo con lo scenario entro il
quale è maturata ed evaporata la sovranità nazionale ed è scaturita la marginalizzazione economica. Vanno fatti cioè entro lo scenario europeo e con gli attori reali europei. Ciò vuol dire che non ci si può illudere di utilizzare modelli esotici di riferimento, ma occorre guardare nel cuore dello scenario europeo, in sé e in relazione
alla sua collocazione competitiva globale.
Dunque gli attori sociali e l’Europa sono per la comunità nazionale risorse e il
contesto. A patto che i primi si confrontino seriamente con quanto accaduto e prevedibilmente potrà accadere nel quadro continentale, senza illudersi che questo possa nell’immediato trasformarsi come noi vorremmo.
A dispetto della malizia e del provincialismo dei nostri protagonisti, occorre ripetere banalmente che la lezione con cui dobbiamo confrontarci è quella che proviene
dalla Germania. Va solo aggiunto che non c’è più tempo per fare un astuto confronto superficiale e confuso. Con quella lezione è bene fare i conti fino in fondo, chiarendo che non dobbiamo, né possiamo mandarla a memoria e ripeterla così com’è; al
tempo stesso occorre comprendere che dobbiamo conoscerla nella sua esatta configurazione storica e comprenderla nella sua dimensione politico-economica sistemica.
Diviene preliminare in questa prospettiva sgombrare il campo da qualsiasi analisi consolatoria. La prima sostiene che il modello vincente di Berlino nasce con le
riforme del governo Schröder subito prima della crisi e che è vincente solo in virtù
di esse.
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In questo senso per l’Italia e per le sue principali forze sociali si tratterebbe, dunque, di importare e applicare solo quelle misure di stampo liberale anglosassoni decise nell’ambito del cosiddetto pacchetto dell’Ars 4, senza alcun riferimento al contesto tedesco in cui si sono formate, né a quello italiano su cui dovrebbero calare.
La seconda concerne il tavolo del confronto e le sue procedure. La centralità della Germania nella strategia di fronte alla crisi ha alterato nella sostanza i due meccanismi procedurali con cui ha funzionato il farraginoso rapporto con le istituzioni
europee (quelle a 27 e quelle dell’area euro). Non funziona più il modello politico
franco-tedesco, per la complessiva inadeguatezza della Francia ad essere co-partner
nel processo, ma anche perché non vi si può sostituire una formula allargata ad altri attori statuali per alimentare la prospettiva unitaria europea.
Meno che mai possono svolgere tale azione propulsiva la burocrazia e la tecnocrazia di Bruxelles, istanze di secondo livello atte solo a trasmettere impulsi e incapaci di sintesi preliminari sui più delicati dossier che segnano le fratture interne
dell’Europa, a non voler parlare del bassissimo profilo degli attori esterni alla Comunità.
Le convulse fasi della gestione della crisi di default dei paesi mediterranei hanno
nei fatti finito per mettere da parte entrambi i meccanismi e imporre uno schema
inedito e anomalo non proceduralizzato politicamente, ma seguito obbligatoriamente per rendere efficaci e credibili le decisioni assunte e da assumere.
Con il punto fermo della Bce in Europa si procede su un duplice piano che ha
una comune radice: si decide dopo aver discusso e trattato in via bilaterale o multilaterale solo con il governo di Berlino, si decide dopo aver allargato la discussione e
le convergenze degli attori statali agli attori sociali, che vengono assunti direttamente come protagonisti di una nuova diplomazia economico-sindacale che impegna contestualmente il decisore tedesco e i protagonisti economico-sindacali dei
paesi in difficoltà.
È questa la lezione ultima cui è approdata l’Europa dopo vertice di Berlino dei
primi di luglio e le dichiarazioni di Angela Merkel sulle sue iniziative assunte direttamente con le grandi imprese inglesi e francesi e le successive dichiarazioni congiunte delle associazioni padronali, e ciò dopo gli accordi sulle materie di Spagna,
Portogallo e Grecia.
Sul punto decisivo e preliminare il modello tedesco e la sua capacità competitiva annullano tutti i tentativi sinora messi in campo per utilizzare strumentalmente
o banalizzare la lettura di quanto accaduto. Si può ritenere forse probabile che la
nuova diplomazia economica e sindacale per riattivare l’Europa debba discutere e
trattare a partire proprio da quanto è avvenuto nel centro dell’Europa.
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L’analisi
Bibliografia orientativa
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■ Temi
Il negoziato e la struttura contrattuale
Franco Farina*
La necessità di una verifica della struttura contrattuale dipende da più esigenze.
La prima è di recuperare un consenso unitario tra le Confederazioni sindacali dopo
gli accordi separati1, la seconda riguarda l’opportunità di un esame critico del funzionamento del modello contrattuale che ha come rilievo la prospettiva e il ruolo
del sindacato nell’attuale fase in cui il lavoro e la competizione globale si caratterizzano nella perdurante recessione economica, nei forti cambiamenti, nella divisione
internazionale del lavoro e nei mutamenti industriali. L’esperienza di questi anni, in
particolare negli ultimi cicli contrattuali, mostra una realtà molto variegata e dispersa nella sua caratterizzazione sindacale. Tale concretezza è l’esito di una storia negoziale in cui i vari modelli che si sono susseguiti negli anni non hanno trovato una
legittimazione generale in grado di indicarli come la forma di riferimento e di esercizio negoziale della rappresentanza sindacale. Il ciclo contrattuale metalmeccanico,
una volta esaurito (1958-76), non è stato sostituito a livelli complessivi con altre formule. Il modello chimico (1976-2004) ha vissuto di luce propria – nonostante i
tentativi di contaminarsi con le stesse politiche rivendicative della Confederazione
(Cgil) soprattutto alla fine degli anni Ottanta – per poi infilarsi in una deriva aziendalistica della contrattazione collettiva (2004-13).
Il modello alimentare che si mostra con una coerenza rivendicativa e innovativa
stenta ad affermarsi, nonostante i buoni risultati, come criterio di riferimento di carattere generale. Tale modello, infatti, appagherebbe la condizione di un esempio
economico competitivo a livello internazionale (il made in Italy) e un modello sindacale per la stessa rappresentanza dei lavoratori. È, difatti, una dimostrazione contrattuale di un realismo sindacale lontano da una scelta di campo ideologica sui temi e problemi dell’industria alimentare. Un realismo che ha considerato gli aspetti
oggettivi delle diverse congiunture economiche e produttive e, nello stesso tempo,
* Fondazione Metes.
1 Si fa riferimento agli accordi interconfederali separati del 15 aprile 2009 per l’attuazione dell’accordoquadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009 e del 16 novembre 2012 sulle linee
programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia in cui la Cgil non firmò.
Temi
Premessa
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che ha costruito saldamente nelle diverse circostanze il proprio potere negoziale.
Questi aspetti hanno costituito un modello unitario in cui il Contratto collettivo
svolge nella sua autonomia un ruolo centrale e generale per gli aspetti salariali e normativi2 mentre con le politiche rivendicative (contrattazione di secondo livello) evidenzia la presa della categoria sui due poli centrali delle grandi imprese: la discussione delle strategie finanziarie ed industriali a livello di holding, corporative e il confronto sul luogo della produzione materiale dei beni e dei servizi. Tale presa si concretizza con gli indirizzi concertativi sui processi d’internazionalizzazione, d’innovazione e delle strategie industriali e con la contrattazione sui cambiamenti e sugli effetti delle organizzazioni della produzione e del lavoro adottati per assicurare una
crescita costante dell’efficienza e della produttività. Un modello in via di consolidamento che richiede indubbiamente alcuni aggiornamenti (in particolare sugli orari
nazionali e sulle applicazioni aziendali, sul sistema del salario variabile e sulle questioni concernenti la professionalità) e superamenti dei vari punti critici che però
non inficerebbero la sua originalità soprattutto nell’attuale combinazione che i cambiamenti organizzativi e competitivi delle aziende manifestano. Nonostante ciò resta, nel giudizio di molti, un buon riferimento ma non è considerato come la condizione principale per una discussione sull’attuale crisi della struttura contrattuale.
Quest’aspetto può dipendere dalla stessa natura della Cgil dove le opportunità politiche sovrastano, a volte, il merito sindacale.
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Il paradigma contrattuale
L’attuale modello contrattuale, ovvero i due livelli negoziali, il contratto collettivo e la contrattazione di secondo livello, è all’origine del potere sindacale che si manifestò agli inizi degli anni Cinquanta per arrivare ai nostri giorni. La struttura si
formò su uno schema «tripolare articolato sul livello confederale, federale e sulla
contrattazione articolata. La caratteristica prevalente fu «l’autonomia sindacale e politica delle Federazioni industriali, il sistema contrattuale tripolare, la nuova conflittualità sociale e industriale che caratterizzerà il ventennio successivo» (corsivo mio)3.
L’affermazione di tale modello stabilì una discontinuità del sindacalismo italiano e
in particolare della Cgil guidata da G. Di Vittorio, tra gli anni successivi al fascismo
e il manifestarsi dell’industrialismo e della seconda grande trasformazione del no2
Gli ultimi due contratti del settore alimentare proprio sugli aumenti salariali hanno previsto degli
aumenti superiori all’Ipca depurata dai beni energetici e la certezza del mantenimento del potere d’acquisto dei salari. Questi risultati unitari non hanno avuto nessuno scambio normativo, come ad
esempio la cancellazione degli scatti di anzianità, ma sono stati l’esito della coerenza rivendicativa della categoria e delle buone relazioni industriali e sindacali con gran parte delle aziende del settore alimentare.
3
Cfr. A. Pepe, Il sindacato nel compromesso nazionale: repubblica, costituzione, sviluppo, in Aa.Vv., La
Cgil e la costruzione della democrazia, Ediesse, Roma, 2001, p. 121; si veda inoltre: S. Rogari, Sindacati e imprenditori. Le relazioni sindacali in Italia dalla caduta del fascismo alla contrattazione, Le Monnier, Firenze, 2000, pp. 121 ss.; F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda, Ediesse, Roma, 2013
(di prossima pubblicazione).
4 Nel 1952 i sindacati Cgil-Cisl-Uil aprirono una vertenza per conglobare nella paga base l’assegno di
carovita e varie indennità e per conseguire un giusto aumento delle retribuzioni ferme da anni. Le richieste furono diverse tra i sindacati. La Cgil chiese un aumento del 15-20%, la Uil del 10% e la Cisl
aumenti differenziati secondo i settori e in rapporto alla produttività. Nonostante rivendicazioni differenti ci furono scioperi unitari (furono i primi dopo la scissione) ma poi la Cisl e la Uil si astennero
e successivamente iniziarono a trattare separatamente firmando infine un accordo senza la Cgil. Fu il
primo accordo che diede il via in maniera aperta alla discriminazione contrattuale. La Cgil propose dei
«protocolli di accordo» alle aziende e alle Unioni industriali provinciali che non trovarono grandi risultati, salvo in alcune aziende e province, ma l’iniziativa della Cgil si configurò come un primo tentativo di articolazione. Alcuni commentatori, pur rimarcando i contenuti negativi (fu chiamato «accordo truffa»), considerarono l’accordo separato sul conglobamento l’inizio della fine della centralizzazione contrattuale e la premessa della formazione della contrattazione di categoria. Infatti per la prima volta le Federazioni di categoria poterono negoziare modifiche dei minimi retributivi in sede di
rinnovo dei contratti di lavoro.
5 A. Novella, dopo la morte di G. Di Vittorio (1957), fu eletto segretario generale della Cgil. Incarico
che manterrà per tredici anni e che lascerà a L. Lama nel 1970.
Temi
stro paese (1943-55). Fu un processo lento, doloroso e attraversato da una forte crisi della rappresentanza sindacale (gli anni Cinquanta). L’atto costituente del paradigma fu l’autocritica di Di Vittorio al direttivo della Cgil (marzo 1955). L’autocritica fu l’esito finale di una strategia sindacale in cui la stessa correttezza rivendicativa scontava, tra le tante cose, un sistema di contrattazione inadeguato. In quegli anni alcune vertenze importanti non trovarono i risultati sperati. La lotta del ’50 per
la rivalutazione delle categorie, per ridare un riconoscimento maggiore alle professionalità alte in cui si addensava il grosso degli attivisti e dirigenti di base del movimento operaio, non ebbe soddisfacenti risultati. Così come la lotta per il 15% nel
’51-52 quando la Cgil sulla svalutazione della moneta (ma anche sulla base di due
accordi precedentemente siglati di tregua salariale) decise di rivendicare un aumento per tutti che finì, invece, con un accordo sugli assegni familiari che avrebbe coinvolto solo i lavoratori con mogli e figli. La stessa lotta «per la perequazione e il conglobamento» tra il ’53 e il ’54 terminò con un accordo separato in cui sul conglobamento fu fatta un’operazione contabile e sulla perequazione non fu fatto nulla 4.
I motivi della scarsa presa e dei pochi risultati delle vertenze, nonostante fossero rivendicazioni giuste, furono i mancati collegamenti nelle realtà di fabbrica.
Il Convegno nazionale d’organizzazione della Cgil (1954) si configurò come
uno dei momenti più importanti di tutto il decennio. Preceduto da una seduta del
Comitato direttivo (15 dicembre 1954) affrontò i gravi problemi organizzativi della Cgil. La relazione introduttiva al convegno fu di A. Novella, responsabile dell’organizzazione della Cgil 5, il quale affrontò il tema del coordinamento e della artico-
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lazione organizzativa e la necessità di una nuova struttura sindacale in fabbrica. Naturalmente la riflessione sulla forma organizzativa della Cgil scaturiva da una forte
necessità dovuta sia alla poca presa delle vertenze nazionali (per il 15% e «per la perequazione e il conglobamento») sia alla perdita degli iscritti e alle mancate adesioni. Su questi dati Novella pose l’esigenza dell’articolazione della forza organizzativa del sindacato come un valore che avrebbe riguardato un «problema di direzione, di efficienza [e] di democrazia interna»6. Stabilite le premesse, Novella entrò nel merito su temi ritenuti fino allora indifferenziati e irrevocabili nella loro generalizzazione. Scrisse, a proposito delle realtà di fabbrica, che, a fronte di problemi e di rivendicazioni delle categorie, «vi era una grande varietà di situazioni, relativamente ai problemi produttivi, ai regimi di fabbrica, ai rapporti di forza tra le
varie organizzazioni» e aggiunse che bisognava evitare «di impostare i problemi che
hanno un carattere nazionale in modo schematico, senza tener conto cioè delle situazioni concrete esistenti nelle singole città, province, regioni e soprattutto nelle
singole aziende»7 (corsivo mio).
Il Convegno aprì una riflessione alternativa al ruolo dell’organizzazione sindacale mutuata dalla centralizzazione della contrattazione collettiva e dall’accentramento dei poteri da parte della Confederazione, ma la riflessione ripiegò quasi tutta sugli aspetti dell’innovazione organizzativa con il proposito di costituire le Sezioni sindacali d’azienda. Mancò ancora una riflessione radicale sulla struttura contrattuale
che impiegava il criterio della centralizzazione della contrattazione nell’industria e
l’accentramento dei poteri della Confederazione rispetto alle categorie.
Dal 26 al 28 aprile 1955 a Roma si svolse una riunione del Comitato direttivo
della Cgil. La relazione introduttiva del segretario generale G. Di Vittorio svolse un
esame autocritico sulle «sconfitte cocenti» nelle elezioni delle Commissioni interne
della Fiom-Cgil, il sindacato di categoria metalmeccanico8. Ci furono, infatti, dei
«gravi rovesci» alla Falck, all’Om e alla Fiat; in particolare alla Fiat ci fu un vero collasso alle elezioni per le Commissioni interne nel marzo del ’55 quando la Fiom dimezzò i voti e perse la maggioranza assoluta, passando da 32.885 a 18.937 per giungere a 15.864 nel 1956. Anche la Camera del lavoro di Torino in quegli anni vide
dimezzarsi gli iscritti che passarono dai 137.932 del 1955 ai 66.735 del 1956. I dati dimostrarono una forte tendenza generale alla perdita degli iscritti alla Cgil e una
sostenuta diminuzione della sindacalizzazione nelle realtà di lavoro. Rispetto agli anni passati quei dati mostrarono non solo uno scollamento tra sindacato e lavorato-
6
Rafforzare l’organizzazione e l’influenza della Cgil, atti del Convegno nazionale d’organizzazione, Roma, dicembre 1954, p. 16.
7 Rafforzare l’organizzazione e l’influenza della Cgil, cit., pp. 16-19.
8 F. Farina, Della produttività, Ediesse, Roma, seconda edizione, 2008, p. 75.
9
Sulle human relations, si veda F. Farina, Persona e lavoro, Ediesse, Roma, 2010, pp. 64-66.
G. Di Vittorio, Relazione introduttiva al comitato direttivo della Cgil, Roma, 26-28 aprile 1955.
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ri ma la sottrazione della stessa funzione sindacale. L’autocritica di Di Vittorio fu radicale. Il primo errore di politica sindacale, disse Di Vittorio, fu «quello di non aver
tenuto sufficientemente conto delle profonde modifiche che si sono prodotte negli
ultimi anni e che si vanno producendo, specialmente nelle grandi fabbriche, per
quanto concerne i metodi produttivi, la struttura delle retribuzioni e, soprattutto, i
metodi assolutamente nuovi, di carattere scientifico [il metodo taylor-fordista,
n.d.a.], che il padronato ha applicato e applica per garantirsi un controllo più diretto e capillare sui lavoratori, presi individualmente, in seno all’azienda e fuori dell’azienda. Dobbiamo convenire che non conosciamo a fondo le condizioni reali dei
lavoratori nella nuova situazione, che non abbiamo studiato il carattere delle modifiche che sono state operate in molte fabbriche, e le loro conseguenze pratiche. Da
questa scarsa conoscenza della vita reale dei lavoratori nelle fabbriche, derivano gli
errori di politica sindacale che abbiamo commesso, le impostazioni schematiche e
generiche che abbiamo dato alla nostra azione, senza tener conto delle profonde differenze esistenti da azienda ad azienda e da settore a settore [...] Non abbiamo saputo cogliere le particolarità della situazione, non abbiamo saputo formulare le rivendicazioni più sentite, per condurre, in base ad esse, lotte concrete, azienda per
azienda, sia pure inquadrandole in una linea di carattere generale che legasse il tutto: ci siamo illusi di racchiudere la realtà entro i nostri schemi, ma la realtà è stata
più forte di noi e il nostro schema è saltato in aria. [...] Dobbiamo studiare, d’altra
parte, i nuovi metodi introdotti in alcune fabbriche, in legame con gli esperimenti
della ‘produttività’ come viene concepita dagli americani. Di questi esperimenti noi
non abbiamo sufficientemente discusso. [...] Queste sono deficienze gravi. Quando
non si conoscono le situazioni reali, non si possono avere che delle impostazioni generiche, schematiche, che non convincono nessuno. Di questa mancanza di conoscenze precise e documentate siamo responsabili in primo luogo noi del centro confederale. Anche per quanto concerne le questioni legate ai metodi delle human relations9, è necessario compiere uno sforzo serio per impadronirci dei termini reali
del problema e impostare un’azione tempestiva – nel campo organizzativo e propagandistico – per fronteggiare validamente la situazione»10.
L’autocritica di Di Vittorio rappresentò una svolta; fu la conclusione di una lunga attività interna alla Cgil e fu la conferma di un forte rinnovamento sulla funzione del sindacato nei confronti del mondo del lavoro e sulla definizione di una nuova struttura contrattuale. Questo rinnovamento avrebbe stabilito, nel corso degli
anni, quel paradigma sindacale che contrasterà l’emarginazione del valore del lavoro sulla base di una sindacalizzazione di massa strettamente collegata alle politiche
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rivendicative e ad una struttura contrattuale adeguata alle condizioni reali dei lavoratori. Un modello cui avrebbero corrisposto un potere sindacale e un’autorità negoziale indipendente, conflittuale e autonoma dall’apprezzamento del lavoro come
forma marginale e accessoria alle ragioni politiche ed economiche.
Il direttivo del ’55, con l’autocritica di Di Vittorio, fu una grande testimonianza di coscienza morale e sociale. Una testimonianza in cui il valore dell’autocritica
(«Di questa mancanza di conoscenze precise e documentate siamo responsabili in
primo luogo noi del centro confederale») si collegherà all’individuazione dei problemi dei lavoratori e a un nuovo ruolo del sindacato. Il grande impulso che fu dato al rinnovamento dal direttivo trovò una posizione e definizione strategica, un anno dopo, nel quarto Congresso della Cgil a Roma nel febbraio 1956. Il Congresso
riaffermò i mutamenti in fabbrica e confermò che le condizioni nuove e profondamente diverse nelle fabbriche avrebbero richiesto «una politica sindacale articolata
al livello di azienda, di gruppo, di settore» (F. Santi, 1956). Il «ritorno in fabbrica»
fu la questione centrale sia per superare definitivamente qualsiasi ancoraggio alla
centralizzazione contrattuale sia per ridefinire un modello rivendicativo adeguato ai
nuovi compiti della rappresentanza sindacale. La definizione e la titolarità dei livelli negoziali dipesero dalla responsabilità di negoziare le reali condizioni di lavoro e
le esigenze di vita dei lavoratori. Tutti gli aspetti del rapporto di lavoro11 furono esaminati come argomenti di contrattazione sindacale in un modello rivendicativo che
avrebbe dovuto prevedere «accordi concernenti singoli settori della stessa categoria,
gruppi di aziende e aziende singole» (corsivo mio). Il contratto nazionale fu considerato una «conquista intangibile dei lavoratori italiani, fattore decisivo della loro unità», e «il miglioramento delle condizioni minime che essi garantiscono verrà facilitato stabilendo posizioni via via vantaggiose in determinate aziende o settori». Il
modello contrattuale così combinato avrebbe stabilito delle gerarchie in cui il contratto nazionale sarebbe stato intoccabile per il suo valore universale data la funzione di rappresentare tutti i lavoratori della categoria, mentre il livello aziendale avrebbe negoziato gli aspetti specifici direttamente legati alle diverse condizioni dei lavoratori delle realtà produttive di gruppo o di azienda.
Il progresso tecnico: «Il rimedio che avvelena»
La svolta da parte della Cgil, oltre a richiedere l’affermazione del nuovo modello contrattuale, presuppose un forte aggiornamento di analisi sulle condizioni di la11
I Temi in preparazione del IV Congresso individuarono gli aspetti dei rapporti di lavoro quali: «la
retribuzione in tutte le sue forme, la durata del lavoro, la misurazione dei tempi e l’intensità dei ritmi,
le modalità dell’organizzazione del lavoro, le condizioni igieniche e la sicurezza, la disciplina, le prestazioni previdenziali obbligatorie, la corretta applicazione delle leggi e dei contratti».
12
F. Farina, Persona e lavoro, cit., p. 64.
S. Leonardi, Trasformazioni tecnico-organizzative e trasformazioni dei rapporti di lavoro nell’interno
dell’azienda, «Critica economica», n. 4, agosto 1956, pp. 6-15.
14 F. Ferrarotti, Una sociologia alternativa, De Donato, Bari, 1972, p. 50.
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Temi
voro nel settore industriale. Una elaborazione, così come ricordava Di Vittorio nella sua autocritica, indirizzata alle caratteristiche delle nuove tecniche di gestione12,
alle questioni della condizione e prestazione lavorativa e alla realtà industriale nelle
sue inedite manifestazioni. Tutti aspetti che furono trascurati dal sindacato. Infatti
gli obiettivi di ricostruzione del paese e la pratica rivendicativa centralizzata crearono un divario tra gli «schemi generali entro i quali (si pensava) di poter comprendere tutte le questioni particolari» e i mutamenti in corso nelle realtà produttive. La
questione centrale fu quella del cosiddetto «progresso tecnico» che poi compendiò
tutti gli altri temi della condizione operaia.
L’analisi si trattenne su un’idea guida che fu quella della «razionalizzazione»,
utilizzata per comprendere le trasformazioni di quegli anni nell’industria italiana.
Il criterio della «razionalizzazione» comprese «sia le trasformazioni tecniche sia organizzative, connesse con una ricerca organica e sistematica diretta ad ottenere il
massimo rendimento dello sforzo lavorativo»13. In particolare la spiegazione si soffermò sulla descrizione secondo la quale la prestazione lavorativa aveva accompagnato i principi della parcellizzazione e dell’elementarizzazione del lavoro la cui
erogazione dipese da una mansione definita e da un tempo limitato. Furono i principi che guidarono le tecniche produttive di allora in cui la misurazione dei tempi
di lavorazione richiesti da ogni unica operazione (taylorismo) si combinò con lo
studio del metodo e dei movimenti necessari. Tale mescolanza, tra la misurazione
dei tempi e dei metodi di lavorazione, ordinò l’organizzazione aziendale secondo il
procedimento Mtm (misura tempi e metodi) che previde la scomposizione di ogni
operazione manuale «nei movimenti-base necessari alla sua esecuzione e nell’assegnare a siffatti movimenti un tempo standard predeterminato»14. Tale processo organizzativo fu dipendente dalla meccanizzazione del processo di produzione. Infatti il capovolgimento dettato dalla sostituzione delle macchine polivalenti (torni
universali, frese, ecc.) con macchine monouso ruppe quel carattere artigianale dell’organizzazione aziendale sostituendo alcune funzioni di regolazione delle macchine e di autonomia dell’operaio qualificato con la dipendenza del lavoratore comune alle nuove tecnologie. La «razionalizzazione» si affermò, dunque, con il passaggio da «l’unità di lavoro che nella fase precedente [fu] rappresentata dall’uomo
e dalla sua macchina, dalla quale egli otteneva un lavoro completo e richiedente
una serie di operazioni diverse e talora complesse, [...] [a] una serie di macchine
singolarmente adibite a operazioni speciali e parziali e dagli uomini che [serviro-
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no] le macchine stesse»15. La conseguenza della «razionalizzazione» portò, dunque,
la produzione di una fabbrica al criterio di un «aggregato» di produzioni dei singoli posti di lavoro in opposizione alla «sommatoria» delle produzioni dei singoli
operai16. Fu chiaro che tale mutamento dispose una diversa organizzazione del lavoro secondo criteri «scientifici», adattando il lavoratore parcellizzato alla macchina monouso e secondo movimenti necessari e tempi di lavorazione predeterminati. La prima conseguenza di rilievo fu quella della dequalificazione dal lavoro meccanizzato con la scomparsa dell’operaio competente a favore invece dell’operaio comune. Infatti la caratteristica dell’operaio qualificato consisteva in una specifica capacità pratica (gli aggiustatori meccanici, gli addetti alle macchine polivalenti, ecc.)
mentre la particolarità degli operai specializzati, oltre alla capacità tecnica, riguardava l’acquisizione di nozioni pratiche (collaudatori ed elettricisti d’impianti complessi, montatori di macchine, ecc.). La meccanizzazione espropriò la gran parte
del lavoro professionale oggettivandolo alle macchine, mantenendo soltanto alcune
figure professionalizzate addette a macchine complesse, alla manutenzione e riparazione.
La struttura del cambiamento organizzativo, e cioè il superamento di singole produzioni svolte da singoli operai con la concatenazione di produzioni meccanizzate e
divisa in singoli posti di lavoro, stabilirà un calcolo inedito della produttività, sempre più misurata secondo il criterio aziendale e sempre meno dal rendimento del
cottimo tradizionale e dalla produzione terminale. Ci fu, dunque, la necessità, in ragione della meccanizzazione, di una corretta interpretazione della produttività
aziendale17. I motivi furono quelli riguardanti il nesso tra produttività, intensità e
organizzazione del lavoro e il rapporto prevalente tra produttività e politiche riven15 S. Leonardi, Trasformazioni tecnico-organizzative e trasformazioni dei rapporti di lavoro nell’interno
dell’azienda, cit., p. 33.
16 La fase osservata e che fu motivo della grande trasformazione industriale fu quella dell’industria
meccanica di serie e specificamente le industrie di montaggio (auto, pneumatici, alimentari, calzaturifici...). Ci furono a volte delle sovrapposizioni di analisi tra il ciclo continuo automatizzato delle industrie chimiche e petrolifere con la concatenazione meccanizzata dei processi produttivi manifatturieri. Valeva allora una sorta di mito del ciclo automatizzato come fonte di professionalità e di liberazione dal lavoro tanto da renderlo come un destino ineluttabile, ma la meccanizzazione che coinvolse l’industria manifatturiera mantenne – a differenza del ciclo continuo in cui le macchine stabilivano i tempi di lavorazione e i ritmi produttivi, in cui il lavoratore aveva principalmente una funzione di controllo e non aveva un rapporto diretto nella trasformazione della materia – il lavoro operaio nella trasformazione della materia prima fatta in diversi reparti e dai diversi posti di lavoro per
poi essere montata nella fase finale. Il ciclo industriale, razionalizzato dalla cosiddetta «scienza del lavoro» tayloristica e dall’innovazione tecnologica meccanizzata, costituì, allora, la caratteristica del mutamento produttivo.
17 Cfr. S. Garavini, Per una partecipazione dei lavoratori alla soluzione dei problemi di organizzazione del
lavoro e della produzione e B. Trentin, Produttività, Human Relations e politica salariale, «Critica economica», n. 4, agosto 1956.
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L’Uil fino allora respinse l’opportunità della contrattazione aziendale. Solo nel 1958 nel Convegno
nazionale sulle Commissioni interne riconobbe la necessità di una maggiore articolazione contrattuale. Tale utilità fu stabilita con l’introduzione di un livello intermedio tra il Ccnl e la contrattazione
aziendale. Infatti la contrattazione di settore fu ideata e introdotta soprattutto dalla Cgil (V Congresso
nazionale, Milano, 1960) per contrastare una possibile deriva aziendalistica del negoziato.
19 Il segretario generale dei chimici (Filc) Egidio Roncaglione (che sostituì alla fine del 1957 L. Lama,
divenuto segretario generale della Fiom) dichiarò che la vertenza contrattuale «si è venuta dipanando
nel bel mezzo dell’offensiva scatenata dal grande capitale monopolistico italiano, attraverso la Confindustria, per determinare le migliori condizioni per i padroni per la battaglia del Mec. Ancora una volta dunque, i problemi generali hanno influito sui problemi particolari, per cui ci pare che l’insegnamento principale che dobbiamo ricavarne sul piano tattico sia quello di sviluppare sempre più l’iniziativa rivendicativa differenziata, dall’azienda al settore» (O. Cilona, M.L. Righi, Cent’anni di storia
dei lavoratori chimici, Ediesse, Roma, 1986, p. 162).
Temi
dicative. Difatti il collegamento fra salario e produttività suppose il fondamento del
ruolo dei lavoratori nello sviluppo della produttività ma presunse, secondo l’elaborazione di allora, una contrattazione in azienda sull’intensità, sulla monotonia e sui
ritmi del lavoro e una negoziazione degli organici, dell’orario di lavoro e della professionalità.
Il periodo che va dal Congresso della Cgil di Roma (1956) a quello di Milano
del 1960 sarà un periodo formativo, incerto ma sicuramente preparatorio. La contrattazione aziendale, nonostante la convergenza tra la Cgil e la Cisl18, prima di allora fu estremamente ridotta sia sul piano quantitativo sia su quello qualitativo. Si
calcola che nel periodo dal ’53 al ’57 gli accordi aziendali furono 500 per un totale
di circa 400.000 lavoratori mentre i contenuti furono prevalentemente dedicati agli
aumenti salariali una tantum. La campagna lanciata dalla Cgil nel 1956 a livello di
fabbrica e di gruppo a favore della corresponsione degli arretrati di mensa trovò efficaci risultati sia nel settore metalmeccanico (Fiat, Ilva, Ansaldo) sia nell’industria
chimica (Pirelli-Bicocca, Solvay, Sio, Montecatini).
Queste e altre esperienze negoziali prepararono i rinnovi contrattuali. La contrattazione aziendale del periodo ’56-57, nonostante la durissima pregiudiziale del
padronato, aprì una nuova impostazione rivendicativa meno generalista e interamente legata agli aspetti dell’organizzazione del lavoro e ai suoi riflessi sociali e lavorativi. La relazione fra le politiche contrattuali e la realtà tecnico-produttiva delle
aziende fu, difatti, il punto di partenza delle grandi lotte unitarie per i rinnovi dei
contratti che si svilupperanno nel corso del ’58 e del ’59.
Le trattative furono prevalentemente condizionate dall’entrata dell’Italia nel Mercato comune europeo (Mec). Aspetto, quest’ultimo, che fu utilizzato, prevalentemente, dalle imprese per respingere le richieste degli aumenti salariali19. Tutta la stagione contrattuale (1958-59), iniziata dai chimici e chiusa dai metalmeccanici, fu
deludente proprio sugli aspetti normativi e salariali. Eppure, nonostante la delusione degli esiti contrattuali, la stagione rivendicativa segnò definitivamente il supera-
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mento della centralizzazione contrattuale e fu l’inizio di una linea rivendicativa, «nel
cuore del nuovo capitalismo industriale italiano», sulle questioni riguardanti la condizione e prestazione lavorativa. Si affermò, cioè, il principio della contrattazione dei
vari aspetti del rapporto di lavoro così come fu indicato dalla svolta della Cgil nel
direttivo del ’55, in stretto legame con l’organizzazione del lavoro. In questa situazione e in un clima di ripresa unitaria tra i sindacati, si svolse il V Congresso della
Cgil (1960) a Milano che fu storicamente considerato come «il punto di approdo
della stagione iniziata con la riflessione autocritica del 1955».
Il Congresso di Milano non aggiunse molto sul piano delle scelte da quanto fu
deciso dal precedente Congresso di Roma (1956). Più che la definizione di una linea sindacale, l’assise della Cgil richiese la soluzione di un dilemma da cui dipendevano gli esiti futuri. Il Congresso, infatti, si trovò ad una scelta particolare in cui la
questione sindacale o arretrava in una ripetuta ed evanescente protesta oppure avanzava nella società e nelle fabbriche secondo il potenziamento di una struttura contrattuale in cui al contratto collettivo, come punto di riferimento primario, fosse
conquistata la contrattazione articolata20. L’esito, dunque, del Congresso nazionale
della Cgil (Milano, 1960) fu di completare il disegno di una rinnovata struttura
contrattuale e soprattutto di dare significato, riconoscimento e attuazione all’articolazione rivendicativa21.
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La situazione nella quale si svolse il Congresso fu nel pieno del miracolo economico (1958-63). In
questa fase dello sviluppo (1962) l’industria divenne il settore trascinante sul piano occupazionale (il
38% del totale della popolazione attiva, contro il 30% della forza lavoro in agricoltura e il 32% nel
terziario) mentre nel 1963 il contributo al prodotto interno lordo dell’industria fu del 43%, invece
dell’agricoltura del 15,7% e del terziario del 40,5%. L’esportazione ebbe un incremento del 14,55%
annuo e la media di crescita dal 1958 al 1963 raggiunse il 6,3%. La produzione industriale risultò più
che raddoppiata con il primato dell’industria metalmeccanica e petrolchimica. La fabbricazione dei frigoriferi passò da 370 mila a un milione e mezzo, i televisori salirono a 643 mila rispetto agli 88 mila
del 1954 e le auto passarono dal milione del 1956 ai cinque milioni e mezzo del 1965. Il reddito per
abitante raddoppiò e la disoccupazione scese segnando in pratica il raggiungimento della piena occupazione.
21 Il dibattito svoltosi al Congresso di Milano fu altresì interessante perché si soffermò non solo sulla
definizione del profilo dell’azione articolata ma anche sui contenuti delle politiche rivendicative. In
particolare fu affrontato il tema del salario aziendale e le sue implicazioni sull’organizzazione del lavoro. Il punto centrale del salario fu sul premio di rendimento. Innanzitutto fu mostrato il pericolo di «cristallizzazione» delle parti variabili del salario su base individuale; infatti nella organizzazione moderna
di lavoro in fabbrica il peso della volontà del singolo lavoratore e «della sua capacità produttiva individuale» si ridusse sempre di più al confronto della predeterminazione dei ritmi e dei tempi di lavoro.
Con l’organizzazione del lavoro a catena e con il lavoro a squadre, difatti, i ritmi e i tempi della produzione erano sempre di più determinati dai padroni tanto da bloccare i livelli salariali raggiunti con
i cottimi e gli incentivi individuali. Veniva meno, cioè, l’apporto individuale su cui si basava l’incentivo di cottimo a favore invece di un calcolo di produttività dell’insieme della fabbrica. Questa impostazione guidava una rivendicazione salariale che, in virtù dello stesso schema, richiamava, sui temi della produttività aziendale, la rivendicazione sugli aspetti della professionalità e sugli orari di lavoro. Una
Gli anni Sessanta sono considerati come il decennio operaio. Le lotte contrattuali del periodo precedente (1958-59) non ottennero i risultati sperati; conseguirono dei riconoscimenti parziali sul salario e non riuscirono a incidere sugli istituti
legati all’organizzazione del lavoro (cottimi, qualifiche, sistemi di lavorazione). Nonostante ciò crebbe l’esigenza unitaria delle lotte in fabbrica soprattutto legata alla
necessità di fronteggiare l’autoritarismo padronale e lo sfruttamento intensivo dei lavoratori. Del resto la Cgil con la sua scelta dell’articolazione negoziale, oltre a marginalizzare il collaborazionismo produttivo della Cisl e la scarsità riformista dell’Uil,
indicò la strada di un nuovo potere sindacale.
Il biennio ’60-61 fu di svolta. La rappresentazione che si può fare delle lotte sindacali di quegli anni proprio per il susseguirsi degli accadimenti richiederebbe la vivacità del cronista sindacale più che la competenza dello storico o del sociologo. Dopo l’intensità della lotta contro il governo Tambroni in difesa della democrazia e della Costituzione italiana, il biennio fu segnato da una forte caratterizzazione delle lotte operaie. La raffigurazione di quegli anni che se ne riceverà sarà la rappresentazione di un magma sociale che procederà, arretrerà, vincerà, acquisterà autorevolezza e
registrerà cedimenti. È la prova generale di una ritrovata capacità di lotta operaia in
una situazione inedita sia per le condizioni produttive e per i rapporti di forza sia
per un passato sindacale di divisioni. Questi avvenimenti segneranno la storia sociale della gran parte della seconda metà del Novecento e avranno come protagonista l’operaio e la classe lavoratrice dell’industria moderna.
Il 16 giugno del ’61 ci fu a Torino la prima giornata di sciopero proclamato
dalla Cgil nello stabilimento della Pirelli. I motivi dell’agitazione riguardarono
prevalentemente l’obiettivo di una massiccia dequalificazione degli operai. La Cisl
e l’Uil firmarono il giorno successivo allo sciopero un accordo separato con la dirigenza padronale. I lavoratori respinsero l’accordo e parteciparono ad oltranza allo sciopero proclamato dalla Filcep (sindacato chimico manifatturiero della Cgil).
La vertenza fu dura con il blocco delle merci, degli stampi, dei presidi notturni ai
cancelli e con una partecipazione unitaria e di massa costituita dagli operai provenienti dalle campagne del mezzogiorno. L’azienda di fronte alla lotta e anche alla diffusa solidarietà espressa dalla cittadinanza torinese fu costretta a ritirare l’aclinea rivendicativa, cioè, in grado di fissare aumenti salariali stabili e consolidati, legati al rendimento
della fabbrica (produttività aziendale) e adeguati, contemporaneamente, alle qualifiche degli operai.
Si operò, dunque, su un vero e profondo mutamento delle politiche sindacali. Tutti questi aspetti
qualificheranno, nel tempo, l’impostazione della Cgil sull’azione della contrattazione aziendale stabilendo, altresì, le differenze di merito, su questo livello negoziale, con le altre organizzazioni sindacali (Cisl e Uil).
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I primi anni Sessanta
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cordo separato e a mantenere le qualifiche professionali. Questa vertenza aprì di
fatto una robusta lotta articolata per gran parte degli stabilimenti della Pirelli. Ad
Arco Felice (cavi Pirelli) si aprì una dura vertenza sul premio di produzione e sulla perequazione delle paghe con lo stabilimento della Bicocca. Una lotta che arrivò alla stessa occupazione della fabbrica. A Settimo Torinese (pneumatici Pirelli)
gli operai chiesero la revisione della classificazione, l’aumento del premio, l’indennità per lavori nocivi, la revisione dei cottimi e la riduzione degli orari. La lotta durò 58 giorni fino a quando la Pirelli non cedette. Le lotte alla Pirelli dimostrarono la fattività dell’articolazione rivendicativa nelle singole unità produttive
con risultati positivi sugli obiettivi rivendicativi e sulla possibilità di piegare, con
la lotta, i centri di comando dei grandi gruppi e monopoli. Lo stesso valore ebbe
sull’efficacia dell’articolazione negoziale la vertenza degli operai di Settimo Torinese della Farmitalia. Un valore che dipese dalla capacità di incidere su una grande azienda farmaceutica e sulla novità degli obiettivi rivendicati. Fu, infatti, una
delle prime vertenze sulle condizioni ambientali di lavoro. Il motivo della lotta fu
la denuncia, da parte delle maestranze, di un lavoro ritenuto insostenibile per la
presenza, nel ciclo lavorativo, di sostanze altamente nocive. Un gruppo di tecnici
(medici del lavoro, assistenti sociali, studenti di medicina) esterni alla fabbrica,
con gli operai interessati, fece delle inchieste (clandestine) che rivelarono i principali fattori di rischio e le malattie che ne sarebbero scaturite (disturbi nervosi, impotenza, ingrossamento del seno). Su questi problemi si aprì, da parte della Filcep,
una vertenza e ne seguirono la proclamazione dello sciopero il 6 giugno ’61 con
una fortissima adesione dei lavoratori (97%) e nei giorni successivi allo sciopero
la lotta articolata nei diversi reparti del ciclo produttivo (fu una delle prime volte
che si determinò il criterio dell’articolazione della lotta). Fu escluso, infatti, lo
sciopero ad oltranza e fu introdotta una lotta improvvisa e finalizzata a colpire i
momenti cruciali dell’attività soprattutto nella fase cruciale delle «cariche farmaceutiche» quando l’astensione dal lavoro avrebbe arrecato il deterioramento irreparabile del prodotto22.
Oltre alla vertenza Pirelli, a cavallo tra il ’60 e il ’61, ci furono le vertenze dei Cotonifici Valle Susa e la lotta dei lavoratori elettromeccanici che segnarono il passaggio dai difficili anni Cinquanta agli anni Sessanta considerati come il decennio operaio. Al cotonificio un’agitazione di reparto fermò prima uno stabilimento e poi tutti gli undici del gruppo. Iniziò con una ribellione nei confronti del cottimo e dei ritmi di lavoro per poi trasformarsi in una contestazione sull’organizzazione del lavoro e sul controllo della produzione. In quegli anni il settore tessile subì una profonda trasformazione mediante l’introduzione di nuove tecnologie e delle fibre chimi22
Cfr. Cent’anni di storia dei lavoratori chimici, cit., pp. 191-194.
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In uno di questi scioperi a scacchiera, a ore alternate o per turni, la direzione aziendale rispose con
la serrata (5 febbraio 1961) e con l’azione combinata della polizia e dei carabinieri che interverranno
pesantemente davanti agli stabilimenti.
Temi
che. La tecnologia impresse una forte riorganizzazione della prestazione lavorativa
attraverso l’aumento della produttività, la dequalificazione professionale e l’eliminazione di alcune fasi lavorative. Una condizione di lavoro che si rilevò classica nelle politiche aziendali sui criteri dell’ottimizzazione della produttività del lavoro, attraverso, cioè, gli aumenti dei carichi di lavoro e la riduzione delle pause secondo la
velocità produttiva delle macchine nelle diverse fasi produttive. Una combinazione
in cui l’intensità dello sfruttamento corrispose a una dequalificazione del lavoro vivo (i lavoratori) subordinato alle procedure del lavoro morto (la tecnologia). A fronte di queste politiche, la lotta unitaria e le assemblee di fabbrica impressero una forte caratterizzazione operaia alle rivendicazioni. Le richieste, infatti, riguardarono i
cottimi, l’assegnazione delle macchine e i premi e, cioè, i punti nevralgici dell’organizzazione del lavoro così come fu definita dalle politiche padronali. Le stesse forme di lotta si caratterizzarono negli anni successivi come contrassegno dell’azione
sindacale e assunsero il segno degli scioperi a scacchiera, delle occupazioni, delle assemblee e dei cortei nei reparti23.
La lotta unitaria dei lavoratori elettromeccanici iniziò nell’autunno del 1960. I
lavoratori il 19 settembre 1960 aprirono la vertenza settoriale con uno sciopero nazionale di 24 ore; dal 19 settembre fino al 15 ottobre furono fatti 6 scioperi di 24
ore; dal 22 al 29 ottobre furono effettuate altre 72 ore di sciopero; dall’8 novembre
al gennaio del 1961, inoltre, i lavoratori, per spezzare la resistenza padronale, effettuarono scioperi a tempo indeterminato, generalmente per otto ore settimanali; dall’inizio della lotta furono sospesi, pure a tempo indeterminato, gli straordinari. In
tre mesi si calcolò che le ore di sciopero per lavoratore furono dalle 120 alle 130.
Come le altre (Pirelli, Farmitalia, Cotonifici Valle Susa), la vertenza degli elettromeccanici si misurerà nel concreto sulla capacità del sindacato di agire al livello dell’articolazione misurandosi con la realtà di fabbrica (di settore) sugli aspetti delle
condizioni di lavoro in fabbrica e sull’assoluta opposizione del padronato pubblico
(Intersind) e privato (Confindustria) all’apertura di qualsiasi integrazione aziendale
al contratto collettivo di categoria. Le organizzazioni padronali temettero che la politica di settore e l’articolazione contrattuale avrebbero portato ai lavoratori un recupero di potere contrattuale che avrebbe fatto saltare una situazione imperniata sul
contratto nazionale di categoria assicurando, quindi, lunghi periodi di tregua e programmazione dei costi. Nel novembre 1960 i lavoratori passarono allo sciopero a
tempo indeterminato di 8 ore settimanali, il 23 novembre venne fatta una manifestazione con la partecipazione di operai e studenti a Milano e il 1° dicembre una
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manifestazione di 100.000 lavoratori in piazza del Duomo. L’acutizzarsi della lotta
aprì delle contraddizioni, rompendo la convergenza sulla vertenza, tra la Confindustria e l’Intersind e all’interno delle stesse. In questa situazione di forte tensione sociale il ministro del Lavoro Sullo, a nome del governo, prese posizione a favore della contrattazione articolata in virtù di una giusta redistribuzione del salario in conseguenza dei rilevanti incrementi di produttività del settore elettromeccanico. L’Intersind l’11 dicembre 1960 firmò un accordo sindacale per 15.000 dipendenti dell’Iri in cui oltre ai consistenti risultati economici e normativi previde il diritto del
sindacato a definire accordi integrativi durante il periodo di validità del contratto
collettivo24.
I chimici nel 1961 aprirono il ciclo dei rinnovi contrattuali. La Filcep all’inizio
dell’anno preparò la piattaforma su un aumento dei minimi salariali del 15%, l’introduzione degli scatti d’anzianità, la riduzione dell’orario di lavoro, l’introduzione
dei diritti sindacali in fabbrica e la perequazione graduale delle zone salariali e delle
retribuzioni di giovani e donne25. La categoria della Cgil avviò un’ampia consultazione e dispose la possibilità di creare i delegati di fabbrica eletti da assemblee unitarie dei lavoratori per poter superare le divisioni e per ampliare il più possibile la
partecipazione al rinnovo contrattuale. Il 31 luglio, contro il parere della Filcep, la
Uil e la Cisl firmarono il contratto senza il riconoscimento della contrattazione articolata. La Filcep, pur valutando i miglioramenti previsti dal rinnovo, non ritenne
che fossero adeguati alle possibilità e ai rapporti di forza espressi dai lavoratori. Il 3
agosto convocò un attivo con la presenza dei rappresentanti sindacali delle grandi
fabbriche per lanciare la necessità di superare i limiti del contratto nazionale, di
spezzare il tentativo d’isolamento della categoria attraverso la contrattazione articolata e di affermare l’unità d’azione nelle fabbriche. Il 9 febbraio 1962 fu firmato unitariamente il contratto collettivo dei lavoratori della gomma con un aumento salariale del 9%, la riduzione di 2 ore dell’orario settimanale e il riconoscimento di nuovi scatti d’anzianità26.
Nella piattaforma del settore metalmeccanico, per il rinnovo del contratto collettivo (1962), la Fiom (Cgil) e la Fim (Cisl) proposero il riconoscimento della con24 Nell’accordo tra gli elettromeccanici e l’Intersind fu stabilito «il diritto del sindacato a stipulare accordi integrativi rispetto al contratto di categoria e a trattare in seconda istanza le vertenze non risolte
a livello aziendale» (1960).
25 Quest’ultima rivendicazione si rifà all’accordo interconfederale sulla parità salariale fra uomini e
donne nell’industria (1960) e sulla necessità della revisione dell’assetto zonale delle retribuzioni definita poi in un accordo interconfederale (1961).
26 Dopo i rinnovi contrattuali ripresero con vigore le lotte aziendali. Memorabile fu la vertenza alla
Michelin di Torino Dora con «la lotta dei 63 giorni». L’agitazione iniziò con la contestazione di una
tariffa di cottimo a cui l’azienda rispose con la serrata della fabbrica. L’iniziativa da parte di responsabili dell’azienda portò, come risposta, a una generalizzazione della lotta su una piattaforma rivendica-
tiva sui cottimi, sugli orari e sulle qualifiche. Di fronte alla lotta, la Michelin fu costretta a ritirare la
serrata e a riprendere la trattativa (8 febbraio 1962). Ci furono i presidi ai cancelli, scontri con la polizia, la costituzione dell’assemblea permanente, cortei in città e incontri con le istituzioni locali. L’accordo siglato riguarderà una «sanatoria» di 50 mila lire e la riduzione di due ore settimanali dell’orario
di lavoro e dimostrerà la forza della lotta unitaria nei confronti di una grande multinazionale. Cfr. Cent’anni di storia dei lavoratori chimici, cit., pp. 207-208.
Temi
trattazione articolata e le materie che dovevano essere oggetto di contrattazione
aziendale e settoriale quali il cottimo, gli organici, i carichi, i ritmi di lavoro e il premio aziendale. Lo scontro fu aspro, tanto che aprirà un intenso ciclo di lotte e di
scioperi. Il 13, il 19 e il 23 giugno (1962) si assistette ad un crescendo della partecipazione agli scioperi che coinvolse tutte le realtà aziendali più significative e la stessa Fiat dove l’adesione alla lotta da parte dei lavoratori crebbe fino a raggiungere all’interno degli stabilimenti Fiat la partecipazione allo sciopero di 60 mila lavoratori. Di fronte ad una massiccia ed estesa mobilitazione, il blocco padronale si divise.
L’Intersind e l’Asap, che rappresentavano il padronato pubblico, a fine giugno firmarono un «protocollo» d’intesa in cui fu riconosciuta la validità della contrattazione articolata applicativa per settore e per azienda fissandone le materie negoziabili da parte del sindacato. La Fiat con una manovra di aggiramento, sia nei confronti delle altre aziende private sia nei confronti dei sindacati di categoria (Fiom e
Fim), provò a fare un accordo separato e di comodo con l’Uilm e il Sida. Di fronte
a questa provocazione, gli scioperi già proclamati rappresentarono una forte risposta dei lavoratori metallurgici al tentativo della Fiat, mentre un’altra protesta si diffuse sotto la sede dell’Uil, in piazza Statuto a Torino dove si svolgevano scontri tra
polizia e manifestanti in una battaglia che cessò soltanto all’alba. Dopo questi fatti
la polizia fu schierata in massa davanti alla Fiat e alla Piaggio ma, nonostante ciò,
gli scioperi riuscirono così come i picchettaggi davanti alle fabbriche. In questo clima, prima delle ferie, il presidente della Fiat, V. Valletta, eseguì una provocazione
orribile mettendo in opera il licenziamento di 84 attivisti sindacali («agitatori, facinorosi, violenti»). Ci fu lo sciopero unitario alla Fiat di 24 ore e una fermata nazionale di 10 minuti proclamata dalla Fiom e dalla Fim. Lo sciopero non riuscì e si
aspettò settembre per la ripresa delle trattative contrattuali. La ripresa di settembre
vedrà una rinnovata volontà di lotta «a tempo indeterminato». In questo quadro il
rinnovo del contratto metalmeccanico scivolò su un tatticismo padronale tra alcune aziende importanti del settore e la stessa Confindustria. L’operazione, iniziata
dalla Fiat e poi dall’Olivetti, fu di aggirare la Confindustria e la sua chiusura con la
pratica dei precontratti. Si stipularono il 2 ottobre con la Fiat e la Olivetti, con il consenso di tutti e tre i sindacati di categoria, i contratti di acconto con l’esenzione dei
lavoratori dell’azienda dagli scioperi nazionali rispetto alle possibili conclusioni contrattuali. Se da una parte quest’operazione, voluta dalla stessa Fiom, ruppe il fronte
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padronale, dall’altra ridusse di molto lo schieramento, la forza sindacale, le attese
sull’obiettivo del rinnovo del contratto metalmeccanico e la stessa conflittualità operaia. Alla fine di ottobre le aziende che accettarono «il protocollo di acconto» saranno circa 200, perciò la Confindustria, già il 12 ottobre, offrì il 10% di acconto
ai sindacati di categoria da definire anche con le stesse Commissioni interne. A questa proposta i sindacati risposero di no e passarono a una lotta più articolata per isolare gli oltranzisti della Confindustria. Ci furono delle manifestazioni di massa in
quasi tutte le città (Siracusa, Bari, Savona, Genova, Lecco, Ancona, Reggio Emilia,
Piacenza, Novara, Trieste, Padova, Mestre, Firenze) e ci furono provocazioni della
polizia e dei padroni nei confronti dei lavoratori27. Rispetto a ciò la Confindustria
fu costretta a firmare un accordo sindacale in cui l’anticipo del 10% fu legato alla
disponibilità di negoziare il resto del contratto collettivo.
Nonostante tale disponibilità, la Confindustria mantenne il suo estremismo nei
confronti del rinnovo del contratto collettivo tanto che la Cgil aprì l’anno con un
appello di richiesta alla solidarietà del movimento sindacale nei confronti dei metallurgici. A seguito di ciò ripresero le lotte dei lavoratori e le rappresaglie dei padroni fino a quando Cgil, Cisl e Uil, dopo nove anni, proclamarono il primo sciopero generale dell’industria per l’8 febbraio del 1963. Su questa decisione di mobilitazione la Confindustria capitolò e firmò un contratto realmente riformato rispetto alla contrattazione del dopoguerra. Il contratto affermava nelle aziende metalmeccaniche private il diritto di contrattare in azienda. Oltre a riconoscere al sindacato il diritto di essere informato sul sistema di cottimo, di negoziare l’introduzione
di nuovi cottimi e di contrattare l’introduzione eventuale di nuovi sistemi di classificazione del personale rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo, l’accordo
dichiarava il diritto del sindacato a contrattare il premio di produzione. Certamente l’articolazione contrattuale si limitò ad alcune voci escludendone altre (ritmi, cottimo, tempi di lavorazione, ecc.), per cui, in una fabbrica, si stabilirono rapporti di
potere ma restarono certi due aspetti che l’accordo contrattuale avrebbe previsto e
cioè il riconoscimento di un secondo livello di contrattazione, oltre al contratto nazionale, e il cambiamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro nelle fabbriche28.
Anche nel settore tessile il rinnovo contrattuale s’indirizzò su nuovi obiettivi e
un più avanzato sistema di relazioni industriali. La piattaforma rivendicativa (1961)
si raccolse prevalentemente sugli adeguamenti di trattamento, sul prolungamento
delle ferie, sugli scatti di anzianità, sulle indennità di licenziamento e dimissioni tra
gli operai e gli impiegati. Previde gli aumenti salariali in parte uguali per tutti del
27
Alla Fatme di Roma la polizia aggredì il corteo dei lavoratori, alla Geloso il padrone sparò direttamente alle operaie della fabbrica e alla Remington di Napoli ci fu il licenziamento di 150 lavoratori.
28 P. Bolzoni, Le lotte operaie in Italia, «Quaderni di rassegna sindacale», n. 80, 1979, p. 24.
29
A. Fedeli, Nell’Italia repubblicana (1946-76), in Territorio e lavoro, Ediesse, Roma, 2001, p. 72.
Il tentativo della Confindustria fu di riunificare le diverse vertenze contrattuali in una trattativa interconfederale (Cgil, Cisl, Uil e Confindustria). I sindacati di categoria della Cgil e della Cisl (chimici, metalmeccanici, alimentaristi...) si opposero concretamente a tale ipotesi. Solo l’Uil si rese disponibile a tale «Accordo quadro», rompendo il fronte sindacale e astenendosi dagli scioperi successivi senza, però, limitare la buona riuscita degli stessi.
31 I limiti maggiori di questa stagione contrattuale furono lo scarto evidente tra i risultati e le rivendicazioni nelle piattaforme contrattuali, così come una scarsa partecipazione e coinvolgimento, dati i processi di ristrutturazione nelle fabbriche, dei lavoratori. Va ricordato che nel 1965 e nel 1966 furono rinnovati gli accordi sui licenziamenti individuali e collettivi e l’accordo sulle Commissioni interne.
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20% e il recupero degli scarti retributivi a danno delle donne e dei giovani così come era avvenuto nella precedente contrattazione centralizzata. L’accordo contrattuale (1962), dopo accese lotte alla Marzabotto e alla Lanerossi (1962), fissò l’aumento salariale al 18% e assicurò efficaci riconoscimenti sugli aspetti dell’organizzazione del lavoro. Stabilì, inoltre, la riduzione dell’orario di lavoro a 46 ore settimanali rispetto alle 48 precedenti, migliorò le percentuali di maggiorazione del lavoro notturno e festivo e cancellò «i riferimenti alle differenziazioni fra uomini e
donne circa il trattamento dei minori»29.
La crisi economica del 1964-65 fu colta come occasione da parte della Confindustria per compiere un rifacimento della struttura contrattuale. Quest’atteggiamento fece leva sui problemi occupazionali che la crisi recessiva aveva determinato
nelle fabbriche, cercò di limitare il più possibile i risultati dei rinnovi contrattuali
1965-1966, tentò di recuperare una discrezionalità in fabbrica sulla prestazione lavorativa (aumento dell’intensità del lavoro, aumenti di merito individuali, aumenti
di paga senza la qualifica o riconoscimento di qualifiche superiori senza aumenti di
salario) e si qualificò nella proposta di un «Accordo quadro» (gennaio 1965) a livello
confederale (Cgil, Cisl, Uil) dove si sarebbero dovuti fissare gli incrementi salariali
attraverso i quali, a livello di categoria, si sarebbero regolati e rinnovati i contratti
collettivi. Quest’ultima ipotesi, che nella sostanza riprendeva alcuni criteri fondamentali della centralizzazione contrattuale degli anni Quaranta-Cinquanta, fu decisamente rifiutata dalle categorie sindacali dell’industria della Cgil e della Cisl che
proprio in virtù dell’innalzamento del loro potere contrattuale fronteggiarono criticamente tale ipotesi e confermarono così la loro autonomia contrattuale30. I chimici siglarono l’accordo contrattuale il 27 novembre 1966, i metalmeccanici il 15 dicembre del 1966, mentre i tessili lo sottoscrissero il 1° luglio del 1967. Tutti i contratti confermarono, anche se con alcuni limiti, il ruolo della contrattazione collettiva in azienda nonostante la volontà delle associazioni padronali di limitare ulteriormente il potere negoziale. Indubbiamente questo ciclo contrattuale risentirà della recessione del biennio ’64-65 e del tentativo del padronato di annullare i risultati contrattuali del precedente ciclo (1962-63). Nonostante i limiti dei rinnovi31, la
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capacità dei sindacati di categoria di mantenere comunque il modello contrattuale
con i due livelli negoziali permise di offrire ai sindacati e ai lavoratori, nelle loro funzioni negoziali, la possibilità di ribaltare gli stessi limiti di questa stagione contrattuale sia sul piano salariale sia sugli interventi per l’organizzazione del lavoro da parte delle rappresentanze aziendali. Questo processo, che fu valutato storicamente come la «riscossa operaia», si concretizzò alla fine degli anni Sessanta e fu denominato l’«Autunno caldo».
Il VI Congresso della Cgil, 1965
Il sesto Congresso della Cgil si svolse a Bologna nel 1965 (31 marzo - 5 aprile)
e registrò un dibattito intenso per via delle condizioni nuove sul piano politico e sindacale32 che nel frattempo si erano determinate. Sugli aspetti delle nuove condizioni sindacali il Congresso si soffermò su un complessivo peggioramento della condizione dei lavoratori. Tale peggioramento s’identificò con un attacco ai salari e ai livelli occupazionali e con un intensificato sfruttamento del lavoro. Accanto a queste
condizioni d’inasprimento della condizione operaia nella fabbrica, s’indicò la cadu32 Si veda La Cgil nei suoi congressi, cit., pp. 91-92, dove si può leggere la sintesi del mutamento del qua-
dro politico del quinquennio (1960-65) fatta da Novella nella sua relazione introduttiva al congresso.
Si legge, infatti, che: «Ancora una volta la Cgil era chiamata a confrontarsi con una situazione nuova, a
ripensare la sua strategia, a misurare le sue scelte. I cinque anni trascorsi dal quinto congresso, infatti,
avevano sensibilmente mutato il quadro nel quale il sindacato era chiamato a muoversi. L’estate antifascista del 1960 aveva travolto ogni illusione di trovare nell’avventura autoritaria vie di uscita alla crisi irreversibile del centrismo e, sommandosi alle lotte della ‘ripresa’ operaia, aveva aperto la strada alla nuova fase politica del centrosinistra. Per la prima volta i due partiti operai (P.c.i e P.s.i) si erano collocati diversamente rispetto al governo: una realtà inedita con la quale le componenti interne della Cgil erano
state chiamate a fare i conti. E i conti avevano dovuto farli anche con l’esaurirsi della fase riformatrice
del centrosinistra (e con la delusione delle grandi speranze che aveva suscitato) e con l’avvio della sua involuzione moderata. Infine c’erano state la scissione socialista e la nascita del Psiup, che nel sindacato
avevano assunto proporzioni vistose e avevano aperto una fase agitata nei rapporti tra le componenti,
imponendo il rinvio di un anno del congresso e nuovi dosaggi negli organismi dirigenti. Sul piano economico, dopo gli anni del ‘boom’, dal 1963 si era registrata una netta inversione della congiuntura e –
disse Novella nella relazione che aprì i lavori del Congresso al Palazzo dello sport di Bologna – si assisteva al tentativo di rovesciarne le conseguenze sui lavoratori. Negli anni del ‘cosiddetto miracolo economico’ e delle ‘euforiche esaltazioni della società del benessere’ – ricordò il segretario generale della
Cgil – si era tentato di far credere che l’efficienza del sistema aveva ormai fatto superare la necessità delle riforme strutturali. Mentre la classe operaia rispondeva a questa tesi con ‘lotte grandiose e memorabili’, il sindacato aveva continuato a denunciare la precarietà del ‘miracolo’, pur non sottovalutando affatto le trasformazioni determinate dallo sviluppo e, anzi, analizzandole e adeguando ad esse la sua linea di fondo e la sua azione concreta. Il ‘rammodernamento organizzativo’ operato in vista dell’entrata
in vigore del Mercato comune europeo – continuò Novella – aveva consentito alle aziende italiane di
accrescere la loro capacità competitiva sui mercati internazionali, ma non doveva essere dimenticato che,
unica tra le industrie del Mec, quella italiana aveva goduto di un basso costo del lavoro, imposto con
una politica economica che incoraggiava l’esodo di manodopera dall’agricoltura e dal Mezzogiorno. Il
suo prezzo era stato l’ulteriore aggravamento degli squilibri economici e sociali del paese».
33 Novella fece riferimento alla proposta della Confindustria dell’«Accordo quadro». Su questi temi La-
ma fu abbastanza esplicito quando nel suo intervento al Congresso disse che «L’autonomia e il potere
sindacale cominciano nella fabbrica, ma non finiscono dentro i cancelli della fabbrica [...] Un sindacato che si occupasse soltanto di salari, di cottimi, di organici, di trasporti, di case, di sicurezza sociale [...] un sindacato che si occupasse soltanto di queste cose, potrebbe essere forte, potrebbe essere potente, dico di più, potrebbe essere utile ai lavoratori, ma potrebbe pur sempre essere ancora subordinato organicamente, se non sente la necessità di farsi non solo protagonista ma autorevole e impegnata forza, che interviene per una modificazione più profonda delle strutture economiche e sociali» (La
Cgil nei suoi congressi, cit., p. 101).
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ta del monte salari e la costante ascesa dei prezzi, dei canoni di affitto e delle tariffe
dei servizi pubblici, tanto da colpire e da aggravare il lavoratore anche nella sua vita sociale. Su questo stato di cose Novella, nella sua relazione, criticò l’assenza di misure efficaci da parte del governo per contrastare la possibilità di una recessione generale dell’economia italiana date le condizioni di una forte caduta della domanda
globale interna e le incertezze sul mantenimento dei livelli di esportazione. La Confindustria ritenne che la colpa della recessione fosse stata del sindacato, soprattutto
per gli aumenti salariali del periodo ’60-62, tanto da richiedere una tregua salariale
(«Accordo quadro», gennaio 1965) con una «politica dei redditi» che avrebbe portato all’immobilizzazione delle dinamiche salariali e avrebbe favorito, nella ripartizione del reddito nazionale, i profitti aziendali. Su questi aspetti il Congresso sviluppò un approfondimento che, di là della contingenza economica e sindacale, prefigurò un nuovo modello della rappresentanza sindacale su cui ancora oggi l’azione
sindacale della Cgil trova la sua legittimazione. La novità fu nell’affrontare il progetto governativo di un programma quinquennale di sviluppo economico che, come disse Novella, introduceva «nella dialettica fra le forze sociali un nuovo terreno
di confronto», un terreno «sul quale il sindacato intende essere incisivamente presente». In questa ridefinizione della politica generale da parte della Cgil, a favore
cioè di un confronto di merito sulla programmazione, restarono ferme la centralità
della fabbrica e la funzione del modello contrattuale ma in una posizione diversa dal
passato (1955-65). Infatti si ritenne che la linea di programmazione della Cgil fosse dovuta alla convinzione che «senza di essa non è possibile superare in modo sostanziale neppure la drammatica alternativa salario-occupazione che ci viene riproposta in modo così pressante» (Novella, 1965)33; ma si reputò, nello stesso tempo,
che la fabbrica fosse il luogo più vulnerabile del padronato (Trentin, 1965) e fosse
il «primo decisivo terreno di scontro» (Scheda, 1965), il «punto di fuoco» della lotta rivendicativa (Santi, 1965). Da qui la necessità di «ancorare al luogo di lavoro» la
battaglia (Didò, 1965) per avviare «un movimento generale di lotta che colpisca,
uno per uno, i centri di decisione dello sviluppo capitalistico [...] e contesti, fabbrica per fabbrica, gli strumenti di attuazione delle politiche dei grandi oligopoli»
(Sclavi, 1965).
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Il VI Congresso della Cgil fu esemplare per la definizione delle regole con le
quali la Cgil approntò per gli anni successivi le politiche rivendicative. Sta di fatto
che, nonostante le contingenze storiche dell’azione sindacale, d’ora in avanti il contesto delle politiche sindacali si muoverà nella compresenza, diretta o indiretta, di
più fattori quali la politica dei redditi, la programmazione economica, l’intervento pubblico, le politiche governative e, infine, le scelte contrattuali e la contrattazione articolata. Il Congresso di Bologna, più che una forma d’integrazione alle
impostazioni delle politiche sindacali, operò un cambiamento nelle scelte congressuali definite a Milano collocando la contrattazione nel ruolo e nelle coerenze confederali. Sotto questo punto di vista, nella storia recente della Cgil, il periodo che
va dal ’55 al ’65 fu un periodo inconsueto rispetto alla fase precedente (1943-55)
in cui alla rivendicazione dell’impostazione economica sociale (Piano del Lavoro)
fece seguito una moderazione salariale attraverso la contrattazione centralizzata e
l’esclusione dell’articolazione secondo un’implicita disponibilità alla politica dei
redditi. Questa impostazione fu sempre presente dopo il ’65 fino a trovare nell’accordo interconfederale del ’9334 un’esplicita formalizzazione tra la politica dei redditi, lo sviluppo occupazionale e la struttura contrattuale. Le anomalie di tale modello della rappresentanza sindacale furono sostanzialmente due: la prima fu quando la stessa azione sindacale fu strettamente legata alle politiche rivendicative e a
un modello contrattuale il cui esercizio avrebbe corrisposto a un potere sindacale
sostanzialmente svincolato dalle ragioni politiche ed economiche (1960-65), mentre la seconda eccezione fu la contrattazione articolata che si sviluppò alla fine del
decennio.
La contrattazione articolata
Il ’68 aprì la sua stagione negoziale con un’ampia e diffusa contrattazione articolata35. I motivi di tale estensione furono i limiti dei contratti collettivi del periodo precedente (1964-65), la stretta che il padronato compì sulla prestazione lavorativa durante la recessione economica e la consapevolezza raggiunta, da parte dei lavoratori, del potere sindacale nelle fabbriche. Motivi che trovarono nella contrattazione aziendale le ragioni della riscossa. Le vertenze si concentrarono sul terreno della prestazione lavorativa, dell’organizzazione capitalistica del lavoro e del salario
34
Accordo Interconfederale 23 luglio 1993, Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli
assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo.
35 Solo nel ’68 ci furono 3.900 accordi mentre nel ’69 furono 3.400, interessando 2.900.000 lavoratori. Va segnalato che nel ’69 le categorie dell’industria furono impegnate nel rinnovo dei contrattuali nazionali.
36
Esemplare fu in quell’anno la vertenza Pirelli. Proprio sui punti nodali lasciati in sospeso dal rinnovo del contratto, siglato il 13 febbraio del ’68, l’iniziativa articolata si orientò sull’autoriduzione dei
punti sulle tabelle di cottimo assegnate. Di fronte a questa contestazione operaia, a dicembre, la Pirelli metterà in opera come risposta la serrata. Il 3 dicembre 1968, un corteo di seimila lavoratori «raggiunse il ‘Pirellone’ presidiato da polizia e carabinieri, poi a piazza Duomo, dove si tenne un comizio
delle tre organizzazioni sindacali; una parte inoltre raggiunse anche la Rai-Tv per richiedere una corretta informazione sulla vertenza. [...] Il 22 dicembre ’68, mentre proseguivano gli scioperi articolati
nei reparti, si venne alla firma dell’accordo valevole per tutto il gruppo». L’accordo previde l’«Aumento di 32 lire orarie sui guadagni di cottimo a rendimento 100 per cento, per l’operaio qualificato e in
proporzione per le altre categorie, e aumento corrispondente dei prezzi ad economia; – riduzione da
sette a quattro delle curve di cottimo con revisione delle stesse curve [...]; – collegamento dei guadagni di cottimo alle variazioni della paga base più la contingenza; [...] corresponsione in cifra uguale per
tutti di 43.000 lire a copertura del mese di dicembre 1968. Vengono costituiti un ‘Comitato cottimi’
(formato da tre membri della Commissione interna) e un ‘Comitato di accertamento’ per ogni dipartimento con 500 dipendenti (formato da tre operai designati dalla Commissione interna e da un ‘delegato di tabella’ eletto dai lavoratori interessati alla tabella in contestazione». Cfr. Cent’anni di storia
dei lavoratori chimici, cit., pp. 293-294.
Temi
aziendale. Le caratteristiche della contrattazione furono gli interventi sul cottimo,
sulla limitazione dei ritmi e dei carichi di lavoro, sull’ambiente e sulle lavorazioni
nocive, sui rimpiazzi e sugli organici necessari. Le azioni, inoltre, s’indirizzarono sulla parità normativa tra operai e impiegati per quanto concerne il trattamento di malattia e una diffusa richiesta di passaggi di categoria a favore degli operai inquadrati
nei livelli bassi della classificazione contrattuale. Sull’orario di lavoro ci fu la riduzione dell’orario contrattuale (oltre a quanto già era previsto dai contratti) e dell’orario effettivo della prestazione lavorativa attraverso l’introduzione di pause. Particolare fu l’impostazione sull’ambiente di lavoro. Si escluse, differentemente dal passato, ogni forma di monetizzazione della salute. L’erogazione salariale ebbe forme diverse e riguardò in maniera predominante il premio di produzione in misura eguale
per tutti, ma ci furono anche forme di riconoscimento come i superminimi collettivi, le gratifiche e i premi annuali. L’incidenza degli aumenti fu stimata da un minimo del 5% a un massimo del 20% delle retribuzioni.
La particolarità di questa stagione, evidenziata dalle vertenze aziendali36, fu quella di aver superato i vincoli e le clausole di rinvio previste dai contratti collettivi per
l’esercizio del negoziato aziendale. Infatti nelle precedenti stagioni dei rinnovi dei
contratti di categoria, l’accettazione, da parte dei padroni, dell’articolazione contrattuale dipese dall’approvazione, da parte sindacale, di un sistema rigido di applicazione e dalle «Premesse contrattuali» che, seppur avessero individuato l’opportunità di un salario aziendale, avrebbero ristretto significativamente la possibilità d’intervento delle Commissioni interne sui temi dell’organizzazione del lavoro. La caratteristica, invece, nella contrattazione articolata del biennio ’68-69 fu di innalzare
il potere del sindacato all’interno dei luoghi di lavoro, superando i confini definiti
dai contratti collettivi. Questa condizione praticata e realizzata spostò significativa-
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mente il peso e la funzione dell’articolazione nella struttura contrattuale e nello stesso contratto collettivo. I due livelli, una volta riconosciuti, assunsero delle prerogative distinte, almeno nella formalità applicativa37, circa la titolarità dei due piani negoziali ma gradualmente la contrattazione articolata, particolarmente nel quinquennio ’69-72, prese su di sé il fondamento e la legittimazione della contrattazione nazionale.
Il settimo congresso della Cgil che si tenne a Livorno il 16 e il 21 giugno 1969,
svoltosi dunque a ridosso della contrattazione articolata, indubbiamente colse il
cambiamento nelle fabbriche e i motivi delle politiche rivendicative in atto. Novella nella sua introduzione al Congresso interpretò le lotte del 1968 e dei primi mesi
del 1969 come una ribellione diffusa contro «l’autoritarismo produttivo». Il punto
centrale, per il segretario generale della Cgil, era l’affermazione di un potere di contrattazione su ritmi e categorie, organici e pause, carichi e macchinario, turni e riposi, considerati come «aspetti vitali della condizione operaia» e rimasti troppo a
lungo dominio riservato del padrone. Queste indicazioni, proseguì Novella, dovranno trovare una loro complementarità sui prossimi rinnovi contrattuali (196970) secondo quattro «cardini»: l’aumento dei salari, quaranta ore settimanali, pieno
esercizio dei diritti e delle libertà sindacali, tutela della salute. Indicativi furono gli
approfondimenti, da parte del Congresso, sui singoli aspetti delle rivendicazioni.
Sul salario, ad esempio, oltre ad una consistente elevazione del livello delle retribuzioni, si pose il problema di una corretta definizione della struttura salariale, una forma, cioè, con una maggiore incidenza della parte fissa del salario e una maggiore dinamica della parte variabile. Novella, inoltre, dichiarò che non andavano sottovalutate ed emarginate «tutte le spinte che provengono dalla classe operaia per un raccorciamento dei parametri di valutazione tra le varie prestazioni lavorative» ma resterà il giudizio sulla contrarietà «di ogni forma astratta di egualitarismo salariale».
Lama fu ancora più esplicito. Infatti confermò l’importanza del salario sulle politiche contrattuali per l’autunno seguente, in cui si sarebbe aperta la grande tornata
dei rinnovi contrattuali, ma fu contrario alle «suggestioni ugualitarie» per le ragioni
che «presto o tardi, invece di unire la compagine dei lavoratori, finirebbero per inserire nel suo seno un conflitto insanabile». Sui diritti fu salutata con favore l’iniziativa governativa di elaborazione di uno Statuto dei diritti dei lavoratori (che poi
sarà la legge 300, lo Statuto dei lavoratori) ma ci fu una sostanziale contrarietà a interventi legislativi che puntassero a istituire, in via amministrativa, strutture sinda-
37
Va detto che la concreta esperienza negoziale di questo decennio (gli anni Sessanta) mostrò abbondantemente lo scarto tra i temi trattati nel negoziato aziendale e gli argomenti delimitati dai contratti
per esercitare la contrattazione articolata. Lo scarto, naturalmente, dimostrò la sovrabbondanza della
pratica negoziale rispetto a quanto, invece, era previsto dai contratti collettivi.
Aspetti del paradigma contrattuale
Questo lungo processo (1955-70) affermò il paradigma della struttura contrattuale con il quale si esercitò la rappresentanza sindacale per metà del secolo scorso e
per gli anni del nuovo millennio: un modello, così come dicevamo, tripolare, arti38
Il diritto di assemblea retribuita fino a 10 ore, così come fu previsto dai rinnovi contrattuali, non
era contemplato nella proposta di legge del governo sui diritti in fabbrica, fu, in seguito, accolto dal
parlamento durante il dibattito in aula e inserito poi nella legge 300 - Statuto dei lavoratori.
39 La stagione contrattuale fu segnata da attentati terroristici (12 dicembre 1969) a Roma e a Milano
(la strage di piazza Fontana). Fu subito chiaro il carattere fascista di questi attentati il cui intento era
quello di provocare nell’opinione pubblica e nelle forze politiche uno scatto reazionario con l’obiettivo di fermare l’avanzata dei lavoratori nelle fabbriche e nel paese. La risposta dei lavoratori e delle forze democratiche fu ferma e il 21 dicembre, presso il Ministero del Lavoro, fu firmato il contratto dei
metalmeccanici privati.
Temi
cali a livello aziendale definendone compiti e prerogative. Il Congresso ribadì che
sulla questione dei diritti bisognava applicare in termini concreti e reali quanto già
prevedeva la Costituzione italiana. Sulla salute dei lavoratori si stabilì la correlazione tra la contrattazione, la modifica degli ambienti e delle condizioni di lavoro. Si
disse, infatti, che: «Nel negoziare i cottimi, ad esempio, bisogna vedere nella polverosità, nella temperatura, nell’umidità del reparto, dei fattori che aggravano la fatica minando la salute; e parallelamente, nel discutere con il padrone sull’ambiente di
reparto, bisogna vedere nei ritmi infernali, nei rimpiazzi carenti e nella monotonia
dei movimenti, degli effetti stancanti che si sommano a quelli derivanti dalla situazione ambientale».
I rinnovi contrattuali del biennio ’69-70 rappresentarono l’esito dell’elaborazione sindacale del decennio passato e della contrattazione a livello aziendale sviluppata nel periodo 1955-69, in particolare quella che precedette la stagione dei rinnovi
(1969) e costituirono i risultati contrattuali tra i più alti dal dopoguerra. I rinnovi
di questo biennio coinvolsero 7 milioni di lavoratori dell’industria, dell’agricoltura
e dei servizi e si presentarono, per l’industria, con caratteristiche simili sul piano del
salario e delle normative. Gli aumenti salariali, stabiliti in cifra uguale per tutti, furono consistenti. Sugli orari si decretò un risultato storico con le 40 ore settimanali. In particolare sugli aspetti normativi ci furono avanzamenti importanti sulla parità tra operai e impiegati ai fini del trattamento malattia e infortunio, dell’indennità e degli scatti d’anzianità, delle ferie e dell’inquadramento professionale. Furono sanciti il diritto di assemblea sindacale durante e fuori dell’orario di lavoro38, il
riconoscimento delle rappresentanze sindacali aziendali con l’estensione delle tutele
per i membri della Commissione interna; inoltre ci fu il riconoscimento del diritto
di affissione e diffusione della stampa sindacale39.
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colato sui livelli confederale e federale e sulla contrattazione articolata. Tale modello, differentemente da quello successivo alla caduta del fascismo in cui alla centralizzazione contrattuale corrispondeva la centralità della Confederazione rispetto alle categorie industriali, confermò l’autonomia sindacale e politica delle Federazioni
industriali proprio sugli aspetti della struttura contrattuale relativi al contratto nazionale e alla contrattazione articolata o, come si dice oggi, di secondo livello. L’altro aspetto che determinò l’affermazione del modello fu la separazione tra politiche
rivendicative e politiche dei redditi. La Cgil nella sua storia, a proposito del suo potere di rappresentanza, ha sempre stabilito la necessità di intervenire, secondo una
propria e autonoma elaborazione, sulla programmazione economica, sull’intervento pubblico e sulle politiche governative come parte di un’articolazione tripolare in
cui, a fronte dell’autonomia delle federazioni di categoria sui rinnovi contrattuali e
sulla contrattazione articolata, la Confederazione avrebbe esercitato un’attività rivendicativa sul governo centrale e sulla stessa rappresentanza padronale. Questa
grandezza come spazio rivendicativo si svolse secondo una logica propositiva, autonoma e senza vincoli che avrebbero potuto limitare la stessa azione della Cgil.
Un’autonomia responsabile e piena secondo una direzione rivendicativa e salariale
conforme agli obiettivi di carattere generale ma pur sempre separata dai vincoli che
una politica dei redditi condivisa avrebbe potuto determinare sulle rivendicazioni
contrattuali. L. Lama in uno scritto riassume molto bene il punto di vista della Cgil
sul rapporto tra sviluppo economico e rivendicazioni contrattuali: «Io credo che anche il migliore piano di sviluppo (e il giudizio su un piano non può che essere largamente influenzato dagli interessi che vi sono prevalentemente tutelati) debba
sempre vedere il sindacato in una posizione di autonomia e di responsabilità nella
scelta delle sue linee politiche e delle rivendicazioni. È il sindacato stesso che deve
decidere l’appoggio o la contestazione degli obiettivi del programma non mutuando all’esterno queste sue decisioni, ma partendo costantemente da una valutazione
degli interessi che esso difende, valutazioni che nessuno può fare per lui. Sono convinto che di fronte a un piano di sviluppo che si proponga, con strumenti reali e
adeguati, un aumento e una diversa distribuzione del reddito a favore dei lavoratori, la liquidazione dei tanti squilibri territoriali che travagliano l’Italia, esiste nelle
forze sindacali del paese l’intenzione ferma e la capacità di tenere conto di tutto ciò
anche nell’effettuazione delle scelte più squisitamente rivendicative coordinandole in
coerenza agli obiettivi di sviluppo» (corsivo mio)40. Questa valutazione svolta da Lama
si rifà all’esperienza di Di Vittorio a proposito del rapporto tra Piano del lavoro e
contrattazione collettiva (centralizzata) e anche dell’episodio sulla proposta dell’ac40 L. Lama, Contestazione autonoma e unità di classe, «Quaderni di rassegna sindacale», n. 31-32, 1971,
p. 147.
41 Lo stesso Lama fu protagonista con l’incarico di segretario generale della Cgil della svolta dell’Eur
(gennaio 1978) in cui la moderazione salariale avrebbe avuto come contropartita un programma d’investimenti per garantire l’occupazione. La scelta di tale strategia fu operata in autonomia da parte della Cgil-Cisl-Uil.
42 Intervento di Vittorio Foa, «Quaderni di rassegna sindacale», n. 41, 1973, p. 182.
43 Cfr. S. Andriani, Gli anni 60: le grandi trasformazioni, il centro-sinistra, il Congresso di Livorno, in
Aa.Vv., Agostino Novella, il dirigente dei momenti difficili, Ediesse, Roma, 2006, p. 131.
44 La predeterminazione dei salari fu inserita, per la prima volta, nel Contratto chimico del 1990 (Arc,
aumento retributivo complessivo) secondo una valutazione autonoma delle parti sulla previsione dell’inflazione reale.
Temi
cordo quadro del gennaio del 1965 da parte della Confindustria in cui si tentò di
stabilire dei tetti salariali agli aumenti dei successivi rinnovi contrattuali. È in questo quadro che si traccerà l’attività rivendicativa della Cgil. Questa riflessione di Lama riassume molto bene la posizione della Cgil sul tema delle politiche di sviluppo
e sulla politica dei redditi. Difatti i termini di riferimento sono, nello scritto da noi
ripreso, l’autonomia e la responsabilità della Cgil «nella scelta delle sue linee politiche e rivendicazioni»41. È in questo quadro di autonomia e di responsabilità che si
svolgerà l’attività rivendicativa della Cgil sulle politiche generali e sullo stesso tema
della politica dei redditi considerato dalla Confindustria come il termine di riferimento e vincolante per la contrattazione collettiva e aziendale. Sulla politica dei redditi già nel Congresso della Cgil di Bologna (1965) ci fu un’opposizione di merito
che fu espressa da V. Foa, il quale disse che «se si trattasse semplicemente di pagare
meno salari, sarebbe una cosa che c’è sempre stata, ma oggi politica dei redditi vuol
dire ricerca del consenso sindacale alla centralizzazione del negoziato salariale per
bloccare l’iniziativa autonoma dei lavoratori, per trasformare il sindacato da organo
che orienta, organizza, dirige le masse nella lotta in organo che garantisce il sistema
del comportamento dei lavoratori, cioè che chiede ai lavoratori determinati comportamenti che siano coerenti e subordinati alle scelte dei gruppi dominanti. Questa è la chiave di volta della politica dei redditi»42. Infatti dovendo stabilire l’aggancio della dinamica dei salari agli aumenti di produttività a livello di sistema, tutto
ciò avrebbe significato che la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro sarebbe
restata del tutto immodificabile tanto più in assenza di politiche fiscali progressive
e con un impatto redistributivo43.
L’accordo interconfederale del 23 luglio 1993 stabilì per la prima volta la relazione tra struttura contrattuale e politica dei redditi. Il modello contrattuale confermò i due livelli negoziali ma con la modificazione, per il contratto nazionale, della durata di quattro anni in due bienni salariali e con l’introduzione, per la prima
volta, della predeterminazione dei salari sull’indice dell’inflazione programmata44.
Fu introdotto, inoltre, il salario correlato ai risultati conseguiti nella realizzazione di
programmi concordati tra le parti (incrementi di produttività, di qualità, ecc.) nel-
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la contrattazione di secondo livello. A fronte di questa definizione sulla struttura
contrattuale l’accordo prevedeva degli impegni governativi sull’occupazione, sulla
gestione delle crisi occupazionali, sulla riattivazione del mercato del lavoro, sul sostegno al sistema produttivo, sulla finanza per le imprese e l’internazionalizzazione
e sulle politiche delle tariffe. Un sistema concertativo tra le parti in cui le scelte squisitamente rivendicative furono coordinate in coerenza agli obiettivi di sviluppo. Un
impianto e un legame che durarono poco. Nel corso degli anni, difatti, la parte riguardante gli obiettivi di sviluppo non fu applicata mentre la porzione concernente la struttura contrattuale fu impiegata nei rinnovi contrattuali e nella contrattazione aziendale fino all’accordo separato del 2009. L’accordo separato opererà esclusivamente sui criteri applicativi della struttura contrattuale definendo una riduzione degli stessi spazi della politica dei redditi sulla contrattazione. Infatti l’accordo separato escluderà il legame tra struttura contrattuale e politica di sviluppo, introdurrà la riduzione rilevante del ruolo centrale del contratto nazionale, aziendale e della
dinamica salariale.
Conclusioni
Una riforma della struttura contrattuale non può prescindere dalla separazione e
da qualsiasi contaminazione diretta della politica dei redditi così come gli accordi del
23 luglio 1993 e del 15 aprile 2009 (accordo separato) hanno previsto per l’attività
rivendicativa. In primo luogo va stabilita la centralità del contratto collettivo con la
funzione esclusiva delle parti sociali (le Federazioni sindacali e datoriali) di rinnovare i contratti di categoria. Questo comporta che il mantenimento della predeterminazione dei salari sugli indici d’inflazione sia stabilito autonomamente dai soggetti titolari dei rinnovi così come lo stesso recupero, a fine triennio, degli scostamenti tra
l’inflazione prevista e quella reale. Tale dinamica salariale dovrà essere coerente con
l’obiettivo mirato alla salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni con la
stessa possibilità della redistribuzione della produttività di settore sui salari e sugli
avanzamenti normativi45. Il contratto collettivo proprio in concomitanza con i mutamenti organizzativi dovrà procedere, inoltre, agli avanzamenti sugli inquadra-
45
L’accordo del 23 luglio prevedeva l’obiettivo della difesa del potere d’acquisto delle retribuzioni e
dell’eventuale redistribuzione della produttività nel contratto collettivo, mentre nell’accordo separato
del 15 aprile 2009 la funzione del contratto non assolve più la difesa del potere d’acquisto dei salari
ma «la certezza dei trattamenti economici e normativi». In quest’accordo scompare la possibilità di utilizzare la produttività di settore sugli aumenti retributivi e i miglioramenti normativi. Il recente comitato direttivo della Flai nazionale (Salerno, 21 maggio 2013), su questo tema, ha ribadito che il «Ccnl
deve essere in grado di garantire il potere d’acquisto dei salari e, inoltre, redistribuire la produttività del
settore di riferimento».
46
Il comitato direttivo della Flai (2013) ha indicato, sul tema degli orari, l’opportunità del «controllo
dell’orario di fatto, della saturazione degli impianti, dell’utilizzo in modo collettivo delle riduzioni dell’orario di lavoro, delle ex festività, delle ferie [affinché] consentono di intervenire sull’orario di lavoro
per difendere l’occupazione».
Temi
menti professionali, sui sistemi degli orari e sulla formazione professionale e continua. Sono, queste, urgenze legate ai mutamenti professionali della polivalenza e della polifunzionalità, così come per gli orari la necessità di definire al meglio la relazione tra flessibilià, orari di lavoro (giornaliero e in turno) e occupazione secondo
l’obiettivo del consolidamento occupazionale e degli incrementi di produttività46.
Questi aspetti, nella loro definizione e prescrizione normativa, dovranno garantire
l’esercizio della contrattazione articolata con il compito di adattarsi alle specificità
delle singole aziende in cui il salario aziendale, correlato agli obiettivi di produttività e qualità, trova uno stretto rapporto con l’organizzazione del lavoro e con la stessa prestazione lavorativa.
Oggi, per i motivi che abbiamo indicato, il contratto collettivo e la stessa contrattazione di secondo livello sono avvolti da lacci e laccioli con una potenzialità limitata sugli effetti necessari della distribuzione del reddito tra capitale e lavoro, della disuguaglianza e della rappresentatività sindacale. Una gabbia d’acciaio che fascia
il funzionamento e l’esplicarsi della funzione storica del contratto collettivo. Esiste
la necessità di un dibattito approfondito su questo tema, ma è necessario per gli
obiettivi della redistribuzione, della inclusività e della rappresentanza svolgere un dibattito mirato sugli aspetti sindacali del problema con la possibilità di fare riferimento alle esperienze avanzate maturate in questi anni, come quella della Flai, scongiurando così un dibattito proteso all’unanimismo in cui l’esito politico di solito
stempera una scelta netta e chiara sugli aspetti del modello contrattuale. Il prossimo
Congresso avrà questo compito che sarà fortemente legato alla funzione primaria
del sindacato e della rappresentanza sindacale.
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La contrattazione collettiva del settore agricolo
tra passato e futuro
Gino Rotella*
La contrattazione collettiva del settore agricolo è giunta a un punto cruciale.
Quella attuale rischia di non rappresentare più gli effettivi interessi delle parti e di
muoversi dentro un contesto autoreferenziale sganciato dal processo di modernizzazione che, seppure con notevoli e forti contraddizioni, sta attraversando il settore
agricolo del nostro paese. Perciò, bisogna andare oltre il Protocollo sugli assetti contrattuali firmato dalle parti sociali il 22 settembre 2009, per delineare non più interventi di ordinaria manutenzione, ma una profonda riforma che tenga conto di
quanto sta avvenendo sul piano della ristrutturazione dell’assetto agrario e produttivo, della rappresentazione degli interessi, delle modifiche avvenute nel mercato del
lavoro e del più complessivo quadro riformatore in ambito previdenziale di cui il sistema agricolo ha bisogno.
La ragione risiede in un groviglio di questioni distinte e differenti che vanno affrontate con determinazione per rimettere al centro il valore del contratto collettivo come strumento in grado di assicurare il diritto costituzionale di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori, e di accrescere i livelli di competitività e di produttività in un contesto di debolezza complessiva dell’Italia rispetto ad altri paesi.
Ragioni storiche della contrattazione agricola
È necessario affrontare l’insieme delle questioni, cominciando a porre una prima e pregiudiziale domanda cui va data risposta. La domanda è la seguente. La contrattazione collettiva del settore agricolo, quella per intenderci rilanciata negli anni
Novanta per valorizzare la contrattazione territoriale di secondo livello, è riuscita a
garantire diritti fondamentali omogenei a livello nazionale assicurando, contestualmente, una equilibrata differenziazione dei trattamenti dei lavoratori a seconda delle aziende e dei territori in cui lavorano? Una domanda poco incline alla retorica,
alla quale qui cercheremo di dare (speriamo) utili elementi per formulare risposte il
* Segretario della Flai-Cgil nazionale.
Temi
Premessa
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più possibile accurate, partendo da una sintetica premessa. Il modello contrattuale
agricolo per ragioni storiche risente di talune caratteristiche racchiuse nella cosiddetta specificità agricola, in verità non sempre opportunamente e compiutamente
valutate da quanti vorrebbero assumere quel modello contrattuale a paradigma per
modernizzare il sistema di regole della contrattazione collettiva del nostro paese.
Questi si rifanno a una modernizzazione poggiata essenzialmente su due presupposti: flessibilità e decentramento, ai quali, come dimostra il dibattito pubblico degli ultimi venti anni, si è dato valore strategico per rispondere con il primo ai bisogni di
competitività dell’economia del paese, che ha indotto numerosi cambiamenti nel sistema socio-economico italiano, nell’organizzazione del mercato del lavoro e nei
rapporti tra le parti sociali e, con il secondo, di considerare irreversibile e certa la «riforma in senso federalistico dell’amministrazione e del governo del paese. In questo
contesto di tendenziale spostamento dell’asse centrale dei rapporti, è interessante incentrare l’analisi sugli effetti, positivi o negativi, di un ulteriore decentramento della contrattazione e sull’opportunità di affidare la gestione della materia lavoro alle
succursali del ministero centrale» (C. Serra, 2002).
In verità si tratta, sia nel caso della flessibilità sia del decentramento, di due profili assai poco appropriati nel senso voluto da coloro, analisti e studiosi, ai quali «con
riferimento a tali tematiche appare di elevato interesse l’analisi del settore agricolo da
sempre caratterizzato da elevata flessibilità nell’utilizzazione della prestazione lavorativa (soprattutto dal punto di vista della durata temporale) e da massimo decentramento degli assetti negoziali; l’asse portante del sistema contrattuale agricolo è, infatti, nel secondo dopoguerra, con un breve intervallo nel decennio Ottanta, il contratto provinciale» (C. Serra, 2002). L’analisi e le teorie che questi analisti sviluppano non tengono conto di alcuni elementi essenziali. Basta, qui, citarne due: le origini e le motivazioni di contesto da cui nasce la contrattazione collettiva agricola, molto differente da quella degli altri settori; l’evoluzione e la concreta esperienza maturata nel tempo fino all’ultima – ancora non conclusa – (lunga) fase di rinnovo dei
contratti provinciali degli operai agricoli. Va detto che la contrattazione collettiva –
«cioè l’attività di negoziazione delle condizioni di lavoro svolta da organizzazioni sindacali che rappresentano gli interessi delle parti che stipulano i contratti di lavoro
subordinato – quando l’Italia è stata unificata non esisteva. Viene fatta risalire dagli
storici all’ottobre 1906, data in cui fu stipulato il primo contratto collettivo tra la Federazione nazionale degli operai metallurgici (in futuro metalmeccanici) e la Fabbrica di automobili Italia. Nello stesso anno in cui nasce la Confederazione Generale del
Lavoro, cioè la madre di tutti i sindacati attuali. L’Italia era unita – almeno sulla carta – da quasi 50 anni» (L. Zoppoli, 2011). La contrattazione in agricoltura invece è
molto più antica e, come si sa, viene da lontano: risale al tempo del latifondo e della mezzadria, in cui le caratteristiche contrattuali erano assai variegate, e riguardava-
1
V. Daniele, P. Malanima, Svimez, 2012.
L. Bianchi, D. Miotti, R. Padovani, G. Pellegrini, G. Provenzano, Rivista Economica del Mezzogiorno, 2011.
3 A. Lepore, in http://www.academia.edu.
4 A. Altobelli, Congresso Internazionale di Amsterdam 1920.
2
Temi
no i grandi proprietari terrieri e i feudatari (fino a tempi recenti) da una parte e, dall’altra, figure sociali che vanno dal mezzadro al «contadino povero», al «manente» –
con differenze sostanziali tra Nord, Centro e Sud. Non a caso, a cominciare da
Gramsci, si attribuisce all’alleanza tra i proprietari fondiari meridionali e la borghesia
industriale settentrionale insorta nel Risorgimento il mantenimento degli elementi
feudali presenti nel settore agricolo che impedisce il superamento della «questione
agraria. Un ‘blocco agrario’ che per il Mezzogiorno ha comportato fino ai primi anni Cinquanta ‘il mantenimento di una struttura agraria arretrata, nella quale il monopolio fondiario ed i residui feudali imponevano un contributo enorme al lavoro
contadino’ (R. Villari, 1977). Non è qui il caso di rispolverare un’antica querelle sul
differente livello di produttività esistente tra Nord e Sud in epoca preunitaria. Preme,
invece, considerare che le differenze tra le aree del paese di allora ‘erano, tuttavia, assai minori di quelle esistenti all’interno del Nord e del Sud’. Un vero e profondo divario economico si presentò soltanto dall’industrializzazione del paese, che viene oggi collocata negli anni Ottanta dell’Ottocento»1. Nasce così il «dualismo» italiano; da
allora «Quella che era una normale eterogeneità territoriale dello sviluppo si è trasformata nella «questione meridionale», ovvero nella presenza più importante in Europa di una struttura territoriale dualistica»2.
A ben guardare, dunque, come è stato osservato da diversi studiosi, già da allora il Nord si predisponeva per dare valore alle produzioni, attraverso l’esportazione
sui mercati esteri di beni di derivazione agricolo-industriale; il Sud, al contrario,
continuava a collocarsi in una condizione di arretratezza relativa, che, in assenza di
interventi specifici, vedeva aggravarsi il divario nel contesto dell’apertura ai mercati
internazionali3. La contrattazione collettiva nasce nelle province del regno perché
nel territorio si intrecciano realtà produttive, bisogno di emancipazione, conquiste
di nuovi diritti e soprattutto la necessità di ribellione per rimuovere il «livello di povertà abietta del lavoratore avventizio» (B. King, T. Okey, 1901) nelle campagne la
cui «storia non potrebbe essere più triste in Italia» (S. Jacini, 1885). È in ambito provinciale che nel 1884, nel Mantovano, si riscontrano i primi «movimenti agrari in
Italia» dove, per la prima volta, i lavoratori dei campi effettuano lo sciopero della
mietitura, per poi estendersi via via al resto del paese; in Sicilia, «gli sfruttati della
terra si stringono in fasci»4. Si tratta di movimenti poderosi, soppressi nel 1894 con
la forza reazionaria del governo Crispi, per poi riprendere forza, agli inizi del Novecento, con le «associazioni di resistenza dei lavoratori della terra» e la nascita delle
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prime Leghe di miglioramento. I conflitti insorti furono sempre a livello provinciale:
a Mantova, dove si costituisce la Federazione dei lavoratori della terra del Mantovano, e si insedia la prima Federazione nazionale.
Già da allora ai temi generali dell’estensione ai lavoratori della terra dei diritti previdenziali e delle tutele assistenziali e contro gli infortuni si sommavano da una parte i patti di lavoro dei contadini obbligati con contratto annuo, dei fittavoli, dei compartecipanti, dei mezzadri e coloni, dall’altra, per braccianti e giornalieri di campagna, quelli classici della contrattazione collettiva: il salario (per calcolarlo non più a
giornata ma a ore), l’orario, che non doveva essere più «da sole a sole» (da quando
sorge fino al tramonto), ma di otto ore, l’eliminazione del cottimo, le tariffe salariali, il collocamento.
A quegli anni risale dunque la contrattazione su base provinciale, che si consolida
nel 1947 su una materia molto delicata: il collocamento agricolo, con il ripristino
dell’imponibile di manodopera (successivamente soppresso dalla Corte Costituzionale) il cui governo è affidato alla decretazione prefettizia ed alla gestione delle Commissioni comunali di collocamento per la manodopera agricola.
Specificità del negoziato agricolo
La contrattazione nazionale, invece, è storia recente. Il primo Ccnl viene firmato solo nel 1977 per rovesciare la precedente impostazione basata sulla forza regolatrice preminente dei contratti provinciali a loro volta articolati nei contratti stagionali e nella contrattazione settoriale per il frutteto, l’oliveto, la zootecnia, ecc. Una
situazione contrattuale variegata che, fino a quella data, trovava nel Patto Nazionale un momento di raccordo ex post. La contrattazione agricola quindi da sempre,
tranne una breve parentesi in cui i contratti provinciali divennero integrativi di quello nazionale, chiusa nel 1995, ha trovato nella dimensione provincia-territorio il
punto di connessione per rispondere ai caratteri strutturali del settore produttivo e
alla morfologia del mercato del lavoro.
Come si può evincere da questa sintetica ricostruzione quindi, coloro che guardano
alla contrattazione agricola, invitando le parti sociali ad abbandonare la logica del
confronto di breve respiro e, sulla base di un nuovo progetto per la gestione delle risorse umane e dei rapporti collettivi di lavoro, assumerla a paradigma per modernizzare il sistema delle regole rendendolo sempre più concordato e sempre meno indotto dall’attore pubblico, o sono in malafede o assai poco hanno compreso del sistema contrattuale agricolo che, nonostante le modifiche apportate nel corso degli anni agli assetti contrattuali, continua ad essere basato sullo stretto rapporto tra la contrattazione stessa, il collocamento (fino alla metà degli anni Novanta) e la specifica
previdenza agricola, basata sin dalle origini sulla particolare copertura contributiva
Temi
pensionistica e su trattamenti di disoccupazione riconosciuti non in base al rischio
di periodi di non lavoro ma come ammortizzatore sociale calcolato in rapporto al
numero di giornate lavorate.
Si tratta, com’è evidente, di un sistema che nasce e si consolida in costanza degli effetti prodotti dalla controversa riforma agraria degli anni Cinquanta, con tutte le
contraddizioni dovute alle forti divergenze in seno alla Democrazia Cristiana in tema di latifondo, mezzadria e bonifiche dalle quali sfocerà la scelta di favorire un assetto fondiario essenzialmente basato sulla media e piccola proprietà produttiva in
cui trovano occupazione ben oltre 8 milioni di lavoratori. Sono gli stessi anni in cui
si costruisce il potere democristiano poggiato in buona parte sulla triangolazione
Ministero dell’Agricoltura-Coldiretti-Federconsorzi (la potente federazione dei consorzi agrari) che prospera fino agli anni Novanta del secolo scorso, grazie alle ingenti
risorse pubbliche spalmate senza mai fornire i rendiconti, in parte provenienti dai
primi interventi comunitari disposti per garantire l’autosufficienza alimentare dell’Italia e dell’Europa, di incrementare la produttività delle produzioni agricole, allo
scopo di conseguire approvvigionamenti stabili a prezzi accessibili e di garantire un
adeguato livello di reddito ai produttori.
Da allora molte cose sono mutate. Il settore agricolo ha cambiato forma, dimensione
e struttura. Non è più la principale attività del paese. Al posto dei braccianti ci sono
operai agricoli, spesso specializzati, ridotti dal 40% di allora al 4% circa di oggi. Sono
sparite la colonia e la mezzadria, è scomparso il latifondo. L’agricoltura di oggi rappresenta e si presenta con una pluralità di soggetti: coltivatori diretti, Iap (Imprenditori Agricoli Professionali), soli proprietari, società semplici, contoterzisti, consorzi,
commercianti (che acquistano il prodotto sulla pianta), cooperative (con e senza terra), enti pubblici, banche, assicurazioni, Op (Organizzazioni di produttori cui andrebbe destinata una specifica analisi), ecc. L’Istat a fine 2010 ne ha censiti oltre 1,6
milioni. L’Istituto di statistica dice, inoltre, che diminuisce in modo significativo il numero delle aziende agricole, ma cresce la consistenza dimensionale, avvicinandosi con
la media dell’8% a quella europea. Un altro importante mutamento consiste nelle
nuove forme flessibili di gestione fondiaria che si vanno affermando, verso modalità
di conduzione da parte di società di capitali e verso un’accresciuta utilizzazione di lavoro dipendente. Siamo di fronte a mutamenti strutturali profondi non solo rispetto
agli anni Cinquanta ma finanche, e soprattutto, rispetto ai più recenti anni Novanta.
Mutamenti che comprendono in particolare la complessità di oggi, in cui l’attività
agricola è sempre meno caratterizzata dall’identificazione del settore e sempre più da
quella territoriale. Inoltre, negli anni trascorsi i soggetti economici che operavano nel
settore primario erano classificabili in categorie agevolmente definibili: da una parte i
braccianti (giornalieri di campagna, il cui lavoro era considerato a giornata intera), dall’altra, distinguibili, i coltivatori diretti (a prevalenza di lavoro familiare) e le cosiddet-
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te aziende agrarie capitalistiche. Oggi tale distinzione non esiste più. Certamente, fa
osservare una recente analisi del «Gruppo 2013», anche nel passato «si potevano operare distinzioni nelle varie categorie di agricoltori... Ma quelle distinzioni non impedivano di riconoscere una omogeneità di fondo che si rifletteva (pur nei diversi orientamenti ideologici) in una convergenza complessiva anche nella rappresentanza sindacale e politica degli agricoltori, nonché in una richiesta abbastanza convergente di
politiche agricole». Oggi quella «omogeneità» si è notevolmente affievolita ed è diventata evidente, plastica, dalle contrapposizioni e dalle modalità di rappresentazione
degli interessi sia in termini organizzativi sia in rapporto agli atteggiamenti con le istituzioni. L’unico obiettivo aggregante rimasto, riguarda il mantenimento dello statu
quo in ordine alla specificità del settore per lasciare immutate le agevolazioni fiscali e
contributive. Poco si dice e molto meno si fa, invece, per definire, allo scopo di promuovere proficue e specifiche politiche agricole, strumenti e procedure in grado di distinguere le imprese agricole dalle aziende e dai tanti soggetti che pur operando nell’ambito della produzione agricola hanno però vocazioni, interessi e fini assai differenti, giacché agiscono al di fuori delle dinamiche proprie dell’impresa e dei mercati.
Considerazioni per una riforma contrattuale
La premessa esposta ci consente di entrare meglio nella disamina della contrattazione collettiva del settore agricolo, proprio perché gli elementi in essa richiamati
producono – e stanno producendo – effetti dirompenti sul piano della contrattazione, della strumentazione affine derivante dalla contrattazione stessa, ingenerando criticità che vanno attentamente ponderate a cominciare da quelle insorte nell’attuale fase, non ancora conclusa, del rinnovo dei Contratti provinciali di lavoro,
ponendo due prime domande: siamo sicuri che il sistema produttivo e la morfologia del mercato del lavoro siano ancora quelli di allora? Siamo davvero certi che la
dimensione provinciale rappresenti ancora l’area ideale entro cui si sviluppano le dinamiche economiche e produttive del settore cui connettere la contrattazione? Cerchiamo di dare prime sintetiche risposte, sapendo bene che gli argomenti inducono
a più approfondita analisi.
La morfologia del mercato del lavoro non è più quelle degli anni Cinquanta e
neppure quella degli anni Novanta. Non si tratta di una risposta apodittica ma ragionata, deducibile dai dati forniti dall’Inps. Se nel passato fu necessario agire per
mantenere nelle aree rurali la manodopera agricola, in particolare quella giovanile,
attratta dalla città, dall’industria e dal terziario, negli ultimi anni si sta registrando
un ritorno dei giovani al lavoro subordinato, caratterizzato anche dalla presenza di
immigrati. Se un luogo comune tende a considerare il settore agricolo afflitto dalla
senilità di chi vi opera, i dati dell’Istituto previdenziale dicono esattamente il con-
Temi
trario: oltre il 60% degli operai agricoli – uomini e donne – ha un’età inferiore a 45
anni. E si raggiunge circa l’85%, sommando quelli con età fino a 55 anni. Sul versante di chi assume al lavoro, ossia le aziende, nel 2011 sono state 120.118, un numero di gran lunga inferiore sia a quelle censite dall’Istat, pari a 1.630.420, sia a
quelle registrate dalle camere di commercio.
Per quanto riguarda la riflessione sulla dimensione provinciale in cui sviluppare la
contrattazione, a differenza del passato, sempre meno l’identificazione del settore, se
non per particolari prodotti, conduce a quella territoriale. Prendiamo in esame, ad
esempio, il settore ortofrutticolo e tutto diventa più chiaro: vi operano ormai aziende associate in rete o in cooperativa, con estensioni di terreno consistenti, che presuppongono capacità organizzative di rilievo, la cui dimensione supera i confini
provinciali e addirittura quelli regionali. Sono realtà imprenditoriali che si vanno
consolidando sempre più in tutte le aree del paese, alle quali mal si adatta il contratto provinciale, invece utile alle piccole aziende, per quanto riguarda sia gli aspetti retributivi, con particolare riferimento ai differenti e diversi livelli di inquadramento tra provincia e provincia, sia quelli inerenti all’organizzazione del lavoro. Vi
è poi una questione dirimente, spesso sottovalutata, che lascia intendere come la
contrattazione collettiva territoriale, sorta per sostituire meritevolmente l’impossibilità di considerare l’andamento economico delle realtà produttive aziendali, segua
più lo spirito animale del passato che non la riflessione e la necessità sempre più impellente di connettere la contrattazione medesima al ciclo economico relazionato
non tanto all’ubicazione e alla dimensione territoriale delle aziende, ossia quella rapportata agli ettari ed al luogo, ma alla dimensione economica delle stesse ed ai differenti standard di produttività.
Seguendo tale schema di ragionamento, sarebbe importante ipotizzare un nuovo
modello contrattuale in grado di cogliere e valorizzare i differenti livelli di produttività dati non tanto dall’ubicazione territoriale quanto dalla dimensione dell’azienda
giacché, come diverse fonti ormai attestano, «nelle piccole aziende la produttività del
lavoro agricolo è molto bassa. Un’unità lavoro in un’azienda con meno di 10 mila euro di margine lordo annuo produce meno di un quinto di un’unità lavoro impiegata in un’azienda di medie dimensioni, con un margine lordo di 100 mila euro» (S.
Tarditi, 2006). E se prima era difficile individuare tali indici, ora, dal 2010, da quando in pratica vige il Regolamento comunitario 1242/2008, è possibile ricavarli da
quelli in uso per valutare le «produzioni standard» del settore che sono stimati su base regionale. Avere invece una contrattazione territorialmente ristretta, che non tiene
conto delle effettive dinamiche economiche delle aziende e dei settori specifici, se
non di quelle generali, genera forti elementi di frattura nella stessa capacità di rappresentare gli interessi delle parti contrattuali, indotte a sottoscrivere accordi formali
ma privi di effettività. Vi sono poi alcune criticità e problemi più diretti. L’accordo
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specifico sugli assetti contrattuali del settembre 2009 – nonostante che i nostri interlocutori avessero firmato l’accordo separato del 22 gennaio – riconfermava i due
livelli esistenti, nazionale e provinciale, la durata quadriennale di entrambi, il ruolo e
le funzioni di ciascuno dei rispettivi livelli, assegnando al contratto nazionale «la duplice funzione» di adeguare, per il primo biennio di validità, i salari definiti dai Cpl
e dall’altra di garantire un’idonea valorizzazione dei minimi d’area. Conferendo così
al contratto nazionale il ruolo di centro del sistema di relazioni.
Inoltre, oltre al superamento dei parametri dell’inflazione programmata e dell’Ivc prevedeva che le dinamiche salariali dovessero avere «come obiettivo la salvaguardia del potere d’acquisto delle retribuzioni». In buona sostanza per definire il
salario degli operai agricoli si superarono i vecchi parametri di riferimento, non si
accettettarono quelli dell’accordo separato e si previde, invece, di determinare gli aumenti salariali in ragione «dell’eventuale scostamento tra le dinamiche concordate e
l’inflazione reale» da recuperare in occasione dei rinnovi contrattuali. Come sono
andate sin qui le cose?
Il rinnovo dei Cpl ha messo a nudo, in primo luogo, la poca adattabilità al settore dell’accordo separato del gennaio 2009. In particolare per quanto riguarda
l’Ipca, variato dall’Istat per ben tre volte dalla data di scadenza dei Cpl: dal 3,9% dei
primi dell’anno al 5,4% di maggio, al 5% di agosto, con una variabilità cospicua
subordinata al giorno in cui il contratto si firma. Un indice dunque fallace, poco
adatto a un sistema contrattuale che agisce in modo articolato nel tempo e differente per ciascuna provincia. Avemmo ragione, dunque, a percorrere nel 2009 un’altra strada. Una strada che ci ha portati a seguire indicativamente l’andamento dell’inflazione, per garantire aumenti oltre l’Ipca, tra il 5 e il 6,4%, traguardando l’obiettivo di «salvaguardare il potere di acquisto» dei salari, recuperando ampiamente
l’inflazione reale attestata al 4,5 per il biennio. La tempistica, come criticità, riguarda quindi quelle province dove le parti hanno, per così dire, splafonato. Sono andate, per usare un aforisma giuridico, ultra petita. Definendo trance salariali che maturano dopo il biennio di competenza, addirittura nel 2015. Ciò non è possibile.
Per tanti motivi. Uno per tutti: si tratta del secondo biennio demandato dal Ccnl,
su cui la potestà provinciale si esercita solo per la quantificazione. Non è dato loro
il potere, da nessuna parte, di derogare al biennio di competenza. Ciò chiama in
causa il tema della democrazia. Sappiamo bene che l’argomento riguarda, e meriterebbe ben altro spazio, più vasti ambiti; qui ci limitiamo a ricordarlo per il solo
aspetto inerente a quei territori dove si è andati oltre, giacché chiama in causa i rapporti interni di ciascuna delle parti ma anche la connessione, nel rispetto delle reciproche potestà contrattuali, tra il primo e il secondo livello. Evidentemente riconoscere al Contratto nazionale la funzione di «centro regolatore del sistema di relazioni», come previsto nell’accordo del 2009, non basta più.
■ Temi
Le Organizzazioni dei produttori:
una nuova prospettiva contrattuale?
Massimiliano D’Alessio*
L’analisi dei principali risultati del Censimento Generale dell’agricoltura 2010
permette di evidenziare il processo di trasformazione che negli ultimi decenni ha riguardato l’agricoltura italiana. Sul piano strettamente strutturale si rileva, infatti, un
marcato processo di concentrazione dei terreni agricoli e degli allevamenti in un numero sensibilmente ridotto di aziende. Il tessuto produttivo agricolo nazionale sembra, quindi, essere entrato in una intensa fase di cambiamento che contribuisce all’ammodernamento delle strutture aziendali. Queste trasformazioni sono il riflesso
di numerosi drivers che negli ultimi decenni hanno modificato gli scenari di riferimento in cui si trovano ad operare le nostre aziende. Accanto alle varie modifiche
intervenute negli anni nella Politica Agricola Comune (Riforma Fischler, Agenda
2000, Health Check) si evidenziano considerevoli cambiamenti nelle relazioni che
intercorrono tra gli operatori agricoli e gli altri soggetti delle catene agroalimentari
(trasformazione, commercializzazione).
La qualità di questi nuovi rapporti appare, infatti, cruciale anche per andare incontro alle esigenze dei consumatori moderni sempre più attenti alla qualità, alla salubrità e alla tracciabilità delle produzioni alimentari. In questo contesto si diffondono nuove forme e modelli organizzativi (distretti, organizzazioni dei produttori,
organizzazioni interprofessionali) che provano a migliorare la qualità delle relazioni
tra gli operatori delle filiere agroalimentari.
Il presente lavoro intende fornire un primo contributo all’analisi dei nuovi modelli organizzativi in agricoltura provando ad indagare lo strumento delle Organizzazioni dei produttori (Op). Si tratta di un modello organizzativo che manifesta in
Italia oramai una elevata diffusione e che fornisce un decisivo contributo al miglioramento delle condizioni di competitività di molte filiere agroalimentari nazionali
(Petriccione, 2012). Le Organizzazioni dei produttori prevedendo, infatti, l’aggregazione commerciale di diversi soggetti aziendali provano a fornire un contributo al
superamento di una delle peculiari criticità dell’agricoltura italiana: l’elevata fram* Fondazione Metes.
Temi
Premessa
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mentazione del nostro tessuto imprenditoriale. Attraverso questo nuovo modello
organizzativo gli operatori agricoli provano, inoltre, a governare e concentrare la
propria offerta produttiva nell’ottica di recuperare potere di mercato nei riguardi degli agli altri attori della filiera agroalimentare a cui negli ultimi anni va una sempre
maggiore quota del valore economico prodotto dall’agroalimentare in Italia.
D’altronde questa innovazione organizzativa non può essere priva di risvolti anche sul piano dei meccanismi di funzionamento dei modelli contrattuali di settore.
Coerentemente ai contenuti dell’ultimo Ccnl operai agricoli e florovivaisti le organizzazioni dei produttori possono rappresentare in prospettiva quella controparte
contrattuale che può permettere di implementare un modello più attento alle dimensioni aziendali e territoriali.
Nel presente lavoro dopo aver chiarito i riferimenti normativi comunitari e nazionali su cui si fonda lo strumento delle Organizzazioni dei produttori (paragrafo
1) si propone una misurazione del grado di diffusione delle Op nell’agricoltura italiana (paragrafi 2 e 3). Il contributo si conclude con un’analisi delle criticità e delle
prospettive che riguardano le Op (paragrafo 4) e con alcune riflessioni finalizzate ad
una valutazione delle potenzialità contrattuali offerte da questo modello organizzativo sempre più presente nell’agricoltura italiana.
1. Cosa sono le Organizzazioni dei produttori?
1.1. Organizzazioni dei produttori ortofrutticole
Le Organizzazioni dei produttori vengono introdotte per la prima volta nell’ambito del Regolamento (Ce) n. 2200/1996 1 con la riforma della Organizzazione comune dei mercati nel settore degli ortofrutticoli. Lo strumento delle Op viene più recentemente confermato e rafforzato con la nuova riforma dell’Ocm ortofrutta prevista nell’ambito del Regolamento n. 1234/2007 2 (Ocm unica). La vigente Ocm ortofrutta, infatti, prevede un ruolo centrale delle Organizzazioni dei
produttori (Op) che sono gli organismi con personalità giuridica che riuniscono
operatori impegnati nel settore ortofrutticolo con compiti di programmazione e di
commercializzazione della produzione, di concentrazione dell’offerta e di promozione di pratiche colturali e tecniche di produzione rispettose dell’ambiente. Le Op
realizzano questi obiettivi attraverso gli interventi previsti nell’ambito dei Program-
1
Regolamento (Ce) n. 2200/96 del Consiglio del 28 ottobre 1996 relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore degli ortofrutticoli.
2 Regolamento (Ce) n. 1234/2007 del Consiglio del 22 ottobre 2007 recante organizzazione comune
dei mercati agricoli e disposizioni specifiche per taluni prodotti agricoli (regolamento unico Ocm).
1.2. Organizzazioni dei produttori non ortofrutticole
Ispirandosi al modello delle Op ortofrutticole comunitarie vengono introdotte
anche nella nostra normativa nazionale le Organizzazioni dei produttori. Il primo
riferimento alle Organizzazioni dei produttori è presente nel d.lgs. 228 del 20014.
3 Il requisito del Vpc varia da 100.000 euro (piante aromatiche e zafferano) a 1,5 milioni di euro (frutta, ortaggi, compresa quella da trasformare). La Vpc minima è pari a 3 milioni di euro se la richiesta
di richiesta di riconoscimento avviene per da Op che intendono occuparsi di prodotti appartenenti alle diverse categorie (ortaggi, frutta, zafferano e timo, piante aromatiche e carrube).
4 Decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, Orientamento e modernizzazione del settore agricolo,
a norma dell’articolo 7 della legge 5 marzo 2001, n. 57.
Temi
mi operativi (Po) finanziati in parte con le risorse degli aderenti e in parte con risorse comunitarie. L’Ocm ortofrutta prevede, inoltre, la realizzazione di azioni di
prevenzione e gestione delle crisi. Tra queste sono compresi gli interventi di ritiro di
mercato che sono realizzati dalle Op nell’ambito dei Programmi operativi e che vengono parzialmente finanziati dall’Ue (cofinanziamento del 50%). L’Ocm prevede,
inoltre, che i Po utilizzino almeno il 10% della spesa totale nella realizzazione di
azioni ambientali e che le Op attuino iniziative di Promozione dei consumi per sostenere i consumi di prodotti ortofrutticoli nell’Ue. L’Ocm ortofrutta, infine, prevede aiuti per i prodotti destinati alla trasformazione. In particolare è prevista l’erogazione di un aiuto parzialmente disaccoppiato per tonnellata di prodotto consegnato alle imprese di trasformazione, pagato ai produttori, tramite le Op.
Il decreto ministeriale (Mipaaf) n. 4672 del 9 agosto 2012 ha provveduto a definire le procedure di riconoscimento e di controllo delle Organizzazioni di produttori (Op) in Italia. Secondo l’art. 3 «ai fini del riconoscimento delle Organizzazioni di produttori, da parte delle Regioni e delle Province autonome, il numero minimo di produttori è fissato a cinque». Un altro requisito prevede che l’Op debba
conseguire un valore della produzione commercializzata (Vpc) almeno pari a 1,5
milioni di euro3. Le Regioni e le Province autonome possono, comunque, stabilire
un valore minimo della produzione commercializzata più elevato di quelli fissati dal
Mipaaf. La domanda di riconoscimento va presentata alla Regione o Provincia autonoma che concorre a formare il maggior valore di produzione commercializzata.
Il decreto stabilisce, inoltre, che i produttori associati possano vendere una quantità non superiore al 15% della loro produzione e/o dei loro prodotti direttamente ai
consumatori. Il decreto infine stabilisce la possibilità di annoverare nella compagine societaria di una Op anche una persona fisica o giuridica che non sia produttore. Per tali soci non produttori, tuttavia, sono previste delle limitazioni in termini di
quote sociali dell’Op con diritto di voto possedute e di esercizio del diritto di voto.
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Lo strumento delle Op viene confermato più recentemente con il d.lgs. 105 del
20055 che stabilisce le finalità e le modalità di finanziamento (art. 2 commi 1 e 2),
i requisiti (art. 3) e le modalità di riconoscimento (art. 4). In merito alle finalità delle Op il legislatore italiano fa ampio riferimento a quanto già contenuto nella regolamentazione comunitaria in materia. In particolare «le organizzazioni di produttori hanno come scopo principale la commercializzazione della produzione dei produttori aderenti per i quali sono riconosciute ed in particolare di:
a) assicurare la programmazione della produzione e l’adeguamento della stessa alla
domanda, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo;
b) concentrare l’offerta e commercializzare direttamente la produzione degli associati;
c) partecipare alla gestione delle crisi di mercato;
d) ridurre i costi di produzione e stabilizzare i prezzi alla produzione;
e) promuovere pratiche colturali e tecniche di produzione rispettose dell’ambiente e del benessere degli animali, allo scopo di migliorare la qualità delle produzioni e l’igiene degli alimenti, di tutelare la qualità delle acque, dei suoli e del
paesaggio e favorire la biodiversità, nonché favorire processi di rintracciabilità,
anche ai fini dell’assolvimento degli obblighi di cui al regolamento (Ce) n.
178/2002;
f) assicurare la trasparenza e la regolarità dei rapporti economici con gli associati
nella determinazione dei prezzi di vendita dei prodotti;
g) realizzare iniziative relative alla logistica;
h) adottare tecnologie innovative;
i) favorire l’accesso a nuovi mercati, anche attraverso l’apertura di sedi o uffici
commerciali».
Le finalità delle Op possono essere parte di specifici programmi che possono essere finanziati con i fondi di esercizio delle organizzazioni dei produttori opportunamente alimentati da contributi degli aderenti, calcolati in base ai quantitativi o al
valore dei prodotti effettivamente commercializzati. L’attuazione dei programmi
delle Op può avvenire con «finanziamenti pubblici, in conformità a quanto disposto in materia di aiuti di Stato, nell’ambito delle risorse allo scopo finalizzate a legislazione vigente».
Tra i requisiti c’è l’obbligo che le Op assumano specifiche forme giuridiche societarie (società di capitali, società cooperative agricole e loro consorzi, società
consortili di cui all’articolo 2615-ter del codice civile). «Esiste, inoltre, l’obbligo
per soci di:
5 Decreto legislativo 27 maggio 2005, n. 102, Regolazioni dei mercati agroalimentari, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera e), della legge 7 marzo 2003, n. 38.
2. Quante sono le Op nel settore ortofrutticolo in Italia?
Al 31 marzo 2013 risultano riconosciute, ai sensi dei regg. (Ce) 2200/96 e
1234/2007, 289 organizzazioni di cui 285 Op e 12 associazioni di organizzazioni
di produttori (Aop). Più del 50% delle Op ortofrutticole (161) e, in particolare, localizzate nel Mezzogiorno. Nell’Italia centrale sono 42 le organizzazioni attive quasi tutte operanti nel Lazio. Nel Settentrione si concentra, infine, meno del 29% delle Op riconosciute a livello nazionale.
Tabella 1 – Op e Aop ortofrutticole riconosciute al 31 marzo 2013
Regione
Piemonte
Lombardia
P.A. Trento
P.A. Bolzano
Friuli V. Giulia
Veneto
Emilia-Romagna
Toscana
Marche
Lazio
Abruzzo
Op
7
21
4
3
2
19
26
2
4
36
10
Aop
1
2
1
–
–
1
4
–
–
2
–
Temi
1) applicare in materia di produzione, commercializzazione, tutela ambientale le
regole dettate dall’organizzazione;
2) aderire, per quanto riguarda la produzione oggetto dell’attività della organizzazione, ad una sola di esse;
3) far vendere almeno il 75 per cento della propria produzione direttamente dall’organizzazione, con facoltà di commercializzare in nome e per conto dei soci
fino al venticinque per cento del prodotto;
4) mantenere il vincolo associativo per almeno un triennio e, ai fini del recesso, osservare il preavviso di almeno sei mesi dall’inizio della campagna di commercializzazione».
Ai fini del riconoscimento, le Organizzazioni dei produttori devono avere un
numero minimo di produttori aderenti ed un volume minimo di produzione, conferita dagli associati, commercializzata. I valori di riferimento sono identificati per i
diversi settori nell’ambito del decreto (Mipaaf) n. 85 del 12 febbraio 2007.
Il riconoscimento delle organizzazioni di produttori avviene, infine, ad opera di
Regioni e Province Autonome.
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segue Tabella 1 – Op e Aop ortofrutticole riconosciute al 31 marzo 2013
a
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Regione
Campania
Molise
Basilicata
Puglia
Calabria
Sicilia
Sardegna
Nord
Centro
Sud-isole
Totale
Op
27
1
7
34
24
45
13
82
42
161
285
Aop
1
–
–
–
–
–
–
9
2
1
12
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Mipaaf
Sul versante della consistenza associativa si può osservare che nel Mezzogiorno le Op concentrano solo il 20% del totale dei produttori associati dalle Organizzazioni dei produttori italiane. Questo dato riflette infatti sia la limitata diffusione di cultura associativa che caratterizza il settore ortofrutticolo meridionale sia
l’elevata situazione di frammentazione che riguarda il comparto costituito in prevalenza da realtà aziendali di piccole e piccolissime dimensioni. Al contrario il
Nord concentra quasi i tre quarti dei produttori che hanno aderito al sistema Op,
grazie soprattutto al contributo dell’Emilia-Romagna e insieme alle due province
autonome di Trento e Bolzano. In termini di Vpc la quota maggiore è concentrata però nelle Op del Nord Italia. Nel Settentrione per le Op si evidenziano dimensioni economiche nettamente superiori a quelle delle organizzazioni operanti al Centro-Sud.
Op ortofrutticole nella Provincia di Autonoma di Trento
Circa il 95% della produzione ortofrutticola trentina è gestito ed immesso sul mercato da 4 Organizzazioni dei produttori alle quali fanno riferimento numerose cooperative e singoli produttori. Nella Provincia autonoma di Trento è inoltre attiva un’Associazione delle Organizzazioni dei produttori con funzioni di rappresentanza e coordinamento. Nella tabella 2 sono riportati i dati relativi alla composizione associativa e al valore della produzione commercializzata dalle Organizzazioni dei produttori riconosciute nella Provincia Autonoma di Trento.
Tabella 2 – Le Op della Provincia Autonoma di Trento (2005)
Op
Sant’Orsola
Consorzio La Trentina
N. aderenti
Valore della produzione commercializzata (euro)
1.228 produttori
22.782.249
n. 6 cooperative
31.801.152
(n. 1.815 produttori)
Consorzio Melinda
n. 16 cooperative
150.722.197
(n. 5.013 produttori)
CIO - Consorzio Interregionale n. 7 cooperative
16.902.595
Ortofrutticolo
(n. 365 produttori )
Fonte: Provincia Autonoma di Trento
Temi
Anche la distribuzione delle Aop è nettamente sbilanciata, con 9 associazioni riconosciute al Nord, presenti soprattutto in Emilia-Romagna, 2 Aop che operano
nel Centro Italia, entrambe nel Lazio, ed una al Sud, localizzata in Campania.
Op ortofrutticole nella Provincia di Autonoma di Bolzano
In base all’art. 125b del Regolamento Ce 1234/07, in Alto Adige sono attive 3 Organizzazioni dei
produttori (Op), legalmente riconosciute: Vog, Vip e Vog Products. In Alto Adige, all’incirca l’82%
delle cooperative e oltre l’85% dei produttori operanti nel settore ortofrutticolo sono riuniti nelle
Organizzazioni dei produttori ed hanno a disposizione il 90% della superficie coltivata.
Tabella 3 - Le Op della Provincia Autonoma di Trento (2005)
Organizzazioni
di produttori
Settore di
produzione
Cooperative
frutticole
e ortofrutticole
Produttori
Superficie
(ettari)
Vip
frutta e verdura
7
1.750
5.200
Vog
frutta e verdura
16
5.032
11.700
elaborazione frutta
24
11.971
24.000
Vog Products
Fonte: Relazione agraria e forestale, 2012 – Provincia Autonoma di Bolzano
Per quanto riguarda la rappresentanza dell’ortofrutta organizzata, si registra nel
2012 l’approvazione del progetto di fusione delle due unioni nazionali, Uiapoa e
Unacoa, che ha dato luogo alla nascita di un nuovo soggetto, «Italia Ortofrutta Unione Nazionale», che si affianca all’altra unione nazionale operante nel comparto, Unaproa. A «Italia Ortofrutta» aderiscono circa 140 Op presenti in sedici regioni, per un fatturato complessivo di 1,7 miliardi di euro. Il nuovo organismo rappresenta così il 15-20% della produzione vendibile ortofrutticola italiana e oltre il
35% di quella del sistema organizzato.
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Op ortofrutticole in Emilia Romagna
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In Emilia-Romagna sono attive 26 Op e 4 Aop. Il sistema delle Op e delle Aop nel 2011 ha conseguito circa 1 miliardo e 770 milioni di valore della produzione commercializzata. La tabella 4 riporta i dati relativi alle diverse Op ed Aop tenendo conto delle sinergie adottate dai vari soggetti
nella presentazione dei Programmi operativi di attività nel corso del 2011.
Tabella 4 – Le Op e le Aop dell’Emilia-Romagna
Denominazione Op e Aop
Copador
Afe
Opoeuropa
Europ Fruit
Gruppo Mediterraneo
Finaf
Cio
Romandiola
Geagri
Ciop
La Diamantina
Funghi delle Terre di Romagna
Chiara
Sistema Frutta
Totale
Valore produzione commercializzata
60.611.442,51
47.131.122,93
15.546.891,14
55.283.926,11
458.386.455,43
830.687.251,60
154.030.043,21
56.626.603,74
6.868.122,16
70.317.312,48
4.433.685,74
3.665.960,73
6.692.570,09
3.540.737,74
1.773.822.125,61
Arp, Ainpo hanno presentato l’annualità 2011 con Aop Cio.
Apoconerpo, Orogel Fresco, Modenese Essicazione Frutta, Moderna, Opera hanno presentato
l’annualità 2011 con Aop Finaf.
Apofruit Italia, Asipo, Agribologna, Pempacorer Hanno Presentato L’annualità 2011 Con Aop
Gruppo Mediterraneo.
Granfrutta Zani, Minguzzi hanno presentato l’annualità 2011 con Aop Romandiola.
Cico, Op Ferrara, Veba hanno presentato l’annualità 2011 con Aop Ciop.
Fusione per incorporazione di Aop Gruppo Mediterraneo in Aop Finaf.
Fonte: Regione Emilia-Romagna - Direzione Generale Agricoltura, Economia ittica, Attività faunisticovenatorie.
Op ortofrutticole nel Veneto
In Veneto sono attive 19 Op e 1 Aop. Nel 2011 alle Op venete aderiscono 4495 soci. Il valore della produzione commercializzata (Vpc) è pari a circa 342 milioni di euro. La superficie gestita dalle Op è, infine, pari a 14.718 ettari.
Tabella 5 – Le Op e le Aop in Veneto
Peso Vpc
aggregato (%)
Apo Veneto Friulana
12
Op Coz
3
Op Nordest
8
Apo Scaligera
12
Op Europ
4
Op Cop
8
Il Noceto
1
Opo Veneto
9
Op Fungamico
3
Op Valle Padana
6
Fonte: Veneto Agricoltura su dati Regione Veneto.
Op/Aop
Peso Vpc
aggregato (%)
Op del Garda
3
Ortoromi
16
Op Camposole
3
Orti dei Berici
3
Op Saccagnana
1
Op Consorzio Funghi di Treviso
6
Aop Veneto Ortofrutta
n.d.
Consorzio Piccoli Frutti
3
Nogalba
1
Geofur soc.coop agr.
n.d.
In Campania sono attive 26 Op e 1 Aop. In particolare si segnalano:
■ la Op Finagricola che è una cooperativa di 12 soci e si sviluppa su una base produttiva di 24
aziende agricole. Finagricola rappresenta una delle più importanti realtà del settore ortofrutticolo nazionale con posizioni di leadership nella maggior parte delle tipologie di prodotto in cui
è attiva (verdure e ortaggi freschi). Finagricola è situata nell’area territoriale della Piana del Sele in provincia di Salerno;
■ la Aop Armonia, formata nel 2009 da Op Poma e Op Ideanatura, è la più grande Aop del Sud
Italia, con circa trenta soci e più di 1.300 ettari di area coltivata divisa tra Campania, Calabria,
Puglia e Basilicata. È situata a Battipaglia, in provincia di Salerno.
Tabella 6 – Le Op e le Aop della Regione Campania
N. soci
58
9
104
864
403
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77
Op ortofrutticole in Campania
Denominazione (sigla)
Poma Consorzio
Finagricola
Cjo
Apopa
Aoa
Temi
Op/Aop
Valore della produzione commercializzata (euro)
12.211.210,00
38.045.585,84
15.900.442,51
9.707.308,96
21.344.938,71
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segue Tabella 6
Apoc Salerno
Con.co.o.sa
Consorzio Terra
Alma Seges
Sud Agricola
Idea Natura
Agrivesuvio
Agriverde
Giotto
Pomoidea soc. coop. a r.l.
Coop. Agricola s. Giorgio
Ortofelice
Secondulfo
Campania Felix
La Maggiolina
Coop. Agr. Alto Casertano
Giaccio Frutta
San Ciro
Agris
Euro. Com.
Apo Caserta
Solco Maggiore
500
497
76
189
9
17
64
34
45
290
n.d.
9
n.d.
50
9
n.d.
75
n.d.
n.d.
5
105
5
n.d.
22.979.693,29
34.569.496,66
34.465.646,64
3.777.537,33
6.203.618,30
n.d.
5.223.111,05
n.d.
15.751.242,62
n.d.
10.155.641,16
n.d.
3.232.600,60
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
n.d.
4.584.999,01
3.434.196,35
n.d.
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Regione Campania
3. Quante sono le Op non ortofrutticole in Italia?
Al 30 giugno 2012 le organizzazioni di produttori (Op) non ortofrutticole riconosciute in Italia e iscritte all’apposito albo del Mipaaf risultano essere 168, di cui
34 riconosciute in base al d.lgs. 228/2001 e 134 sulla base del d.lgs. 102/2005
(Inea, 2012).
Alcune Op (altri prodotti agricoli nell’Italia settentrionale)
■
■
■
In Emilia-Romagna nel settore lattiero-caseario il Consorzio Cooperativo Granlatte (holding del
Gruppo Granarolo) annovera 671 soci per una Vpc di poco inferiore a 100 milioni di euro.
In Emilia-Romagna l’Op Cereali Emilia-Romagna è la più grande del settore cerealicolo in Italia
con oltre 10.000 produttori associati e un Vpc di circa 107 milioni di euro.
In Emilia-Romagna Asso.Pa rappresenta una realtà economica importante con un Vpc di poco
inferiore a 30 milioni di euro, che concentra il 45% circa del valore della produzione organizzata di patate a livello nazionale.
■
In Lombardia Unipeg nel settore delle produzioni bovine realizza una Vpc di poco inferiore a 100
milioni di euro e concentra il 90% circa del valore della produzione organizzata nazionale.
Nel settore bieticolo-saccarifero Co.Pro.B. realizza un Vpc superiore a 82 milioni di euro. Annovera 4.388 produttori associati provenienti oltre che dall’Emilia-Romagna, dove risiede l’organizzazione, principalmente, anche dal Veneto.
Il lattiero-caseario è il primo comparto per numero di Op con 39 organizzazioni operanti in Italia. Al secondo posto si colloca il settore olivicolo. Seguono il comparto pataticolo, con 19 organizzazioni distribuite in 11 regioni, e quello tabacchicolo che raggruppa 23 organizzazioni di cui oltre la metà operanti in Campania. Nel
complesso, i due terzi delle Op attive si concentrano in quattro comparti (olivicolo, lattiero-caseario, tabacchicolo e pataticolo), che aggregano oltre l’85% dei produttori associati e realizzano più del 60% del valore della produzione commercializzata (Vpc) totale. A questi si aggiunge il comparto «cerealicolo-riso-oleaginose»
che conta 15 Op, rivelando dimensioni apprezzabili, sia in termini di soci, sia come
valore della produzione commercializzata.
Alcune Op (altri prodotti agricoli nell’Italia centrale)
■
■
■
■
All.Coop Società Cooperativa Agricola Mosciano Sant’Angelo (Te): Azienda che opera nel settore «Trasformazione e Macellazione Prodotti Avicoli» ed appartiene al gruppo Amadori. Associa
anche produttori di altre regioni (Marche e Molise) e detiene più del 70% del valore della produzione commercializzata dalle Op del settore.
Nelle Marche l’Op «Terre Cortesi Moncaro» realizza quasi il 40% del valore della produzione organizzata nel settore vitivinicolo. Conta 782 soci e una Vpc di 16 milioni di euro.
In Toscana si segnala l’Op Cooperativa Consorzio Produttori Latte Maremma. Conta 41 soci e
una Vpc di 13,5 milioni di euro.
Nel settore tabacchicolo in Umbria è localizzata l’Op. Artp. Conta 252 soci e una Vpc di 9 milioni di euro.
Anche a livello territoriale la distribuzione delle organizzazioni risulta concentrata, con quasi il 70% delle Op che opera in sei regioni di cui quattro appartengono all’area meridionale (Puglia, Campania, Calabria e Sardegna) e due all’area settentrionale (Lombardia ed Emilia-Romagna). Una particolare concentrazione numerica di Op si rileva in Puglia (30) e in Sardegna (20). Tuttavia tali rapporti si invertono se si prende in considerazione il valore medio della produzione commercializzata dalle Op. In questo caso le organizzazioni dell’area centro-meridionale
mostrano valori nettamente inferiori a quelli delle organizzazioni del Nord Italia.
Temi
■
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Tale differenza è principalmente attribuibile alla diversa specializzazione produttiva
delle Op nelle aree analizzate: al Nord pesano le grandi Op cerealicole, mentre al
Sud a incidere sul Vpc medio è l’elevato numero di organizzazioni olivicole con una
dimensione inferiore alla maggior parte degli altri comparti.
Alcune Op (altri prodotti agricoli nell’Italia Meridionale)
■
■
■
■
■
In Sardegna è attiva la 3A Cooperativa Assegnatari Associati Arborea, con 225 soci e circa 133
milioni di euro di Vpc. La 3A, attiva nel settore lattiero caseario, è l’Op con il Vpc più elevato tra
tutte le organizzazioni non ortofrutticole.
In Puglia si segnala la Op Avipuglia Sca. Conta 6 soci e circa 21 milioni di euro di Vpc. La Avipuglia Sca è attiva nel settore avicunicolo.
Nel settori olivicolo in Puglia è localizzata Op Acli Terra Brindisi. Conta 3.684 soci e una Vpc di
17 milioni di euro.
La Op Cantina Due Palme è situata nella regione Puglia. Conta 840 soci e una Vpc di 14 milioni
di euro.
Nel settore tabacchicolo in Campania è localizzata l’Op Associazione Tabacchicoltori Sanniti
Atas. Conta 634 soci e una Vpc di 10 milioni di euro.
4. Organizzazioni dei produttori: criticità e prospettive
I meccanismi di funzionamento della Ocm ortofrutta sono stati oggetto di una
specifica azione di audit promossa dalla Corte dei Conti europea. Una specifica Relazione Speciale (Corte dei Conti europea, 2006a e 2006b) ha, infatti, provveduto
ad analizzare l’efficacia dei Programmi operativi e i meccanismi di funzionamento
delle Organizzazioni dei produttori. L’audit ha in particolare evidenziato alcuni
punti critici nell’implementazione degli strumenti previsti della Ocm ortofrutta. Innanzitutto la Corte dei Conti europea ha sottolineato la necessità di migliorare il
contributo degli Stati membri nella selezione delle operazioni previste nei Programmi operativi per garantire un’effettiva efficacia alle azioni promosse dalle Op.
La Corte dei Conti europea ha, inoltre, evidenziato come l’attuazione del regime di
aiuto si sia rivelata costosa sia per gli Stati membri sia per le Organizzazioni dei produttori. In particolare gli interventi di programmazione che sono stati promossi nell’ambito dei Programmi operativi sono stati applicati con il solo obiettivo di ottemperare alle richieste formali della norma e senza benefici reali per gli operatori
del settore. La Relazione, infine, sottolinea che le forze di mercato esercitano pressioni su produttori ortofrutticoli affinché rispettino norme ambientali più rigide,
migliorino la qualità dei prodotti e controllino i costi.
Figura 1 – Numero di Op e tasso di organizzazione del comparto
in alcuni Stati membri
Altre analisi (Canali, 2007) evidenziano, invece, le criticità che, in particolare,
hanno caratterizzato le Organizzazioni dei produttori. Un primo aspetto da sottolineare riguarda il ruolo diverso da paese a paese assunto dalle Op nella commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli. Le differenze nel tasso di organizzazione della
produzione6 tra paesi appaiono molto marcate: in Olanda, Belgio e Gran Bretagna
quasi tutta la produzione ortofrutticola è mediata dalle Op, tra il 30 ed il 50% si
collocano Italia, Germania, Francia, Spagna e Malta, al di sotto del 30% gli altri
paesi. In media il 39% della produzione di ortofrutticoli prodotti all’interno dell’Ue
viene veicolata attraverso Op (Cioffi et al., 2009). Questi valori mettono in discussione la reale efficacia delle Organizzazioni dei produttori come strumento per la
concentrazione dell’offerta e per il recupero del potere di mercato dei produttori
agricoli. In questo senso appare opportuno promuovere una riflessione sui requisiti
minimi in termini di dimensione che le Op devono possedere per il loro riconoscimento. Per garantire un aumento nella concentrazione di mercato è necessario che
gli Stati membri7 identifichino soglie dimensionali sia in senso assoluto che in termini di quote di mercato tali che permettano la costituzione di Op capaci di competere ad armi pari con i grandi operatori della commercializzazione con i quali esse si trovano a doversi confrontare. Ultimo aspetto critico riguarda le norme sulla
composizione degli organismi di governo delle Op. L’assenza di criteri di incompa6
Il tasso di organizzazione della produzione è calcolato rapportando la produzione che passa attraverso le Op al valore della produzione di ortofrutticoli prodotti all’interno (Cioffi et al., 2009).
7 La precedente Ocm rimanda ad un’applicazione nazionale da realizzare mediante provvedimenti per
i quali non sono previste particolari e specifiche indicazioni quantitative a livello Ue, ma solo la necessità di definire le dimensioni minime in termini di numero di aderenti e di fatturato complessivo.
Temi
Fonte: modificato da Cioffi et al. (2009)
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tibilità per la partecipazione e la rappresentanza nei Consigli di amministrazione di
soggetti che possono essere in chiaro conflitto di interessi (imprese di trasformazione o acquirenti dei prodotti venduti dalla stessa Op) può limitare l’efficacia delle
scelte assunte dalle Op.
D’altronde i contenuti delle proposte di riforma della Politica agricola comune
post 2013 attribuiscono in prospettiva una notevole rilevanza alle Organizzazioni
dei produttori e alle loro associazioni, alle organizzazioni interprofessionali e alle organizzazioni di operatori come strumenti per migliorare la competitività dell’agricoltura europea. Per promuovere lo sviluppo di queste organizzazioni o associazioni, le proposte della Commissione prevedono la possibilità:
– di estendere il riconoscimento delle Organizzazioni dei produttori anche a settori diversi dall’ortofrutta;
– di fornire uno specifico sostegno economico attraverso una misura da inserire nei
Psr del prossimo ciclo di programmazione che preveda l’erogazione di un aiuto
forfettario alle «associazioni di produttori nei settori agricolo e forestale», ufficialmente riconosciute dalle autorità competenti degli Stati membri sulla base di
un piano aziendale.
Conclusioni: le Organizzazioni dei produttori in una prospettiva contrattuale
L’analisi svolta in precedenza ha permesso di evidenziare la crescente diffusione
delle Organizzazioni di produttori. Le Op costituiscono oramai un’importante risorsa per il potenziamento della competitività degli operatori dell’ortofrutta italiana
e degli altri comparti produttivi dell’agricoltura nazionale. Il potenziamento delle
Op previsto dalla riforma della Pac post 2013 dovrebbe ulteriormente consolidare
lo strumento delle Organizzazioni dei produttori ampliandone le funzioni e il campo di azione e fornendo specifiche risorse per la promozione di nuove organizzazioni. D’altronde con la riforma Pac post 2013 si apre una nuova fase per l’agricoltura europea: il taglio delle risorse che nel prossimo futuro saranno destinate all’agricoltura europea impone agli operatori del settore di ripensare le proprie strategie
imprenditoriali migliorando l’efficienza dei processi produttivi e promuovendo una
maggiore attenzione agli andamenti e alle esigenze dei mercati. In questo contesto
il legislatore europeo affida alle Op un ruolo cruciale per implementare una nuova
fase nei meccanismi di funzionamento della Pac. Ma le Organizzazioni dei produttori potranno svolgere questo ruolo cruciale solo se saranno in grado di superare le
criticità che ne hanno caratterizzato il funzionamento nel recente passato diventando per gli operatori del settore strumenti efficaci di promozione del loro livello di
competitività e non solo mere occasioni per drenare ulteriori fondi comunitari.
Parallelamente si rilevano alcune criticità di cui è necessario tenere conto:
– le Op hanno come scopo principale la commercializzazione della produzione dei
produttori aderenti per i quali sono riconosciute;
– le organizzazioni di rappresentanza delle Op9 non coincidono formalmente con
le controparti che tradizionalmente (Coldiretti, Cia, Confagricoltura) sono coinvolte nella sottoscrizione del Ccnl operai agricoli e florovivaisti.
D’altronde i legami che formalmente collegano i singoli operatori agricoli alle
Op possono rappresentare un’interessante occasione per migliorare l’efficienza degli
strumenti contrattuali rendendoli più conformi alla dimensione aziendale e territoriale come per altro viene ricordato nei contenuti del Ccnl operai agricoli e florovivaisti. Al riguardo basti ricordare che il d.lgs. n. 105/2005 ricorda che i soci aderenti
alle Op hanno l’obbligo di «applicare in materia di produzione, commercializzazione, tutela ambientale le regole dettate dall’organizzazione» evidenziando un legame
funzionale e di strategia molto intimo tra Op e singoli operatori agricoli che potrebbe offrire un interessante spunto per la sperimentazione di meccanismi contrattuali innovativi che ne migliorino efficacia ed efficienza.
8 Al riguardo basti ricordare due dati: alle Op non ortofrutticole aderiscono 272.622 soci (Petriccione, 2012) mentre sono 86.775 quelli aderenti ad Op ortofrutticole (Mipaaf-Ismea, 2012).
9 Le unioni riconosciute secondo gli artt. 5 e 6 del decreto legislativo n. 102/05 sono: 1. Unione nazionale associazioni produttori ortofrutticoli e agrumari, 2. Unione nazionale organizzazioni di produttori ortofrutticoli agrumari, 3. Unione nazionale organizzazioni di produttori associate ortofrutticoli agrumari, 4. Unione italiana associazioni produttori ortofrutticoli, 5. Unione nazionale associazioni di produttori avicunicoli - Avitalia, 6. Unione italiana produttori di frumento duro e tenero, mais
e altri cereali, 7. Unione nazionale tra le associazioni di produttori di patate, 8. Organizzazione nazionale tra le organizzazioni di produttori di carne suina - Unapros, 9. Organizzazione comune di produttori lattiero-caseari - Oc Latteitalia, 10. Organizzazione nazionale tabacco Italia - Ont. Per l’ortofrutta abbiamo Unaproa e Italia Ortofrutta - Unione Nazionale.
Temi
Anche sul piano contrattuale lo strumento Op ha richiamato recentemente l’attenzione delle organizzazioni sindacali. La ricerca di un modello contrattuale più inclusivo e più efficace spinge infatti i sindacati dei lavoratori di settore a provare ad
esplorare nuovi meccanismi contrattuali che tengano conto delle trasformazioni che
riguardano i modelli organizzativi agricoli a livello nazionale. Al riguardo, ferma restando la centralità del Ccnl del settore, le Op rappresentano evidentemente un interessante soggetto per le seguenti precipue caratteristiche:
– la numerosità elevata dei produttori agricoli con cui le Op intrattengono formali
rapporti8;
– la pervasività della presenza delle Op sul piano settoriale e territoriale.
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Bibliografia
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84
Canali G., La nuova Ocm ortofrutta e la sua applicazione in Italia, Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione, Gruppo 2013, Working paper
n. 4, 2007.
Cioffi A., Coppola A., Il ruolo delle organizzazioni di produttori nel settore ortofrutticolo: un’analisi delle possibilità di sviluppo nello scenario di riforma della Pac, «Rivista Economia e Diritto Agroalimentare», n. 1, 2009.
Corte dei Conti europea, Nota informativa della Corte dei conti europea concernente la relazione speciale n. 8/2006 intitolata «Coltivare» il successo? L’efficacia
del sostegno dell’Unione europea ai programmi operativi a favore dei produttori ortofrutticoli, Eca/06/21, Lussemburgo, settembre 2006a.
Corte dei Conti europea, «Coltivare» il successo? L’efficacia del sostegno dell’Unione europea ai programmi operativi a favore dei produttori ortofrutticoli. Relazione speciale n. 8, «Gazzetta ufficiale dell’Unione europea», n. C 282 del
20/11/06, 2006b, http://www.eca.europa.eu/audit_reports/special_reports/
docs/2006/rs08_06it.pdf.
Inea, L’organizzazione economica dei produttori, in Annuario dell’agricoltura italiana
– 2011, Roma, 2012, http://www.inea.it/web/inea/annuario/ultima_edizione.
Mipaaf-Ismea, Valutazione della strategia nazionale in materia di programmi operativi sostenibili nel settore ortofrutticolo (2012), Roma, 2012, http://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/5828.
Petriccione G., Solazzo R., Le Organizzazioni dei produttori nell’agricoltura italiana,
«Agriregionieuropa», n. 30, 2012.
Ricerche
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85
■ Ricerche
Condizioni di sicurezza e d’igiene nel vitivinicolo:
due realtà toscane e pugliesi a confronto
Felice Giordano*
Il presente lavoro ha lo scopo di analizzare i possibili fattori di rischio che si possono incontrare nello svolgere le lavorazioni manuali nelle attività di produzione del
vino: dalla cura della vite alla raccolta dell’uva, fino alla trasformazione e all’imbottigliamento.
Questo compito risulta particolarmente arduo se eseguito con modalità scientifica, ma offre la possibilità di avere un quadro della situazione che evidenzi i reali problemi dei lavoratori di questo comparto, sia in termini di sicurezza che di
igiene.
Essendo consci che tali problemi possono variare tra una realtà territoriale e l’altra, per esempio tra Nord e Sud, dopo una panoramica delle principali fasi di lavorazione per la produzione del vino, con i possibili rischi associati, focalizzeremo l’attenzione sull’analisi dei lavoratori di due territori con un’importante vocazione vitivinicola situati nella provincia di Siena e Brindisi.
Introduzione
Problemi connessi alla tutela e all’identificazione dei rischi
per gli addetti al settore vitivinicolo
Le difficoltà nel far emergere i rischi connessi ai lavoratori del comparto vitivinicolo e alla loro tutela dipendono da diversi fattori. In primo luogo le dimensioni
delle aziende. Mentre potrebbe essere fattibile organizzare un servizio di prevenzione con un responsabile istruito, all’interno di una grande azienda con ruoli e mansioni ben stabiliti tra i dipendenti, la stessa cosa è più difficile immaginarla in realtà a conduzione famigliare dove i costi per i proprietari sarebbero troppo onerosi.
Quindi i lavoratori di queste piccole aziende sono difficilmente controllabili, specialmente nel corretto e continuo uso dei dispositivi di protezione individuali (Dpi).
*Assegnista di ricerca, Università «Sapienza» di Roma.
Ricerche
Premessa
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Tutto questo perché gli scenari nei quali queste persone operano possono spaziare
dall’ambiente confinato delle cantine a quello aperto dei vigneti.
In secondo luogo, le mansioni presenti nel comparto vitivinicolo, come del resto in tutto il comparto agricolo, sono legate alla stagionalità, quindi al clima che,
in un paese come il nostro sviluppato lungo un asse Nord-Sud, può essere molto
differente anche tra regione e regione.
A grandi linee, in inverno, le operazioni principali riguardano il lavoro in ambienti confinati o semiconfinati come l’etichettatura delle bottiglie, il controllo della maturazione del vino nelle botti e la manutenzione dei vari strumenti e macchinari che si useranno nelle successive fasi. L’unica operazione in campo aperto è la
potatura. In primavera le principali operazioni si svolgono all’aperto con la palizzatura, la cura dei germogli e dei tralci e la protezione della vite.
Inverno
Primavera
Estate
Autunno
Potatura
Maturazione del vino
nelle botti
Preparazione delle
bottiglie, etichettatura
Manutenzione di
strumenti e macchinari
Palizzatura
Passaggio a mano
dei germogli tra i tralci
Protezione della vite
Cimatura e defogliatura Vendemmia
Diradamento
Trasporto dell’uva
dalle vigne alla cantina
Pulizia dei vasi vinari
Scarico dell’uva
in cantina
Imbottigliamento
Pigiodiraspatura
Immagazzinamento
Raccolta, svinatura e
del prodotto finito
pressatura delle vinacce
Controllo della
fermentazione del mosto
Imbottigliamento
Immagazzinamento
del prodotto finito
pronto per la vendita
In estate gli interventi sono ancora rivolti alla cura della vite con il diradamento, la cimatura e la defogliatura. Le operazioni in ambienti confinati invece riguardano l’imbottigliamento e l’immagazzinamento del vino dell’annata precedente. La
massima attività in questo comparto però si ha in autunno con la vendemmia e le
operazioni di trasporto dell’uva, nonché le fasi di pigiatura e, dopo un adeguato periodo di fermentazione del mosto nelle cantine, la spillatura e l’imbottigliamento
del vino novello.
Quindi, laddove gli operatori del comparto vitivinicolo fossero impiegati a tempo pieno, per tutto l’anno, si troverebbero a svolgere mansioni differenti con rischi
diversi. Invece quei lavoratori stagionali che sono solo impiegati nella fase della vendemmia, non possono avere un’adeguata conoscenza dei rischi legati alla loro mansione, in quanto durante l’anno spesso svolgono la loro attività in settori diversi.
Rischi lavorativi
Nel paragrafo precedente, descrivendo le fasi di produzione del vino, abbiamo
visto come i possibili scenari lavorativi siano molteplici, distribuiti tra il vigneto e la
cantina. Questo presuppone che anche i rischi siano tanti e di varia natura (biologici, chimici e fisici).
Per redigere questo paragrafo si è preso spunto da uno studio condotto dalla
Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione dell’Inail (Inail-Contarp,
2012) che, grazie all’ausilio di un pool di specialisti, ha valutato i rischi nel comparto vinicolo (in particolare nelle cantine) e oleario.
Tra i rischi biologici, i funghi e i batteri sono quelli maggiormente presenti in
questi luoghi di lavoro. La loro presenza (valutata come concentrazione nell’aria) dipende soprattutto dal microclima favorevole che essi trovano, specialmente nelle
Ricerche
In definitiva ciascun lavoratore del comparto vitivinicolo potrebbe ritrovarsi
esposto a più rischi contemporaneamente. Pensiamo ad esempio ai fattori di rischio che aumentano la probabilità di partorire un bambino con basso peso alla
nascita, per una donna che lavora in un’azienda vitivinicola. Oltre ai noti fattori
di origine biologica, sociale o voluttuaria (es. il fumo di sigaretta) materni, anche
quelli derivanti dall’attività agricola, come gli sforzi fisici e l’esposizione a pesticidi, possono aumentare il rischio di partorire un figlio sottopeso. A complicare le
cose poi, l’esposizione a questi fattori di rischio occupazionali (per esempio lo
sforzo fisico e i pesticidi) potrebbe essere di intensità differente tra vari sottogruppi di lavoratori. L’epidemiologia, a questo punto, suggerirebbe di mettere a
confronto queste sottopopolazioni, caratterizzate da individui con un profilo di
rischio simile. È infatti l’osservazione della frequenza di accadimento di una certa malattia o infortunio tra gruppi con diversa entità di esposizione ad un pericolo che permette di quantificare un rischio. Frastagliare la popolazione in gruppi numerosi e costituiti da pochi individui condurrebbe a creare difficoltà nell’analisi statistica.
Consideriamo per esempio il genere: molto spesso determinate mansioni sono
prevalentemente maschili (es. conduzione dei mezzi agricoli) o femminili (es. raccolta). Questo fa sì che a causa della bassa numerosità di soggetti di un determinato genere, impiegati in una certa mansione, vengano esclusi dagli studi lavoratori
che avrebbero bisogno di un maggior riguardo, ma che dal punto di vista epidemiologico non raggiungono una numerosità adeguata.
Tutte queste difficoltà metodologiche che si possono incontrare negli studi epidemiologici sui lavoratori agricoli, quindi anche nel comparto vitivinicolo, fanno sì
che la letteratura scientifica in questo settore sia scarsa.
a
e
89
13-14/2013 Politiche contrattuali e lavoro
a
e
90
cantine. Questi luoghi sono spesso umidi e ricchi di materiale biologico, l’uva, che
offre un valido substrato alla loro moltiplicazione. Inoltre alcuni di questi lieviti sono implicati nella fermentazione alcolica dell’uva, quindi aggiunti artificialmente
dall’uomo. Concentrazioni aeree troppo elevate potrebbero portare a problemi di
salute riguardanti l’apparato respiratorio. L’allegato XLVI al Titolo 10 del d.lgs. n
81/2008 (d.lgs. 81, 2008a) riporta una lista dei funghi e batteri che potrebbero costituire un rischio per la salute umana; funghi e batteri sono quindi riconosciuti dall’Inail come agenti eziologici di diverse malattie professionali (d.m. 169 del 9 aprile 2008) favorendo le infezioni, l’asma bronchiale e le alveoliti allergiche.
Per quanto riguarda il rischio chimico bisogna distinguere il lavoro in vigna da
quello in cantina.
Nel primo, l’esposizione principale è dovuta all’uso di pesticidi. In genere, l’irrorazione viene effettuata da operatori esperti che sono protetti da tute e mascherine per evitare l’esposizione inalatoria e dermica. Anche gli altri lavoratori che vengono a contatto con la vite però potrebbero esserne esposti. Altri possibili inquinanti chimici dei vigneti sono le polveri aerodisperse. Queste sono sia di natura
inorganica, provenienti dal suolo, sia di natura organica (es. sterpaglie di potatura).
Le polveri possono dar luogo a malattie respiratorie come l’asma allergica. Nell’ambiente confinato della cantina, sono da tenere presenti quegli inquinanti chimici che
vengono prodotti nella fermentazione alcolica. Oltre all’alcol etilico e metilico, l’anidride carbonica è molto pericolosa perché si concentra nell’aria e può raggiungere livelli di tossicità elevati.
L’anidride solforosa (SO2) viene in alcuni casi utilizzata per abbattere la carica
batterica presente nelle cantine e nel mosto, favorendo invece lo sviluppo dei lieviti Saccharomyces necessari alla fermentazione.
Quindi anche per le cantine può essere applicato l’art. 66 del d.lgs. n. 81/2008
(d.lgs. 81, 2008b) relativo agli ambienti sospetti di inquinamento, che vieta l’ingresso dei lavoratori se i locali non sono ben aerati o i lavoratori stessi muniti di Dpi
adatti ad evitare l’inalazione di gas nocivi.
Passando ad analizzare i rischi fisici, il rumore non è particolarmente importante
in questo settore, ma l’utilizzo di alcune macchine può sicuramente esporre il lavoratore a questo rischio per periodi brevi e non continui, vista anche la stagionalità
della produzione vitivinicola. Fonti di rumore possono essere i trattori per i conduttori di macchine agricole in vigna e nel trasporto dell’uva, lance ad aria compressa per la pulizia, motori di pompe usate per il travaso del vino e macchine pigiodiraspatrici. Un ambiente particolarmente rumoroso, per esempio, potrebbe essere quello dove si svolge l’imbottigliamento.
Il rischio vibrazioni invece deve essere preso in considerazione per i conduttori di
trattori agricoli o di muletti.
Ricerche
Per quanto riguarda il microclima, altro rischio fisico, l’umidità elevata spesso
contraddistingue le cantine dove questo parametro e anche la temperatura sono tenuti sotto controllo per una buona conservazione del vino. Il clima è invece una
importante fonte di disagio per chi deve lavorare nel vigneto. In particolar modo
il caldo clima estivo durante la vendemmia potrebbe provocare colpi di calore e insolazioni.
In vitivinicoltura può anche essere individuato un rischio di esposizioni a radiazioni. Una fonte è chiaramente il sole che emette radiazioni ultraviolette
(Uv). Uno studio di Siani et al. (2011), effettuato in Toscana, ha verificato come il quantitativo di Uv che raggiunge la schiena e il collo degli agricoltori della viticoltura ecceda il livello consentito. La risposta fisiopatologica a queste
esposizioni dipende ovviamente dalla suscettibilità individuale (ossia dal fototipo), ma la Iarc (International Agency for Research on Cancer) considera le Uv
dei «cancerogeni accertati per l’uomo» (Iarc, 2013). Il radon invece è un gas radioattivo e può essere una fonte di radiazioni là dove sono presenti materiali da
costruzione tufacei e rocce vulcaniche. Quindi questo gas si libera dal terreno e
dalle fondamenta delle case e può concentrarsi nell’aria delle abitazioni dei piani inferiori, dove spesso sono ubicate le cantine. Anche il radon è considerato
dalla Iarc un «cancerogeno accertato per l’uomo» e può provocare tumori polmonari (Iarc, 2013).
Il rischio di infortuni deriva principalmente dall’interazione tra l’uomo e le macchine. In particolar modo l’uso di trattori e di movimentazione di carichi con muletti può portare al rischio di ribaltamento del mezzo con conseguenze spesso letali
per l’operatore. Nel caso del comparto vitivinicolo, poi, abbiamo l’utilizzo di strumenti come coltelli e forbici per la vendemmia e la potatura che possono provocare tagli. Nella cantina potrebbe essere presente anche il rischio di folgorazione visto
l’uso cospicuo di macchine con motore elettrico (pigiodiraspatrice, pompe per il travaso del vino ecc.).
Il terreno brullo dei vigneti, spesso ubicato su pendii, e l’uso di scale possono aumentare il rischio di cadute. Anche nelle cantine tuttavia l’utilizzo di scale, una scarsa illuminazione e il camminare su pavimenti bagnati aumenta il rischio di cadute.
Una patologia che si può presentare tra i lavoratori che effettuano la potatura
o in generale che usano le forbici, come anche i vendemmiatori, è quella che provoca parestesie nella mano che usa l’utensile. Esse si verificano spesso di notte e
sono più probabili tra il genere femminile. Questa patologia, vista la stagionalità
delle operazioni, difficilmente cronicizza, ma si può avere la scomparsa dei sintomi durante i periodi nei quali non ci sono le operazioni di potatura (Roquelaure
et al., 2001).
a
e
91
13-14/2013 Politiche contrattuali e lavoro
Frequenza degli infortuni nel settore vitivinicolo
Dai dati INAIL, disponibili tramite l’interrogazione della banca dati statistica
del sito (Inail, 2013) e facendo riferimento alle voci delle Nuove Tariffe dei premi
Inail (d.m. 12 dicembre 2000), si è potuto trovare il numero di infortuni denunciati nella voce tariffaria 1413 (riguardante la produzione di vini) nel periodo 20072011. Dividendo il numero di infortuni denunciati per un dato anno per il numero di lavoratori1 del settore in quell’anno e moltiplicando per cento, otteniamo il
numero di infortuni denunciati ogni 100 lavoratori.
Come si può vedere nella figura 1, si ha un calo del tasso infortunistico (infortuni denunciati) nel periodo considerato, passando da un 4,8% del 2007 ad un
3,4% del 2010 e 2011.
Fig. 1 – Andamento del tasso infortunistico nel settore vitivinicolo (2007-2011)
a
e
92
Elaborazione su dati Inail (Inail, 2013)
1
Non avendo il dato dei lavoratori per le voci tariffarie, l’Inail ha fornito le unità di lavoro/anno stimate sulla base della massa salariale che il datore di lavoro dichiara di pagare con riferimento alle lavorazioni svolte (comunicazione personale all’autore).
Ricerche
Fig. 2 – Tasso infortunistico nel settore vitivinicolo per regione (2007-2011)
a
e
93
Elaborazione su dati INAIL (INAIL, 2013)
Volendo analizzare il dato per regione, si sono calcolati i tassi percentuali degli
infortuni denunciati considerando gli infortuni totali nel periodo 2007-2011.
La cartina precedente (fig. 2) mostra che le regioni che hanno il tasso infortunistico più elevato sono l’Umbria e il Molise con un tasso compreso tra il 6% e il 9%.
A queste seguono le regioni del Centro Nord con Emilia-Romagna, Veneto, Abruzzo, Lombardia, Toscana e Lazio, con un tasso compreso tra il 4,1% e il 6%. La maggioranza delle regioni del Sud e le isole stanno in una fascia a basso tasso di infortuni, compreso tra 2,1% e 4%. Addirittura la Campania arriva a meno del 2%.
In questo gradiente Nord-Sud ci sono delle eccezioni come Liguria, Piemonte e
Friuli che si attestano tra il 2,1% e il 4% e addirittura il Trentino con un tasso intorno al 2%.
Un basso tasso di infortuni denunciati, tuttavia, non significa che ci siano pochi
infortuni ma, probabilmente, che in molte regioni la percentuale di omessa denun-
13-14/2013 Politiche contrattuali e lavoro
a
e
94
cia è maggiore. Una possibile spiegazione di questo fenomeno potrebbe essere la
perdita di giorni lavorativi per lavoratori che sono occupati stagionalmente, cioè per
brevi periodi all’anno, in regioni dove il problema occupazionale è più sentito.
Indagine di due gruppi di addetti al comparto vitivinicolo
di Puglia e Toscana
Metodo utilizzato
Lo studio è stato condotto tra i lavoratori di grandi aziende vitivinicole della provincia di Siena (Toscana) e Brindisi (Puglia).
Lo strumento di indagine utilizzato è stato un questionario che ciascun lavoratore arruolato nello studio doveva autonomamente compilare.
Le principali sezioni del questionario erano:
1. Informazioni socio-demografiche
Informazioni riguardanti l’intervistato: Anno di nascita, Sesso, Comune di residenza, Titolo di studio, Stato civile.
Informazioni sull’eventuale coniuge/convivente: Titolo di studio, Occupazione.
2. Vita lavorativa
Storia lavorativa e rapporto di lavoro attuale.
Mezzi usati per recarsi al lavoro.
Reparto di lavoro.
Strumenti di lavoro.
Mezzi di protezione utilizzati.
Fattori che costringono a lavorare in maniera disagevole.
Modalità di consumo dei pasti.
Igiene personale.
3. Stato di salute
Peso, Altezza.
Descrizione degli infortuni o malattie causate dal proprio lavoro.
Numero di figli e chi li accudisce.
Eventuali anziani/disabili accuditi.
Abitudine al fumo di sigaretta.
4. Domande aperte
Descrizione di eventuali problemi lavorativi.
I dati raccolti in forma cartacea sono stati inseriti su supporto informatico tramite la creazione di database Access di Microsoft® Office. L’analisi statistica è stata
effettuata con il software statistico Spss (vers. 10.1)©.
L’analisi statistica dei dati prevede il confronto tra i lavoratori pugliesi e toscani
sulla base delle diverse percentuali di risposta date ad ogni modalità assunta da ciascuna variabile.
Per una migliore interpretazione, i dati sono stati riportati in tabelle dove le modalità assunte da ciascuna variabile (intestazione delle righe) sono state incrociate
con la regione di provenienza (intestazione delle colonne).
L’interpretazione statistica è stata possibile grazie al test del chi-quadrato, che ci
indica se le percentuali di risposta ad una domanda sono significativamente diverse
tra i lavoratori delle due regioni. Laddove invece i dati consentivano di calcolare una
media tra i valori di una variabile nei due gruppi di lavoratori, la significatività statistica della differenza è stata valutata con l’Analisi della varianza (Anova) (per esempio l’età media nei gruppi toscano e pugliese).
Risultati
a
e
95
Lo studio è stato effettuato su 145 lavoratori: 99 (68%) pugliesi e 46 (32%)
toscani. Quindi, numericamente, i pugliesi arruolati sono stati il doppio dei toscani.
Tab. 1 – Distribuzione dei lavoratori per sesso nelle due regioni
Puglia
Donne
Uomini
Totale
Ricerche
Esprimere un parere sul fatto che le donne possano avere problemi maggiori nel
loro lavoro rispetto agli uomini.
n.
16
83
99
%
16,2
83,8
100,0
Toscana
n.
%
16
34,8
30
65,2
46
100,0
Come si può osservare dalla tab. 1, le donne sono percentualmente più presenti nel gruppo della regione del Nord (35%) rispetto a quella del Sud (16%). Questa differenza risulta significativa e bisognerà eventualmente tenerne conto nel commento delle successive tabelle.
Tab. 2 – Distribuzione dei lavoratori per classi d’età nelle due regioni
13-14/2013 Politiche contrattuali e lavoro
Classi d’età
a
e
96
20-29
30-39
40+
Totale
Puglia
n.
3
15
81
99
Toscana
%
3,0
15,2
81,8
100,0
n.
7
11
28
46
%
15,2
23,9
60,8
100,0
Anche per quanto riguarda la distribuzione per classi d’età (tab. 2), bisogna notare forti differenze: mentre tra i lavoratori pugliesi sotto i 30 anni ricade solo il 3%
degli intervistati, tra i colleghi toscani questa percentuale è del 15%. Una simile differenza si nota anche tra i lavoratori con età compresa tra i 30 e i 39 anni. I lavoratori sopra i 40 anni sono invece più numerosi nel gruppo pugliese. In definitiva quest’ultimo gruppo è costituito da una popolazione più anziana rispetto a quello dei
colleghi toscani, in maniera statisticamente significativa (età media tra i pugliesi =
46,8 anni; età media tra i toscani = 42,3).
Tab. 3 – Distribuzione dei lavoratori per stato civile nelle due regioni
Stato civile
Celibe/nubile
Coniugato/a
Convivente
Altro
Totale
Puglia
n.
8
80
5
5
98
Toscana
%
8,2
81,6
5,1
5,1
100,0
n.
14
20
6
5
45
%
31,1
44,4
13,3
11,1
100,0
Anche nella distribuzione per stato civile notiamo differenze statisticamente significative (tab. 3). La percentuale di celibi/nubili in Toscana (31%) è notevolmente più alta che in Puglia (8%); di contro, in quest’ultima, troviamo più lavoratori
coniugati: 82% contro il 44% della Toscana. Questo dato potrebbe essere influenzato dal fatto che in Toscana la popolazione è più giovane, ma costruendo tre tabelle, considerando di volta in volta solo i soggetti di ciascuna classe d’età, la situazione non muta in maniera sostanziale.
Tab. 4 – Distribuzione dei lavoratori per grado di istruzione nelle due regioni
Istruzione
Lic. elementare
Lic. media inf.
Lic. media sup.
Altro - laurea
Totale
Puglia
n.
17
58
22
2
99
Toscana
%
17,2
58,6
22,2
2,0
100,0
n.
0
27
15
2
44
%
0,0
61,4
34,1
4,5
100,0
Tab. 5 – Distribuzione dei lavoratori per tipologia di contratto nelle due regioni
Tipo di contratto
Part-time
Stagionale
Tempo pieno
Totale
Puglia
n.
3
81
13
97
%
3,1
83,5
13,4
100,0
Toscana
n.
1
31
14
46
%
2,2
67,4
30,4
100,0
La tab. 5 ci dice che il tipo di contratto più comune tra i lavoratori pugliesi è
quello stagionale (84%) come pure per i toscani, anche se in percentuale inferiore
(67%). Il lavoro più stabile sembrano averlo in percentuale maggiore i toscani, con
un 30% di occupati a tempo pieno contro solo il 13% dei pugliesi.
Tab. 6 – Distribuzione dei lavoratori per tipologia di occupazione
del coniuge/convivente nelle due regioni
Occupazione del
coniuge/convivente
Impiegatizia
Manuale
Pensione
Disoccupato/a
Totale
Puglia
n.
3
41
4
18
66
%
4,5
62,1
6,1
27,3
100,0
Toscana
n.
3
16
1
4
24
%
12,5
66,7
4,2
16,7
100,0
Naturalmente questa analisi è stata svolta solo su chi è coniugato/convive. Il lavoro impiegatizio è presente in percentuale maggiore tra i coniugi dei lavoratori toscani (13% vs. 5%); ma ciò che salta maggiormente all’occhio è l’alta percentuale
Ricerche
Sostanziali differenze si possono notare anche per quanto riguarda il grado di
istruzione (tab. 4).
In Toscana non esiste nessun lavoratore che abbia solo la licenza elementare,
mentre ciò avviene per il 17% in Puglia. Un’analisi stratificata per età ci fa vedere
che questi soggetti, con basso titolo di studio, stanno nelle classi d’età più vecchie,
quindi è più probabile che essi siano presenti nel gruppo pugliese dove la percentuale di «anziani» è maggiore. Il grado di istruzione medio-superiore è più presente
in Toscana (34% vs. 22%). Esiste inoltre un soggetto laureato in ognuna delle due
realtà regionali.
Per avere un quadro della situazione economica famigliare dei lavoratori coniugati delle due regioni abbiamo considerato tre informazioni raccolte con il questionario: il tipo di contratto attuale, il lavoro dell’eventuale coniuge/convivente e il numero dei figli.
a
e
97
13-14/2013 Politiche contrattuali e lavoro
a
e
98
di disoccupazione tra i coniugi dei lavoratori della regione meridionale (27%) rispetto a quelli della regione centro-settentrionale (17%).
L’ultimo parametro considerato è il numero medio di figli tra i coniugati. Nel
gruppo dei lavoratori pugliesi il numero medio di figli è di 2,2 contro l’1,6 dei lavoratori toscani. Questa differenza risulta statisticamente significativa ed evidenzia
come i lavoratori pugliesi abbiano più figli (non conosciamo però quanti di questi
siano in età da lavoro, cioè da poter produrre un reddito). Le tre variabili considerate fanno supporre che le famiglie dei lavoratori pugliesi abbiano un rapporto entrate/uscite in termini finanziari minore dei colleghi toscani.
Dal grafico sottostante (fig. 3) si può notare come le percentuali di utilizzo dei
Dpi siano maggiori, quasi per ogni dispositivo, tra i lavoratori toscani. In particolar
modo differenze statisticamente significative si osservano nell’uso di: tuta/divisa
(Puglia: 13%; Toscana: 72%), mascherina (Puglia: 15%; Toscana: 44%), scarpe antinfortunistica (Puglia: 64%; Toscana: 98%), cuffie (Puglia: 22%; Toscana: 57%),
tappi auricolari (Puglia: 3%; Toscana: 57%), stivali rinforzati (Puglia: 12%; Toscana: 30%) e pantaloni rinforzati (Puglia: 1%; Toscana: 9%). Possiamo immaginare
che molte di queste differenze possano essere dovute a differenti modi di operare o
di strumenti a disposizione, come può far pensare la pronunciata differenza, per
esempio, nell’uso di tappi auricolari. Le rimanenti differenze sono invece probabilmente da attribuire ad una diversa cultura della prevenzione o forse a minori possibilità di investimento in questo campo da parte dei datori di lavoro pugliesi rispetto a quelli toscani.
Fig. 3 – Percentuale di utilizzo
dei Dispositivi di Protezione Individuale nei due gruppi regionali
Tra i disagi lavorativi maggiormente dichiarati (fig. 4) ci sono quelli climatici e,
tra quelli che mostrano differenze significative nelle percentuali di risposta, ci sono
il caldo (Puglia: 22%; Toscana: 44%) e il freddo (Puglia: 15%; Toscana: 41%). Tra
i fattori di disagio più strettamente ergonomici abbiamo «l’alzare pesi» che è significativamente più sentito in Toscana (Puglia: 3%; Toscana: 48%), come pure il «lavorare a terra» (Puglia: 13%; Toscana: 26%).
Ricerche
Fig. 4 – Percentuale di disagi lavorativi
maggiormente dichiarati nei due gruppi regionali
a
e
99
Anche in questo caso sono i lavoratori toscani a denunciare un numero di disagi
maggiore. Mediamente ciascun soggetto intervistato ha dichiarato 1 disagio in Puglia e 3 in Toscana (differenze statisticamente significative). Questo potrebbe essere
dovuto ad una certa diffidenza nel confessare i propri disagi. D’altro canto se analizziamo questa differenza tra uomini e donne, indipendentemente dalla regione di
provenienza, sono queste ultime a dichiarare un numero maggiore di disagi (mediamente: donne 2 disagi; uomini 1 disagio). Se andiamo nel particolare però lo
«stare in piedi» è stato indicato dai due generi nelle seguenti percentuali: 40% dalle donne; 12% dagli uomini (differenza statisticamente significativa). Il «camminare» invece è stato maggiormente dichiarato dagli uomini (19% contro il 9% delle
donne). Queste differenze di genere potrebbero essere dovute alle diverse mansioni
svolte o ad esigenze biologiche diverse tra uomini e donne.
Si passerà ora ad analizzare il tipo di infortuni che hanno colpito le persone intervistate. Non si faranno divisioni regionali, poiché il numero non è sufficiente per
fare analisi statistiche ma si commenteranno nel loro insieme. Si deve sottolineare
però che quasi il 20% dei toscani ha denunciato di aver subito un infortunio contro solo il 10% dei pugliesi.
13-14/2013 Politiche contrattuali e lavoro
Fig. 5 – Percentuale di infortuni lavorativi maggiormente dichiarati
a
e
100
Dal diagramma a torta (fig. 5) appare molto chiaro come l’infortunio più comune sia la caduta (9 casi) seguito dall’essere colpiti da un oggetto (4 casi). Nel questionario è stata data la possibilità anche di descrivere altri infortuni non elencati
nella domanda a risposta multipla. Da questi commenti è scaturito che tre soggetti
pugliesi erano stati colpiti all’occhio da un corpo contundente che aveva leso loro la
pupilla. Dai dispositivi di protezione usati (fig. 3) notiamo che uno dei pochi Dpi
che vengono più usati tra i lavoratori pugliesi rispetto ai toscani sono gli occhiali di
protezione (non conosciamo in quale lavorazione). Questo potrebbe derivare da
una maggiore sensibilizzazione dovuta ai tre infortuni all’occhio occorsi tra i lavoratori pugliesi?
Consideriamo ora lo stato di salute dei due gruppi di lavoratori. Per fare questo
useremo il Bmi (body mass index), ossia l’indice di massa corporea, un punteggio
sulla propria salute (da 1 = pessimo a 5 = ottimo) stimato dallo stesso lavoratore e
l’abitudine al fumo.
Tab. 7 – Distribuzione dei lavoratori
per categoria di indice di massa corporea nelle due regioni
Indice di massa
corporea
Normale
Sovrappeso
Obesità
Totale
Puglia
n.
29
51
17
97
Toscana
%
29,9
52,6
17,5
100,0
n.
19
23
2
44
%
43,2
52,3
4,5
100,0
Da questa tabella (tab. 7) possiamo notare come esista un 18% di lavoratori obesi tra i pugliesi rispetto al 5% dei toscani.
Tab. 8 – Distribuzione dei lavoratori
per punteggio dato alla propria salute nelle due regioni
1
3
4
5
Totale
Puglia
n.
1
5
23
66
95
Toscana
%
1,1
5,3
24,2
69,5
100,0
n.
0
3
18
21
42
%
0,0
7,1
42,9
50,0
100,0
I lavoratori pugliesi in percentuale maggiore (70%) hanno dato un punteggio
massimo alla propria salute, mentre i toscani solo nel 50% (tab. 8). La percentuale
di intervistati che ha dato come punteggio 4 o 5 (salute buona o ottima) si equivale nei due gruppi ed è pari al 93%.
Per quanto riguarda la percentuale di fumatori nei due gruppi, in quello pugliese è del 28%, mentre in quello toscano raggiunge il 41%, cioè una differenza statisticamente significativa. In entrambe le realtà comunque la percentuale di fumatori è più alta della media nazionale.
Nella prima delle due domande aperte si è chiesto ai lavoratori quali fossero i
maggiori problemi riscontrati nel proprio lavoro. Pochi hanno risposto a questa domanda, quindi le risposte congiunte maggiormente date ribadivano un po’ quello
detto per i disagi (il camminare troppo, il clima ecc.). Il più delle risposte date però considerava come problema principale lo stress (3 risposte) o la fretta (4 risposte)
e come conseguenza di ciò alcuni di questi lavoratori hanno detto che a risentirne
era il prodotto finale considerato di scarsa qualità.
Nell’ultima domanda veniva chiesto, sia ai lavoratori che alle lavoratrici, se le
donne avessero più problemi degli uomini nel loro lavoro e in ogni caso di motivare la risposta con un commento.
Il 16% delle intervistate (composto dalle sole 5 donne toscane) e il 17% degli
intervistati hanno detto che le donne hanno più problemi degli uomini. I problemi
più ricorrenti erano: il conciliare lavoro e famiglia, gli sforzi fisici e la mancanza di
servizi igienici.
Quest’ultimo problema dei servizi igienici carenti si accorda bene con le risposte date ad una domanda del questionario che chiedeva quali servizi igienici questi
lavoratori avessero a disposizione (tab. 9).
Ricerche
Punteggio salute
a
e
101
13-14/2013 Politiche contrattuali e lavoro
Tab. 9 – Distribuzione dei lavoratori per tipologia di servizi igienici
a disposizione nelle due regioni
a
e
Servizi igienici
Bagno/doccia
Bagno/parti scoperte
Gabinetto
No
Totale
Puglia
n.
8
5
4
67
84
%
9,5
6,0
4,8
79,8
100,0
Toscana
n.
29
3
1
7
40
%
72,5
7,5
2,5
17,5
100,0
Come si può vedere, quasi l’80% dei lavoratori pugliesi non ha a disposizione
nei pressi del luogo di lavoro nemmeno il semplice gabinetto, contro il 18% dei toscani. Questi ultimi inoltre dicono di avere a disposizione anche bagni con doccia
(73%) contro solo il 10% dei pugliesi.
Inoltre dalla fig. 6 si evince proprio che chi mangia sul posto di lavoro in percentuale minore si lava le mani prima dei pasti «sempre» rispetto a chi ha la possibilità di consumarli a casa.
Fig. 6 – Proporzione di lavoratori che si lavano le mani prima dei pasti
a seconda del luogo dove vengono consumati
102
Conclusioni
Da questa analisi sui due gruppi di lavoratori si può concludere quanto segue.
Il lavoro nel comparto vitivinicolo è un’importante fonte di sostentamento soprattutto per i lavoratori pugliesi, dove esiste una buona percentuale di famiglie mo-
Commento
Le possibili azioni che si potrebbero intraprendere in questo settore, dove le due
realtà studiate sono state l’esempio per mettere in mostra alcune carenze di questi
luoghi di lavoro, possono essere diverse.
Innanzitutto occorrerebbe promuovere più corsi di formazione per i lavoratori
più deboli, come i lavoratori stagionali, che spesso, proprio per la loro condizione
precaria, difficilmente si riesce a reperire per farli partecipare. Questo probabilmente favorirebbe l’uso più assiduo e corretto dei Dpi.
Per quanto riguarda le denunce degli infortuni, è chiaro che esiste un sommerso che non viene denunciato all’Inail. Quindi, oltre a sensibilizzare di più i lavoratori e i datori di lavoro, forse andrebbero riviste dagli enti competenti anche le procedure di denuncia.
Anche per quanto riguarda la salute si potrebbe fare molto nei luoghi di lavoro, specialmente per l’abitudine al fumo: molti studi confermano che i corsi per
smettere di fumare, promossi suoi luoghi di lavoro, tendono ad avere maggiore
successo.
In ultimo abbiamo visto come le condizioni igieniche siano precarie per molti
lavoratori del vitivinicolo che lavorano nei vigneti, come del resto per tutti i lavoratori in agricoltura. Queste condizioni risultano ancora più inaccettabili per una
donna. A tal fine bisognerebbe pensare di introdurre l’uso dei bagni igienici mobili da poter portare nei luoghi di lavoro più remoti.
Ricerche
noreddito (27% di disoccupati tra i coniugi/conviventi dei lavoratori). Inoltre i contratti dei lavoratori toscani sono in maggior percentuale a tempo pieno e quindi più
stabili.
Tra i lavoratori toscani abbiamo una maggiore percentuale di donne che tra l’altro denunciano con maggiore frequenza i propri disagi lavorativi.
L’uso dei dispositivi di protezione individuale è più frequente tra i lavoratori toscani. Tuttavia è tra questi che viene denunciata la maggior percentuale di infortuni, confermando in qualche modo i dati dell’Inail (Cartina degli infortuni nell’Introduzione).
Lo stato di salute sembra buono in entrambe le realtà per quanto dichiarato dai
lavoratori. In Puglia, però, c’è una maggiore proporzione di lavoratori obesi e in Toscana c’è un’alta percentuale di fumatori.
Per quanto riguarda le condizioni igieniche, si è visto che per i lavoratori pugliesi
c’è una grossa carenza dei servizi igienici primari. Questo viene anche confermato
dal fatto che il semplice lavarsi le mani prima dei pasti avviene più raramente se si
consuma il pasto in azienda rispetto a chi lo consuma a casa.
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13-14/2013 Politiche contrattuali e lavoro
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Sommari dei numeri precedenti
N. 1/2010
Presentazione, F. Farina.
Monografia | L’agricoltura e la nuova Pac verso il 2013.
M. D’Alessio, Introduzione; La riforma dell’Health Chech; La riforma dell’Ocm vitivinicolo; La riforma dell’Ocm ortofrutta; Partenariato e approccio integrato: il contributo delle Organizzazioni sindacali allo sviluppo rurale 2007-2012.
N. 2/2010
Presentazione, F. Chiriaco.
L’analisi, A. Pepe, I congressi di svolta della Cgil; F. Farina, Le costellazioni contrattuali.
Monografie, A. Di Stasi, Dalla cittadinanza del lavoro all’apartheid dei diritti; M.
D’Alessio, Il lavoro migrante per la competitività dell’agricoltura italiana; F.F., I
dannati della terra; E. Olivieri, Schiavismo nel XXI secolo; C. Cesarini, L’essenziale è invisibile agli occhi.
Temi, G. Girolami, I giovani e la pensione: istruzioni per l’uso; L. Svaluto Moreolo, I
giovani italiani e l’emancipazione dalla famiglia.
Documentazione, A. Stivali, Immigrazione e lavoro.
N. 3-4/2010
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione, la qualità del lavoro e la centralità del territorio; A. Pepe, Il sindacato e la contrattazione in una prospettiva storica.
L’analisi, P. Di Nicola, Management e organizzazione nell’impresa contemporanea; M.
D’Alessio, La contrattazione, l’azienda agricola e gli aiuti comunitari; D. Pantini,
La filiera agroalimentare in Italia.
Temi, F. Assennato, Contrattazione e qualità degli ambienti di lavoro.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, La salute delle donne e il lavoro agricolo.
Documentazione, F. Farina, Il sapere, il saper fare e il saper essere.
Recensioni.
Abstract.
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13-14/2013
N. 5-6/2011
Presentazione, La redazione.
Temi, F. Farina, Distretti agroalimentari e contrattazione territoriale; M. D’Alessio,
I distretti nell’industria alimentare italiana; D. Pantini, Nuovi scenari per l’agricoltura italiana; O. Cimino, Il lavoro salariato nell’agricoltura italiana: un’analisi sintetica.
L’argomento, A. Pepe, L’unità d’Italia tra Europa e trasformazione degli Stati nazionali.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, I bambini e i rischi ambientali in agricoltura.
Recensioni.
Abstract.
a
e
106
N. 7/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, La contrattazione aziendale nell’industria alimentare; A. Pepe, L’accordo interconfederale del 28 giugno in una prospettiva storica.
Temi, M. D’Alessio, Il lavoro forestale e le normative regionali in Italia; G. Mattioli,
Energia ed agricoltura.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Il rischio infettivo tra i lavoratori dell’agroalimentare.
Memoria, M.L. Righi, Ricordo di Nella Marcellino.
Abstract.
N. 8/2011
Presentazione, La redazione.
L’argomento, F. Farina, Intervista a Stefania Crogi.
Temi, F. Farina, La contrattazione collettiva in azienda; A. Pepe, Caratteri e trasformazione del modello organizzativo della Cgil; D. Pantini, L’approvvigionamento
agricolo nell’era della scarsità e i possibili impatti per l’industria alimentare.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Integratori alimentari: possiamo fidarci
degli antiossidanti?
Recensioni.
Abstract.
N. 9-10/2012
Presentazione, Franco Chiriaco.
Monografia | Tesseramento e sindacato
L’argomento, S. Crogi, Contrattazione rappresentanza proselitismo.
Temi, I. Galli, Tesseramento e politiche organizzative, F. Farina, Tesseramento e politiche rivendicative, A. Pepe, Sindacalizzazione e tesseramento, M.P. Del Rossi, Il modello inglese, S. Cruciani, Il «caso francese» tra culture politiche e relazioni industriali (1895-1995), P. Borioni, Il modello scandinavo, M.P. Del Rossi, Il modello
tedesco.
L’analisi, A. Borello, La riforma della Politica comune della pesca: gli effetti socioeconomici di breve periodo.
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà Talamanca, Salute e lavoro delle donne nel settore
agroalimentare: risultati di un’indagine sul campo.
Segnalazioni e recensioni.
N. 11/2012
Presentazione, La redazione.
Monografia | Piano del lavoro e contrattazione
L’argomento, S. Crogi, Piano del lavoro e politiche rivendicative.
L’analisi, M. D’Alessio, L’occupazione nella crisi economica: quali evoluzioni nell’agroalimentare?
Temi, F. Farina, Occupazione, orari di lavoro e produttività; F. Loreto, Le politiche della Cgil contro la disoccupazione.
Ricerche, A. Pepe, Il collocamento in Italia in una dimensione storica.
Documentazione, M.P. Del Rossi, La Cgil e l’occupazione (Appendice documentaria).
Rubrica: Lavoro e salute, I. Figà-Talamanca, Che cosa sappiamo sui possibili effetti sulla salute dell’uso dei telefoni cellulari?
Segnalazioni e recensioni.
N. 12/2012
Presentazione, La redazione.
L’argomento, S. Crogi, Per un nuovo mercato del lavoro in agricoltura.
L’analisi, M. D’Alessio, Evoluzione del collocamento e mercato del lavoro in agricoltura.
Conoscenze, F. Abbrescia, Il mercato del lavoro in Puglia, F. Tassinati, Il mercato del
lavoro in agricoltura.
Temi, E. Pedrazzoli, Ingresso nel mercato del lavoro e modifiche delle tutele dei lavoratori - Legge n. 92/2012.
Rubrica: Lavoro e diritti, C. Cesarini, Discriminazione sindacale: note a margine della sentenza della Corte d’Appello di Roma del 19/10/2012.
Segnalazioni e recensioni.
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a
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ae 13-14/2013
| agricoltura | alimentazione | economia | ecologia |
agricoltura | alimentazione
economia | ecologia
MONOGRAFIA
EDIZIONI
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ae 13-14/2013
POSTE ITALIANE SPA SPEDIZIONE IN A.P. D.L. 353/03 (CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46) ART. 1 COMMA 1 ROMA AUT. N. C/RM/47/2012 - AE AGRICOLTURA ALIMENTAZIONE ECONOMIA ECOLOGIA - N. 13-14-2013
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ISSN 2036-9948
Rivista trimestrale della FLAI CGIL
Politiche contrattuali e lavoro
■ Le politiche contrattuali,
il lavoro e i lavoratori
■ La crisi italiana nell’Europa tedesca:
per una nuova diplomazia economica
e sindacale
agricoltura | alimentazione
economia | ecologia
■ Il negoziato e la struttura contrattuale
■ La contrattazione collettiva
del settore agricolo.
Tra passato e futuro
■ Le Organizzazioni dei produttori:
una nuova prospettiva contrattuale?
■ Condizioni di sicurezza e d’igiene
nel vitivinicolo: due realtà toscane
e pugliesi a confronto
EDIZIONI
LARISER