la follia della la follia della cappella a cappella

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la follia della la follia della cappella a cappella
LA FOLLIA DELLA CAPPELLA
Quei frammenti archeologici sintomi di una
malattia mentale
Cocci di uno scavo archeologico è meglio osservarli riuniti in una
stessa camera di museo, a Galatina. È nella cappella dove sono stati
sorpresi con le mani nel sacco. Lungi dal Latrodectus, sospeso lo
psicofarmaco, la sintomatologia riemergeva. La ritualità aveva mimetizzato una patologia. Priva di musica e danza, la malattia slatentizzava e appariva per la sua natura neuropsichiatrica. Non siamo di
fronte ad un fenomeno culturale erroneamente diagnosticato come
malattia mentale. De Martino ha presentato una malattia mentale
secondo lui erroneamente sottovalutata come abitudine culturale. È
sempre pernicioso trattare l’analogia come similitudine o, peggio
ancora, come equivalenza.
Non doveva essere malattia al punto che, nemmeno di fronte
ad un’eclatante sintomatologia descritta dallo stesso de Martino pur di
natura delirante allucinatoria, uno psichiatra poté essere messo alla direzione dell’équipe che richiedeva, per autoreferenzialità, un Etnologo
e uno Storico delle religioni, professioni corrispondenti ad un medesimo personaggio. Intanto sul biglietto da visita di Luigi Stifani era
scritto: “dottore di tarantismo”. E non aveva ragione? Certamente una
ragione diversa da quella di de Martino ma sempre ragione aveva.
D’altra parte, per l’autore di quel monumento alla Psichiatria, il Tarantolismo ritornava, dopo una dichiarata opposizione a quell’ipotesi,
ad essere solo una diversa malattia o solo una malattia la cui interpretazione scovava una causa in fattori diversi dal veleno d’un ragno. Se
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nella teoria interpretativa dello Storico delle religioni, sospesa la ritualità musicale-coreutica, la sintomatologia appariva nella sua verità di
natura neuropsichiatrica, allora Stifani, con le sue somministrazioni
musicali, doveva essere posto in analogia con lo psichiatra che vedeva
slatentizzare la malattia se non controllata dallo psicofarmaco.
Ingannati da una simulazione, al punto che era loro apparsa espressione di una sintomatologia clinica, mi chiedo com’è che tutti gli
studiosi del Tarantolismo precedenti non avevano nemmeno lontanamente intuito la necessità, anche quando dubbiosi, di andare a sorprendere i simulatori lì dove il loro inganno non si sarebbe potuto più
nascondere. Forse solo per il fatto che non disponevano ancora di un
modello che consentiva loro di interpretare la ritualità musicalecoreutica in analogia col meccanismo dello psicofarmaco. D’altra parte è solo negli anni Cinquanta che si ha una svolta, tutt’ora galoppante,
con i neurolettici ed è del ‘59 quello che appare il debutto da parte di
de Martino di un’interpretazione, con molta probabilità, sottesa
dall’idea di un’analogia tra il meccanismo ad intermittenza dello psicofarmaco e quello della ritualità musicale-coreutica che, una volta
sospesa, non era più risolutiva del “tarantismo”. Questa volta siamo
proprio nelle illazioni del delirio.
Negli anni Cinquanta, dalla scoperta della Clorpromazina fino
al 1958 con la scoperta dell’Aloperidolo, la Neuropsichiatria, differenziatasi dalla Psichiatria come Neurologia solo negli anni Settanta,
incominciava a galoppare sui neurolettici evidenziando molto spesso
un meccanismo dello psicofarmaco definibile ad interruttore: durante
la somministrazione la sintomatologia veniva controllata dal farmaco
sospeso il quale la malattia, e comunque la sintomatologia, si evidenziava in tutta la sua pregnanza. Tale fenomeno lasciava concludere
che senza il farmaco la malattia ritornava, evidenza che rappresentava
la consapevolezza della Neuropsichiatria a partire dagli anni Cinquanta. La cappella di Galatina sembra allora un momento in cui, utilizzando un modello analogico di pensiero, il “tarantismo”, ormai privato della funzione di controllo e latentizzante attribuibile alla ritualità
musicale-coreutica, poteva essere osservato nella sua essenza di malattia mentale slatentizzata. Con lo stesso meccanismo il quesito slatentizza la malattia dell’interpretazione.
L’indagine di Galatina che, descritta come ricerca in campo,
appare dall’andamento poliziesco e supportata da uno strumentario alla verità del quale nessuno avrebbe più potuto sfuggire, è una delle più
importanti tappe nell’acquisizione di prove contro il Tarantolismo e
contro quella farsa giunta ormai a soluzione come vecchi, lontani e irrisolti delitti finalmente presi in mano dalla Scientifica. La verità scaturita da quell’indagine andava ad aggiungersi e a completare, assieme
ad un’altra più antica verità rimasta solo in germe, un quadro che, svelato e dichiarato il movente del delitto, avrebbe composto, senza possibilità di difesa alcuna, un retablo di definitiva provata verità e la
smitizzazione finale, oltre che la inappellabile condanna, del Taranto-
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lismo. In verità all’appello pochi difensori si sarebbero visti presentare. D’altra parte quella di de Martino appare interpretazione convincente al di là della nostra meno che provocatoria e delirante curiosità.
Come se de Martino, dopo aver accusato il reato, avesse anche tappato
la bocca a tutti i passati come ai potenziali futuri difensori o come se,
emanata quella sentenza, se non attirati dalla sua parte, avesse lasciato
tutti senza la pur minima possibilità d’appello. Come il salvatore che
tutti aspettavano, quello capace di venire a rompere la non più sopportabile tensione d’un giudizio sospeso rispetto alla Tarantola che, ormai
defunta, sembrava inquietasse gli animi più di quando era in vita, con
un vero e proprio senso del rimorso che chissà se de Martino non abbia voluto tacitare.
«I protagonisti sorpresi in cappella dall’obiettivo fotografico
erano “tarantati” (…) molti di loro avevano celebrato nei rispettivi
domicili un rito singolare: mediante il vibrante simbolismo della musica, della danza e dei colori si erano sottoposti all’esorcismo della
taranta, il cui morso immergeva in un mortale languore o in una disperata agitazione senza orizzonte.» (1)
I “protagonisti”; di che cosa? Erano, quegli «eccentrici personaggi delle fotografie» di André Martin, i protagonisti delle scene che
si svolgevano a Giugno nella cappella di San Paolo e che indicavano,
ritenute segno, una delle battute d’arresto nel progresso della civiltà
cristiana che, alla fine, era quello che allo Storico delle religioni interessava: capire in che cosa l’impero del Cristianesimo avesse sbagliato
al punto da venire rallentato anche da un fenomeno molecolare come
il “tarantismo” che rappresentava una difficoltà nella pratica
dell’omogeneizzazione imperiale.
Una chiara consapevolezza: «Avevano celebrato nei rispettivi
domicili un rito singolare.» Quando? Se «La scena della cappella di
Galatina si configurava pertanto come un rottame» e se «avevano celebrato» sono espressioni che rimandano ad un passato anche remoto,
evidentemente de Martino sta parlando del «rottame» di un rito ormai
finito, non più presente nel Salento, risalente ad un lontano ma indimenticabile passato e del quale i tarantolati rappresentano residui cocci. Così «avevano celebrato nei rispettivi domicili» si riferisce certamente ad un lontano evento del quale le scene della cappella rappresentano ritrovati archeologici di un fenomeno che fu. Dove meglio si
evidenzia il senso del ritrovato archeologico è lì dove dice: «il morso
della taranta poteva per un verso essere interpretato in senso realistico, come morso di un aracnide velenoso, per esempio il latrodectus
tredecim guttatus», ma il Latrodectus non c’entrava niente. Infatti,
poiché i comportamenti dei tarantolati mostravano, a lui, dei richiami
«a scelte culturali definite, a simboli mitico-rituali», lo portavano anche alla conclusione che il ragno realistico non c’entrasse nulla. Tale
conclusione, che rappresenta già il contenuto e il corpo della premessa
1
) - E. DE MARTINO, La terra del rimorso; 2009; p. 52.
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ipotesi di de Martino, realizza un taglio netto dal Latrodectus della cui
presenza però, proprio per il cenno che ne fa, dimostra consapevolezza
come del pericolo della sintomatologia legata alla sua puntura. Se allontana il sospetto dal Latrodectus, nonostante abbia chiaro che la
Lycosa non sia in grado di provocare quella sintomatologia denunciata
da Tarantola, siamo portati a pensare che o l’Etnologo non conoscesse
la sintomatologia della sua puntura, che non avesse valutato l’affinità
clinica tra i sintomi da sempre riportati nel Tarantolismo con quelli del
Latrodectus, pure essi conosciuti, o che il sospetto sul nero ragno acinoso non gli avrebbe consentito la strutturazione di quella sua interpretazione come a lui serviva. Un’altra possibilità può essere che, ritenendo di starsi trovando di fronte a ritrovati archeologici, questi, per
lui, niente possono avere di attinenza con il Latrodectus che rimane
così tagliato fuori dal fenomeno sia sincronicamente che storicamente.
Scartato il Latrodectus, questa volta è fatta: bisogna andare aprioristicamente a sorprendere i “protagonisti” attraverso una incontestabile
testimonianza. Non più solamente l’occhio, naturalmente sempre fallibile, di de Martino ma l’occhio, testimone veritiero, dell’obiettivo fotografico e dell’obiettivo della cinepresa. Questa volta parla la macchina il cui occhio è, e non può essere diversamente, «obiettivo». Che
poi de Martino traduca, col suo occhio, quello che quell’obiettivo obiettivamente gli racconta sembra essere cosa solo di poco conto. Nella cappella l’Etnologo vede un comportamento attraverso il quale finalmente può svelare la vera realtà di quei sintomi e l’inganno di quei
miserabili che ogni anno, col pretesto della malattia, mettono in scena
quell’arcaica vergogna non ulteriormente sopportabile. Ormai i Tarantolati non possono più impunemente nascondere i loro sintomi di natura neuropsichiatrica. I “protagonisti”, da de Martino “sorpresi”, in
passato si erano sottoposti all’esorcismo della “taranta”. Come si poteva essere posseduti dal demonio, così quelli dovevano essersi sentiti
posseduti dalla Tarantola che immaginavano di potere scacciare sottoponendosi al vibrante simbolismo della musica, della danza e dei colori.
Dov’era avvenuto l’esorcismo? A seconda. Per Maria di Nardò, residuo archeologico pure lei che, assieme a Pietro, diviene il pilastro dell’interpretazione de martiniana, avviene ancora nella sua abitazione, accompagnata da musica e balli che fanno da contenitore di una
ritualità e da mascheramento di una patologia. Normalmente anche per
tutti gli altri era avvenuto a casa; per tutte le altre diverse Maria: non
solo perché era una malattia, una di quelle che era meglio nascondere
finché si poteva, ma anche perché era proprio il focolare domestico
che aveva assunto storicamente la funzione di set e setting per quella
che veniva vissuta come una funzione rituale terapeutica.
Se Maria è assunta da de Martino a prototipo d’esempio, non
per capire e spiegare ma per interpretare al mondo intero il fenomeno,
si vede che il suo deve certo essere considerato un comportamento simile a quello di tutti gli altri Tarantolati che, se nelle loro abitazioni,
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avevano fatto quello che faceva Maria nella sua, quando si trovavano
in cappella dove, secondo de Martino, volevano continuare
l’esorcismo, senza la copertura e la protezione della musica si sarebbero svelati per quello che realmente erano.
La danza di Maria di Nardò, che de Martino ha voluto minuziosamente descrivere, riporta gli stessi moduli coreutici osservati da
altri autori precedenti? Perché andare a cercare l’esorcismo lì dove aveva capito che non si poteva esprimere?
Nell’occasione della cappella, dove de Martino, come in un
film, aveva sorpreso loro, i “protagonisti” nascosto dietro i tendoni
della cantoria come una vera e propria spia di regime, nessun esorcismo né alcuna ritualità terapeutica potevano ormai avvenire. Infatti de
Martino non cercava l’esorcismo in cappella ma andava a ricercare
proprio in quel posto sapendo che in quello spazio l’esorcismo, specie
di gruppo, non era stato possibile nemmeno quando erano ancora consentite musica e danza; proprio sapendo che stava andando lì dove,
impossibile il rito terapeutico, avrebbe trovato persone che si muovevano, agivano, si comportavano all’interno di una ritualità ormai monca, a cui mancava la parte più importante della terapia; sapendo che in
quel posto, come raccolti in un museo, avrebbe trovato i cocci che
normalmente erano sparsi per il territorio. Anche i pezzi da museo, se
ci danno idea di una vita non più a noi presente, non esprimono più
quella vita. Sono pezzi importanti ma, estrapolati dalla situazione che
hanno vissuto, di questa raccontano solo una parte. Non mi è così facile pensare che un medico, che volesse osservare un paziente portatore
di una cardiopatia, di una pericardite, di una tubercolosi o di un’altra
malattia infettiva, lo va a cercare, per osservarne la sintomatologia e la
terapia, presso il tempio di Santa Rosalia, su monte Pellegrino di Palermo, lì dove i fedeli svolgono le funzioni di richiesta di una grazia o
mentre vanno a ringraziare la Santa per una grazia ricevuta. Mentre
svolgono le loro ritualità diverse a seconda del tempo e della cultura
d’appartenenza. De Martino è andato in cappella non a caso ma sapendo che lì, quel comportamento aveva tutte le potenzialità per essere interpretato come a lui serviva o semplicemente come lui credeva
dal punto di vista della storia religiosa del Sud. Di questa sua intenzione è proprio il verbo che ce ne parla, il verbo «sorprendere»: «sorpresi»! E non solo dai suoi occhi, ma: sorpresi dall’obiettivo fotografico. Che cosa c’era da andare a sorprendere in quella ritualità? C’era,
da sorprendere. Perché per de Martino, in quella cappella, si stava recitando, meglio che Capacelli, una farsa; si stava raccontando una bugia. Lì, i tarantolati uomini e donne, e loro famiglie, stavano sceneggiando un inganno. Quella occasione non esaltava la varietà degli individui, della vita comunitaria, della vita stessa ma, prima di ogni altra
cosa, esprimeva una difficoltà nel processo totalizzante e totalitario
del Dominio: una non diagnosticata sintomatologia della malattia del
Potere.
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Questo per poter concludere, con la sua grande scoperta sincronica, che quei Tarantolati, da lui osservati in cappella, dove la sintomatologia era priva del contenitore garantito da musica e balli, se
indagati a casa loro, nelle stesse condizioni in cui li stava osservando
lui in cappella, e cioè senza l’accompagnamento della ritualità occultante, sarebbero stati scoperti e osservati per quello che realmente erano: “tarantati”, ovvero malati psichiatrici. Aveva così squalificato il
Tarantolismo sia sincronicamente sia diacronicamente, quindi storicamente, oltre che i tarantolati. Ormai l’interpretazione di Galatina diventava modello d’interpretazione di tutto il Tarantolismo. Quando de
Martino, entrando nella casa della gente, faceva recitare ai tarantolati
il ballo, le movenze, i ritmi senza musica, cosa stava facendo se non
andarli a scovare, a sorprenderli nelle loro case, dove quel momento
di recita, di simulazione, rappresentava quella imitazione e solo quella
poteva rappresentare, che avveniva fuori dal contesto della funzione
rituale terapeutica? Stava entrando nelle case con un pretesto ma anche con il presupposto di andare a cercare la follia in casa loro. La
stessa cosa che potrebbe avvenire se chiedessimo ad un paziente che
ha sofferto di infarto di imitarci la sintomatologia di un attacco di cuore, a chi a sofferto di ictus d’imitarci quella di un ictus, o la sintomatologia della sua tubercolosi a chi s’è spaccato il petto tra un’atroce tosse. È così improbabile che la forzatura di un’imitazione richiesta e
provocata appaia veramente come un comportamento troppo artefatto
e delirante per concludere che quell’artefatto sia il delirio allucinatorio
dei tarantolati e non il delirio di onnipotenza d’un ricercatore?
C’era proprio bisogno di ricorrere a un così ingannevole stratagemma per capire che, presupposto già come una questione Neuropsichiatrica, quel processo complesso, dalla puntura alla guarigione, se
smembrato nei suoi vari elementi e componenti, ad altre conclusioni
non poteva portare che a quelle già cristallizzate in premessa?
De Martino questo poteva capirlo benissimo, ma tutta
quell’operazione a lui serviva per dire: vedete ho scoperto i falsari con
le mani nel sacco. Operazione giustificata da un metodo definito
d’équipe ma della quale si autoinveste direttore e dall’introduzione
dell’obiettività dell’obiettivo che però deve passare dalla sua reinterpretazione. Tutto qui?
La stessa cosa sarebbe potuta avvenire con Maria di Nardò. Fino a quando Maria balla a casa sua, dove la danza, accompagnata dalla musica, propone il suo senso di pratica rituale terapeutica, non lascia trapelare, camuffandola, la sua follia incapsulata dal contenitore
coreutico musicale; quando la stessa o un’altra Maria, come altri pazienti a lei simili, si fosse trovata in cappella, qua, priva del controllo
di musica e balli, si sarebbe scoperta per quello che realmente è: si sarebbe evidenziata per la sua finzione mostrandosi nella sua simulazione; si sarebbe scoperta quindi come cosa da Psichiatria. Ancora una
volta, l’Etnologo fu veramente fortunato: con Maria trova l’occasione
di minuziosamente descrivere il rito terapeutico del Tarantolismo
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mentre, nello stesso tempo, quel caso, gli serviva per affermare il “tarantismo”. Quella spedizione, oltre a rappresentare un laboratorio,
sembrava fosse stata costruita in laboratorio con tutti i requisiti necessari a quell’interpretazione; proprio così come serviva a de Martino.
Quell’interpretazione stava ballando al ritmo dell’analogia. Un
ritmo possibile in quegli anni e non prima. Sembra che il rito entri in
rapporto analogico con lo psicofarmaco, per cui: sotto il controllo dello psicofarmaco rituale, una Maria appariva in un modo, controllata,
ritmata, regolata; quando, invece, veniva osservata in cappella, dove
l’effetto del rito-esorcismo-psicofarmaco era assente, fuori controllo
dello psicofarmaco, si scopriva nella sua reale essenza di malata mentale. I comportamenti osservati e disvelati degli autori protagonisti di
quell’inganno, sorpresi in cappella venivano così interpretati come
sintomi di malattia psichiatrica, a quel punto da deferire alla Psichiatria. Se uno di quelli scoperti era folle in cappella, folle lo doveva certamente essere anche a casa sua e anche se sotto controllo della terapia. E se un tarantolato era folle nel ‘59 perché non doveva esserlo anche uno o due secoli prima?
In tale diagnosi, la danza rituale di Maria Nardò, comunque interpretata e qualsiasi ne fosse l’origine, non era di alcun significato se
non come il comportamento di una pazza che in quel rito aveva trovato l’equivalente di un suo equilibrio farmacologico. De Martino a Maria Nardò arriva solo dopo aver rivalutato quel germe di verità, già anticamente scoperto ma rimosso o sotterrato. Se quella del Pontano poteva essere solamente un’interpretazione fatua, come tante, tant’è vero
che, come lo stesso Etnologo nota, fu abbandonata perdendo così di
motivo fino a non riuscire mai ad acquisire un valore euristico significativo per la conoscenza del fenomeno, de Martino riprende e riporta
quella che poteva sembrare un’interpretazione senza respiro e gli dà
ossigeno, la rivitalizza e la riattualizza accogliendola come quel “germe di verità” nei confronti del quale si assumerà l’impegno di sviluppare un albero enorme e possente. Mi piacerebbe sapere con quale
processo di lavorazione i dati acquisiti a casa di Maria, durante
l’osservata e registrata ritualità terapeutica, siano stati trasformati da
de Martino in dati necessari e contribuenti ad alimentare quel germe di
verità a robusta pianta.
Ecco la strategia per scoprire l’esistenza della malattia psichiatrica. Questa c’era; bisognava solo scoprirla e mostrarla. Quella che,
fino a quel momento, s’era nascosta e celata sotto gli elementi della
ritualità, ora faceva la sua comparsa e si disvelava in cappella quando
e dove proprio la privazione della musica e della danza aveva avuto
funzione slatentizzante la malattia mentale. Un procedimento semplice. Una cosa era dire: quel comportamento che vediamo in cappella
appare da Psichiatria, quindi malattia mentale, in quanto elemento decontestualizzato da un complesso molto più ampio che, quando osservato nella ritualità terapeutica, sarebbe comprensibile come comportamento tradizionale, culturale, al di là dell’interpretazione delle cau-
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se. Esito che avrebbe voluto dire che certe abitudini comportamentali
culturali possono apparire ed essere ancora diagnosticate come follia
anche quando non lo sono; condizione che certamente non richiederebbe a nessun titolo l’intervento della Neuropsichiatria né di una diagnosi psichiatrica. Un’altra cosa è dire: quel comportamento che, nella
ritualità del casolare, accompagnato, camuffato e regolamentato da
musica e danze e che sembrava una terapia contro il veleno della Tarantola, anche perché in tal modo era stato sempre descritto, in realtà è
un comportamento da ricondurre alle attenzioni della Neuropsichiatria. Conclusione che, certamente per de Martino, ha richiesto, a titolo di
nascondimento di una non più sopportabile vergogna, l’intervento della Psichiatria e di una diagnosi psichiatrica.
De Martino, a dimostrazione della correttezza di quella diagnosi, porta il comportamento delle stesse persone sorprese in cappella dove a lui appaiono per quello che realmente sono: malati mentali.
Infatti, è solo in cappella il posto e il momento dove lui pensa di poter
dimostrare che, privata del complesso sistema di copertura camuffante
di musica e danze, che invece si poteva ritrovare nel casolare, la malattia si slatentizzasse, non avendo più modo di camuffarsi, tale che
quel comportamento sarebbe emerso come vera e propria sintomatologia psichiatrica. In tal modo conduce un’operazione veramente raffinata, non per dimostrare, come si era proposto, che era scorretto avere interpretato quei fenomeni come malattia e come malattia mentale,
ma per dimostrare propriamente, e al contrario, che quel comportamento, che popolarmente e non solo, poteva sembrare atteggiamento
ed espressione di abitudine culturale in una forma di assistenza e terapia contro la puntura di Tarantola, era invece un comportamento che
celava una malattia mentale camuffata e della quale rappresentava
l’elemento sintomatologico; una malattia latente sotto la scenografia,
l’influenza, il controllo di musica e danze e con l’inganno della Tarantola. Da deferire alla Psichiatria. Una malattia che, nata da una conflittualità psicologica irrisolta, trova orizzonte di risoluzione, quindi di
controllo, nella ritualità della “taranta”, la quale, se da un lato era stata interpretata come terapia della puntura di ragno, dall’altro, per scoprirla nella sua vera essenza, le si doveva togliere proprio la copertura
del rituale terapeutico che in qualche modo, controllandola, la camuffava rendendone impossibile una corretta visione e diagnosi.
Per lo Storico delle religioni l’orizzonte unico di risoluzione
della malattia nata dal conflitto psicologico sarebbe la via della Tarantola; il percorso verso cui si indirizza il tarantolato per risolvere il conflitto psicologico irrisolto che lo stressa e lo inquieta fino alla scelta
coattiva del ragno. Un problema per l’interpretazione avrebbe potuto
essere rappresentato dal motivo di quell’orizzonte unico come un indirizzo e una direzione mossi da una coazione a ripetere. Se alla base
dello scalpitante conflitto psicologico irrisolto si poteva ammettere
una serie di concause diverse per ogni individuo, tutti gli individui
della Puglia che vivevano una situazione conflittuale, per risolvere
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uno scalpitante conflitto dovevano fuggire non dalla Tarantola ma nella Tarantola, rifugio che manifestavano con una sintomatologia tutta
particolare. Ma per il pensatore non fu un problema. Anzi, prima che
lo potesse diventare, trovò quella soluzione che, a dire di esperti filosofi, gli avrebbe permesso di cavarsela magnificamente. D’altra parte
non si può però sostenere che il problema sia risolto quando pone gli
stessi quesiti. Se, alla fine, quel conflitto è risolto, la Tarantola che,
ormai scoperta, è rimasta solo “taranta”, ha acquisito la funzione di
terapia, ma non ancora propriamente di farmaco. Evidentemente il tarantolato deve essere un malato, la condizione del conflitto urente una
malattia mentre la pratica del “tarantismo”, riguardante questa volta
non tutto il fenomeno ma la componente rituale, deve avere funzione
di una terapia. Allora è la stessa costruzione del discorso a riflettere
tutte le componenti della logica psichiatrica. Detto in altri termini,
quando il “tarantato” assumeva la sua terapia (il “tarantismo”) questa,
nel simbolismo della Tarantola diventava risolutiva (orizzonte di risoluzione) per quella malattia data dalla situazione di conflitto psicologico irrisolto.
Di che cosa sta parlando, ne La terra del rimorso, se non di
malattia mentale?
In una interpretazione che nel fenomeno del “tarantismo” individua un ostacolo al processo di espansione del Cristianesimo, quale
funzione assume la Psichiatria?
Un preciso meccanismo si era delineato negli anni Cinquanta
con la scoperta dei neurolettici: la malattia osservabile sotto terapia,
durante l’assunzione del neurolettico, e la malattia osservata fuori dalla terapia. In relazione a tale meccanismo, quelli che avevano osservato i pazienti prima di de Martino li avrebbero guardati durante la terapia e il processo terapeutico che, depistando le indagini, consentiva
solo un certo tipo di lettura; mentre de Martino li va a scoprire lì dove
non è più possibile il controllo della terapia, senza la quale dovevano
apparire per quello che erano. Deve allora andare ad indagare i pazienti lì dove la terapia era stata ormai bandita e lì dove ne avrebbe potuto
osservare diversi radunati nello stesso tempo e nello stesso spazio sia
nella stessa occasione. Siamo negli anni Cinquanta e già quasi Sessanta. Tale scelta appare allora sottesa da quella che si evidenzia quale
nuova consapevolezza psichiatrica relativa ai nuovi ritrovati psicofarmacologici: la sostanza psicoattiva riesce a controllare la malattia. I
suoi sintomi possono essere tenuti sotto controllo dalla sostanza. Un
neuropsichiatra che avesse osservato un paziente sotto effetto della sostanza non sarebbe stato certo in grado di porre corretta diagnosi. Sotto il depistaggio della sostanza, della quale s’era evidenziata la capacità di apportare una modifica e un cambiamento rilevabili nella componente somatica, e che ormai aveva acquisito il senso di riconosciuta
terapia, la malattia non scompariva ma rimaneva solo latente, non manifesta a livello somatico, camuffata. L’interruzione, anche momentanea della terapia, lasciava emergere la persona nella sua malattia e
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questa in tutta la sua sintomatologia. Senza la terapia la malattia non
ritornava, perché non se n’era mai andata, ma slatentizzando si manifestava in tutte le sue componenti sintomatologiche. La sostanza psicoattiva, somministrata con speranzoso successo negli ospedali in cui
veniva sperimentata, consentiva ormai di impostare un discorso che,
pur nella sua provvisorietà, descriveva il concetto del meccanismo
dell’interruttore che caratterizzava la relazione tra persona e sostanza.
La sostanza psicoattiva stava funzionando secondo il meccanismo
dell’interruttore; antidolorifici, anestetici, neurolettici, funzionavano
secondo il ritmo latenza/evidenza: la sua assunzione era capace di latentizzare la malattia, sospendere, anche temporaneamente, la sintomatologia che si slatentizzava e ritornava ad essere evidente quando la
sostanza veniva, anche solo momentaneamente, sospesa. Si era acquisita la consapevolezza di una terapia che, in rapporto alla malattia della quale era cura, funzionava ad interruttore; consapevolezza a cui verosimilmente può ispirarsi un nuovo modo di vedere quello che fino
ad allora era stato chiamato “Tarantolismo” e che da ora in poi, inserito in tale meccanismo come “tarantismo”, è ritenuto quale terapia di
una malattia ormai interpretata in pieno come malattia mentale. Il
meccanismo, secondo l’Etnologo precedentemente non compreso, del
“tarantismo” veniva ora interpretato attraverso l’ormai rilevato meccanismo della terapia psicofarmacologica. Se il meccanismo è quello
dello psicofarmaco, ecco perché i tarantolati si devono andare a trovare e ad indagare in cappella dove ormai è stata bandita ogni possibilità
di terapia coreutico-musicale. Allora nella cappella, verosimilmente,
de Martino stava portando la consapevolezza di un nuovo sapere psichiatrico anche se psichiatra non era. Era lì che i Tarantolati, sventati
dall’obiettivo, potevano essere individuati nella nuova categoria di
“tarantati”, equivalente a malati mentali di competenza della Psichiatria e non certo dei musici. Tale meccanismo, dove gli allucinati del
ragno non si rivolgevano ancora alla Psichiatria, non poteva essere
comprovato con l’utilizzo della sostanza ma andava studiato ricorrendo all’analogia, ormai possibile, tra psicofarmaco e “tarantismo”; a
quell’analogia che dichiarava i “tarantati” come malati mentali e il
“tarantismo” terapia in analogia alla sostanza psicoattiva. Cosa si stava dicendo di diverso se non che la funzione, ormai retrograda e vergognosa, del “tarantismo”, da quel momento doveva essere assunta
dalla sostanza psicoattiva, quindi dalla Psichiatria?
Poiché i tarantolati ancora non si erano rivolti alla Psichiatria,
né questa andava ancora a prelevarli a casa loro, non erano quindi sotto controllo psicofarmacologico, de Martino, quel meccanismo, nel
1959, non può evidenziarlo in ospedale, ma intuisce che c’è
un’occasione che gli si offre senza sforzo alcuno: andare a scovare i
tarantolati in cappella dove capisce che, quella usuale serie di comportamenti squinternati, magari esagerati, agitati, che comunque sono
quelli della sceneggiata, spudorata e cieca fede, esasperati, angosciati,
comunque visibili anche in altri luoghi sacri, può, sotto l’impulso del
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sapere riguardante il funzionamento dei nuovi ritrovati farmacologici,
essere interpretata come il sintomo della slatentizzata malattia mentale. Bella l’interpretazione, se l’inquietudine degli interrogativi non la
venisse perentoriamente a conturbare. La sintomatologia non si evidenziava tutto l’anno. La malattia ricompariva a Giugno. La terapia
rituale, dalla cappella, non era stata sospesa a Giugno del 1959. Né de
Martino ci fa sapere di una terapia presente tutto l’anno a controllo dei
sintomi. Sembra allora che quell’ipotetica analogia con il meccanismo
dello psicofarmaco, che avrebbe potuto aprire uno spiraglio
sull’interpretazione, non abbia piedi per camminare mentre il ragno
continua a saltare, imperterrito e beffardo, sui suoi falangi. Allora a
Giugno era la malattia che, senza il governo della ritualità, ormai sospeso tanti anni prima, slatentizzava e la sintomatologia che ritornava?
Ma lui aveva trovato la malattia, aveva capito che il “tarantismo” ne
era terapia; l’altro passo era l’interpretazione della via della Tarantola
attraverso la “taranta”. Il calvario della Tarantola che affida
all’interpretazione tra Etnologia e Storia delle religioni. L’ipotesi analogica va messa ancora alla prova dell’equivalenza e dell’evidenza.
Oggi più che mai, la minaccia che ancora in tanti psichiatri rivolgono al paziente, in una visione più neurologica che psichiatrica
della sofferenza mentale, è che senza psicofarmaco la malattia ritorna. Se quella era malattia mentale, la via della Tarantola con funzione
di orizzonte di risoluzione doveva certo essere interpretata in analogia
con la funzione dello psicofarmaco. Sono molti ancora gli psichiatri
che dichiarano la necessità di prescrivere e assumere gli psicofarmaci
a vita, perché, sospeso lo psicofarmaco, la malattia ritorna. Per carità,
loro numeri guardano. In tal modo, l’occasione de martiniana della
cappella di san Paolo, da un lato può sembrare essere posta in relazione alle evidenze psichiatriche degli anni Cinquanta, dall’altro,
l’anticipazione delle conclusioni psichiatriche odierne. Fuori dalla ritualità terapeutica il comportamento dei Tarantolati sembra non assimilato ma identificato con la sintomatologia psichiatrica; era sintomo
di malattia mentale. Era lì che, in un processo analogico,
s’incominciava a ragionare sull’effetto della sospensione dello psicofarmaco rituale. La finzione della ritualità coreutico-musicale poteva
essere interpretata come una funzione farmacologica che riusciva a
controllare, fino a nascondere, la follia; interrotto il controllo, quella
che era sembrata puntura di Tarantola, ritenuta controllata nel suo delirio allucinatorio dalla ritualità, si slatentizzava nella sua realtà di sintomatologia psichiatrica. Il senso era che, in cappella, dove s’erano
sospesi l’effetto e l’efficacia del controllo esercitato dalla ritualità con
funzione psicofarmacologica, la malattia faceva la sua ricomparsa; ritornava. Quella interpretata slatentizzazione diventò un fattore considerato positivo, in quanto, da un lato svelava l’inganno del Tarantolismo denunciato, dall’altro rappresentava, dal punto di vista di de Martino, un passaggio obbligato verso la soluzione psichiatrica della componente sociale del problema del Tarantolismo. In un tale ordine del
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discorso, l’analogia, mediata da un modello di meccanismo, sembra
servire non per meglio comprendere un fenomeno, quindi chi lo viveva, ma, violentata ad equivalenza, è usata per la squalifica di un comportamento e la propaganda della Psichiatria che rappresentava la
Modernità agli interessi del Capitale dai ritmi accelerati e futuristici.
S’erano scoperti i poteri della Clorpromazina, il primo antipsicotico a essere sintetizzato nei primi anni Cinquanta del secolo scorso
(2). Il comportamento dei folli della cappella, interpretato come delirante e allucinatorio, sfuggito ormai al controllo della ritualità terapeutica, poteva, da quel momento in poi, essere deferito alla Psichiatria e
riportato sotto il controllo della Clorpromazina e, meglio ancora, del
Serenase, espressione di modernità anche se tutto ciò significava sotto
il controllo psichiatrico e manicomiale. Lo psicofarmaco andava a sostituire, almeno nella logica psichiatrica, quella che per millenni era
stata la funzione di miracoloterapia e della terapia coreutico-musicale
del Tarantolismo e del “tarantismo”. Se la ritualità terapeutica aveva
mascherato la malattia e controllato la sintomatologia, ormai era la sostanza che, nell’interpretazione, aveva assunto la funzione del rituale.
Quel “tarantismo” come una sostanza? L’ago della bilancia era rappresentato da un registro interpretativo, titolare del quale era de Martino che, in un’anelante tensione alla Modernità, la poneva al servizio
della Psichiatria. Tale scelta manicomiale s’accompagnava alla critica
rivolta, da un lato, al fatto che, in relazione alla Modernità capitalistica
e delle Utilità, giudicava la risposta che quelle donne trovavano alla
propria sofferenza ormai arcaica, fuori moda e ancora rispondente ad
un passato culturale che stava sgretolandosi, per non dire che era situazione di cui vergognarsi; dall’altro, al fatto che quelle donne si ostinavano, in una pratica autogestionaria della propria salute, a credere
d’essere state punte dal ragno e a credere che l’allearsi un po’ con la
stessa Tarantola, un po’ con il Santo le potesse aiutare nella guarigione; mentre ormai, in quanto segno di modernità, doveva essere accettabile e da preferire non il “dirsi esaurite o depresse”, (3) perché nessuno la diagnosi di esaurito e depresso la rivolge a se stesso, ma
l’essere diagnosticate “esaurite o depresse”, cosa diversa, diagnosi,
rintracciabile nella nosografia psichiatrica, la cui titolarità era, già allora, del neuropsichiatra che l’aveva creato.
Tutta quell’operazione a de Martino serviva per allontanare dai
suoi turbati sogni la Tarantola che non gli dava tregua. Aveva trovato
una malattia mentale ma era assillato non solo dalla giornaliera conturbante presenza del ragno, non solo dalla compulsiva domanda del
perché della Tarantola, non solo dalla difficoltà di poter legare una Tarantola reale al delirio allucinatorio della “taranta” psichiatrica ma
anche dal turbinante lavorio interpretativo teso a concludere che i fal2
) - Dopo la Clorpromazina, nel 1958, Paul Janssen, in Belgio, aveva scoperto
l’Aloperidolo, un neurolettico.
3
) - Cfr. a proposito di Beneduce, 2013, Giovanni Pizza, Il tarantismo oggi.
Carocci editore, Roma, maggio 2015; p. 122.
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sari che aveva scoperto con le mani nel sacco, erano non solo quelli
del suo tempo ma erano anche i simulatori di tutti i tempi.
Cosa avrebbe detto delle balene rinvenibili morte, numerose,
sulle spiagge del Pianeta?
Per de Martino c’era bisogno di un tale castello interpretativo
come quello de La terra del rimorso. Per dimostrare la validità della
conclusione in premessa, con un comportamento che sarebbe perfino
inappropriato definire schizofrenico, doveva squartare il fenomeno del
Tarantolismo fino a far sì che, pezzo per pezzo, come pezzo del tutto
era quello della cappella, privato del senso complessivo, potesse rientrare in una diagnosi psichiatrica della quale perfino lo stesso Jervis,
specializzando in Psichiatria, si dichiarò non convinto. D’altra parte,
però, si doveva pur capire come far sì che l’espansione della civiltà
cristiana potesse superare certe battute d’arresto. (4)
Prima aveva tagliato fuori la Tarantola dal Tarantolismo. Questa volta, con un ulteriore squartamento, aveva tagliato, separato, scotomizzato il vissuto delirante e allucinatorio da ogni legame con la realtà oggettiva circostante l’individuo e consistente nella sua relazione
giornaliera col ragno velenoso. «I miei osservatori mi hanno considerato soltanto dal punto di vista delle loro “norme” limitate. I medici
hanno fatto a pezzi il mio corpo.» De Martino in uno scritto intitolato
Considerazioni sul mio essere malato, critica i suoi osservatori per averlo considerato «a pezzi e bocconi». (5) Certamente una modalità
d’osservazione e di trattamento da macellaio quella di chi squarta gli
individui e li vende pezzo per pezzo. Una tecnica dello squartamento
come quella che de Martino aveva messo artisticamente in campo per
squartare il fenomeno del Tarantolismo dalla cui complessità, ridotta a
pezzi e bocconi e dissolta, aveva voluto, prima, distillare quella parte
che destinò alla Neuropsichiatria per poi concludere che era stato tutto
il fenomeno, così come storicamente a lui e a noi pervenuto, una questione di delirio allucinatorio la cui funzione era stata quella di una
battuta d’arresto dell’imperialismo cristiano.
Lì, il territorio circostante, in una secolare prevaricazione di
classe su classe e di individuo su individuo, sottesa dalla scelta
dall’unico Dio tangibile garantito dalla relazionalità di Dominio, preferita all’inesauribile fonte della relazionalità empatica proposta dalle
inutilità della vita, era arido deserto e lì la luttuosa lotta quotidiana era
non contro il rischio della perdita della presenza e nemmeno contro il
rischio della perdita della vita ma contro la reale e quotidiana morte
per assassinio. Lì, il distillato, dopo tutto, era proprio quella parte, la
migliore di un fenomeno millennario; quella che rappresentava la capacità dell’individuo di autogestire la propria vita e la propria salute.
Lì, dove, dopo millenni di Dominio e di poteri alternantisi come avvoltoi accaniti sulla carcassa dell’individuo, ancora negli anni Cinquanta, anche Cristo s’era dovuto fermare.
4
) - Cfr. De Martino, 1961; p. 31.
) - Giovanni Pizza, Il tarantismo oggi. Op. Cit.; pp. 162-163.
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Nel frattempo, mentre de Martino dal Tarantolismo aveva distillato il “tarantismo”, la Tarantola cosa stava facendo? Questo che
sembrerebbe un quesito appropriato invece non lo è. Infatti l’Etnologo
non separa il “tarantismo” dal Tarantolismo, che altro non avrebbe significato che porre in atto una diagnosi differenziale tra il vero e
l’imitato fenomeno. De Martino dichiarò tutto il fenomeno, storicamente, come “tarantismo” in cui il ragno figurava solamente come
forma, immagine, idea, simbolo, delirio.
Non riesco però a pormi dalla parte di de Martino per il quale
di nessuna compatibilità potrebbe essere la mia vicinanza. Rimane
un’eclatante sintomatologia, espressione di una sostanziosa e sostanziale componente clinica che m’invita a rimanere ancora dalla parte
della Tarantola e dei tarantolati, andandoli a ritrovare nella denunciata
sintomatologia per la quale, Tarantola o meno, era un ragno velenoso
ad essere chiamato in causa in una millennaria condizione umana che,
oltre ad essere ferita dal naturale metabolismo della Terra, si vedeva
ancora perseguitata dalla quotidiana tragedia di una relazionalità di
classe e di Potere e ancora colpita e ferita dalla terrorizzante sventura
d’un obolo di ragno velenoso.
Gaetano Bonanno
(Palermo 27 Ott. 2015)
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