È finita. È andata male, per me intendo. Lui mi ha appena

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È finita. È andata male, per me intendo. Lui mi ha appena
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È finita. È andata male, per me intendo. Lui mi ha appena
detto: «Senti, non stiamo più insieme.» Lapidario, proprio
come una pietra che ti arriva in testa, non ha proferito una parola in più, lui ha il dono dell’essenzialità. Sicuro di sé, del tutto
indifferente alla ferita che mi stava infliggendo: a me sola resta
la commozione, l’incredulità e il lamento, non a lui che indossa
quello sguardo ironico, persino allegro. Sbatto un po’ le ciglia,
balbettando: «Va bene.» Lui sembra sollevato, solo ora mi concede un sorriso un po’mesto come forse si deve in un momento così solenne, e pronuncia la frase fatidica: «Allora, amici.»
Annuisco, ma mi volto in fretta, senza prendere la mano
tesa che mi offre. Amici un accidente. Io ero la tua ragazza,
non vedo perché cadere nel patetico ruolo di quella che si è
rassegnata a essere l’amica comprensiva e un po’tonta, pur di
starti accanto e sperare in un ripensamento, nell’accensione di
una nuova scintilla.
Invece, ecco la storica decisione: mi prendo un anno sabbatico dai ragazzi. Prima che mi scorrano le lacrime di umilia13
zione sulle guance infuocate, ho deciso che per quest’anno
chiudo il cuore. Come mi ha detto, lui, prima delle cinque fatali parole? Che sono troppo buona, troppo semplice: acqua fresca. Le lacrime scendono giù a rivoli, mi inondano il mento,
mi bagnano la gola: come si fa a dire che il tuo problema è
quello di essere buona, un’anima candida? Gli auguro di trovarsi presto una sadica che lo tormenti con tutte le pene d’amore possibili, ma mentre spedisco con rabbia questo pensiero al suo indirizzo, le lacrime diventano un fiume in piena e
sono scossa da singhiozzi: perché non sono stata all’altezza?
Perché non sono stata abbastanza spavalda, misteriosa e cattiva da tenerlo legato a me? Mi precipito da Erica, perché in
queste condizioni, così stravolta, non posso tornare a casa:
rischierei l’interrogatorio.
Lei trova tutti gli epiteti peggiori per definirlo, furiosa. Ma
lei è la mia migliore amica: non potrebbe che giudicare un verme chi mi fa soffrire. Poggia con delicatezza la sua testa accanto alla mia, dopo che mi sono soffiata vigorosamente il naso e
mi sono data una ripulita al viso bagnato. Sento che tutti quegli improperi che io non avrei avuto il coraggio di pensare mi
hanno fatto bene.
«Non devi partire in quarta, perché sbatti la testa: è matematico.»
Mi sembra di sentire le parole criptiche di un oracolo.
Emetto un sospiro, e lei prosegue con una specie di analisi del
mio caso disperato: «Te la prendi troppo a cuore, ti butti subito a corpo morto con un ragazzo e quello se ne approfitta, ti
tratta come uno zerbino.»
Mi vedo schiacciata sul pavimento, e lui che mi passa sopra
con quelle scarpe da ginnastica abbastanza luride: un’immagine che mi disgusta. «Io sono fatta così» mi difendo, debolmente.
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«Ma non per tutto, a scuola non ti fai mettere i piedi in
testa.» Si è scostata un po’, mi guarda. Le ciglia aggrottate le
increspano l’alta fronte: «Solo con questi tipi. Con quelli particolarmente vermosi. Ma che aveva poi, di carino?»
Lo vedo come in un’istantanea sfocata. A dir la verità non
riesco a evidenziare che dei particolari: i capelli biondi inanellati di cui va così fiero, il naso piccolo come quello di una
ragazza, i jeans con il risvolto, le scarpe sempre sporche, infangate, come se emergesse ogni giorno da una palude. Nell’insieme, lo trovavo molto carino. Ci siamo baciati tre volte.
«Ho deciso che mi prendo un anno sabbatico» rivelo, con
gravità. La fronte di Erica si spiana, le sopracciglia schizzano
in alto: «Che cosa?»
«Un anno sabbatico, si chiama così un anno di pausa.»
Lei mi guarda preoccupata, si porta una mano sulla guancia: «Orca! Aquattordici anni hai già deciso di andare in pensione.»
Sì, ritirarmi. Sono già stufa, sembra che le questioni d’amore siano battaglie, bisogna inventare strategie, sapersi
difendere, attaccare quando è il momento, sferrare il colpo
finale e conquistare il campo. È un po’presto per tirare le somme, ma gli ultimi due anni sono stati segnati da una triste
sequenza di sconfitte.
Non sono brava a fingere. Il mio primo tentativo, quel tizio
nervoso dello scorso anno, mi ha detto papale che avevo troppo la faccia da brava ragazza, e lui voleva solo storie di sesso.
Erica scoppiò a ridere, anche se io ero mortificata: «Quel buffone! Ma è pazzo? Nessuno l’ha avvertito che non siamo in
una fiction americana? E che lui non è un modello che vive a
Manhattan?»
Il secondo tentativo era quel ragazzo al mare, con cui cam15
minavo sulla riva mano nella mano come si vede nei film
romantici. Era più grande di me, e mi trattava come si può trattare un cucciolo, con quella delicatezza che hai per gli animaletti cui lisci il pelo, carezzi piano le orecchie e bisbigli nomignoli graziosi. Pensavo che fosse il tipo giusto, così attento e
dolce, ma è sparito appena se n’è andato dal campeggio: ti chiamo, mi aveva promesso tutto suadente, ma non ha mai chiamato né risposto ai miei messaggi. Qualcuno mi ha raccontato
che aveva una ragazza e mi ha fatto capire che io ero quella con
cui uscire giusto quei quindici giorni di villeggiatura. L’animaletto che si lascia sui bordi dell’autostrada, insomma.
Il terzo è quello per cui sto frignando come una stupida:
quello con la erre moscia, che ho conosciuto a una cena da
amici dei miei. Una serata che si prospettava una gran barba.
Invece, era apparso lui, con quelle scarpe infangate sul bel tappeto persiano di sua madre, con quei jeans sporchi che strofinava con gusto sul divano damascato, con quell’aria strafottente in casa sua, come fosse stato nel covo di acerrimi nemici
e volesse dargli fuoco.
Mi ha rapita: vieni, mi ha bisbigliato, strizzandomi l’occhio e indirizzandomi un sorriso assassino, la mano tesa verso di me che me ne stavo seduta sulla poltroncina di vimini
sul terrazzo, impacciata dalla maglia troppo stretta che
pareva stritolarmi in vita e la gonna che non voleva saperne
di rimanere incollata sui fianchi e saliva verso la pancia, costringendomi a tirare in continuazione la stoffa verso il basso. Perché avevo indossato la gonna? Colpa di mia madre,
che aveva tanto insistito, ma io avrei preferito un paio di
jeans sdruciti come quelli di Jacopo, il pirata che mi stava
tendendo la mano e mi cingeva la vita, strappandomi da quella stupida poltrona mentre furtivamente mi davo un’aggiustata alla gonna.
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Corriamo nel giardino della villa, ridendo per il buio, l’eccitazione della fuga, la complicità. Mi sussurra cose che non
ricordo, perché l’euforia si è impossessata di me. Rido di tutto
quel che mi dice: alla poca luce riflessa dalla villa, scorgo i suoi
occhi che scintillano per la fierezza di essere brillo. Quando mi
bacia, sa di fumo e di vino, un sapore amaro che cerco di ignorare, mentre mi stringo con tenerezza a lui. «Stiamo insieme?»
chiedo puerilmente, e lui scoppia a ridere.
Quando l’ho chiamato la mattina dopo, pareva confuso, ma
ha accettato di vedermi dopo qualche giorno. Io ero già infatuata, ne ho parlato a tutte le mie amiche, gli inviavo messaggini e
squilli, ma Jacopo rispondeva raramente. Ai nostri appuntamenti arrivava visibilmente seccato, e per i primi dieci minuti quasi non proferiva parola. Camminavamo accanto, per strada, io
ridevo per qualunque cosa dicesse, come la prima volta, alla
fine lui è sbottato: «Non sai far altro che ridere?» Alla mia espressione sconcertata e delusa, mi ha detto, calmandosi: «Senti Rachele, io non sono quello che ti aspetti.»
Siamo usciti tre volte in tutto, lo ammetto che è un po’poco
per definire qualcosa tra due persone. Però ci sono stati dei baci, la mia testa poggiata sulla sua spalla, le mani allacciate. La
meravigliosa sensazione di una persona vicina, che per un
prezioso istante è tutta per te, rivolta a te. Poi quell’attimo svanisce di colpo, e lui mi guarda come soppesandomi e mi domanda, in tono infastidito: «Ma tu in che mondo vivi?»
Solo ora capisco che ho rappresentato giusto un breve diversivo, una piccola occasione dentro quella festa a cui era
obbligato a partecipare dai suoi detestati genitori. Ero l’occasione più a portata di mano: le altre ragazze erano più grandi
e più scintillanti di me, ci voleva molto più che una mano tesa
e una strizzata d’occhio per farle correre come lepri. Ma io non
lo sapevo, forse venivo dal paese delle fiabe dove succede
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sempre che il principe tenda una mano, fissi i tuoi occhi, e
quando ti bacia è amore eterno.
Ho bisogno di svegliarmi in fretta da queste fantasticherie:
un anno sabbatico è proprio quello che ci vuole per traslocare
dal mondo delle illusioni e mettere su casa, con calma, su questa terra.
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