Capitolo terzo Mezzogiorno e mezzogiorni
Transcript
Capitolo terzo Mezzogiorno e mezzogiorni
Capitolo terzo Mezzogiorno e mezzogiorni Esiste ancora il Mezzogiorno? La domanda attraversa il dibattito politico e culturale italiano da quasi vent’anni. Su questo tema la discussione si è articolata, divisa, contrapposta, anche in modo un po’ farisaico. Spesso non attento al merito della questione. Il Mezzogiorno esiste perché c’è un’area di questo Paese accomunata da due o tre elementi negativi. Ad esempio il deficit di funzionamento delle istituzioni, legato alla qualità scadente del ceto politico. Poi una pesantissima questione ambientale: parte del territorio è stato completamente devastato. Ancora, la presenza della criminalità organizzata in alcune Regioni del Meridione. Una presenza talmente pervasiva da interessare anche le aree contigue a quelli che sono gli insediamenti classici delle organizzazioni mafiose in Sicilia, Calabria e parte della Campania. Se si considerano questi tre elementi, innegabilmente esiste una questione meridionale. Se invece si guarda all’economia e alla sua crescita, il Mezzogiorno come area omogenea non esiste più almeno dagli anni Ottanta. Altre correnti di pensiero riconducono però la questione meridionale a un problema generale di mancata crescita. A un divario con le altre macroaree del Paese. Ad esempio la Svimez continua a sostenere con grande tenacia l’ipotesi di un divario generalizzato, secondo una corrente di pensiero che parte addirittura dall’inizio del Novecento. Il concetto di divario appartiene alla dottrina del «meridionalismo classico», che spiega l’evoluzione italiana nel quadro di due sistemi economici sostanzialmente separati. Uno dei quali ha una funzione per così dire «servente» nei confronti del principale. Questa separazione avrebbe prodotto per un lungo periodo una condizione in cui gli indici economici fondamentali – 57 PIL, dotazione infrastrutturale, situazione occupazionale – avrebbero teso a divaricarsi sempre più. La teoria del divario ha un suo fondamento, è una delle grandi teorie del meridionalismo italiano1. Anche se probabilmente non è più così semplice definire due sole macroaree nel Paese, almeno dalla nascita di un mercato nazionale comune, che in Italia avviene insieme al miracolo economico, negli anni Cinquanta-Sessanta. Resta comunque il dato di fatto di un Paese che è cresciuto a due diverse velocità, che ha visto lo sviluppo industriale in due aree delimitate, Nordest e Nordovest della penisola, che non è riuscito a rispettare i progetti di crescita del Mezzogiorno. Detto questo, il Sud è grande e non è tutto uguale, ci sono aree con livelli di crescita superiori ad altre. Il punto debole della teoria del divario è che interpreta il Mezzogiorno come un tutt’uno. Un errore ormai ampiamente riconosciuto dalla saggistica economica e dalla stessa pubblicistica meridionalista. Il problema è che dalla definizione del quadro generale dipendono le politiche che possono essere messe in atto. Se si interpreta il Sud come un’area con poche differenze al suo interno, può essere attuata un’unica strategia d’azione. Ben diverso il caso di politiche basate su un’analisi che delinea diverse aree all’interno del Mezzogiorno. Esiste il Mezzogiorno ed esistono i mezzogiorni. L’affermazione è meno contraddittoria di quel che potrebbe sembrare a prima vista. Esiste il Mezzogiorno come macroarea del Paese che soffre di più, rispetto alle questioni istituzionali, rispetto al rapporto con il territorio. Anche se su quest’ultimo punto – quello della tutela ambientale – ci sono ormai ampie zone di sofferenza anche al Nord. I fenomeni di degrado ambientale seguono quella che Leonardo Sciascia2 definiva con grande efficacia la «linea della palma», nel 1 La produzione saggistica sul tema non si arresta. Anche nel 2011 per i tipi di Rubettino è uscito un volume sul tema. D. Vittorio, P. Malanima, Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011, Soveria Mannelli 2011, che si apprezza in particolare per l’appendice statistica. 2 Così ne Il giorno della civetta parlando di mafia e di scandali regionali: «Forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia […] A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno». 58 senso di un’«africanizzazione» del territorio. Per meglio dire una desertificazione – alle spalle della palma c’è il deserto – che amplifica gli effetti degli agenti atmosferici. Negli anni Sessanta Sciascia non poteva immaginare quel che sarebbe stato discusso nei summit mondiali in questo secolo, però osservava già il pericolo provocato dallo sfruttamento del territorio e dal suo conseguente degrado. Lo scrittore e intellettuale siciliano si riferiva più alla mafia che al dissesto idrogeologico, ma la sua elaborazione era comunque lungimirante nell’individuare gli effetti deleteri dello sfruttamento incontrollato di un territorio. Basti pensare alla speculazione edilizia, un fattore che ha assunto una valenza nazionale. Da questo punto di vista oggi non siamo più in grado di individuare dove si sia fermata la «linea della palma». Sotto il profilo della struttura economica interna possiamo dire che esistono più mezzogiorni, concetto peraltro non nuovo, ormai accettato da buona parte della letteratura in materia. Nel Mezzogiorno esistono almeno due grandi aree, dal punto di vista dell’economia: l’area tirrenica e l’area ionico-adriatica, che hanno differenti storie ed evoluzioni. Un’altra chiave di interpretazione del Meridione è la convivenza di piccole e grandi Regioni, che non sono solamente diverse in termini territoriali ma anche di struttura sociale e di sviluppo economico. E poi ci sono da considerare il tema dell’urbanesimo, cioè dello sviluppo delle grandi città, e quello del rapporto che si viene a creare fra le città e le campagne. Un ulteriore grande tema, introdotto negli anni Cinquanta da un celebre meridionalista come Manlio Rossi-Doria, è quello che possiamo definire con la metafora della polpa e dell’osso3. La lezione dell’economista è stata perno delle proposte di politica agricola avanzate dalla sinistra. Negli anni successivi alla riforma agraria, Rossi-Doria diceva che il Mezzogiorno era diviso in due parti. L’osso, cioè le aree interne, le terre non bonificate, non irrigate, sostanzialmente improduttive. E la polpa cioè le zone fertili e pianeggianti, ricche di acqua e produttive. Ad esempio il tavoliere di Puglia, la piana di Catania, la Campania felix. Perché questa metafora della 3 Manlio Rossi-Doria, La polpa e l’osso. Agricoltura risorse naturali e ambiente, Napoli 2005. È una raccolta selezionata degli scritti di Manlio Rossi-Doria, a cura di Marcello Gorgoni. 59 polpa e dell’osso? Perché spiega i motivi del cambiamento del Mezzogiorno nei decenni decisivi che vanno dagli anni Cinquanta agli anni Settanta. Fu l’abbandono della parte «osso» che determinò la riallocazione delle forze, delle energie e delle risorse economiche. E al tempo stesso condusse all’obbligatoria emigrazione degli abitanti di quelle aree. Le grandi Regioni del Mezzogiorno – Sicilia, Campania, Puglia – hanno storie economiche diverse. La Campania, a differenza della Sicilia, è caratterizzata dalla presenza di una grande metropoli come Napoli, che segna indelebilmente il cammino dell’intera regione, sia sul versante politico che di riflesso su quello degli investimenti economici. Peraltro la presenza in Campania di grandi insediamenti industriali, anche antichi, diventa anch’esso elemento di attrazione economica. Già all’inizio del secolo troviamo la «legge Napoli» di Nitti4, a dimostrazione del fatto che la peculiarità dell’area napoletana porta a superare le consuete dinamiche meridionali legate alla presenza di una vasta «plebe» senza arte né parte. E, nello scorrere del tempo e in continuità nella storia unitaria, rileviamo, già nella Napoli degli anni Cinquanta-Sessanta, la presenza di un’importante classe operaia. Una classe che è stata base della presenza della sinistra e del sindacato. Invece in Sicilia esiste un equilibrio fra tre grandi città. La funzione di direzione politica ed amministrativa di Palermo non è tale da renderla egemone rispetto a Messina e Catania. Storicamente Messina le si è contrapposta, mentre Catania rappresenta il polo commerciale industriale dell’isola. La Sicilia è una regione in cui l’urbanesimo è fattore di ri-attrazione delle attività economiche. La classe operaia urbana nasce e si sviluppa a Catania. Ancora diverso il caso della Puglia, regione proiettata verso l’Oriente, porta d’ingresso italiana dei traffici mercantili che dall’Oriente arrivano in Occidente. Bari è uno dei più importanti empori del Mediterraneo. Comunque sia per capire i processi di industrializzazione nelle 4 La «Legge Napoli» di Francesco Saverio Nitti nel 1904 adottò un pacchetto di provvedimenti ed una serie di agevolazioni insediative e fiscali tali da consentire in breve il decollo della zona industriale di Bagnoli e la localizzazione del polo siderurgico che si sarebbe realizzato cinque anni più tardi, con un insediamento di 2000 operai. 60 tre diverse Regioni – processi che possono anche essere omogenei – bisogna arrivare alla fase in cui le grandi compagnie petrolifere, prima straniere in seguito anche italiane, decidono di installare poli industriali di raffinazione nel Sud del Paese, sia in Puglia che in Sicilia e in Sardegna. La scelta cade su aree costiere, come Brindisi, Siracusa, Porto Torres. Lì possono attraccare le grandi petroliere che trasportano il greggio proveniente dalle zone di estrazione. Questo tipo di industrializzazione non si sviluppa in aree dove precedentemente c’era impresa come Napoli, Catania, Bari. Nasce in aree agricole. Il passaggio dalla condizione bracciantile a quella operaia è un salto di qualità. Si passa dall’essere pagati a giornata all’avere uno stipendio regolare, vengono organizzati corsi di formazione per i lavoratori, all’interno delle fabbriche nasce progressivamente una coscienza operaia. In questo quadro Gela, nella provincia di Siracusa, è un esempio di scuola. La cittadina subisce una trasformazione profonda, da realtà agricola a polo industriale. Il villaggio di Macchitella5 è il primo esempio di progetto urbanistico funzionale all’industria. Al suo interno nascono nuove forme di aggregazione sociale, che vengono studiate anche in America. Nel gelese operano le partecipazioni statali, l’ENI di Mattei. Mentre a Siracusa gli insediamenti industriali sono di gruppi petroliferi privati. Quel che porterà l’esperienza di Gela al fallimento è la debolezza delle politiche pubbliche, dello Stato, nella gestione urbanistica del territorio, con risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Il territorio non lenisce l’impatto della fabbrica ma ne diventa lo specchio, il villaggio dell’ENI progettato da Mattei resta un’esperienza isolata. Alla debolezza istituzionale segue il fallimento sociale di questo modello di industrializzazione. Le piccole Regioni meritano un capitolo a parte, con la nascita dell’ente Regione nel 1970 prendono il via percorsi peculiari. L’Abruzzo, ad esempio, riesce a far crescere la sua economia a ritmi paragonabili a quelli delle più ricche regioni del Nord. In Basilicata si 5 Macchitella è un quartiere residenziale della città di Gela. Venne realizzato per accogliere dirigenti, impiegati e lavoratori del polo petrolchimico dell’ENI nella seconda metà degli anni Settanta; una realizzazione urbanistica a sé stante e per le caratteristiche e per i servizi offerti. Il quartiere è opera di un team coordinato dall’architetto e designer Marcello Nizzoli, collaboratore di Olivetti. Nizzoli tra l’altro ha disegnato Lettera 22, «mitica» macchina da scrivere di generazioni di giornalisti e scrittori italiani. 61 sviluppa una positiva esperienza di gestione dei fondi comunitari europei. Non era scontato. Il Mezzogiorno è terra di città, come il resto d’Italia. Il mutamento intervenuto negli ultimi decenni nella condizione urbana nel Sud è un tema molto interessante da analizzare. Si riallaccia a quell’intensa urbanizzazione che interessa dagli anni Cinquanta agli anni Settanta i più importanti centri del Meridione. Le migrazioni interne hanno concentrato nelle città e negli ambiti suburbani costieri la maggioranza della popolazione meridionale. Per altro verso, l’urbanesimo ha costituito, nel bene e nel male, il punto di riferimento della parte più interessante della cultura meridionale. Colpisce positivamente che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel messaggio di fine d’anno del 2011, abbia ricordato la sua esperienza di dirigente comunista nelle fabbriche di Napoli6. È oleografica l’immagine della città meridionale come entità esclusivamente terziaria: Napoli, Palermo, Catania, Bari sono state città a significativa presenza industriale fino a non molti anni or sono. Siracusa, Brindisi, Taranto sono stati i poli dell’espansione dell’industria di base negli anni dell’industrializzazione primaria del Mezzogiorno. L’intervento straordinario, il ruolo assunto dalle Partecipazioni di Stato e i consorzi di sviluppo industriale della seconda fase dell’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno portano ad un’accentuazione delle funzioni industriali del Meridione urbano che non riesce però, in buona parte, a sopravvivere alla crisi ed alla ristrutturazione industriale degli anni Ottanta. Questo non porta però ad un salto di qualità nelle funzioni evolute che oggi le città possono svolgere. La trasformazione contemporanea delle grandi città le ha fatte diventare i luoghi dove si concentrano circuiti culturali, universitari e no, qualificati, attività di intermediazione finanziaria, centri di ricerca, funzioni amministrative alte. Nelle città meridionali ciò si è svolto in modo parziale e disordinato. Mediamente, sono anche diventate più brutte man mano che si espandevano perché la qualità 6 «…vengo da una lontana, lunga esperienza politica concepita e vissuta nella vicinanza al mondo del lavoro, nella partecipazione alle sue vicende e ai suoi travagli. Mi sono formato, da giovane, nel rapporto diretto, personale con la realtà delle fabbriche della mia Napoli, con quegli operai e lavoratori. È un sentimento e un’emozione che ho visto rinnovarsi in me ogni volta che ho visitato da Presidente una fabbrica, incontrandone le maestranze». In www.vip.it. 62 delle costruzioni è andata via via scadendo, compressa dagli interessi della speculazione fondiaria. L’attività edilizia che è stata per almeno due decenni nel secondo dopoguerra il volano dell’economia urbana ha prodotto consumo del territorio ed è poi entrata in una crisi strutturale che ne ha fortemente ridimensionato il ruolo. Scarsi sono stati negli anni più recenti gli interventi per la realizzazione di edilizia popolare e convenzionata e per opere pubbliche finalizzate all’abbellimento degli spazi collettivi. Da questo punto di vista, negli ultimi vent’anni si è progressivamente impoverita la capacità delle amministrazioni locali di decidere sull’utilizzo degli spazi urbani, come dimostra la complessa e contraddittoria vicenda dei piani regolatori. Le città meridionali restano luoghi di contraddizioni in cui convivono funzioni direzionali innovative, «alte», e aree di degrado, povertà, emarginazione, arretratezza. La presenza invasiva della criminalità organizzata ha prodotto ulteriori, drammatici problemi. Come afferma Francesco Barbagallo «il controllo dei cospicui flussi di spesa pubblica decentrata ha determinato la formazione di un nuovo ceto di mediatori politici – formati da amministratori locali e rappresentanti di enti pubblici – largamente permeabile alla pressione di gruppi criminali»7. Essi «ha[nno] trovato un fertile terreno di coltura nel degrado urbano e civile di quella che dovrebbe esser l’area metropolitana di Napoli»8, per citare appunto la metropoli per eccellenza del Mezzogiorno. La situazione non appare diversa nelle altre città meridionali che hanno scontato negli anni più recenti il progressivo arretramento dei principali indicatori dello sviluppo. Nella scommessa della città come centro di aggregazione, di cultura, innovazione, sviluppo materiale e immateriale, ancora oggi c’è la chiave del miglioramento delle condizioni generali del Mezzogiorno. La qualità dell’istruzione sia dal punto di vista «fisico» – vedi la modernità delle strutture scolastiche, dei plessi universitari – che da quello dei contenuti – cioè l’insegnamento, la conoscenza, l’innovazione tecnologica – può essere una spinta determinante ad un salto qualità. Nelle città tradizionalmente il sindacato e la sinistra contavano di più. Oggi invece la sinistra conta poco o nulla, il sindacato ha pro7 8 F. Barbagallo, Storia della camorra, Bari 2010. Ibidem. 63 blemi piuttosto seri, i nuovi modelli di aggregazione – in particolare quella giovanile – hanno tagliato fuori i tradizionali canali di partecipazione democratica che il sindacato aveva fatto crescere. Negli ultimi vent’anni è profondamente cambiato il ruolo delle città meridionali, la loro composizione sociale. Nel 2007, nell’aprire un convegno sulle città del Mezzogiorno ho usato queste parole: «Se dovessi sintetizzare in un sostantivo la condizione urbana dell’Italia meridionale all’inizio del nuovo millennio, userei la parola ‘contraddizione’»9. 9 F. Garufi, «Dalle città per lo sviluppo», in Dalle città il nuovo Mezzogiorno: Rigenerazione urbana, coesione sociale, diritti e lavoro nelle città meridionali, Roma 2007. 64