La destra dei Paperoni fa shopping di seggi nel senato americano

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La destra dei Paperoni fa shopping di seggi nel senato americano
su www.europaquotidiano.it
RAFFAELLA
CASCIOLI
GABRIELLA
MONTELEONE
MARIANTONIETTA
COLIMBERTI
FABRIZIA
BAGOZZI
MATTEO
TACCONI
MARIA
GALLUZZO
Slalom tra
Jobs Act e legge
di stabilità
Mano tesa della
procura alla
famiglia Cucchi
Renzi a Brescia,
una calda
giornata
Consulta: FI
brucia un altro
candidato
Moncler, banalità
di Report sulle
delocalizzazioni
L’arena al
Colosseo? Il no di
Franco Cardini
i commenti di www.europaquotidiano.it
Martedì 4 Novembre 2014
n n LAVORO
n n LAVORO
n n OGGI LE ELEZIONI DI MIDTERM
Quelle
modifiche sia
alla manovra
sia al Jobs Act
Renzi-Landini,
l’ora
del corpo
a corpo
n n CESARE
n n DAMIANO
n n MARIO
n n LAVIA
La destra dei Paperoni
fa shopping di seggi
nel senato americano
S
perando che la situazione non
scappi di mano a nessuno – mai
più scene come quelle della settimana
scorsa a Roma ai danni degli operai
dell’Ast – è chiaro che la settimana
che si apre sarà nel segno della contrapposizione fra governo e sindacati.
Meglio: fra Renzi e Landini. Col corollario della polemica interna al Pd sul
Jobs Act.
Con il suo viaggio in diverse realtà
produttive italiane il premier fa capire
di accettare il terreno del corpo a
corpo. Della “fisicità” della dimensione
dello scontro politico e sociale. «Se
sarà il caso, accetterà il confronto
ravvicinato con gli operai», si fa sapere
dal “giro” di palazzo Chigi. Rischioso,
ma molto “renziano”. Perché il
presidente del consiglio è convinto che
la “sua” riforma del lavoro è una cosa
buona e giusta per i lavoratori in carne
e ossa, soprattutto per i figli degli
attuali assunti, per i quali nulla
cambierà. C’è dunque poco spazio, per
lui, per modifiche, anche se i “pontieri”
(Damiano e Guerini ma non solo)
stanno provando a costruire un testo
modificato. Sul quale Renzi è pronto a
mettere la fiducia anche alla camera,
perché – ha spiegato – non c’è tempo
da perdere. Insomma, Renzi, secondo
il suo stile, va dritto. Come sempre, è il
paradigma che preferisce: il tutto per
tutto. Stile rischioso, certo, davanti a
un sindacato che minacce fuoco e
fiamme.
Ma, come ha chiesto giustamente
l’altro ieri Lucia Annunziata a Landini
a In mezz’ora, quale forza potranno
avere i due scioperi della Fiom (e
quello generale della Cgil) se nel
frattempo il Jobs Act sarà stato
approvato? Già, perché gli scioperi
sono di due tipi: o puntano a
modificare il corso delle cose (ma qui
non sembra esserci lo spazio, vista
l’intransigenza del premier) o sono
pura protesta politica. In altri tempi,
sarebbe chiamata “spallata”. «Il
paese si deve liberare dalle politiche di
Renzi», ha detto il capo della Fiom.
Siccome Renzi non cambierà la sua
politica, vuol dire che bisogna liberarsi
di Renzi. È questo ciò che Landini ha
in mente? Attenzione, perché al
premier la prospettiva delle elezioni
non fa paura, anzi, visto
l’atteggiamento di queste ore sembra
che non gli dispiaccia poi tanto.
Anche per questo, accetta il corpo a
corpo. @mariolavia
ono terminate la settimana
scorsa le audizioni delle
parti sociali e degli esperti di
diritto del lavoro e abbiamo
iniziato la discussione generale
sul Jobs Act nella commissione
lavoro della camera, con l’obiettivo di migliorarlo.
Rispetto al testo di
partenza si sono già registrati
degli avanzamenti al senato,
ma pensiamo che alcune
modifiche vadano fatte anche
alla camera: prima fra tutte,
l’inserimento del testo
approvato dalla direzione del
Partito democratico che
prevede la tutela per i
licenziamenti per motivi
disciplinari, la parte relativa al
cosiddetto articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori.
Se vogliamo parlare di legge
delega però, non possiamo
tralasciare la relazione che
intercorre tra i due
provvedimenti: infatti, se ci
saranno risposte convincenti
nella legge di bilancio per
quanto riguarda le risorse
aggiuntive sugli
ammortizzatori sociali e se il
testo della legge verrà ripulito
dalle contraddizioni più
evidenti, sarà più facile
affrontare la delega lavoro.
Dicevamo contraddizioni:
come si fa, ad esempio, a
sostenere che vanno
privilegiate le politiche attive
del lavoro se poi si tagliano per
il quarto anno consecutivo le
risorse destinate ai servizi
erogati dai centri per l’impiego?
Quando si parla di deducibilità
del costo del lavoro dall’Irap
per l’attuale platea di lavoratori
a tempo indeterminato (circa
6,5 milioni di persone), questa
misura vale anche per i nuovi
assunti nel 2015 e si sommerà
all’incentivo fiscale previsto dal
governo per i primi tre anni? Se
questi nuovi lavoratori non
debbono essere aggiuntivi
rispetto all’occupazione
esistente, come recita il testo
della legge di stabilità, non c’è il
rischio che diventino
occupazione sostitutiva a
scapito degli attuali lavoratori?
segue
S
n n GUIDO MOLTEDO
n n DETROIT
I
fratelli Koch, Charles e David, sono da anni un
chiodo fisso per i liberal americani. Una fissazione più che giustificata. Sono così potenti, con
i loro miliardi di dollari, e così sfacciatamente
attivi nella loro crociata anti-democratica (in
ogni senso), che possono persino togliersi lo sfizio di comprare spazi pubblicitari per la loro
“causa” nel programma-culto della sinistra americana, The Daily Show di Jon Stewart. Il celebre
comedian l’ha presa un po’ a ridere, ma mica
tanto.
Koch Industries è la seconda più importante
società privata statunitense, con interessi che
vanno dal petrolio – raffinerie e distribuzione
– alla chimica (fertilizzanti), alle cartiere, all’edilizia. La rivista Forbes stima la fortuna dei due
fratelli in quaranta miliardi di dollari. Tanti da
poterne dedicare una piccola porzione, ma considerevole in cifre assolute, a campagne per orientare la politica americana,
finanziando candidati
conservatori e cause conservatrici. Non destra
moderata. Destra estrema. Finanziamento è anzi
un termine riduttivo: i
Koch la finanziano, l’organizzano e la gestiscono
direttamente, la loro “impresa” politica.
In queste elezioni è
ancora più evidente il loro
interesse diretto all’esito
del voto. La posta in gioco
è il controllo del senato,
con una decina di competizioni sul filo. Da anni,
finanziatori come i Koch cercano di costruire una
permanent majority repubblicana, e questa sembra la volta buona. Infatti la conquista del senato e il rafforzamento della maggioranza alla camera dei rappresentanti – oltre a numerose attese vittorie nelle elezioni di una miriade di cariche locali, tra cui diversi governatorati importanti – non rappresenterebbe per la destra solo
un successo importante in sé, ma la premessa per
la riconquista della Casa Bianca e, insieme, il
consolidamento della forte presenza nel Congresso. Per gettare le basi di un duraturo controllo delle leve politiche del paese.
Un disegno che vale investimenti per miliardi di dollari, con l’invasione delle televisioni di
spot agguerriti, uno tsunami di negative ads, di
inserzioni per distruggere i candidati democratici, e con loro il presidente Obama.
Addio piccoli donatori, quelli che sostennero
le due campagne di Obama. Sembrava che grazie
ai piccoli ma diffusi contributi, uniti a un volontariato reticolare, le campagne elettorali fossero
entrate in un’epoca di cambiamento, dopo la
lunga era del dominio delle lobby e dei gruppi di
interessi. Le elezioni di medio termine «potrebbero benissimo segnare una tornata elettorale
nella quale i piccoli donatori si fanno da parte»,
si legge in un rapporto del Center for Responsive
Politics (Crp), secondo il quale il cosiddetto “denaro esterno” (non gestito direttamente dai partiti e dai candidati) fa la parte del leone. Più
soldi da meno persone. Il Crp prevede che la
tornata elettorale impegnerà 3,67 miliardi di dollari, a cui vanno aggiunti i soldi non dichiarati
alla Commissione elettorale federale e quelli spesi prima dell’inizio ufficiale della campagna, una
somma di un centinaio di milioni di dollari.
Nella campagna del 2000 la cifra complessiva del “denaro esterno” arrivò a 52 milioni di
dollari, secondo il Crp. Che cosa è successo da
allora? Una sentenza della Corte suprema, nel
2010, diede ragione a Citizens United, un comitato di azione politica (Pac) che sponsorizza
candidati di destra e che obiettava la legittimità
di limiti ai finanziamenti elettorali imposti da
una legge firmata dai senatori McCain e Feingold.
Da allora i partiti sono stati via via soppiantati da Pac e
super-Pac sempre più potenti
e invasivi. È successo naturalmente anche in campo democratico, con personaggi come
il miliardario ambientalista,
Tom Steyers, arcinemico, con
la sua NextGen Climate Action, dei fratelli Koch, paladini del negazionismo climatico.
Da allora «il tradizionale apparato delle campagne ha ceduto terreno a controparti
opache, e i candidati non hanno voce in queste
elezioni», dice Sheila Krumholz del Cps.
Nella partita dei soldi, il massimo che realisticamente possono fare i miliardari liberal è
contenere l’ondata dei rivali conservatori. Che
trova spinta anche in circoli che la narrativa
corrente assegna al campo democratico, come gli
imprenditori di Silicon Valley e delle aziende
digitali. Certo, c’è Mark Zuckerberg, con il suo
fwd.us, un budget di cinquanta milioni di dollari
per campagne a favore dell’immigrazione e della
cittadinanza ai clandestini. Ma c’è anche United
in Purpose, un’organizzazione costituita da ricchi imprenditori californiani high-tech, evangelici estremisti, che, rivela Mother Jones, conduce
«un’aggressiva mobilitazione elettorale con una
combinazione di strumenti high-tech, relazioni
con pastori e adunate nelle megachiese evangeliche in simulcast streaming». @GuidoMoltedo
Pare già lontana
l’epoca dei piccoli
donatori, decisivi
per Barack Obama
e alternativi
alle grandi lobby
EDITORIALE
Ma Renzi non
deve diventare
ansiogeno
n n STEFANO
n n MENICHINI
Q
uale è, se c’è, la soglia di
conflitto oltre la quale la
vittoria di Matteo Renzi su Jobs Act
e legge di stabilità può trasformarsi
nel suo opposto? Su cosa si misurerà
il prezzo del successo: sul numero
dei parlamentari del Pd che non
voteranno come deciso dal partito?
Sulla forza delle manifestazioni di
Fiom e Cgil tra novembre e
dicembre? Oppure, all’opposto, sulle
concessioni da fare in parlamento?
Ascoltandolo nel suo tour nelle
fabbriche, Renzi non è preoccupato
da nessuno di questi contraccolpi. E
probabilmente ha ragione.
Il dissenso parlamentare sarà
accuratamente misurato – per
entità e per modalità d’espressione
– sul minimo danno possibile, sia
per la maggioranza che per i
dissidenti stessi. Le piazze sindacali
non potranno essere più affollate di
quella di San Giovanni, e comunque
per il premier sono la controprova
da esibire per dimostrare che non
sta facendo riforme all’acqua di
rose. Le modifiche infine non
intaccheranno il quadro
complessivo, anzi saranno
funzionali a evitare l’unico vero
contraccolpo che Renzi può ricevere
da questa sua campagna campale.
A prescindere da ragioni e torti,
un leader può essere vissuto
dall’opinione pubblica come divisivo
o come unificante. Berlusconi fu
sempre clamorosamente divisivo: è
stato il suo più grande limite.
Il Renzi d’assalto è stato fin qui
ultra-divisivo nello scontro nel
Palazzo e fra i poteri, ma con
l’intento dichiarato di voler invece
riunificare il paese dopo un
ventennio di conflitto paralizzante.
In parte c’è riuscito: i flussi
elettorali sul Pd dicono questo. Ma
ora, con una società tesa, scossa
dalla paura, priva di ancoraggi e
ancora non infusa dell’ottimismo
propalato dal premier, un leader che
imponga il conflitto permanente
rischia di diventare ansiogeno.
Compartecipe della spaccatura nel
mondo del lavoro di cui fa
(giustamente) carico alla Cgil.
L’ansia non fa mai bene, né a
una nazione né a chi la guida. Ecco,
questo sarebbe un prezzo alto da
pagare per la vittoria di Renzi sui
conservatori. @smenichini
Chiuso in redazione alle 20,30