018. La 3ª guerra, o le vacche di Brazzaga hanno le gambe lunghe
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018. La 3ª guerra, o le vacche di Brazzaga hanno le gambe lunghe
018. La 3ª guerra, o le vacche di Brazzaga hanno le gambe lunghe Prima d’iniziare qualunque discorso equilibrato in argomento, e ce n’è di staffe dalla suola sul filo, devo chiarire con la massima urgenza la professionalità che mi contraddistingue in ogni situazione cronica. È vero, sono nato a Brazzaga. Ma non si mormori dietro le scapole e non si rumini in mezzo ai condomini, nei cenacoli pudici, tra i simposi a broccato, come solo a motivo di questo supplizio io debba calarmi in qualche modo di parte. E di quella poi unica parte, parrucconi esagitati non meritate merenda. O sia forzato ad esserlo dalle circostanze parziali arrangiate nel caso, per caso, dimenticando oltretutto in alzaia i principi più sani della saga ipotetica, l’epica. Che da sempre invece convivono, io che mi vanto, che da sempre invece perseverano, io che m’agguanto, con i miei esuberanti primati, narrati e postati, con i miei severi appetiti, ritriti. Quelli incisi a pane, burro e stilografica Special, per riavermi sul mezzo, quasi quanto un’Alfetta. Le nostre belle vacche, semplicemente, sono migliori di quelle di Reggio Emilia. E questo è tutto. Ciascuno può trarre le conclusioni che ritiene più certe, inosservato, inosservante, evitando di sputare ciuinghe nel salotto vicino, che tra l’altro è di pelle, e andarsene a funghi persuaso delle attitudini agresti. Sempre che ne salvi ancora, di queste e di quelli buoni. Tutto allora si risolverebbe per il meglio e senza drizzare gli spigoli, come diceva mio zio della Lidia, il suo estro minore, o come diceva mio zio della Libia, il suo lustro d’amore. Se fosse sempre così facile però, aldrovandi, sulle cartine geografiche di mezzo mondo, ch’è paese e paese, appese ai muri o sopra i tavoli, dietro i quaderni o la lavagna, attorno ai pasticci del macinato tenero, o a farsi cartocci su dai Malavasi… e chiodino che vai… esisterebbe ancora una miriade d’adorabili granducati. Incluso quello che ha dato pastello al nostro capoluogo d’istanza, con stemmi levatoi a cenere e pistacchi, mustacchi sui petti spompati in risucchi, o rocambolesche luminarie issate a pane e petroli sui cuori messi a locanda, la vecchia osteria della Wanda. Quella con l’uva santa vicino ai coglioni, i leoni da randa, per sapere sempre, di tasca o di branda, che cosa si tasta. 180 La rivalità tra Brazzaga e Reggio Emilia, la disfida in ciniglia, il gran can sul velluto, si fa risalire fino alla notte dei tempi, che notte e che tempi, quando gli uffici economici erano tutti invertiti e l’influenza d’una buona erre moscia pure. Frrr… sul trentotto a mezzo divano. Di tiro maschio o un po’ più femmina non contava ancora la tecnica, mentre le vacche erano tutte a sfumature rosse. O al massimo nocciola chiaro. I tramonti di pianura tendono sempre a fotterti con quell’aria di liscio che lustra, mortadelle rovesce, damigelle in palude, desnude, primizie da madia, novizie ordinate in Arcadia, a credenza o d’urgenza… tanto poi è sempre Quaresima e piove pure fitto sul sagrato. I salami e i prosciutti stesi invece erano quasi gli stessi, fatte salve le oche, ma non c’era una mèche neppure lì dalle giostre. Brazzaga era il porto centrale del fiume, il fiume marmocchio che la stregava di barche e di canne, che calava le brache e rizzava le gonne, come un’isola che non c’è più, ora che la si confonde, ma che allora c’era e ce n’era a spanne di sponde. E la sua fiera, perché signori… noi già avevamo una fiera… si ergeva a baluardo di tutta quell’agricoltura da stadio che oggi potremmo anche dire europea, con l’enfasi tronfia che c’inquina la minestra di facili albori, ginestra in asciutta d’onori, palestra di rotta, di boria e d’odori… Ma che allora… bah… erano quattro puzzoni a zappa e pagnotta, in diversivo, quattro minchioni a parpàia e canotta. E a cosa poteva servire una fiera di stenti ad uno che tira appena a campare? Forse a smettere di tirare. Forse a sgozzare un monsignore foresto per ereditarne la stola di martora, la porpora in canfora, il basso bue, un cavallo continuo… forse la nuora. Forse per il contrabbando di pere e maiali, più che per le uova d’annata, le zucche a giornata… Che giorni e che genti… Ma dicono anche ch’era un trucco per spicciare certi accidenti agricoli, certe menate a carponi d’avicoli, strumenti con la cresta balorda, bargigli d’alpeggio, speroni di faggio, lombrichi senza capo né coda trapassati a bombarda. Poi i metodi del manuale artistico, le posizioni dell’armeggio, il primo di maggio, l’aratura, il seminario, la rimonta nel grano… il fallo di mano… E tutte queste eccezioni che si recitano sui rosari di scuola moderni ma che per allora, senz’occhiali, acconciavano solo il mercato a drappelli, affollavano in massa i bordelli di vitelloni a metro d’araldo, di sgobbo arrotato a trombetta. Che quando la Berta s’alzava di panca, garrese spavaldo, e la fiasca intonata stirava baldanza, a garretto vicario, le teste filavano eccome, di brocca buona in barbetta, le schiene schiumavano some di scocca grave e perfetta. O forse invece la fiera tirava perché in fiera c’è gnocca, oltre che ginestra, zappa e canotta. In fiera c’è manza da latte, la bella e la brutta, ma soprattutto c’è tutta. E magari con un po’ 181 di fortuna si parava d’un balzo la Bianca e la Bruna, si svagavano le solite facce, le solite chiappe. E in un paese che manca di capra e di panca, la Bianca, non è che tutti possono sempre farsi all’altezza, troppi pensieri timidi tra i boccoli, non è che tutti possono sempre fischiare alla Luna, la Bruna… Troppi pidocchi luridi tra i broccoli. L’Europa del resto era più semplice allora. Al Nord stoccafissi e patate, al Sud stoccafissi e legnate. Gli unici nel mezzo che non se la passavano ancora troppo male con la polenta presa in padella, pur vivendo tra i lupi mannai, pur vagando tra i dirupi carrai, eravamo noi che ancora non conoscevamo i würstel. Noi che ancora pensavamo d’averceli ben piantati per terra i piedi, per quanto scalzi e callosi, per terra, nemmeno una mèche, per quanto storti e merdosi. E poi le novità che serravano il valzer in mille mazurche, bitumi da bar, d’ogni bar di quel mondo praticabile in quindici giorni di sviluppo sostenuto. Quel gran cazzo di mondo di merda cresciuto a passatelli e cicoria, in mezzo a fitte boscaglie di rovi, di covi, ritrovi di draghi e indovini, di streghe e accattoni, tra i mille pirati che c’erano in gara e che mai più sono usciti di corsa. Sinuosi e zagarri come zanzare, ma nemmeno una mèche. Generazioni senza scrigni di plasma, forse migliori, forse peggiori, ma che puntavano giusto a intascarsi una sera. O così si racconta in cambuse di poppa, ed io non posso che dirmi scampato, nemmeno una mèche, non posso che sognarmi d’Ermete, cugino di fatto e in affitto sul grande terrazzo ch’è la vita dei sogni. La sua e la mia. Quella vita che tira a vangare tra una sera rossa di vergogna e quell’altra un po’ più umida, a scampare una fiera grossa di vertigini da quell’altra un po’ più livida. Una sfera celeste incastrata nella testa dell’altra, una pera turchina spennata al posto dell’anatra. Fatto sta che in un bel giorno di sole, col suo incedere torvo e barcollante, col suo balenare tosto e dilettante, si presentò insomma una testa quadra. E di chi sarà figlio quell’uomo lì, sandali e calzette, e cosa vorrà mai da noi… e perché si guarderà così tanto in giro e andrà poi a mangiare proprio su all’osteria… quella della Wanda… oltretutto pagando a regola… e per quale motivo avrà digerito e sarà in seguito uscito a fare due passi lenti… Ed altri simili angoscianti quesiti cominciarono presto a tormentare i nostri sogni pomeridiani di beata inquietudine. Niente mancia… ecco… niente mancia. Sileno tuttavia sparì presto com’era arrivato, slegato dal trotto, caffè lungo e biscotto, e noi tornammo alle questioni che potevano avere una risposta sicura. Forse soltanto presunta ad essere chiari di forma, ma quantomeno locata alla cerchia intestina, murata, timbrata e del tutto genuina. Un po’ tipo mia nonna Giacomina. Rimanendo pur sempre sul chi vive ancora e pronti a sfoggiare forconi, a stirare 182 balestre, roghi svizzeri, ad intingere acque benedette nell’olio di bile, per rispondere con la dignità richiesta allo sgarro inoltrato ed evitare di farci perdere ancora la mancia di lancia, la minchia di pancia, dalla provocazione ossuta di quel mezzo demonio in marsina e tiracca da piedi, ma nemmeno una mèche, in costato impoppito, in cilindro e mantella, di colbacco in mammella. Un gazzettiere simpatico solo ai polli di fiume, quelli stagnanti, o ai vitelli più brutti. E per finta. I granduchi in carica si diedero un gran da fare nel frattempo, che fare e che tempo. Come mamme che non sanno darsi pace per aver finito tutto il Drago, operarono svariati cambi tecnici al fine di scongiurare una retrocessione a dir poco precoce, salace, mordace, il ricorso alle elezioni d’anticipo, in cubito, discese per loschi tornanti, rimbalzi di teschi vacanti, infanti moreschi e badanti. Sistemi adottati solo come ultimo appiglio, ma la puzza è proprio d’imbroglio. Patemi da evitarsi con ogni mezzo in tutti i tempi che furono e saranno. E che saranno, paralumi ingozzati ma saranno, ventilabri incipriati ma saranno. E ci si mise pure lui, il mirmidone a canne, che avvizzendo tra loti e fanghiglie non volle più saperne d’adagiarsi per chilometri e chilometri nei campi brazzaghesi di farro, di miglio, e chiamalo anche placido. Preferendo succhiare altrove il suo Pastisse con il ghiaccio, prosciutto e melone, cannuccia e limone, e brindare alle oche dal vello sfrondato, stirato, in bermuda e bikini ma nemmeno una mèche, ritraendo così d’imposta e di guancia le sue già circoscritte vedute. Cascate, che vista… riposte, che guancia. Ma la cannuccia corta non può che far male in tempi di crisi, e che crisi, soprattutto quella che ti va il ghiaccio sul naso, la goccia nel vaso. Corsetti da spulciarsi un poco per volta, è vero, ma tutti uguali, sempre e solo maiali. E arriva la noia del fegato, lenimenti alzati in rivolta, il tramonto del rognone, frattaglie mosse a ribalta, l’affanno pizzo e scampoli. Venne infatti di moda il pezzato olandese e spuntarono grossi campanili allusivi un po’ ovunque nel circondario, specialmente in direzione Sud. Noi ci risvegliammo nel peggiore degli incubi. La rossa era diventata d’un tratto reggiana per usucapione, il porto si era trasferito molto più a valle con tutta la sua banda di pioppi, lasciandoci solo qualche metro di Bonifica putrida, quattromila gaglioffi, due chiatte sfondate, forse sposate, una balera deserta e quintali su quintali di pinne invendute, invendibili. Rendendo in questo modo difficoltosa per l’uomo medio caucasico, palmato d’orecchio e dai tratti silvani, se non del tutto impraticabile, la frequentazione assidua della nostra piazza. E nemmeno una mèche. Ma l’evento che ben presto mostrò tutta una cicatrice eversiva di bende nere sugli occhi, con i suoi ritagli di polemiche al sangue, e che si può indicare senza ombra di dubbio 183 quale arpione primario d’ogni screzio seguito, domato al pepe verde, tenero e delicato, o al braccio corto d’ombrello, accadde nell’ombra più subdola. Dietro la canonica e nei fienili, nei campi d’avena e sul sedile posteriore, come si compete agli esseri contorti che ne furono i principali attori. Sileno si era infatti orrendamente riprodotto in tutta la fascia collinare, arrivando a compromettere l’Appennino. Testoline a quadretti occhieggiavano supplici. Zampette sudice sguazzavano in brodi di parte, a parte, sgrinfiavano abbracci complici in nidi feroci… atroci. Ugole efferate cinguettavano a rogito d’arte… e che sorte… E poi non si trovano mai le argomentazioni evidenti e i motivi comuni che tutti ammettono d’intendere, e questo può anche darsi davvero, quale genesi dei campanilismi più estremi. Sport da schiena ricurva, i credi, solco dei campi brasati. Forse è proprio colpa di quel campanile che torreggia sfacciato per secoli in piazza e che un bel giorno se ne va senz’avvisare nessuno, il facciabronza d’un tempo, e che tempo. Per quanto non si possa sempre imputare ogni peccato al clericalismo eretto di provincia, soprattutto adesso che se li fanno orizzontali i comignoli, così i Babbi Natale possono dirsi ragionevoli e finalmente imparziali. Si deve piuttosto avere il coraggio d’ammettere le proprie implicazioni umane con i crauti in umido, senza ricorrere all’abituale barile da trasbordo, la senape gialla, il cren, la salsiccia di Monaco… il ginepro, cazzo, il ginepro… Senza rifarsi alla ritorsione estatica insomma, a te che sei proprio brutto, lagne da poppanti in brache corte, lasagne viziate e calate giù dalla spiaggia che sfolgora, scaldate d’inverno, sottratte all’inferno. E mi rivolgo soprattutto a voi, reggiani purosangue, voi che ci avete umiliati con immensa infamia, nonché derubati di gloria, di fortuna e di femmine da latte. Quanto a noi, benedicendo la bontà in rotoli del Padreterno ai titoli, ci siamo abbastanza ripresi speculando sulla tratta dei vitelli in bianco e nero prima, e sulla riproduzione in serie dei tortelli di zucca gialla quando poi uscì il technicolor, amaretti e mostarda. L’arancione viene sempre bene anche se punta un poco al giallo, ma è il marrone che ti toglie l’appetito. Senza più riuscire a riscattare tutta la stima che ci saremmo invece meritati s’un territorio a dir poco europeo, o in quel cazzo di mondo limitrofo dai quindici secoli in su, dai quindici viottoli in carta pecora e stilografica al ciuffo d’inchiostro blu. Special. Eppure… alle volte… no? ciò che alla fine ci ha in un certo senso salvati strappandoci dal baratro della più cieca disperazione, si fa per dire, ciò che finalmente ci ha guariti intrufolandoci sul mercato della più bieca sistemazione, è stato piuttosto il rinnovato senso d’identità spirituale scaturito dai sotterranei stracolmi di programmi operativi stilati per la feroce vendetta. La nostra umanità. 184 Le stalle che sembrano popolare rigogliose i campi sono infatti fabbricati di copertura, bunker strategici arredati con armi segrete da distruzione di coppia, stanze munite di potentissimi radar termici e impianti satellitari in grado di far cagliare il latte a distanza, anche di tempo e di che tempo, o di sciogliere i salami stesi come il sangue a san Gennaro. Proprio lì sul più bello. Proprio lì quando la fetta fa la goccia e il coltello s’arrotola e s’arrotola ancora… e ancora… Senza pietà. Quando poi è inevitabile ci sono anche alcune comode salette attrezzate per la mungitura tradizionale, altrimenti le vacche poverine smergolano, 1 perché a smerdare invece fanno già da sole e non c’è santo che tenga. Tutti gli abitanti sono stati furtivamente inquadrati in battaglioni armati fin sotto ai denti, e che denti, e in caso di necessità ciascuno sa esattamente cosa deve masticare e cosa poi sputare a ciuinga. Nulla è stato abbandonato alla sorte mandibolare. Per cui quando si presenterà, perché si presenterà sull’attenti la nostra congiuntura favorevole, tutto il mondo praticabile in quindici giorni di buon passo sostenuto, il gran bel mondo del cazzo a fagioli sgranati e sviluppo cornuto, verrà a conoscenza di una fiera e di una vendetta compiute con soddisfazione, ma nemmeno una mèche, da parte d’un popolo che forse era meglio lasciar bivaccare nel deserto, o in località di golena coi suoi siluri del cazzo. E il quale forse era preferibile non incontrare mai sulla strada di casa, ritorta, sterrata o squagliata, c’è solo quella. Tanto in qualità d’avversario contendente, quanto d’oggetto in qualsivoglia modo contundente. Certe mazzate ruvide… certe fiondate impavide… ma nessuna mèche… Anzitutto nell’evenienza d’anfibi volteggianti, di cavallette raglianti, di grosse zanzare ruspanti, che anche se fritte restano pur sempre brutte. Motivi di possibile attrito candidati a scatenare la battaglia finale non mancano di certo. Dai sorpassi azzardati in doppia curva, ai rifiuti di concia o da turismo a mistura, con aggravante reciproca di sabotaggio differenziale, dal freno alle frizioni di stima, che con lo shampoo non si può risparmiare. Come con la pasta, i fagioli, l’olio di glicine. In ogni caso, cosa volete, sarà perché ci stimiamo inguaribili nostalgici dell’antica tradizione agricola, sarà perché il segno del giogo ce lo portiamo impresso sul collo fin da piccoli, tra i boccoli che non ci sono ora, biondi, ma che allora c’erano tutti, e che tutti, ma noi 1 Termine rustico ma dal tratto misto tecnico, e in questo senso mistico, che fa riferimento al particolare muggito da mammella turgida, tipico delle vacche che non si fanno montare da giorni, o che si tingono i capelli solo per farsi leggere e rileggere, solo per farsi guardare la sera, il mattino dopo se hanno tempo da perdere, e poi ti mostrano il conto. Un conto salato, un odore pepato, in quell’aria che gira e che tira, ch’era meglio rifarsi di mira. 185 mezzi Bagonghi, si fa ancora per dire, c’inquietiamo seriamente soltanto per questioni di vacche. Dovete sapere che dalle nostre parti, sorvolando sul porco maiale, e che porco, che già cresce in santità pressoché autonoma… tralasciando anche la Betoniera che se santa non lo è mai stata, e che santa, non s’è nemmeno mai fatta troppo rossa di tinta… pure la vacca, e che vacca, la vacca veramente vacca, è reputata una realtà che a definirla sacra non si sbaglia più. Un’entità da proteggersi a prescindere dal lungoportico andante, un modo di vivere da sottrarsi all’estinzione vessatoria d’una censura sempre troppo ottusa. Come le corse a piedi nudi nei prati, il pelo sotto le ascelle. Una specie di consorzio universale che necessita delle cure affettuose da parte di tutti gli specialisti, quotidiane e puntuali. Non per nulla gli unici non brazzaghesi abilitati alla sua amministrazione sono indiani, gente di poche penne e molto spirito, alla faccia delle uova di palombo. Da quando poi è comparsa l’assurda moda del biologico, ma nemmeno una mèche, tutto il paese si è raccolto per vincere almeno questa battaglia di scorta, lasciando i soliti reggiani all’infausto stadio dell’elettrochimico a bordo vasca, alla sperimentazione transgenica a cielo aperto e probabilmente a tratti, e non posso che dirli abusivi, alla cabala delle masse in sedime, alle mucchie selvagge… Come giocare coi dadi, un azzardo da maghi, conigli pescati alla tombola, cilindri calcati nei sacchi, orecchie lisciate coi tacchi… sento passi di vongola, rintocchi di zangola… O peggio, se ci si può spingere avanti in materia, li lasciammo al sintomo della chiacchiera quantica, fama che ci vien giù da Biella, lo strutto, lo zucchero… dama che discende di sella. Che va e che viene, l’una che nell’altro sale, che c’è ma non c’è, cruna che nell’ago cede, opposti ed armonici, congiunti fotonici. Si è tenuta in tutta fretta una riunione dei contadini nella stalla di Morselli, che non sarà ospitale come una sala civica ma almeno è bella. Giovanardi ha portato il fritto misto pesante e Bottardi qualche calzino rosa per le eventuali emergenze. Il discorso stagnava sul tipo di calzature da adottarsi poiché Morselli era pagato dall’emporio locale, un tal cugino del bar con la riga dalla parte, mentre Simonazzi era motivato con rispettabili incentivi e una cassa di granchi da una ditta d’articoli sportivi di Villafranca, e i due non trovavano un accordo ch’è uno nemmeno lì dalle giostre. I granchi scalciavano insofferenti. La soluzione fu allora individuata da Landini, il quale, dopo aver minacciato più volte di lasciare scalze le proprie vacche, propose un fornitore per le calzature e l’altro per l’abbigliamento da gara. Nei momenti di riposo se ne sarebbe poi occupato il circolo parrocchiale della calzamaglia, Adelina e le amiche, certe cuffie... E se il carretto 186 non va in montagna… io dico che c’è anche il lago. Tutto da allora funziona dritto come un orologio svizzero appena oliato dal tecnico Marmiroli, a parte le mèche che ancora ci mancano e che inizio a temere non vedremo più. Sono stati ingaggiati i preparatori atletici dell’Atalanta e tre massaggiatori di una squadra giapponese di sumo. Le vacche sgambettano sempre più agili e il latte prodotto non è mai stato così biologico. Qualcuno ha sentito dire che nell’antico Oriente addolcivano le coscienze dei propri capi ricorrendo alla birra fermentata sui campi di calcio non ancora circondati da tribune, o da una norma qualsiasi. Sarà per questo che le olandesi hanno in seguito spopolato nei locali d’indirizzo liberty. Ad ogni modo, noi ci siamo orientati sul lambrusco. Cosa mai può competere con una bella poppata di rosato frizzante direttamente dalla canna di gomma telata, magari dopo una zuppiera di cappelletti fumanti, non sia mai, un mezzo chilo di Parmigiano col marchio a riccioli, due fettine di mostarda alle pere… o alle mele di Menotti? Ma c’è anche qualcuno che s’indegna appiattato… eh mica sono tutti uguali i coglioni… Qualcuno che arriccia i lobi, figuriamoci, che sfrigola i mignoli, che lusinga i bigoli, salsiccia e funghi, panna e broccoli… Fatto sta che le vacche di Brazzaga crescono in perfetta armonia e alla sera si lavano sempre i denti senza fare i capricci. Qualcun altro potrebbe obiettare che nemmeno una mèche, e che poi non s’è mai visto neppure un bovino munito di spazzola. Ma questi qui non sono bovindi qualunque. Sono manze che si portano in giro gambe sempre più lunghe, e al davanzale poppe sempre più gonfie. Sono vacche a giornata che preferiscono evitare i cibi dalla finestra, come pure quelli troppo ricchi di macchie. Passeggiano al parco la domenica pomeriggio, o nei viali, sfoggiando zoccoli attillati, ed intrattengono brillanti conversazioni con gli ospiti spintisi fino al dopocena, prestando la massima considerazione ad ogni particolare significativo. Dal vecchio brandy ravvivato in tempra di bidone, non troppo né di meno, alla qualità calibrata delle cicche da soma, e che soma, dalla postura migliore d’abbinarsi a una coda, allo scollo della cravatta… Per finire poi con la consueta critica serrata sulla crisi del cinema internazionale che, son problemi, non si lascia più risalire. Ancora una volta si potrebbe ribattere come le solite vacche formali non abbiano mai parlato troppo a braccio. Ma a parte che c’è sempre una volta o l’altra, c’è anche tradizione ed estradizione, ci sono traditori e traditi, traduttori di mondo e puttane. E vi ricordo che qui si parla pur sempre di vacche biologiche, e il critico pignolo, con tutta evidenza, avrà bazzicato solo dalle parti di Reggio Emilia. Dato che le nostre vacche parlano un buon italiano all’antica, un dialetto 187 corrente e una ventina d’altri idiomi caucasici che sembrano tendoni da circo, birocci da frigo. E poi leggono palmari screziati, interpretano mani svogliate, e persino le bozze dei colleghi più ingenui come me. Dio gliene renderà giusto merito al suo tempo. Così può rivelarsi maggiormente chiaro a tutti che anche una vacca di paese, in paese, può conservare il suo risvolto intrigante, allo stesso modo d’ogni essere venuto a questo mondo ciarlone. Per quanto quelle di Brazzaga mostrino una lingua più interessante, da approfondire poi a casa d’amici, con mogli ispirate, mariti svaniti, o al limite in fienile. Perché i reggiani possono dire quello che vogliono, possono citare attestati ottusi quanto polverosi, rifarsi a vecchi codici cavallereschi ormai calati in fondo ai calzoni di mille e una notte perdute, possono srotolare diplomi dal tacco suino che loro per primi hanno violato. La verità non cambia, nemmeno una mèche. Le nostre vacche sono le prime della specie e le più biologiche del mondo. Simpatiche al punto giusto da non risultare noiose troppo in fretta, o senza avervi dato nemmeno il tempo di conoscerne il numero. E che numero… Siamo grati allora alla vacca sportiva e all’inventore del biologico Special, poiché dal momento in cui la sua scoperta ha preso a circolare sui banchi del mercato, e di rimbalzo nei cervelli cerati delle casalinghe europee, caucasiche di norma ma dai possibili tratti medio asiatici per addotta cultura, per criterio d’arsura, per questioni d’altura, e un po’ anche a mezzo d’usura, noi abbiamo rialzato speranzosi la testa, la nostra, consapevoli di quanto la vendetta potesse essere consumata anche facendo a meno delle armi da taglio, del maglio, sul ciglio, o se non altro lontano dai tigli di scuola. Quasi quanto un’Alfetta. Che ciò possa essere d’esempio per tutte le genti interessate a una serena rivalsa ludica di gruppo. E indùa a màgna vün, gimondi, as màgna ànca in dü. 2 2 N.d.C. E dove meno te lo aspetti… ecco, manca infatti qualcosa. Il maestro ha smesso d’incorsivare i termini barbari, di virgolettare gli spigoli, di citare le fonti ladresche dei suoi turni lunardi, un po’ pedante a volte, ma indispensabile per raccapezzarsi. Che si sia alfine affrancato dal giogo caucasico? Che abbia drizzato le gonadi? Lo vedremo. Che si sia anche un po’ rotto i coglioni, perché se son cazzi… e di cazzi non si finisce mai di parlarne… Vedremo anche questo. Che si sia finalmente concesso una libertas, un po’ San Marino e Firenze, un po’ basket e poltrona. Insomma il suo solito cazzo che s’avanza a fatica. E che cazzo. E cosa ci sto a fare io qui? Me lo chiedo con lui. Mi aspettavo maiuscole in fronte, salami di capra… E invece cazzi su cazzi… e nemmeno una mèche. Ma cosa vuol dire con «as màgna anca in dü»? È un’ammissione di bionda? È una dichiarazione gioconda? E con gimondi poi? …minuscolo… Vuol forse dirci di pedalare sul barbecue come un campione affermato, ma restando pur sempre nell’ombra? Hai voluto la braciola… e adesso son cazzi. Ma non è detto. Perché il tono è da ricrescita, da rinascita. Il flipper è da ripresa dinamica. Vuol forse dirci che è ora di puntare al record sul display della sera, scalare la quercia di nome e di fatto, galoppare col gomito alto? Vedremo ogni cosa, aldrovandi, anche questa. 188