I brani letti - CIDI Brescia

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I brani letti - CIDI Brescia
“Leggere i classici dai 12 ai 16 anni”
Brescia, 7 aprile 2014
LETTURE di brani
scelti dai relatori Pino Assandri e Mario Ambel
Lettura di Marisa Veroni regista e attrice del Teatro Dioniso di Brescia
1.
A. Prima che tutto cominci
Si dice che gli uomini impazzirebbero se la notte non sognassero; analogamente, se a un bimbo si
nega l’accesso all’immaginario, non prenderà mai contatto con la realtà. Il bisogno di storie per un
bambino non è meno vitale del bisogno di cibo, e si manifesta con lo stesso meccanismo della
fame. Raccontami una storia, dice il bambino. Raccontami una storia. Ti prego, papà, raccontami
una storia. Allora il padre si siede e racconta una storia a suo figlio. Gli si sdraia accanto
nell’oscurità, tutti e due nel letto del bambino, e comincia a parlare come se la sua voce fosse la
sola cosa rimasta al mondo, raccontando una storia a suo figlio nell’oscurità …
[Paul Auster, L’invenzione della solitudine, Einaudi Torino 1997]
B. Prima che tutto cominci
Sul valore delle storie
Quando Bàal-Shem doveva assolvere qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene
delle creature, andava allora in un posto nei boschi, accendeva un fuoco, diceva
preghiere,
assorto nelle meditazione: e tutto si realizzava secondo il suo proposito. Quando, una generazione
dopo, il Maggid di Meseritz si ritrovava di fronte allo stesso compito, riandava in quel posto nel
bosco e diceva: “Non possiamo più fare il fuoco, ma possiamo dire le preghiere” e tutto andava
secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Moshè Leib doveva assolvere lo
stesso compito. Anch’egli andava nel bosco e diceva: “Non possiamo più accendere il fuoco, e non
conosciamo più le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel
bosco, dove tutto ciò accadeva, e questo deve bastare. E infatti ciò era sufficiente. Ma quando di
nuovo, un’altra generazione dopo, Rabbi Ysrael di Rischin doveva anch’egli affrontare lo stesso
compito, se ne stava seduto in una sedia d’oro, nel suo castello, e diceva: “Non possiamo più fare
il fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conosciamo più il luogo nel bosco: ma di tutto
questo possiamo raccontare la storia”. E il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle
azioni degli altri tre.
[Racconti dei saggi yddish, a cura di Ben Zimet, L’ippocampo, Milano 2010]
2.
In apertura dell’intervento di Mario Ambel
Andavo già a scuola da qualche mese, quando accadde una cosa solenne ed eccitante, che
determinò tutta la mia successiva esistenza. Mio padre mi portò un libro. Mi accompagnò da solo
nella stanza sul retro dove dormivamo noi bambini e me lo spiegò. Era The Arabian Night e Mille e
una notte in un’edizione adatta alla mia età. Sulla copertina c’era un’illustrazione a colori, se non
sbaglio di Aladino con la lampada meravigliosa. Il papà mi parlò in modo molto serio e
incoraggiante e mi disse quando sarebbe stato bello leggere quel libro. Lui stesso mi lesse ad alta
voce una storia: altrettanto belle sarebbero state tutte le altre. Dovevo cercare di leggerle da solo e
poi la sera raccontargliele. Quando avessi finito quel libro, me ne avrebbe portato un altro. Non me
lo feci ripetere due volte e sebbene a scuola avessi appena finito di imparare a leggere, mi gettai
subito su quel libro meraviglioso e ogni sera avevo qualcosa da raccontargli. Lui mantenne la
promessa, ogni volta c’era un libro nuovo, così che non ho mai dovuto interrompere, neppure per
un solo giorno, le mie letture. (…)
Ogni volta che avevo finito un libro, ne discutevo con mio padre e talvolta mi eccitavo a tal segno
che lui doveva calmarmi. Non mi disse mai però, come usano fare gli adulti, che le fiabe non sono
vere; e di questo gli sono particolarmente grato, forse le considero vere ancora oggi.
[Elias Canetti, La lingua salvata, Adelphi Milano 1979]
3.
Nel corso dell’intervento di Mario Ambel
In cucina c'era un uomo molto alto, vestito In un modo che Maria non aveva mai visto prima.
Aveva in testa una barchetta fatta con un giornale, fumava la pipa e dipingeva l'armadio di bianco.
Era incomprensibile come tutto quel bianco potesse stare in una scatoletta così piccola, e Maria
moriva dal desiderio di andare a guardarci dentro. L'uomo ogni tanto posava la pipa sull'armadio
stesso, e fischiava; poi smetteva di fischiare e cominciava a cantare; ogni tanto faceva due passi
indietro e chiudeva un occhio, e andava anche qualche volta a sputare nella pattumiera e poi si
strofinava la bocca col rovescio della mano. Faceva insomma tante cose così strane e nuove che
era interessantissimo starlo a guardare: e quando l'armadio fu bianco, raccolse la scatola e molti
giornali che erano per terra e portò tutto accanto alla credenza e cominciò a dipingere anche
quella.
L'armadio era così lucido, pulito e bianco che era quasi indispensabile toccarlo. Maria si
avvicinò all'armadio, ma l'uomo se ne accorse e disse: - Non toccare. Non devi toccare -. Maria si
si arrestò interdetta, e chiese: - Perché? - al che l'uomo rispose: - Perché non bisogna -. Maria ci
pensò sopra, poi chiese ancora: - Perché è così bianco? – Anche l'uomo pensò un poco, come se
la domanda gli sembrasse difficile, e poi disse con voce profonda: - Perché è titanio.
Maria si sentì percorrere da un delizioso brivido di paura, come quando nelle fiabe arriva l'orco;
guardò con attenzione, e constatò che l'uomo non aveva coltelli, né in mano né intorno a sé:
poteva però averne uno nascosto. Allora domandò: - Mi tagli che cosa? e a questo punto avrebbe
dovuto rispondere «Ti taglio la lingua». Invece disse soltanto: - Non ti taglio: titanio.
PAUSA
L'armadio dipinto era talmente bianco che in confronto tutto il resto della cucina sembrava giallo e
sporco. Maria giudicò che non ci fosse nulla di male nell’andarlo a vedere da vicino: solo vedere
senza toccare. Ma mentre si avvicinava in punta di piedi avvenne un fatto imprevisto e terribile:
l'uomo si voltò, con due passi le fu vicino; trasse di tasca un gesso bianco, e disegnò sul
pavimento un cerchio intorno a Maria. Poi disse: - non devi uscire da lì dentro -. Dopo di che
strofinò un fiammifero, accese la pipa facendo colla bocca molte smorfie strane e si rimise a
verniciare la credenza.
'
Maria sedette sui calcagni e considerò a lungo il cerchio con attenzione: ma dovette
convincersi che non c'era nessuna uscita. Provò a fregarlo in un punto con un dito, e constatò che
realmente la traccia di gesso spariva; ma si rendeva benissimo conto che l’uomo non avrebbe
ritenuto valido quel sistema.
Il cerchio era palesemente magico. Maria sedette per terra zitta e tranquilla. Ogni tanto provava
a spingersi fino a toccare il cerchio con la punta del piede e si sporgeva in avanti fino quasi a
perdere l'equilibrio, ma vide ben presto che mancava ancora un buon palmo a che potesse
raggiungere l’armadio o la parete con le dita. Allora stette a contemplare come a poco a poco
anche la credenza, le sedie e Il tavolo diventavano belli e bianchi.
Dopo moltissimo tempo l'uomo ripose il pennello e lo scatolino e si tolse la barchetta di giornale
dal capo ed allora si vide che aveva i capelli come tutti gli altri uomini. Poi uscì dalla parte del
balcone, e Maria lo udì tramestare e camminare su e giù nella stanza accanto. Maria cominciò a
chiamare - Signore! - dapprima sottovoce, poi più forte, ma non troppo, perché in fondo aveva
paura che l'uomo sentisse.
Finalmente l'uomo ritornò in cucina. Maria chiese: - Signore, adesso posso uscire? – L’uomo
guardò in giù a Maria e al cerchio, rise forte e disse molte cose che non si capivano, ma non
pareva che fosse arrabbiato. Infine disse: - Sì, si capisce, adesso puoi uscire -. Maria lo guardava
perplessa e non si muoveva;· allora l'uomo prese uno straccio e cancellò il cerchio ben bene, per
disfare l'incantesimo.
Quando il cerchio fu sparito Maria si alzò e se ne andò saltellando, e si sentiva molto contenta
e soddisfatta.
[Primo Levi, Titanio, da Il sistema periodico, Torino,Einaudi, 1975]
Libri per crescere, per aprire nuove prospettive, finestre sorprendenti
4.
In apertura dell’intervento di Pino Assandri
Lui riusciva perfino a ricordare il giorno in cui, non troppo tempo prima, si era reso conto di essere
una persona.
Ce l’aveva con un tacchino. Dietro il campeggio di roulotte dove lui e sua madre andavano in
vacanza c’era una fattoria, e uno dei tacchini più grossi si era accostato alla rete e dava
un’occhiata a Simon – prima con un occhio e poi con l’altro. Simon si era bloccato mentre andava
in bagno. Gli dimostrò il suo interesse nel modo più semplice che gli venne in mente.
“A Natale” lo schernì, “ciao tacchino!”
Il tacchino se ne andò facendo glo-glo-glo. Ma Simon fu costretto a sedersi per un po’ sui gradini
del bagno. Si rese improvvisamente conto che il giorno di Natale il tacchino sarebbe finito davvero
su un vassoio, morto, mentre lui, Simon (a meno di uno stupido incidente di quei che sua madre
evitava per un pelo) sarebbe stato ancora vivo.
E questo lo fece riflettere. Sollevò la pelle del dorso della mano fino a formare una tenda in
miniatura, poi la lasciò andare. All’istante, la pelle tornò al suo posto, mantenendo la forma. La
forma di lui, Simon. Per la prima volta in vita sua, fu colpito dal pensiero di essere totalmente unico.
Nell’intera storia dell’universo, non c’era mai stato un altro lui prima. E non ci sarebbe mai stato
dopo.
“Non è un gran posto per stare seduti.”
Qualcuno lo stava scavalcando per andare al gabinetto. Ma Simon era da tutt’altra parte e
nemmeno lo sentì. Una volta, solo pochi anni prima, Simon non c’era, non esisteva affatto. E un
giorno, come quel tacchino, non sarebbe più esistito. Mai più.
“Perché non ti trovi un posto un po’ più salubre per sederti?”
Ancora il tipo di prima, che usciva. Simon non gli badò: la sua mente era altrove. Non aveva
appena fatto la scoperta di se stesso, lui, l’unico Sime Martin, vivo e (contrariamente al tacchino)
consapevole di esserlo?
Da quel giorno in poi, Simon guardò a se stesso con un nuovo rispetto, con un maggior interesse.
[Anne Fine, Bambini di farina, Salani Milano 1992]
5.
Nel corso dell’intervento di Pino Assandri
Margherita fa ondeggiare le gambe nel vuoto e il mare schizza coriandoli di luce e acqua contro le
sue piante nude, che scalciano la linea dell’orizzonte nel tentativo di infrangerla. Ma la linea rimane
intatta. La fissa: filo della vita, sospeso tra cielo e terra, sul quale immagina se stessa in equilibrio.
A vita è nu filu , dice sempre nonna Teresa, nella lingua carnale della sua terra.
E a quattordici anni sei un funambolo a piedi nudi sul tuo filo e l’equilibrio è un miracolo.
È l’estate della sua vita. È l’alba di un’età nuova. Suo padre e lei, soli su una barca a vela, a pochi
giorni dall’inizio delle superiori, nel giorno del suo compleanno. Per un attimo Margherita chiude gli
occhi e distende la schiena sullo scafo; allarga le braccia. Poi li riapre e una forza invisibile inonda
la vela. È il vento. Non lo vedi né lo senti sinché non trova un ostacolo, come tutte le cose che ci
sono sempre state. Persino il mare sembra senza limiti, eppure canta solo quando li trova:
infrangendosi sulla chiglia diventa schiuma; spezzandosi sugli scogli, vapore; sfinendosi sulle
spiagge, risacca. La bellezza nasce dai limiti, sempre. (…)
“Perché tutti i nomi delle barche sono di donna?”
Il padre non risponde, riflette in silenzio e tira su le parole come se le trovasse in fondo a un pozzo.
Sa sempre tutto, suo padre.
“Sulla barca di Ulisse, disegnata nel libro che amavo di più da bambino, c’era scritto Penelope.
Ogni marinaio ha un porto, una casa a cui tornare, perché ha una donna che lì l’aspetta, e il nome
della sua barca gli ricorda il motivo per cui va per mare…” (…)
“Papà, ho paura…”. Le lacrime assediano gli occhi.
“Qualsiasi cosa succeda ci sono io.”
“Lo so, ma questo non mi toglie la paura.”
“Allora stai vivendo.”
“Che vuoi dire?”
“Quando hai paura, è segno che la vita sta cominciando a darti del tu. Stai diventando una donna,
Margherita.” (…)
Lei tace, soffermandosi a rigirare quella parola, donna. Le fa paura. Fa troppa luce.
Suo padre la stringe più forte. (…)
“Andrà tutto bene, Margherita, andrà tutto bene..”.
Margherita si fida di quelle parole, si affida a quelle braccia. Non può sapere che niente andrà
bene, forse per questo continua a piangere gioia e dolore insieme, e non sa quale dei due
prevalga nella composizione chimica delle perle generate dagli occhi. Vorrebbe chiederlo a suo
padre, ma si trattiene. Sono cose che nessuno sa.
[Alessandro D’Avenia, Cose che nessuno sa, Mondadori Milano 2011]
6.
Nel corso dell’intervento di Pino Assandri
Puoi essere tutto
Io posso essere tutto quello che voglio posso fare tutto quello che voglio io so che posso essere
tutto quello che voglio lo so perché ci dicono sempre che possiamo essere tutto quello che
vogliamo basta volerlo abbastanza e se lo vogliamo abbastanza possiamo essere tutto quello che
vogliamo se lo vogliamo abbastanza possiamo fare tutto quello che vogliamo e mentre guardo
fuori dalla finestra la gente che passa come quella donna con un bambino nel passeggino so che
quel bambino potrà essere tutto quello che vorrà basta che lo voglia abbastanza che sia maschio o
una femmina bianco o nero celeste o rosa perché così ci hanno detto.
(Silenzio)
Viglio giocare a tennis al Grande Slam voglio giocare al Grande Slam più di ogni altra cosa al
mondo.
(Silenzio)
Però non mi hanno detto come potrei giocare a tennis al Grande Slam per quanto lo voglia ora che
non ho più le gambe perché me le hanno tagliate dopo l’incidente in macchina.
(Silenzio)
A meno che non sia una bugia a meno che non siano tutte bugie perché forse non puoi essere
tutto quello che vuoi e non puoi fare tutto quello che vuoi per quanto tu lo desideri a meno che non
sia vero tutto il contrario e posso essere solo una persona che sta seduta su questa sedia a rotelle
invece di camminare e l’unica cosa che posso fare è guardare fuori dalla finestra la gente che
passa le persone per strada che possono essere tutto quello che vogliono e fare tutto quello che
vogliono.
(Silenzio)
Non potrebbero mai mentire su una cosa così importante.
(Silenzio)
Oppure sì?
[Aidan Chambers, Kissing Game. Piccole ribellioni quotidiane, Giunti Firenze 2011]
7.
A. Alla fine. Dopo tutti i discorsi
Thomas bevve un sorso di aranciata per riprendersi dallo spavento. La signora Van Amersfoort
disse:
“Senti questa. È carina”. Teneva un libro sulle gambe. “Tu hai un acquario, vero?” domandò.
Thomas annuì. La signora Van Amersfoort sapeva tutto.
“Ascolta” disse. Inforcò gli occhiali e lesse ad alta voce:
“Il maestro Dolcedì
Si lavava i piedi
Nell’acquario ogni sabato sera.
Fra spruzzi e sapone
Cantava una canzone
Quella del du-tududù-tududera!”
Quando ebbe finito, guardò Thomas con uno sguardo interrogativo. “Allora? Che te ne pare?”
“Fa ridere” disse Thomas tutto serio. ”Ma che cosa significa quella filastrocca?”
“Be’, niente” disse la signora Van Amersfoort. “È divertente e basta”.
“Ah sì” disse Thomas. Rifletté. Era divertente e basta.
“Anche la musica di solito non significa niente” disse la signora Van Amersfoort. “ Bella e basta”.
“Sì, sì” disse Thomas. “Bella e basta. Capisco”.
“Anche il bosco o il mare non significano niente, sai” disse la signora Van Amersfoort. “Il bosco è il
bosco e il mare è il mare. Però puoi trarne piacere”.
“Sì, sì” disse Thomas. ‘Piacere’. Pensò alla spiaggia e al mare. Costruire fortezze contro la marea.
Pescare i gamberetti con un retino. (…)
Il gatto gli saltò in grembo. Era caldo e morbido. Il suo corpo vibrava per le fusa. A casa della
signora Van Amersfoort era gradevole e basta, nonostante suo marito fosse stato fucilato.
“Vuoi fare una cosa per me?” domandò la signora Van Amersfoort.
“Certo” disse Thomas.
“Vuoi leggere per me? Tieni”. La signora Van Amersfoort appoggiò il libro di filastrocche di Anne
M.G. Smith sopra il gatto in grembo a Thomas. “Comincia pure dall’inizio”.
Aprì il libro e cominciò. A volte la signora Van Amersfoort scoppiava a ridere. Lui non sapeva
perché. Era troppo impegnato a leggere.
Ciò che accadde dopo aveva del miracoloso. D’altronde erano filastrocche per bambini, no?
Com’era possibile che facessero ridere un grande? Ogni tanto alzava gli occhi per vedere il viso
della signora Van Amersfoort. (…)
Vide che la signora Van Amersfoort non era più una vecchia signora ma una vecchia bambina.
Forse da un momento all’altro sarebbe saltata su dalla sedia e avrebbe preso la corda per saltare.
Sembrava così.
Thomas leggeva e leggeva. (…)
“Bellissimo” disse la signora Van Amersfoort dopo che Thomas ebbe letto cinque filastrocche. “Ma
ora devo riposarmi un po’. Sai, una volta mio marito mi leggeva sempre i libri ad alta voce. Ah,
quant’era divertente”.
“Penso che fonderò un circolo di lettura ad alta voce” disse Thomas.
[Guus Kuijer, Il libro di tutte le cose, Salani Milano 2009]
B. Alla fine. Dopo tutti i discorsi, si ritorna a 1.
Si dice che gli uomini impazzirebbero se la notte non sognassero; analogamente, se a un bimbo si
nega l’accesso all’immaginario, non prenderà mai contatto con la realtà. Il bisogno di storie per un
bambino non è meno vitale del bisogno di cibo, e si manifesta con lo stesso meccanismo della
fame. Raccontami una storia, dice il bambino. Raccontami una storia. Ti prego, papà, raccontami
una storia. Allora il padre si siede e racconta una storia a suo figlio. Gli si sdraia accanto
nell’oscurità, tutti e due nel letto del bambino, e comincia a parlare come se la sua voce fosse la
sola cosa rimasta al mondo, raccontando una storia a suo figlio nell’oscurità …
[Paul Auster, L’invenzione della solitudine, Einaudi Torino 1997]