Clair de Lune - Liceo Foscarini

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Clair de Lune - Liceo Foscarini
GIANLUCA BIANCHI
Clair de Lune
Da quella camera e da quella casa io fuggii inorridito. L'uragano infuriava ancora in tutta la sua
collera mentre io attraversavo l'antico sentiero selciato. A un tratto rifulse sul viottolo una luce
abbagliante e io mi volsi a guardare donde poteva provenire un così insolito fulgore, poiché dietro
di me avevo soltanto l'immensa casa e le sue ombre. Il chiarore proveniva dalla luna calante, al
suo colmo, sanguigna, che ora splendeva vividamente attraverso l'unica fessura appena
discernibile di cui ho già parlato e che si stendeva dal tetto dell'edificio in direzione irregolare,
serpeggiante, sino alla sua base. Mentre guardavo, questa fessura rapidamente si allargò, il
turbine di vento infuriò in un supremo anelito, tutta l'orbita del satellite si rivelò improvvisa alla
mia vista, il mio cervello vacillò, mentre i miei occhi vedevano le possenti mura spalancarsi,
s'intese un lungo tumultuante urlante rumore simile al frastuono di mille acque, e il profondo
stagno ai miei piedi si chiuse cupo e silenzioso sui resti della casa.
Rilessi le parole del brano, rabbrividendo. La pagina strappata e ingiallita tremava nelle mie mani,
ma attribuii la colpa al freddo. Ora che la casa si ergeva maestosa e decadente dinanzi a me, le
parole di quel misterioso brano acquisivano un diverso valore.
Da quella casa io fuggii inorridito, diceva lo sconosciuto scrittore. Sarei fuggito anche io da quella
casa imponente che osservavo da diversi minuti senza il coraggio di entrare?
Controllai nuovamente l’indirizzo sul biglietto. Alzai lo sguardo verso il portone del palazzo, dove
lettere dorate riportavano una scritta: Corbeau Palais.
Mi concessi ancora qualche piacevole attimo di esitazione, rimuginando gli strani avvenimenti che
mi erano capitati negli ultimi giorni. Una settimana prima avevo trovato nella buca delle lettere, tra
bollette e opuscoli, una lettera color avorio: al suo interno c’era un brano che non conoscevo, una
pagina strappata via da chissà quale libro. Non diedi molta importanza all’accaduto, ma non dovetti
aspettare molto per ricevere un’altra misteriosa missiva. Quella stessa mattina trovai una seconda
lettera color avorio, al cui interno c’era un breve messaggio:
Drew, ti devo parlare. Corbeau Palais. 32, Mayers Avenue.
E fu così che mi trovai davanti a quel palazzo apparentemente disabitato. Non capivo la ragione di
tanto timore – che paura avevo? Che la casa potesse inghiottirmi? – eppure esitai a lungo prima di
entrare. Mentre richiudevo piano la porta dietro di me, mi maledissi in silenzio per non aver detto a
nessuno che sarei andato in quel luogo, inconsapevole di cosa avrei trovato. Era esattamente questa
la ragione per cui non avevo atteso tempo prima di recarmi all’indirizzo ricevuto: la mia insaziabile,
dannata curiosità.
L’ingresso era, come avevo immaginato, enorme e buio. Le vetrate che non erano oscurate da travi
di legno erano comunque coperte da uno spesso strato di polvere, e la poca luce che entrava
illuminava a stento la stanza. Non osai procedere oltre: quel poco che avevo visto della dimora non
preludeva a nulla di buono. Tornavo silenzioso sui miei passi, quando la musica mi giunse
all’orecchio, nitida e armoniosa. Riconobbi immediatamente la placida melodia di Debussy. Le
magiche note del Clair de Lune mi stregarono: quasi senza volerlo, avanzai nella penombra
dell’ingresso e salii per l’imperiale scalinata che conduceva ai piani alti. Ricordi del passato
accompagnavano la mia salita: quelle note riecheggiavano da un tempo lontano. Chiusi gli occhi e
la vidi suonare freneticamente, le mani veloci sui tasti del pianoforte.
Cosa farai dopo gli studi, Drew? Io voglio fare la pianista.
Arrivai al piano superiore. Le note di Debussy continuavano, guidandomi attraverso il corridoio. Mi
fermai davanti alla porta semichiusa di una camera, dal cui interno proveniva una luce soffusa, e vi
entrai, teso come la corda di un violino: cercavo di non pensare all’irreale situazione in cui mi
trovavo, conscio che se mi fossi soffermato a riflettere la paura mi avrebbe assalito incontrastata.
Ogni cosa in quella camera – il letto a baldacchino, la scrivania, lo specchio – era coperta dalla
polvere. Un libro vecchio e consumato era stato lasciato sul pavimento. Lo raccolsi e lessi la
copertina. Racconti del terrore - E. A. Poe.
Lo sfogliai febbrilmente, sapendo già ciò che vi avrei trovato – o meglio, che non vi avrei trovato.
Circa a metà, una pagina era stata strappata via. Guardai il titolo del racconto a cui era stata tolta
una parte. Il crollo della casa degli Usher.
Non l’avevo mai letto, nemmeno una parte. Ma quel nome sbiadito aveva acceso una scintilla
dentro di me. E. A. Poe.
Sentii accelerare i battiti del mio cuore: aveva forse già colto quel che il mio cervello tardava a
capire? Tentai di unire i fili, quando un tumulto di emozioni mi assalì senza esser stato annunciato.
Quasi crollai a terra per la trepidazione.
Cercai di trovare una spiegazione razionale a quella che difficilmente poteva sembrare una
coincidenza, ma mi arresi subito. Ormai avevo buttato alle ortiche raziocinio e senso logico, per
niente a mio agio in quella sfera surreale di mistero che mi abbracciava. Scossi la testa: non poteva
essere una coincidenza. Prima Debussy, poi il racconto di Poe. Tutto faceva capo a lei.
Alzai lo sguardo, confuso ed euforico, e qualcosa catturò la mia attenzione. Una cornice dorata
luccicava da una mensola. Mi avvicinai cauto, un po’ intimorito: sapevo già chi avrei trovato nella
fotografia, e ciò avrebbe spazzato via ogni dubbio, avrebbe reso l’assurda ipotesi una certezza. Non
fui quindi troppo stupito quando vidi il suo viso ridente attraverso il vetro impolverato della
cornice.
Era lei, Rachel.
****
L’avevo conosciuta quattro anni fa.
Mi trovavo in una piccola libreria del mio quartiere. Il ventilatore posto all’ingresso, antiquato
quanto l’arcigna cassiera, non dava gran sollievo alla calura opprimente di quell’estate: anche le
pagine dei libri sudavano, imprigionate tra alti scaffali polverosi.
Ero alla ricerca di un saggio consigliatomi da un professore, quando la vidi per la prima volta. La
fronte corrugata e il viso accaldato, scrutava una fila di libri. Aveva un capiente borsone a tracolla.
Non riuscii ad attribuirle una precisa età: poteva benissimo essere una liceale in partenza per il suo
primo viaggio con le amiche, oppure una giovane universitaria come me, alla ricerca di un volume
rarissimo. Quando si accorse del mio sguardo curioso, un sorriso tiepido fece capolino sul suo
volto. Nonostante la mia smisurata timidezza, mi avvicinai a quella ragazza piccola ma – ne avevo
già l’impressione – rara come una pietra preziosa.
- Ti piace il genere noir? – chiesi, accennando allo scaffale che le stava dinanzi. Cercai di
mascherare l’emozione, ma le parole uscirono comunque vibranti: mi resi conto in quell’istante del
fascino pericoloso che quella ragazza emanava, e di cui mi sentii l’inesorabile vittima.
Mi guardò continuando a sorridere, senza proferir parola.
- Forse preferisci l’horror? Ti posso consigliare Bram Stoker? E’ uno dei miei…
- No – mi interruppe. Il timbro della voce era caldo e nasale, quasi come una colata di miele.
- Io leggo solo Poe - disse, tornando a rovistare tra i libri, concentrata.
Non ero un gran patito di Poe, né dei racconti del terrore, ma mentii prontamente.
- Oh, bello. Piace molto anche a me. Anche se di recente leggo molta letteratura classica. A te
piacciono, i classici?
- Leggo solo Poe – ripetè, guardandomi negli occhi. - Edgar Allan Poe.
Dopodichè scoppiò a ridere.
- Non sono pazza, tranquillo. E’ solo che… adoro Poe, e mi risulta… difficile… leggere altro.
- Capisco – dissi, annuendo. La osservai attentamente: era di una bellezza disarmante. I capelli
erano scuri come la pelle e gli occhi, ma in quest’ultimi qualcosa – un barlume vitale, una scintilla
colorata - brillava intensamente.
Il suo voltò s’illuminò all’improvviso.
- Eccolo! – strillò, agguantando un libro. Racconti del terrore, di Edgar Allan Poe. - A casa ho una
copia molto più vecchia, la mia copia, ma l’ho dimenticata lì… - una tristezza impalpabile velava le
ultime parole. – Sai, a volte il valore affettivo delle cose è davvero… - si bloccò, come se non
trovasse le parole adatte.
Si stava avviando verso la cassa, quando le afferrai istintivamente un braccio: non potevo lasciarla
andare via. Al mio contatto la ragazza arrossì, ma non si tolse.
- Te lo regalo io – dissi tutto d’un fiato, senza rendermene conto.
- Come?
Cercai di mantenere la calma. Ma cosa diavolo mi aveva preso?
- Te lo regalo - ridissi impacciato. - Lo pago io.
- Ce li ho i soldi – replicò imbarazzata.
- Lo so, ma… voglio… voglio farti un regalo. Per te, solo per te.
Scoppiò nuovamente a ridere.
- Che buffo che sei. Va bene, allora. E io, cosa posso regalare a te?
- Vieni a cena con me. Abito qui vicino.
Alzò un sopracciglio, pensierosa, ma l’incertezza sul suo volto durò pochi istanti.
- Potresti essere un pazzo assassino, o un maniaco, ma correrò il rischio.
Scoppiai a ridere, sollevato ed eccitato allo stesso tempo.
- Perfetto. Io sono Drew, comunque.
Mi strinse la mano, esangue in confronto al colorito d’ebano della sua pelle.
- Io sono Rachel.
*
La prima sera dormì da me. E così fece la seconda, e la terza.
Scoprii presto che non aveva una casa, che era in fuga da qualcosa. Da cosa esattamente scappasse,
non l’ho mai saputo. Il borsone che aveva con sé conteva vestiti, effetti personali, uno spazzolino. Il
fatto che si trasferì subito da me favorì il nostro rapporto: vivevamo in simbiosi, l’uno dell’amore
dell’altro, ininterrottamente e – senza dubbio – felicemente.
Non seppi mai alcune cose di lei – da dove venisse, perché era scappata, se avesse una famiglia –
ma imparai ad ogni modo a conoscerla come nessun altro in vita mia. Sapevo che amava due cose al
mondo, oltre a me.
Una di questa era la musica. Rachel suonava il pianoforte, lo suonava divinamente: le sue note
erano dannate e perfette, come lei, del resto. Adorava Debussy, e tutta la sua opera. – Ma lo senti? –
diceva, gli occhi danzanti di luce, - tu lo senti? Senti questo punto… ascoltalo, è pura astrazione. E’
come se il chiaro di luna ti entrasse nel cuore… nel cuore - poi si asciugava gli occhi, commossa.
L’altra passione di Rachel era Edgar Allan Poe. Non c’era racconto, libro, aforisma di Poe che non
avesse letto, riletto, imparato a memoria. Gli chiesi spesso la ragione di tutto questo ardore per lo
scrittore, ma si limitava a dire: - E’ sublime, ecco perché. Sublime.
Io e Rachel vivemmo quasi un anno insieme, innamorati e affiatati, uniti in una felicità che prima
d’allora credevo irraggiungibile. Allora era l’amore – pensavo – il vero segreto della felicità?
Poi, un giorno, Rachel era morta. Una malattia congenita, dissero i medici, un piccolo ordigno
instabile all’interno del cranio.
Quella mattina mi svegliai accanto al suo cadavere, freddo e immobile. I suoi occhi vitrei fissavano
vacui il soffitto. Le posai le labbra sulla guancia gelida, e la baciai per l’ultima volta. Era iniziata la
caduta, stavo precipitando nell’abisso.
****
Spolverai il vetro, e osservai attentamente la fotografia.
Era proprio Rachel, senza ombra di dubbio. Mi chiesi se quella fosse stata casa sua, la dimora da cui
era fuggita quattro anni prima. Mi chiesi chi mi avesse convocato in quella casa, e soprattutto
perché. Mi chiedevo tutte queste cose, mentre il ricordo di Rachel – della sua perdita - si faceva
sempre più vivo e nitido. Scossi la testa, tentando di scacciare i fantasmi del passato. Ero riuscito a
superare il lutto una volta, ma di certo una seconda non era contemplabile.
Mi accorsi in quel momento che le note del Clair de Lune erano cessate. La casa era piombata in un
silenzio immobile e spettrale. Anche la temperatura, ebbi l’impressione, era scesa: non riuscivo a
smettere di rabbrividire.
Un soffio di vento irruppe nella stanza. Mi voltai all’istante, e ciò che vidi mi mozzò il fiato. Una
ragazza dai lunghi capelli corvini entrava nella stanza. Un lungo abito da sera le conferiva
un’aspetto elegante, ma il suo sguardo era feroce. Il volto era mezzo oscurato, ma la riconobbi
ugualmente: Rachel mi fissava, accennando un sorriso.
Sarei potuto scappare, avrei potuto saltare giù dalla finestra. Ma rimasi fermo e congelato, perdendo
qualsiasi sensibilità con tutto ciò che accadeva al di fuori di me.
- Drew… - sussurrò Rachel, avvicinandosi.
- Ra-Rachel – balbettai, a bassa voce. Cosa avrei dovuto dire? Quali parole si usano in questi casi?
Tu sei morta? Oppure sei solo il frutto della mia immaginazione? Sapevo con incrollabile certezza
chi avevo davanti, quella ragazza era Rachel. Del perché, e come, potesse essere lì non avevo, però,
la minima idea.
- Quanto mi sei mancato, Drew…
- Io… - cercai di dire qualcosa, ma non ci riuscii.
Rachel allungò una mano verso di me. Mi feci prendere dal panico, come se non fossi già
abbastanza scioccato. Non sapevo se toccarla sarebbe stata una buona idea: cosa dovevo aspettarmi,
una mano fredda come il ghiaccio? O forse, al mio tocco, si sarebbe ridotta in sabbia e cenere?
Alzai lentamente la mano e la intrecciai nella sua. Con mio gran stupore, non era più fredda della
mia. Il sorriso di Rachel si allargò. Notai in quel momento che le labbra erano di un rosso scarlatto.
- Drew… - sospirò. – Di nuovo insieme, io e te. Finalmente riuniti.
Si avvicinò ancora di più, il suo petto premeva sul mio. Ebbi l’impressione di sentire il cuore – il
suo cuore - battere allo stesso ritmo del mio.
- Ma tu… sei… viva – pronunciai l’ultima parola con particolare riverenza. Cosa diamine stavo
dicendo? Rachel era morta a pochi centimentri da me, tra le mie stesse lenzuola. Eppure la
possibilità – impensabile, incredibile – che fosse viva era la voce più recondita dei miei desideri.
Era un’assurdità… ma tanto più assurda di un fantasma in abito da sera e rossetto?
Rachel scoppiò a ridere. Il timbro cristallino della sua risata – quanto mi mancava! – era quello di
sempre, ma più glaciale e acuminato.
- No, Drew. Non sono viva… come potrei? I morti non possono tornare.
E così non possono tornare. I morti non possono tornare. Era morta. Veniva allora dall’aldilà?
- Ma tu… tu sei qui – mormorai, le gambe sempre più tremanti. Una sensazione di disagio, e di
smarrimento, mi assalì di colpo. Diedi il nome a quella strana sensazione: paura.
- Certo che sono qui. Sono venuta a prenderti – disse in un roco sussurro, poi mi baciò.
Le rosse labbra toccarono dolcemente quelle mie, e chiusi gli occhi. Mi lasciai baciare con
abbandono, quasi dimenticandomi che quelle labbra erano di una ragazza morta. Quando mi accorsi
che il bacio stava cambiando, era troppo tardi.
Il dolore mi folgorò incendiandomi la mente. La punta della lama mi penetrò nelle carni,
lacerandole in profondità e strappandomi un gemito straziato mentre sentivo la camicia imbrattarsi
del mio stesso sangue caldo e viscoso.
Spalancai gli occhi confuso e sull’orlo dello svenimento, mentre le ginocchia mi cedevano
lentamente e le mani perdevano la presa sul corpo di Rachel.
La vidi immobile e muta nella spirale del dolore che cresceva in deliranti flussi e sentii la sua mano
che si liberava della mia per posarsi sul mio petto e spingermi. La ragazza lasciò cadere il pugnale a
terra, a pochi centimetri dal mio viso.
La vista mi si stava annebbiando sempre di più, ma potei ugualmente vedere il volto di Rachel
guardarmi con dolcezza dall’alto. Una fiamma balenò nei suoi occhi, le cui pupille si fecero rosse.
Sentivo che le forze lentamente mi abbandonavano, mentre le tenebre della notte iniziavano ad
oscurare la fioca luce della camera.
- Aspetta, amore mio. – sibilò Rachel, gli occhi di fuoco turbinanti. - Tra non molto saremo di
nuovo insieme.
Sentii delle note giungere pian piano al mio orecchio.
Da ogni luogo e nessun dove il pianoforte riprese a suonare il Clair de Lune, forse per effetto di una
magia, più probabilmente nel delirio della mia mente morente.