cienza della prospettiva lineare albertiana giunta

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giunta ormai al culmine delle proprie potenzialità espressive.
Se il parapetto al quale la figura femmine è appoggiata evoca la «finestra albertiana» dalla quale guardare per portare
dentro il quadro ciò che è visto, se il sonno che impedisce alla donna di vedere effettivamente ciò che le sta di fronte richiama la visione interiore della rappresentazione prospettica, allora il taglio
netto disegnato sull’angolo di sinistra –
ipotizza l’autrice – potrebbe suggerire
uno sfondo ulteriore al di là del parapetto, quasi a indicare l’urgenza, da parte del
pittore, di forzare il mondo chiuso e perimetrato della prospettiva del De pictura e prefigurare, o quantomeno annunciare, l’esigenza di nuovi sistemi di rappresentazione dello spazio che andranno
nella direzione della geometria proiettiva di Desargues.
Da un punto di vista meta-artistico l’ipotesi interpretativa di Faietti è tanto più
convincente perché intravede nel disegno
di Raffaello un plus ultra della prospettiva lineare quattrocentesca qual è quello
di forzare i confini della «scatola albertiana» e aprire lo sguardo dell’artista su
uno spazio rappresentativo infinito. Ed è
proprio il motivo dell’infinito – di un infinito immaginato, effigiato, finto – a richiamare l’attenzione di meta-fisici divenuti meta-artisti alle soglie dell’Età Nuova. Rompere il perimetro di un mondo
chiuso e finito, gettare «il bombo» contro
«le adamantine muraglie» dell’ottava sfera, come vuole Bruno nel V dialogo De
l’Infinito, saltare per il mezzo delle immagini e dell’immaginazione oltre il Muro del Paradiso, equivale ad aprire un varco verso un ambito del possibile, incommensurabilmente maggiore e gerarchicamente sovraordinato a quello dell’essere,
che collega con maggiore continuità di
quanto non si creda, gli azzardi degli artisti e dei tecnici del Quattrocento degli
artisti, a un’esigenza di multiperspectivi-
ty che Gründler attribuisce al maturo
Wittgenstein, e che comporta il riuso, anche da parte del filosofo del Tractatus,
dell’analogia tra disegno e pensiero (p.
224).
Nelle incursioni di Wittgenstein nei domini delle arti, come nelle «geometrie del
sentimento» degli astrattisti del ’900 presi in esame da Ilaria Rossi, torna centrale una goethiana «fantasia sensibile esatta», ma soprattutto emerge una crisi della finitezza, delle alterità contrapposte, di
una linearità volta a fissare, chiudere e
ipostatizzare, che fa da preludio ai temi
che saranno affrontati da Linea III.
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Sophie Roux, L’Essai de logique de Mariotte. Archéologie des idées d’un savant
ordinaire, Paris, Garnier, 2011, 263 pp.
di Diego Donna
Se si presta fede all’opinione condivisa
da gran parte dell’ambiente accademico e
scientifico sei-settecentesco, la fisica e
l’epistemologia di Mariotte esemplificano appieno lo spirito della propria epoca,
le sue divisioni culturali, ma anche i suoi
quadri teorici di riferimento. Anzitutto
quello rappresentato dal pensiero cartesiano e dai suoi modelli esplicativi, nella
fisica come nelle scienze della vita, nella medicina come nella morale. Il metodo sperimentale di Mariotte non abbandona i lumi della geometria e dell’ordine
delle ragioni, ma libera anche spazio ad
una filosofia dell’esperienza che interroga il cartesianesimo, in particolare rispetto al problema – tutt’altro che risolto
alla fine del Seicento – della legittimità
d’una integrazione della fisica in una metafisica dei fondamenti. Leibniz parla di
Mariotte a Tschirnhaus come di un eccellente esploratore della natura, Fontanelle ne riconosce la coscienza del meto-
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do oltre che l’abilità di sperimentatore.
Condorcet ne traccerà l’Éloge, un secolo
dopo la morte, mentre D’Alembert lo
menziona fra i padri della fisica sperimentale in Francia, paragonabile per ingegno a Boyle in Inghilterra.
Uno dei meriti principali del saggio di
Sophie Roux è di sottoporre tali opinioni
a verifica grazie a un bilancio critico, accurato e oggettivo, del lavoro condotto
dal «savant ordinaire» (p. 24). La definizione, posta significativamente dall’autrice già nel sottotitolo al suo studio, mette in luce un’esigenza precisa: sgomberare il campo di indagini sulla nascita
della scienza moderna in Europa dall’ipoteca degli elogi e dei rinnegamenti
che per secoli hanno caratterizzato la mitologia del sapere scientifico. Il lavoro di
Mariotte ben si presta ad una revisione di
questo tipo. Il suo Essai de logique, pubblicato nel 1678, è offerto come esempio
d’una ricerca complessa e ambivalente,
condotta in un arco temporale di circa
quarant’anni, sulla quale pesano influenze e debiti teorici diversi. Anzitutto quello di Roberval, come hanno dimostrato
gli studi di Bernard Rochot e di Alain
Gabbey, che rimanda più in generale al
contesto della scienza cartesiana e delle
sue innovazioni teoriche. Alla scelta, ad
esempio, di un lessico ipotetico-deduttivo di cui Mariotte raccoglie l’efficacia
operativa in una concreta pratica scientifica, saggiandone però anche la validità
e i limiti rispetto a una teoria dei fondamenti.
Pioniere del metodo sperimentale all’Accademia Reale delle Scienze dal
1668 al 1684, Mariotte sconta una difficoltà comune alle elaborazioni metodiche del suo tempo: far corrispondere una
fisica generale, dedotta per causas, con
lo studio sperimentale dei fenomeni, conseguito per lo più ex hypothesi. Fondare
la scienza, evitare le dispute della tradizione, inscrivere le esperienze nel quadro
di un sapere certo: niente di più comune,
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afferma Sophie Roux, per la filosofia del
XVII secolo. La consistenza del pensiero metafisico e astratto va messa alla prova rispetto ai fini e alle esigenze della
moderna pratica scientifica. Eppure, tale
scelta, non è priva di oscillazioni e ripensamenti, che il caso di Mariotte esemplifica appieno. Ad esempio nella variazione continua dello stile di pensiero, così
come della forma espositiva del suo Essai. Dai principi a priori, assunti come
ipotesi, si passa alla loro verifica a posteriori sul piano dell’esperienza. Ma
l’istanza della causa, di cui l’Essai propone l’articolazione «more geometrico»
nella prima parte, non riesce ad esaurire
la complessità dei resoconti, degli esempi e delle digressioni polemiche di cui si
compone la concreta pratica scientifica.
La proposta di Mariotte si indirizza allora da un lato verso un metodo dell’induzione, che l’epistemologo tenta di sottrarre alle chiusure dogmatiche di certa
tradizione cartesiana, dall’altro si amplia
in un progetto più ampio di scienza, che
il filosofo legittima a partire dalla saldatura cartesiana e baconiana di teoria ed
esperienza.
In particolare, si rivela centrale il confronto con l’innovazione metodica cartesiana per l’elaborazione delle posizioni
teoriche e delle strategie retoriche messe
in campo. Sophie Roux ne ricostruisce
l’itinerario secondo quattro sezioni principali. Anzitutto un chiarimento storico
del contesto in cui si sviluppa la proposta
teorica di Mariotte – dal dialogo con gli
sviluppi del metodo cartesiano nella logica di Port-Royal, alle contemporanee
scienze della natura più o meno legate all’aristotelismo. Segue l’analisi delle proposizioni sensibili o intellettuali, singolari o universali che sostengono l’epistemologia, a cui corrisponde il sistema ontologico delle cause, delle qualità e delle
diposizioni della materia su cui si danno
le condizioni dell’esperienza. Infine, un
approfondimento sul rapporto fra ragione
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ed empiria nella costruzione del metodo
ipotetico-deduttivo, che si accompagna
ad una più ampia riflessione metafisica
sulla validità dei fondamenti della fisica
cartesiana ed al confronto con Malebranche sulla possibilità della conoscenza
delle cose materiali.
Quanto al privilegio accordato alla forma
del saggio piuttosto che del trattato, esso
tradisce un atteggiamento tipico del periodo, caratterizzato dall’opposizione allo spirito di sistema, lo stesso che aveva
contraddistinto le prime riflessioni cartesiane degli anni ’30 sullo statuto della ricerca scientifica e della sua autonomia
epistemologica. Una riflessione, però,
che in quel caso si stagliava sullo sfondo
di una crisi, scatenata dalla condanna di
Galileo, e che aveva portato il filosofo del
metodo a pubblicare i suoi risultati di
scienza – gli Essais, appunto – elidendo
completamente il problema dei fondamenti su cui si sarebbero sostenute le
strutture del mondo copernicano. Mariotte ne recupera il gesto filosofico, ma
non ne trae fino in fondo le conseguenze. Preleva cioè le verità della natura
«grain à grain» (p. 13), facendone oggetto di pubblicazioni separate, e rimane
estraneo a qualsiasi sintesi di sistema. Il
che gli impedisce di agganciare definitivamente i fatti alle leggi, le esperienze
particolari ad una sintesi di metodo che
scalzi una volta per tutte la cornice logica e metafisica delle vecchie e nuove filosofie naturali. La stessa scelta del termine «logica», che specifica il titolo dell’Essai, è indice di una certa ambiguità
lessicale: rinvia cioè ad un’idea della logica che si rifà criticamente alla tradizione, ma che è anche consapevole dell’innovazione introdotta dal lessico cartesiano. Ne consegue una riflessione di metodo indecisa fra l’architettura filosofica
cartesiana – l’esposizione «more geometrico» (p. 14) dei principi espressa dalla
prima parte dell’Essai – ed una «naturalisation de la méthode» (p. 67) messa in
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atto nelle scienze. Rimane il problema di
fornire un’intelaiatura teorica coerente ai
risultati di scienza, alternativa ad un modello di universalità ricavato dalla pura
convergenza fra i dati particolari. L’indagine empirica e la teoria della conoscenza non sembrano poter eludere la questione della loro dipendenza dai principi.
Non va dimenticato, d’altronde, come la
traslazione del cartesianesimo nella filosofia e nella scienza europee di fine Seicento veicoli altrettante declinazioni interpretative del metodo stesso, esitanti fra
risoluzioni contemplative ed applicazioni pratiche del modello cartesiano. Si
pensi alle vicende che l’evidenza attribuita da Descartes alle matematiche subisce nel dibattito successivo sulle forme
della dimostrazione scientifica. Le ricerche empiriche la assumono a modello di
una nuova legittimazione razionale della
scienza, catalizzatrice di una visione della natura alternativa all’aristotelismo. Ma
in forme affatto diverse. In Inghilterra, la
scienza virtuosa di Robert Boyle, Joseph
Glanvill, Henry Power, ne erediterà
l’ideale di certezza, collegandolo alla
possibilità di una visione dettagliata degli
ingranaggi e delle «qualità» che compongono i fenomeni. Eppure, i limiti della conoscenza umana impongono al modello meccanicista una forte cautela rispetto ad eventuali prese di posizione su
ipotesi e leggi generali, le stesse che avevano contraddistinto nei Principia le condizioni di conoscibilità assolutamente
certe ed evidenti dell’ordine della natura. In Francia, la Logique d’Arnauld, il
Traité de physisque di Rohault, la Recherche de la vérité di Malebranche, costituiscono alcuni dei riferimenti principali su cui Mariotte elabora la propria legittimazione epistemologica e filosofica.
Il fisico francese si appropria delle nuove finalità operative dei due poli – deduttivo ed induttivo – che la scienza moderna aveva ripreso dalla tradizione, ma
stenta a soddisfare quell’esigenza di
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un’unificazione del sapere su cui la tradizione cartesiana aveva tentato di risolvere il fragile equilibrio fra conoscenza
certa e conoscenza probabile, concatenazione delle cause ed esperienze empiriche, ipotetiche e congetturali. La forma
ultima dell’Essai rimanda semmai ad una
«épistemologié régionale de la physique» (p. 20) – secondo l’espressione che
Sophie Roux mutua dal lessico scientifico novecentesco bachelardiano –, adattata ai diversi modelli di oggettività dell’analisi. Fra questi occupa un posto tutt’altro che secondario il campo pratico
della morale, trattato anch’esso secondo
il duplice riferimento all’enumerazione
cartesiana delle passioni e ad un «devoir
naturel», o «devoir de convenance»,
estraneo a qualunque trattamento rigorosamente matematico-deduttivo. Il dovere
rimanda ad una logica del calcolo, tesa
sempre verso scelte particolari, fra bene
individuale e collettivo. Di qui, nelle parole di Sophie Roux, il carattere «protoutilitariste» (p. 234) dell’etica di Mariotte: l’etica è scienza delle cose pratiche,
irriducibile alle cause certe della scienza
matematica, così come alle sue modalità
di disposizione e di ordine.
Nello specchio dell’epistemologia di Mariotte si riflette insomma lo statuto e il
ruolo della filosofia del metodo in una
cultura scientifica in transizione. La sua
logica entra in contatto con una pluralità
di ambiti applicativi e specificità concettuali, fra ordine delle ragioni e sviluppo
delle scienze, esposizione a priori dei
principi e il ricorso a forme più morbide
del metodo stesso. Non solo nella proposta di una nuova intelligibilità dell’universo fisico, ma anche nell’elaborazione
di modelli locali di conoscenza duttili ai
vari campi del sapere – dalla scienza fisica alla teoria della conoscenza, alla morale. Più precisamente, l’«archéologie
des idées d’un savant ordinaire» (p. 224)
suggerisce due tesi di fondo: l’esistenza
di almeno due facce, fra innovazione e
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tradizione, che costituiscono il prisma
della ragione moderna. Secondo, la necessità di leggere le diverse pratiche
scientifiche e i loro effetti nel segno
d’una scienza delle specificità e delle discontinuità, che corre parallela alla storia delle idee e dei concetti. Una vera e
propria «archéologie des savoirs» (p.
230), consapevole dell’inesistenza di una
ragione moderna esclusiva e monolitica,
così come di un metodo che possa servire, all’altezza del XVII secolo, da strumento unificante per la ricerca empirica.
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Luca Basso, Agire in comune. Antropologia e politica nell’ultimo Marx, Verona, Ombrecorte, 2012, 247 pp.
di Emanuela Conversano
«Dice il relatore [del decreto del 14 giugno 1791, con il quale in Francia si proibirono le coalizioni operaie] Le Chapelier: “[…] gli operai non devono […] accordarsi sui loro interessi, non devono
agire in comune [gemeinsam handeln]
moderando cosi quella loro “assoluta dipendenza che è quasi schiavitù”, perché
con ciò essi ledono appunto “la libertà
dei loro c i - d e v a n t m a î t r e s, degli attuali imprenditori” (la libertà di mantenere gli operai in schiavitù!)» [MEGA
II/8, p. 694; trad. it. K. Marx, Il capitale.
Libro primo, a cura di D. Cantimori, 3
voli, Roma, Editori Riuniti, p. 805].
Luca Basso sceglie di trarre da questo
passo marxiano il titolo del suo ultimo lavoro, con il quale prosegue – attraverso
l’analisi della produzione marxiana dagli
anni Sessanta fino all’anno della morte –
la sua ricerca sulla relazione tra dimensione individuale e dimensione comunitaria in Marx, cominciata nel saggio Socialità e isolamento: la singolarità in
Marx, [Carocci, Roma, 2008], nel quale