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Asaf Schurr
Motti
traduzione di
Alessandra Shomroni
Voland
CAPITOLO PRIMO
Fuori
“Tutte le proposizioni sono risultati di operazioni di verità con
le proposizioni elementari.
L’operazione di verità è il modo nel quale dalle proposizioni
elementari nasce la funzione di verità.
Secondo l’essenza dell’operazione di verità, da funzioni di
verità ne nasce una nuova, come dalle proposizioni elementari
nasce la loro funzione di verità. Ogni operazione di verità riproduce, a partire da funzioni di verità di proposizioni elementari, un’ulteriore funzione di verità di proposizioni elementari, una proposizione. Il risultato di ogni operazione di
verità con i risultati di operazioni di verità con proposizioni
elementari è di nuovo il risultato di un’unica operazione di verità con proposizioni elementari.
Ogni proposizione è il risultato di operazioni di verità con
proposizioni elementari.”
LUDWIG WITTGENSTEIN
Tractatus logico-philosophicus
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Motti vuole bene a Menachem come a un fratello. Ovverosia,
suo malgrado.
Forse si sono incontrati durante il servizio militare. Non sarebbe insolito per degli israeliani. Oppure si sono conosciuti
ancora prima, a scuola. O all’università. Fin dall’inizio, però, il
loro rapporto è stato chiaro: fra i due, Menachem è il più forte,
anche quando batte amichevolmente la mano sulla spalla di
Motti.
È come per i cani, quando si dà loro un colpetto sul naso.
Nel caso di due persone se quel colpetto è abbastanza deciso
può forgiare il rapporto fin dall’inizio. Delineare uno schema,
tracciare un solco come fa l’acqua nella roccia (lasciandovi cioè
una traccia). È difficile poi mettere a punto una leva che sia abbastanza forte per alterare quell’equilibrio. Nei branchi di lupi
la gerarchia è più flessibile, mentre per noi esseri umani non è
raro che queste cose, una volta stabilite, rimangano irremovibili, per abitudine e per legge. Se Motti e Menachem si fossero
davvero conosciuti durante il servizio militare è chiaro chi dei
due sarebbe stato l’ufficiale. Infatti, nonostante gli anni passati, quella prima legge è rimasta impressa in Motti come un
indelebile marchio di fuoco. Lui sa che un tempo era tutto una
maschera – un tempo, solo per qualche settimana, Menachem
aveva sbraitato, inflitto punizioni, detenuto il potere, e allora
era stato più prudente essere dalla sua parte, altrimenti avrebbe
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ASAF SCHURR
potuto impartire un ordine inatteso o infliggere una punizione
per qualunque cosa. Mentre ora è il suo caro amico Menachem.
Eppure, malgrado gli anni passati (cento ore di amicizia per
ogni ora di inflessibilità) Motti non è completamente convinto
che quella di prima fosse una maschera e quello di adesso il suo
vero volto. Teme che la faccia di Menachem possa cadere in
qualsiasi istante come un abito sporco, e allora riaffiorerebbero
i lineamenti che ricorda. In qualunque momento Menachem
potrebbe ricominciare a maltrattarlo, e lui gli obbedirebbe.
La sua disponibilità a ubbidire, al pari della gentilezza, in
certi casi è per lui una specie di recinto elettrico. Uno strumento fantastico che gli crea intorno uno spazio incontaminato dove l’aria è pura, respirabile. Nessuno lo può oltrepassare (si dice Motti, mentendo). E crede di aver bisogno di quello
spazio per paura che gli altri gli facciano del male. Non ha mai
ammesso, nemmeno con sé stesso ovviamente, che il motivo è
un altro, completamente diverso. Che ha un’opinione tale di sé
da temere che persino un suo minimo gesto possa ferire qualcuno in maniera irrimediabile.
Cosa fai stasera? gli domanda Menachem al telefono. Io
pensavo di lasciare Edna con i bambini e di uscire a bere qualcosa con te, ti va? Ti passo a prendere alle otto e mezza.
Sì certo, risponde Motti. Alle otto e mezza.
Okay, ripete Menachem, allora alle otto e mezza. Vado matto
per te, lo sai.
Anch’io ti voglio bene fratello, dice Motti.
Ehi, ma sei diventato una checca? ride Menachem.
Scherzavo, minimizza Motti, non parlavo sul serio. Volevo
solo vedere come suona questa frase.
Ed ecco il problema. Tutto dipende da come suona una
frase. E nonostante non tutti i veri problemi dipendano da ciò
che si dice, molti derivano proprio da questo, dal desiderio di
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vedere come suona una frase, come si evolve. Perché nel momento in cui puoi dire qualcosa, anche di non vero, diventa imperativo farlo affinché questa cosa si evolva, si muova, si
espanda, e allora provi a fermarla (è impossibile). E nel momento in cui dici qualcosa e quel qualcosa acquista forma, è un
errore comune ritenere che sia verità. Si può dire ogni genere
di cose, anche splendide. Questo non significa nulla. Ma la tentazione, oh, la tentazione di dirle (e il bisogno di credervi).
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È seduto al tavolo da pranzo e legge il giornale. Il suo cellulare,
smontato, si asciuga lentamente sull’inserto di economia
(quando aveva finito di parlare con Menachem era caduto nel
lavandino. Il telefonino, cioè, non lui). La sua adorata cagna
Laika gli tiene la testa appoggiata sulla coscia e lui le gratta distrattamente dietro l’orecchio destro. Poi lei drizza le orecchie
e corre alla porta; un attimo dopo anche lui sente le chiavi di
Ariella tintinnare sulle scale. Emozionato come Laika si affretta
a darle il benvenuto. Occorre prepararsi: sfila il sacchetto dell’immondizia e prima che Ariella arrivi alla porta lui è già lì. Toglie la catenella, apre. Lei sale le scale con la borsa dai colori
sgargianti che le penzola da una spalla. Lui scende verso di lei,
lei alza lo sguardo, sorride.
Shalom Ariella.
Lei gli sorride ancora, col piccolo mazzo di chiavi in mano.
Laika ha avuto nostalgia di te, dice correndo giù per le scale.
Laika scodinzola dietro la porta chiusa, Motti sente distintamente il rumore mentre passando vicino ad Ariella le sfiora i
capelli con la manica. La pazienza è una grande virtù. Un pregio fantastico. Lui aspetterà quanto è necessario. La sua vera
vita lo attende racchiusa nel futuro come un gioiello in un
panno pesante.
E intanto lei sale le scale, la chiave già pronta in mano. Apre
la porta, entra, si gira e gli sorride prima di chiudersi in casa. Di
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ritorno dai bidoni dell’immondizia lui si ferma un istante accanto alla parete del salotto, quella che separa la casa di Ariella
dalla sua. La parete è fredda contro la guancia e lui fa un profondo respiro. Ha pazienza. Ogni giorno, ogni volta di nuovo,
il cuore gli si spezza (ogni giorno! È un miracolo della biologia). Ogni volta il cuore gli si spezza e una luce gli si riversa dentro illuminandolo o facendo quello che una luce dovrebbe fare
attraverso la voragine, lo squarcio apertosi in lui.
Quella sera Menachem arriva a prenderlo ed escono a bere.
Non parlano di cose molto importanti e Menachem gli batte
più volte la mano sulla spalla. Parla di scopate e ride forte. Motti
paga le birre per entrambi, poi torna a casa ed esce a fare una
passeggiata con Laika. Lei si ferma ad annusare più a lungo del
solito intorno ai bidoni dell’immondizia, lui sbircia continuamente l’orologio per vedere se riuscirà a dormire esattamente
sei ore e mezza, se avrà il tempo di bere un caffè e di farsi una
doccia veloce prima che Ariella esca di casa alla solita ora e lui
la possa incontrare di nuovo sulle scale. Arriverà un giorno in
cui le parlerà, per il momento non c’è fretta.
Torna a casa e lui e Laika vanno a dormire. Si addormenta
subito per non rimanere inattivo, perso in una selva di minuti
che non sa come impiegare. Verso l’alba Laika uggiola come se
stesse facendo un brutto sogno. Nel sonno Motti lascia cadere
la mano dal letto, accarezza Laika, lei si calma e torna a dormire. Lupacchiotta mia, le dice, lupacchiotta mia.
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Il mattino dopo, poiché la prima lezione è stata cancellata, fa
più tardi. Beve il caffè davanti alla finestra con gli occhi puntati
sulla strada. Proprio per questo è lì quando Ariella esce di casa,
davvero non di proposito. La segue con lo sguardo mentre si allontana sul marciapiede, sola, e sparisce dalla vista. Fra qualche
anno forse usciranno insieme la mattina. Cammineranno mano
nella mano fino in fondo alla via, si daranno un bacio e ognuno
andrà per la sua strada. Lui penserà a lei durante le ore di lavoro. Felice e appagato si dedicherà all’impegno pedagogico,
comprensivo e paziente. Durante l’intervallo siederà in aula
professori ma non parlerà di lei. I rapporti personali sono cose
private. E non è da escludere che facciano amicizia – lui e lei –
con un’altra coppia (oltre a Menachem e Edna con i quali, una
o due volte l’anno, andranno anche a fare una breve vacanza).
A volte inviteranno quella coppia a casa loro per una cena e una
conversazione piacevole, dolce e caffè, altre volte andranno a
vedere un film. E che film ci saranno allora! Con effetti speciali
straordinari. Oppure andranno a vedere un film in lingua originale in un piccolo cinema, o a un cineforum. Dopo la proiezione andranno a bere qualcosa in un locale vicino, e se lui non
sarà troppo preoccupato che lei possa ammalarsi o nuocere a sé
stessa, potranno pure fumare delle sigarette, magari francesi.
In altri giorni, casalinghi, non si incontreranno con nessuno e non andranno da nessuna parte. Torneranno a casa
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dopo una giornata di lavoro e mangeranno un boccone. La sera
scenderanno in strada, per una passeggiatina tranquilla con
Laika. No, non con Laika. Abbiamo detto che tutto questo succederà fra molti anni, quindi Laika sarà già morta (al solo pensiero gli occhi di Motti si riempiono di lacrime, ma non piange).
Be’, se non con Laika allora con un altro cane, o una cagna, una
figlia di Laika, perché no? Malgrado lei sia stata sterilizzata da
tempo e dovrebbe avvenire un miracolo perché abbia dei cuccioli. Ma non sarebbe impossibile. I miracoli cadono dal cielo
come pioggia, bisogna solo acchiapparne uno e non lasciarselo
sfuggire.
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Così, ad esempio:
chi non conosce i particolari del programma spaziale sovietico e non vi ha preso parte attiva potrebbe pensare che il corpo
di Laika sia rimasto incenerito all’ingresso nell’atmosfera, che
la cagnetta abbia passato pochissime ore nello spazio e sia
morta nel giro di breve tempo. È stato pure insinuato che il suo
cibo fosse avvelenato, le mancasse l’ossigeno, le avessero praticato l’eutanasia perché non soffrisse per il surriscaldamento
generato dall’attrito all’ingresso nell’atmosfera (la quale di solito assicura la nostra sopravvivenza, ma in questo caso forse è
vero il contrario). Più tardi è stato detto che Laika morì per il calore infernale. Qualcosa nella navicella si era guastato e tante
scuse per l’inconveniente.
Ma le cose non sono andate così. A Laika fu strappata
l’anima, letteralmente. In fondo non è stata solo la prima
creatura vivente a essere inviata nello spazio. È stata anche la
prima a morirvi. La prima a spargere semi di morte negli
sconfinati spazi tenebrosi, offerta sacrificale a un grande
nulla. Come membri di una tribù preistorica l’abbiamo inviata verso l’oscurità che sta davanti a noi perché placasse ciò
che si trova lì, perché quel buio non prendesse chi avremmo
inviato dopo di lei, chiuso in una scatola di metallo ermetica,
impenetrabile, nel vuoto infinito (di sicuro Laika non aveva
nemmeno una finestrella. Era completamente isolata, bloc-
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cata in uno spazio angusto e minuscolo nell’universo sconfinato).
L’ora dell’evento è irrilevante perché gli orologi frazionano
il tempo in maniera arbitraria e soltanto sotto la volta celeste,
non sopra. La cagnetta, una piccola randagia, è diventata inquieta e si è spaventata quando è stata legata, quando i motori
si sono accesi. È stata presa letteralmente dal panico quando si
è sentita schiacciata dalla forza di accelerazione. Capiva cosa
succedeva? Sapeva che quanti l’avevano circondata – accarezzata, addestrata, nutrita, le avevano preso le misure, preparata,
accudita – erano consapevoli che sarebbe morta di lì a poco? È
improbabile che lo sapesse (“una strana leggerezza l’avvolge,”
ha scritto Ben Vered “le orecchie svolazzano nella minuscola
cabina, come le zampe e la coda”. Così ha scritto, ma io non ci
credo. Ho visto fotografie della capsula in cui Laika è stata rinchiusa. Ci stava talmente stretta che le zampe non avevano spazio per svolazzare, e nemmeno la coda. Le orecchie forse sì).
Capiva da dove proveniva la terribile pressione e poi il calore
insopportabile, sempre più forte? Probabilmente no. Voleva
che il pelo le cascasse e fluttuasse per la navicella come ciuffi di
capelli di un uomo pelato? È inverosimile. Ma prima di morire,
di soffocare, forse boccheggiando in cerca d’aria, prima di venire arrostita dentro la sua stessa pelle, il cielo si è aperto e una
forte luce l’ha avvolta. E lei ha provato un piacere ancora più
grande di quando si prova ad addentare una fetta di salame.
Più grande di quello che si prova a correre nei campi, un’esperienza che non aveva mai vissuto: dalle gelide vie di Mosca era
stata portata direttamente in laboratorio.
Laika ha avuto la sensazione che mani affettuose si tendessero verso di lei per strapparla al corpo (le ossa sono rimaste
pulite pulite a girare nello spazio). Nessuno l’aveva mai abbracciata così. Il suo pelo virtuale ha luccicato di piacere e la
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sua coda evanescente si è agitata come per gioco. Laika ha visto
quella luce anche nel buio assoluto dello spazio e flebili guaiti
di eccitazione e di attesa, persino di soddisfazione, sono sgorgati dalla sua gola invisibile (pensa Motti facendosi serio. È
sempre così. Storie mai accadute, o anche piccoli enigmi, persino test di autovalutazione sui giornali lo impensieriscono.
Lui non li affronta mai con leggerezza. Sempre in modo serio).
Lei non aveva più un corpo, non aveva più niente, era libera,
completamente libera, libera di fare ciò che voleva, no, ancora
di più, libera persino dai vincoli della sua volontà.
Ha abbaiato? Devo sapere se ha abbaiato. E come risuonavano quei latrati nello spazio angusto? Come se altri cani le rispondessero da lontano?
Anche noi delimitiamo uno spazio perché le voci vi possano
echeggiare, ma le voci di chi? Gli eventi del mondo, il mondo
stesso, si intrecciano in una rete viva di dimensioni spropositate. Le dita del pensiero di Motti si tendono verso avvenimenti
passati come quelle di una tessitrice che vuole provare qualcosa di diverso, sciogliere i fili di un brutto arazzo, nodo dopo
nodo, dedicarsi a qualcosa di nuovo e di stupendo.