14. L`uomo un vaso di creta

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14. L`uomo un vaso di creta
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L’uomo un vaso di creta
ovvero della fragilità
Dal salmo 102
Come l'erba sono i giorni dell'uomo,
come il fiore del campo, così egli fiorisce.
Soldati
Si sta come
d'autunno
sugli alberi
le foglie
Leggendo questo brevissimo testo di Giuseppe Ungaretti notiamo subito come
quest'ultimo, insieme a moltissimi altri presenti nella medesima raccolta, sia attraversato
da un presagio di morte. Composta nel 1918, mentre Ungaretti si trovava soldato in trincea
nel bosco di Courton (Francia), esprime il dramma e la precarietà della condizione umana.
I soldati vengono qui paragonati all’estrema fragilità delle foglie autunnali che, ancora
appese agli alberi, di lì a poco, inevitabilmente, cadranno, vittime dello scorrere del tempo.
In senso generale il termine fragilità (dal latino frangere), denota proprio qualcosa che
può rompersi, spezzarsi; ma, lo stesso termine, può indicare qualcosa di delicato,
che richiede cura.
Di tutti in tutte le età
La fragilità caratterizza in tutte le fasi della vita l’esistenza di tutti credenti e non credenti.
L’infanzia… il neonato è fragilissimo ha bisogno di cura continua, nella sua debolezza può
essere sfruttato o gettato via…
l’adolescenza e la giovinezza con i loro momenti esaltanti, ma anche con le loro
incertezze e paure, le prime conquiste ma anche le prime sconfitte…
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l’età adulta che vede l’esperienza della fragilità negli avvenimenti della vita non previsti,
famiglia, lavoro, malattia….
la vecchiaia che rende nuovamente fragili come bambini. Bisognosi sempre più di tutto,
dipendenti, accompagnata spesso da sensi di vuoto, tristezza, colpa…
Noi tutti siamo costituzionalmente fragili, perché creature. La creaturalità, in quanto
limitatezza e dipendenza, è, in un certo senso, anche la radice di tutte le fragilità
umane che tanto ci angustiano.
Fragilità dai molti volti
Se fragile è ciò che si può spezzare e rompere, si comprende come il culmine della
fragilità sia la morte, che segna il termine di una vita strutturalmente fragile. Siamo come
il fiore del campo, la foglia che appassisce, esseri di tempo, non ci siamo dati la vita,
non possiamo darci l’immortalità.
Siamo esposti agli imprevisti, a cose che accadono e stravolgono la nostra esistenza, ci
cambiano volenti o nolenti i progetti. Un’eruzione, un’alluvione, un uragano, un terremoto o
un più drammatico e sconvolgente tsunami sono ancora sufficienti a metterci
desolantemente in ginocchio. Gli eventi naturali, quelli catastrofici s’intende, nel loro
ricorrere hanno mantenuto chiara la dimensione “eterna” di assoluta fragilità
dell’umanità e del creato.
Ma si vivono “fragilità di morte” anche attraverso la perdita di persone care, lo
sradicamento da situazioni e tempi cui è legato molto di noi - pensiamo al lavoro,
alla disoccupazione-,
l’interruzione di relazioni affettivamente importanti pensiamo alla separazione o al divorzio -, le limitazioni della salute - pensiamo ad
una malattia improvvisa…
A livello morale siamo esposti a sbagliare, a peccare, a distruggere la vita anziché a
promuoverla, all’impossibilità o estrema difficoltà ad estirpare un vizio.
A livello spirituale siamo esposti alla fragilità, a motivo di deboli motivazioni di senso,
di scelta, non tali da reggere impegni importanti e duraturi.
Nella fede ci sentiamo fragili quando conosciamo il dubbio, anche se il dubbio non
indica sempre fragilità.
La fragilità ha molte espressioni, potremmo dire che ha molti volti. Essa racconta i
nostri limiti, penetra le zone d’ombra della nostra vita.
Diversi modi di viverla
Il modo in cui la fragilità viene vissuta e valutata dipende molto dai propri valori di
riferimento, dalla cultura in cui si vive, dallo “spirito del tempo”.
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Inutile la fuga
Nella cultura del post- moderno, ossia nella nostra, in cui pare abbia diritto di esistenza
solo ciò che è forte, veloce, vincente, visibile (cultura dell’applauso), l’esperienza
della fragilità è più temuta, spesso mascherata oppure spettacolarizzata. Viviamo un
tempo in cui la frequente rinuncia a mete ideali d’alto profilo e l’accomodante
appagamento nell’effimero, l’esasperata ricerca del benessere (costruito tra l’altro sulla
misura individuale) e la minimizzazione del costo spirituale che implica un siffatto vivere,
comportano il fiorire di ideal-tipi umani singolari: l’individuo efficiente fisicamente e
psicologicamente roccioso, esteticamente incline al perfetto (o quasi), rampante in cerca
di successo (cioè, d’affermazione del proprio potere sull’altro), moralmente ed eticamente
norma a se stesso, proteso a vivere oltre i propri limiti, determinato alla difesa del
proprio privato (che non tollera intrusioni di sorta), in ultima istanza pronto al disprezzo
dei bisogni altrui.
Ma, dietro la facciata a confronto con tempi passati soffriamo troppo le nostre
inevitabili fragilità (anche quelle “ordinarie”) e non sappiamo più accettarne le
implicazioni, sia quando è “l’altro” ad esserne protagonista, sia quando riguardano noi
stessi, quasi che in tali casi o circostanze la vita sia divenuta poco meritevole
d’essere vissuta perché disumanizzata, mentre è il nostro mutamento di concezione
del valore della dignità umana che ha in realtà disumanizzato, meglio, impoverito
ognuno (e ci ha reso problematico il responsabile e corretto intenderle e viverle).
Una risposta inadeguata alla propria fragilità può atteggiarsi, in primo luogo, come
dimensione d’inattitudine alla prova. In questo tipo si esprime spesso una forma di
auto-svalutazione, talora solo soggettivamente avvertita (ma non anche oggettivamente
tale), che funge quasi da limite preclusivo alla possibilità della padronanza piena di sé.
Può trasformarsi in un crogiolarsi in tale persuasione, o assestarsi in un equilibrio
accomodante (di basso profilo) o in stagnazione
Così non ci sentiamo mai felici autenticamente, anzi come in perenne precarietà, tanto
che la vita non solo siamo disposti a non viverla o ad abbreviarla, ma neppure la
desideriamo offrire a chi vi potrebbe accedere, né la permettiamo a chi ne dovrebbe
fruire, fino alle incredibili piaghe sociali (che mai a sufficienza si stigmatizzeranno)
della crisi della natalità, delle pratiche abortive – non solo eugenetiche – e
dell’inaccettabile manipolazione o impiego dell’uomo (sia a scopi di ricerca sia di
commercializzazione), perfino nella forma creaturale più fragile che ne sia
conoscibile, cioè l’embrione.
Anche se paradossalmente nello stesso tempo la nostra stessa epoca ha migliori
opportunità di ospitare le fragilità e di curarle: pensiamo ai progressi nei vari rami della
medicina, delle scienze umane, della tecnica etc.; pensiamo al prolungarsi della vita, che
crea sempre più situazioni in cui, ognuno fragile, può avere ancora cura di altre fragilità.
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Non è possibile fuggire dalla fragilità, ignorarla sarebbe un errore, non cambierebbe
la nostra situazione. Possiamo chiuderci nell’angoscia, irrigidirci, murarci nei nostri limiti,
dolori, peccati, sentirci vittime, fuggire da noi stessi per non pensare alle nostre miserie.
Ma quando l’uomo vuole rendersi impermeabile, intoccabile, non limitato, non riesce
più ad amarsi, e neppure riesce a cogliere l’altro, ad ospitarlo.
Piste di vita
Guardare in faccia ciò che si è, è essenziale, per la crescita della propria
personalità, ma non è sufficiente; per una vita autentica, “vera”, occorre infatti anche
“amare” ciò che si è. Amarsi come si è non è però anche stare fermi! Nessuna
fragilità, per quanto cospicua, di per sé è un fato avverso o una vis maior cui resisti
non potest, tale da impedire il progresso nella vita morale.
Ma come fare? Qui l’esperienza di fede e di comunione con l’altro è fondamentale. è
possibile, perché Cristo, che ama per primo, non ha messo condizioni a tale suo
amore che ci è mediato e donato dal fratello e dalla sorella.
In un testo Michel Qouist scrive: “Non negare i tuoi limiti perché sarebbe disastroso.
Negandoli non li sopprimi…Al contrario guardali bene in faccia, senza esagerarli ma anche
senza minimizzarli… Non si tratta di lasciarsi schiacciare ma di portare e di
offrire…Rassicurati, Dio ti guarda….credi più nella sua potenza che nella tua efficacia.
Nella misura in cui tu conoscerai, accetterai e offrirai i tuoi limiti a Dio, scoprirai che la tua
povertà si trasforma in una immensa ricchezza. I tuoi limiti non sono unicamente delle
barriere, sono anche suggerimenti di Dio, per indicarti con tali pietre miliari il cammino che
devi percorrere. …..Accetta te stesso, ma accettati anche di fronte agli altri….non
desiderare di vivere la vita di un altro, essa non è adatta a te. Il Padre ha preparato per
ciascuno di noi una vita su misura: indossare quella degli altri sarebbe un errore…Sii te
stesso” (M.Quoist, idem).
La fragilità, se accolta, ci rende più umani. Possiamo accettare di stare dentro alla
vulnerabilità, alla mortalità, al limite della nostra umanità, aprendo uno spiraglio perché
entri luce dentro il buio, magari scoprendo che il buio stesso custodisce una luce: La
scelta di abitare il limite, non è sinonimo di fallimento o di impotenza, perché quando
scegliamo di accettare il limite per amore, allora il limite diventa evento creativo (
Simone Weil ).
Strada non facile
L’accoglienza delle fragilità –- a cominciare dalle proprie – come esercizio di autentica
umanità e di ringraziamento, non è certamente agevole, neppure per un credente.
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Esistono, infatti, forme di sofferenza che appaiono umanamente irrimediabili eppure
talvolta soltanto esperienze del genere permettono di scoprire che si può mostrare
il volto migliore di sé proprio nella massima fragilità (propria o altrui)! Se dunque
l’esperienza della fragilità è tale da mettere in luce soprattutto limiti e precarietà, questa
presa di coscienza può essere salutare a patto che non si smarrisca mai (anzi, sia
sostenuta) la grandezza della vocazione umana, che non si coglie soltanto nel
successo, ma anche nella caduta e nella sconfitta.
In ordine alla fede
La fragilità nelle sue varie forme , è tempo di prova, nella quale l’uomo deve decidere di
sé non solo nei suoi rapporti quotidiani, ma anche e radicalmente, del suo rapporto con
Dio: decisione difficile, perché la fragilità ‘costringe’ alla drammatica presa di
coscienza della precarietà e vulnerabilità della vita. L’esperienza della fragilità pone la
questione pratica della affidabilità di Dio. Ciò che è in gioco nella fragilità è la
decisione della fede come affidamento incondizionato, nella quale si accoglie il
dono della salvezza, ci si lascia plasmare da Dio, accettando di convertirci.
La fede cristiana che ha al suo cuore la rivelazione inaudita del Dio fatto uomo, carne
fragile, non può ritenere estraneo a sé nulla di ciò che è umano e dunque fragile.
Dio, nella storia, mostra la sua potenza di risurrezione nella massima fragilità che è
la debolezza della croce la stessa della mangiatoia di Betlemme.
Come hanno reagito all’incontro con Gesù i fragili che lui ha amato? A tutti è stata data
l’opportunità di una “guarigione”, o forse meglio, di un “rinnovamento”. Molti sono stati
“rigenerati”. Certo, per coloro che – nel senso ampio cui prima s’accennava – sono stati
“sanati”, l’esistenza è cambiata, del tutto: non solo per la guarigione fisica, o per quella
psichica o spirituale, ma anche e soprattutto perché la percezione diretta ed
inequivocabile dell’amicizia di Gesù ha prodotto in loro una speranza che prima non
v’era, un desiderio ed insieme un bisogno di ripartire da capo, o ha favorito il rifluire
di un’energia vitale positiva, riaccendendone la speranza!
Con Cristo possiamo vivere e attraversare anche la fragilità non rimanendone
distrutti come vasi di argilla andati in frantumi: “Cristo mi ha amato e ha dato la sua
vita per me” (Gal 2,20).[...] È questo amore che rende forti e coraggiosi, che infonde
ardimento e fa tutto osare.
Lo Spirito non toglie la fragilità, ma la rende luogo di manifestazione della sua
potenza, che apre alla relazione e al dono. Noi non siamo più forti di altri nell’affrontare
le traversie che la vita non risparmia. Non deve spaventarci il sentirci deboli. Occorre
però che ci lasciamo ancora dire dal Signore: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti
si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9).
Forse soltanto chi è fragile, quando sperimenta nel suo impellente bisogno l'altrui
amore per sé, scopre la gioia di avere valore, è liberato non dalla sua debolezza ma
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dalla zavorra della “inutilità” della sua debolezza. In certo senso, si fa “nuovo”, coglie
d’avere un rilievo, diventa così capace, a sua volta, di apertura di cuore e d’orizzonte, fino
a sprigionare quella tensione interiore (che anche in lui è) in virtù della quale il
sogno di chiunque (di essere forte, potente, “vittorioso”, insostituibile) si
concretizza.
Terminiamo con la preghiera composta da Kirk Kilgour, campione sportivo, ridotto su una
sedia a rotelle dopo un grave infortunio che ben commenta la nostra riflessione:
“ Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi:
Egli mi rese debole per conservarmi nell’umiltà.
Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese:
Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio.
Gli domandai la ricchezza per possedere tutto:
mi ha fatto povero per non essere egoista.
Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me:
Egli mi ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro.
Domandai a Dio tutto per godere la vita:
mi ha lasciato la vita perché potessi apprezzare tutto.
Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo,
ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà.
Le preghiere che non feci furono esaudite.
Sii lodato, o mio Signore, fra tutti gli uomini
nessuno possiede quello che io ho!”
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