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Antonio Arnaldi
Sono Antonio Arnaldi, nato a Finale Ligure Marina 15 gennaio 1925.
Sono stato arrestato dai Carabinieri di Finale Ligure il 1 marzo 1944 in seguito a uno
sciopero generale in tutta l'Italia e portato subito all'ospizio Cremasco insieme agli altri
arrestati della provincia di Savona. Mi hanno arrestato a casa, di notte, da solo, poi
durante la notte ne hanno arrestati altri ventisei. Con una camionetta, otto per volta,
ammanettati gli uni con gli altri, ci hanno portati all’Ospizio Morello, che era una colonia. Lì
ci siamo trovati in centosessanta, da tutte le fabbriche della provincia di Savona. Siamo
rimasti all’ospizio una notte e mezza giornata. Poi sono arrivate le tradotte, ci hanno
caricati su due tre vagoni e portati a Genova alla Villa di Negro. Era la villa sequestrata a
un ebreo dove c'era tutto il comando tedesco con le impiegate, i dottori e tutto. Hanno fatto
una selezione. Cento li hanno spediti l'indomani a Sesto San Giovanni, e dicevano che li
mandavano come lavoratori liberi in Germania. Noi sessanta ci hanno tenuti a fare delle
visite perché dicevano che eravamo malati, e che in Germania non volevano i malati.
Nessuno ci ha mai interrogati. C’erano impiegate dell’esercito tedesco, dottori e
comandanti. Ci chiedevano dove vo levamo andare a lavorare e noi abbiamo scelto
l’Austria, perché in Germania c’erano troppi bombardamenti. Mi ero messo d’accordo con
quattro del mio paese che avremmo fatto i montatori aeronautici. Non ho mai firmato un
contratto di lavoro, perché mi hanno messo con i malati, sennò partivo come lavoratore.
Invece un giorno ci hanno preso e ci hanno portato a San Vittore a Milano. Il viaggio
l’abbiamo fatto in treno senza manette, perché dicevano che ci portavano a casa.
Lì siamo stati tre notti e tre giorni, poi hanno aperto le carceri e ci hanno mandato a
Bergamo, alla caserma Colleoni. Lì siamo stati cinque o sei giorni dormendo nella paglia e
mangiando poco, finché un giorno sono arrivati altri prigionieri di Milano e di Torino e ci
hanno caricati su carri bestiame alla stazione di Bergamo. Destinazione Germania. Con
noi c’erano anche una ventina di donne e una quindicina di preti. Alla frontiera ci hanno
dato una minestrina e basta. Mi ricordo il nome soltanto di un prete, Don Gaggero.
Arrivati alla vecchia stazione di Mauthausen dopo un giorno e mezzo, sono venute a
prenderci le SS, ci hanno messo in fila per cinque e siamo saliti su fino al campo di
concentramento. Siamo entrati verso le nove e mezza, schierati con le SS ai due lati,
abbiamo fatto il giro della prima baracca e ci siamo fermati, dove adesso c’è il muro del
pianto. Lì abbiamo atteso che un po’ alla volta, in cinquanta circa per volta, andassero giù
a fare le docce. Prima sono andate a fare la doccia le donne, poi i preti. Avevamo con noi
del vestiario ed era stata una truffa, perché ci avevano detto di scrivere a casa per farcene
mandare, che poi saremmo andati a lavorare da civili, uscendo alla sera o alla domenica.
Tutti avevamo indumenti, ma non cose da mangiare, perché era già troppo tempo che
giravamo. Come entravi prima di tagliavano i capelli e i peli da tutte le parti, poi ti davano il
petrolio e ti mandavano a fare la doccia. Finito di fare la doccia bello nudo passavi da
un'altra parte, ti vestivi con mutande e camicia, poi ti sceglievi un paio di scarpe, zoccoli
olandesi, quello che c'era e in fretta, perché loro non avevano tempo di aspettare e
picchiavano. Poi cinquanta
per volta ci portavano nella baracca. La mia baracca di
quarantena era la 18 o la 20, non ricordo bene, ma era proprio davanti alla strada, la
passeggiata del campo. In quarantena siamo rimasti quattro o cinque giorni, forse meno.
Poi un giorno ci hanno dato calzoni e giacca e il numero da imparare a memoria, subito. Il
mio numero era 58.673, imparato subito in tedesco, altrimenti erano manganellate.
Ci hanno dato la striscia con il triangolo, il numero lo mettevi nei calzoni, e qui al braccio
una lamiera.
Un pomeriggio ci hanno dato un cappottino, un paio di calze, un pezzo di pane e di
margarina e siamo scesi giù a Gusen 1. Lì ci hanno messo in una baracca di quarantena.
Dovevamo costruire un altro campo, che sarebbe stato Gusen 2. Immaginate di vedere un
posto nudo e di dover fare uscire al completo baracche, strade, tutto. In quaranta giorni ci
abbiamo lasciato quaranta morti. Picchiavano dalla mattina alla sera, c'erano persone che
non erano capaci di lavorare con pala e piccone, erano intellettuali, sai come li
picchiavano. Non so dire quante persone potesse ospitare questo nuovo campo, una volta
rientrato a Gusen 1, del nuovo campo ho sentito dire solo che non avevano né forno
crematorio né infermeria. La distanza da Gusen 1 era di circa un chilometro. Quando sono
ritornato a Gusen 1 mi hanno sistemato alla Steyr, una fabbrica che faceva rivoltelle,
canne di fucile, canne di mitragliatrice. La fabbrica era sopra il campo, con una strada per
arrivarci, poi in un secondo tempo hanno costruito una specie di muraglione con una scala
e si saliva di lì. Si lavorava sempre dodici ore di giorno o dodici ore di notte,
continuamente. Poi c'era la Messerschmitt, un'altra fabbrica, e poi c'erano quelli che
lavoravano in campagna o nella cava. La cava era dietro la fabbrica e ci lavoravano due o
tremila persone. Noi non potevamo andarci, con tutte le sentinelle che c’erano non ci si
arrischiava ad allontanarsi dalla baracca. Io lavoravo alla baracca 2 e facevo le canne di
fucile. Alla Steyr venivano anche alcuni civili, in un primo tempo venivano e alla sera
andavano a casa, più avanti li facevano dormire lì anche loro.
Io di baracche ne ho cambiate tante, dalla 4 alla 19, poi alla 21. Ogni tanto ti cambiavano
per le disinfezioni. Sul castello eravamo in due o tre. Io ho spesso dormito con Gavazza di
Torino e con Barbera. La mattina ti svegliavi alle quattro e mezzo d'estate, alle cinque e
mezza d'inverno. Andavi a lavarti la faccia al
Wascheraum, senza né sapone né
asciugamano, e una volta lavato ti mettevi la camicia. Rientrato in baracca ti davano, se lo
volevi, ma in tanti non lo volevano nemmeno, un po' di caffè che era acqua scura del
Danubio, questo era. Il Kapò ti mandava fuori perché dentro gli davi fastidio, e prima delle
sei c'era l'appello. Se i conti erano giusti l'appello finiva in dieci minuti, un quarto d'ora, se
mancava qualcuno dovevi rimanere lì finché non ol trovavano. Quando lo trovavano lo
portavano lì perché anche lui era un numero, se eravamo in novantanove lui era il cento.
Finito l'appello ti mettevi in colonna e andavi a lavorare, quelli che avevano fatto la notte
scendevano, e tu salivi. A mezzogiorno ti davano un litro di zuppa di rape e continuavi a
lavorare, alla sera alle sei scendevi nel campo, ti davano quel po' di pane diviso in quattro,
in sei o in dieci, a seconda, e una fettina di margarina, il caffè non lo prendevi perché
aveva l’effetto di farti andare al gabinetto e nient'altro. Poi quando dicevano di andare a
dormire andavi a dormire, se non c'era il controllo dei pidocchi. Questa era la giornata.
Ogni tanto facevano questo controllo dei pidocchi, perché avevano paura del tifo
petecchiale, ma non si capisce a cosa servisse visto che ne avevamo pieno il corpo. Il
primo che alzava la mano andava e dava la camicia e le mutande da controllare. Se avevi
una sigaretta da dargli dicevano che di pidocchi non ce n’era.
Noi che lavoravamo in fabbrica avevamo un trattamento uguale agli altri riguardo il cibo,
però ricevevamo le sigarette. Ogni mese passava il capo del campo, insieme al direttore
della Steyr e al capo della baracca. Dicevano ‘questo fa una lavorazione grossa, questo
un po’ meno, questo ancora meno’. A quello più grosso davano due marchi, un pezzo di
carta da consegnare allo Schreiber quando entravi nel campo. Due marchi volevano dire
venti sigarette. Un marco dieci, mezzo marco cinque. Quando arrivavano le sigarette ti
chiamavano, ti prendevi la razione, però di dieci una la voleva già il kapò che era lì che ti
aspettava, e ne rimanevano nove. I primi tempi qualche sigaretta la si fumava, dopo si
tenevano per comprare le zuppe, la margarina e queste cose qui. Se di sigarette ce n'era
parecchie il mercato era più debole, se no diventava più forte. Però poi se a un certo
momento il kapò non ne aveva più e gridava, tu dovevi dargliene un'altra. In poche parole
di dieci te ne rimanevano poche.
Se avevi il turno di notte, ti svegliavano alle tre del pomeriggio, ti davano da mangiare,
facevano l’appello e per le sei eri a lavorare, fino le sei del mattino. Con noi al campo
c’erano anche dei religiosi, deportati come noi, vestiti come noi e uguali a noi anche nel
trattamento. Di donne, ne abbiamo visto i primi giorni, poi non ne abbiamo più viste, non
so dove le abbiano portate. Al campo il più giovane di tutti era un ragazzino di Savona,
Corrado, che era stato preso con il padre e aveva quattordici anni. A Gusen 1 c’erano sia il
Revier che il forno crematorio, che a Gusen 2 non c’erano. Le ultime baracche ad essere
riempite con i nuovi deportati erano la A, B, C. Proprio lì di fronte avvenivano le fucilazioni
e le impiccagioni, che ci portavano a vedere nel piazzale. Abbiamo assistito
all’impiccagione di due tedeschi, che dicevano avessero sabotato. Quando invece
dovevano fucilare qualcuno, chiudevano le finestre di tutti i blocchi, sentivi sparare e
basta.
Prima di Natale, erano già quindici giorni che non lavoravamo, i bombardamenti avevano
rotto tutte le centrali elettriche e non c’era corrente. Quelli che erano al campo dal 1943
dicevano che un anno prima la Germania avanzava sul fronte e per Natale avevano
ricevuto più pane e margarina. Noi avevamo una gran fame e da giorni quindi pensavamo
al Natale. A Natale eravamo a far l'appello, c’era l'albero di Natale nel campo, tutto
illuminato con i morti sotto, ed è suonato l'allarme. Quando il campo era sgombro perché
la gente era a lavorare, passavano tre addetti, avevano un carro con la scritta
"crematorio", uno teneva le stanghe nel carretto, gli altri due prendevano i morti e li
buttavano sul carro. Quella mattina avevamo appena fatto l'appello quando è suonato
l'allarme, quindi non li avevano ancora tolti. Di solito, durante i bombardamenti, ci
portavano in gallerie penso tra Gusen 1 e Gusen 2, dopo le ville dei tedeschi delle SS.
Erano gallerie costruite dai deportati, dentro cui c'erano anche i macchinari per il lavoro.
Invece a Natale ci hanno messo nel fossato del campo, tutti intorno al campo. Siamo stati
lì fino quasi alle due e mezza. Quando è venuta l'ora di mangiare ci hanno dato verdura
cruda e basta. Alla sera ho dovuto andare a lavorare, ma invece del solito lavoro abbiamo
scaldato dei pezzi di ferro per sciogliere il ghiaccio nelle macchine. Quella notte, non solo
io ma diversi di noi, dal freddo che c’era credevamo di non avere più i piedi, di averli
congelati. E’ stata proprio la notte più terribile di tutte.
Gusen 1 attorno aveva un fossato, alto circa un metro e ottanta e largo ottanta, poi c'era il
filo spinato e dopo una passeggiata dove viaggiavano le sentinelle, una ogni cinquanta
metri. Poi il muro con ancora filo spinato e le garitte con i fari e le mitraglie. Vicino alla
cava, passavano molti binari ferroviari, per portare via le pietre. Per tutto il tempo che sono
rimasto lì, ho sempre avuto la giacca e i calzoni a zebra, quella blu e bianca. Una volta
sola mi hanno cambiato la camicia quando facevano disinfezione. E basta. Due volte ho
dovuto marcare visita in infermeria e mi è andata bene, perché la prima volta avevo come
un’infezione, ho trovato un dottore che mi ha dato della pomata e in poco tempo sono
guarito. La seconda volta avevo la febbre alta, il capo officina mi ha fatto marcare visita e
di nuovo per fortuna ho trovato un dottore, non so se spagnolo o tedesco, che m'ha dato
delle pastiglie da prendere. Avevo un male alla gola che non potevo nemmeno deglutire,
ma con quelle pastiglie sono riuscito in due giorni a guarire.
La liberazione di Gusen 1 è stata di domenica, il 5 maggio 1945. Le voci erano già
circolate perché i fronti erano vicini. Eravamo nel campo e in un momento le SS erano già
scappate, sparite. A mezzogiorno abbiamo sentito un carro armato, qualcuno è salito sulla
baracca per vedere ed è arrivata ancora una raffica di mitra. Erano gli ultimi che
scappavano verso il Tirolo. Il pomeriggio alle cinque facevamo di nuovo l'appello, si è
aperto il portone del campo, è entrato un carro armato e sulla torretta della fortezza è
uscito fuori tutto il comando americano. Il carro armato ha fatto un giro e poi è partito per
andare su a Mauthausen. E lì è stata una rovina di morti, perché in tanti si sono buttati nei
magazzini dove c'era il pane e la margarina, i primi che entravano avevano il pane ma non
uscivano, perché eravamo quindici o ventimila, potete immaginarvi, tutti avevamo fame.
Poi ognuno si è disperso. Io con i compagni Magliano, Gavazza e Barbera siamo usciti
fuori dal campo e ci siamo accostati alle baracche delle SS. Passava uno con un cavallo,
ce ne siamo fatti dare un pezzo, abbiamo raccolto delle patate, e abbiamo fatto una specie
di zuppa da mangiare. In poco tempo ci siamo lasciati intorno tremila morti, perché
avevamo le budella piccole e a mangiare tanto le allargavi e ti prendevi la dissenteria.
Siamo stati a Gusen fino ai primi di giugno, poi ci hanno portato su a Mauthausen.
Siamo stati lì finché un giorno hanno fatto una colonna di carri e camion e adagio adagio ci
hanno portato giù. In ogni campo in cui entravamo ci mettevano da parte e ci trattavano
proprio bene. Siamo passati da Linz sempre col camion, poi con le tradotte a Innsbruck.
Abbiamo dormito una notte presso delle suore. I binari spesso erano interrotti e allora
bisognava aspettare un altro treno. Finalmente siamo arrivati a Genova, poi da lì a Savona
sono andato con una tradotta. Fino a Savona ero con un compagno, i cui parenti sono
venuti a prendere alla stazione. Sono rimasto solo. E’ passato con un camion uno che
conoscevo e mi ha portato fino a casa. Era il 26 di giugno. Dei miei compagni di
deportazione non ho più molte notizie perché molti sono a Milano. Uno che vedo spesso è
Maris. In tutti questi anni nessuno mi ha mai intervistato. Da una decina d’anni vado nelle
scuole, prima non si riusciva a parlarne tanto, nessuno ci credeva a queste cose.