Ho maturato una serie di riflessioni sulla professione dell`architetto

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Ho maturato una serie di riflessioni sulla professione dell`architetto
Ho maturato una serie di riflessioni sulla professione dell’architetto (anche dell’ingegnere,
credo) che desidero condividere con i soci dell’Inarch. Mi auguro di ricevere contributi,
osservazioni e assensi; ma anche le critiche sono ovviamente benvenute.
Massimo Bilò
1 – Premessa
Durante un casuale incontro con un rappresentante del CNA… (sui puntini dovremo
discutere) ho proposto di rinunciare alla prossima Festa dell’architettura e promuovere invece gli
“Stati generali della professione di architetto” o qualcosa di simile. La replica è stata immediata,
stizzosa e - ovviamente – negativa: “questo è solo sciocco populismo”, più o meno.
Mi rendo conto che la proposta sia stata inattesa e oltraggiosa per chi vive in una struttura
tanto circonfusa di storia quanto ormai inutile: siamo in un nuovo millennio e tutto il secolo passato
è in discussione. I successivi aggiustamenti del sistema ordinistico per sopravvivere a se stesso sono
stati scardinati dalla spaventosa crisi nella quale viviamo da anni; è ora di prenderne atto e
provvedere.
2 – Un popolo di architetti
Nel 2008 gli iscritti al Consiglio Nazionale erano 136.000 suddivisi in 105 Ordini
provinciali, ciascuno con il suo consiglio composto da 8 a 16 consiglieri a seconda del numero di
iscritti. Oggi sono ipotizzabili il dato di 170.000 iscritti (un architetto ogni 353 abitanti) e quello di
1250 consiglieri di vario livello (confesso che non sono stato capace di trovare sul sito del CNAPPC
dati quantitativi certi).
Una possente organizzazione, ben collaudata, in teoria capace di mobilitare una forza d’urto
non troppo inferiore a quella degli avvocati (che tengono in pugno qualunque riforma della
giustizia). Invece gli architetti non sono troppo (affatto?) considerati
Com’è possibile una tale situazione? Lo è perché gli architetti non sono un popolo, ma un
insieme di appartenenze, ciascuna con i suoi interessi configgenti.
Si suddividono in Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori; ciascuno di questi
insiemi ha le sue specificità e rivendicazioni. Ma si suddividono anche in Liberi professionisti,
Dipendenti pubblici, Docenti universitari a tempo parziale o pieno. Si suddividono inoltre in
Architetti junior e Architetti senior.
Può essere questo un popolo capace di avanzare pretese? Non è questo un caso in cui
“l’unione fa la debolezza”.
3 – L’unità della disciplina (l’opposto della molteplicità, della pluralità)
Che cosa significa raccogliere sotto uno stesso tetto architetti, pianificatori, paesaggisti e
conservatori? Un quesito questo che stimola altre domande: può avere senso oggi distinguere tra
architetti e conservatori, dopo tutte le discussioni sulla necessità di privilegiare la riqualificazione,
la manutenzione, il rammendo delle parti urbane anziché produrre ulteriore occupazione di suolo?
Che rapporto ha l’architettura con la pianificazione e quale estraneità dal paesaggismo? Perché si è
(imprudentemente?) ostacolata in ogni modo la nascita di un ordine dei pianificatori? Perché non si
è agevolata e normata la nascita delle associazioni professionali? Quali sono le differenze tra
architettura della città, urbanistica e pianificazione? E per finire: quali sono le responsabilità delle
strutture accademiche in queste scelte?
Ogni disciplina ha le sue declinazioni (penso all’etica, all’estetica, all’epistemologia, ecc. in
filosofia) e le sue specializzazioni (cardiologia, oculistica, neurologia, ecc. in medicina) ma non per
questo partorisce altrettanti ordini o articola uno stesso ordine in categorie (Leggo che gli ordini e i
collegi in Italia sono complessivamente 28 con 2 milioni e 300.000 iscritti).
Ripropongo dunque il quesito iniziale: non sarebbe dunque il caso di accantonare le Feste
dell’architettura e promuovere una riflessione collettiva, una consultazione, qualcosa come gli
“Stati generali della professione di architetto”?
Mi obiettano che costerebbe troppo: ma se ogni architetto in Italia versa mediamente 100
euro l’anno, non si potrebbe utilizzare una piccola parte dei 17 milioni di euro che ne derivano (se i
miei conti non sono sbagliati)?
4 – Sui compiti e le strutture funzionali degli ordini
Rileggendo i testi di Pirenne e di Le Goff si scopre che nel Medioevo ciascuna Corporazione
aveva compiti ben definiti: accogliere e registrare gli artigiani, tutelare il loro mestiere, dirimere le
controversie che nascessero tra gli iscritti e con i loro clienti, garantire la collettività sulla qualità
dei prodotti e la correttezza dei prezzi e dei comportamenti. A ben vedere, dunque, gli ordini
professionali hanno antiche radici nelle corporazioni artigiane: le loro competenze principali sono
restate, di fatto, le stesse; ora, per di più, sono sottoposti al controllo dello Stato.
Nel tempo, tuttavia, gli ordini hanno partorito svariate strutture parallele: centri studi,
fondazioni, case editrici, giornali, ecc. la cui utilità riguarderebbe specifici interessi degli iscritti
come l’informazione, la crescita culturale, l’aggiornamento, la formazione. Per quanto riguarda poi
quest’ultima attività, l’avvento della “formazione continua obbligatoria” non potrà che incrementare
la prolificazione di tali strutture (in Italia non possiamo non guardare con sospetto tutto ciò che
attiene alla formazione).
Sarebbe bene, dunque, che ci occupassimo di tutto ciò, se non altro per le spese che
comporta, la cui utilità, com’è noto, è molto discussa dagli iscritti a fronte dei benefici professionali
che ne ricavano.
Ripensare il sistema ordinistico incontrerebbe, dunque, significative resistenze e assunzioni
di responsabilità, delle quali l’unica veramente seria e doverosa è rappresentata dal destino
lavorativo del personale dipendente, super professionalizzato e vero asse portante degli ordini, unica
struttura operativa di effettiva utilità.
Sono alcuni argomenti da portare in discussione in quegli “Stati generali della professione di
architetto” che auspico.
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5– Radici
Riprendo il tema relativo agli antecedenti degli ordini professionali, e riporto alcune
considerazioni di due storici che riguardano la trasformazione dell’intellettuale in professionista.
Scrive …. Davide che nell’alto Medioevo le città dell’impero decadono e si spopolano
progressivamente; tuttavia sopravvivono forme di artigianato grazie alle necessità, seppur modeste,
delle circostanti aree rurali i cui abitanti acquistano alcuni manufatti che non sono in grado di
produrre. Documenti “… testimoniano l’esistenza in alcune città di ceti artigiani compatti …” che
si suddividono in scholae Sembra insomma ad alcuni storici che nell’alto Medioevo esistessero
organizzazioni riconosciute, assimilabili alle più tarde corporazioni di arti e mestieri; esse sarebbero
state una derivazione dei collegia romani, strumenti del controllo pubblico sulle attività private (cfr.
Medioevo, pag 576).
Tutela dei produttori e tutela dei consumatori si intrecciano, dunque, sin dai tempi più
antichi e, con variabili configurazioni ed intensità dei rapporti tra le parti, giungeranno sino ad oggi.
Scrive al proposito Le Goff: “L'intellettuale urbano nato nel XII secolo diventa un
professionista che si integra nel sistema cittadino delle corporazioni. Queste corporazioni di maestri
e studenti sono le università, le quali si sforzano, con l'aiuto del papato, di emanciparsi dal controllo
dei poteri ecclesiastici locali e dei poteri laici locali o nazionali. Esse conferiscono diplomi
(baccalaureato, dottorato) sulla base di esami. In Europa, è il primo tipo di promozione sociale
fondata non sulla nascita o sulla scelta dall'alto, ma sul merito riconosciuto mediante determinate
prove. Le università si organizzano in facoltà (arti liberali, medicina, diritto romano e diritto
canonico, teologia), definiscono i loro programmi, insegnano secondo un metodo nuovo - la
scolastica, che combina le autorità con il ragionamento - e utilizzano a un tempo la parola e il libro.
Sono internazionali: maestri e discepoli si spostano da un'università all'altra, scrivendo e
comunicando in latino, ottenendo negli atenei più grandi dottorati validi in tutta la cristianità e raggruppandosi in nazioni secondo la loro origine geografica piuttosto che nazionale nel senso moderno della parola. Per esempio, all'Università di Parigi c'è una nazione anglo-tedesca.”
“Le università costituiscono un modello di organizzazione scientifica e intellettuale giunto
fino a noi. Gli studenti poveri possono accedervi grazie a borse di studio che gli assicurano
l'alloggio e l'istruzione in collegi (quello fondato a Parigi a metà del Duecento dal canonico Robert
de Sorbon diventerà celebre, e sarà il nucleo d'origine della Sorbona). I maestri, che nel XII secolo
vivevano del denaro versato dagli studenti, sono ormai dei chierici (che spesso hanno ricevuto
soltanto gli ordini minori), e vivono di benefici ecclesiastici.”
Nel Duecento, esistono università soltanto in Italia a Bologna, Napoli, Padova, Piacenza e
altre ancora di minore importanza; in Francia a Parigi, Orléans, Tolosa e Montpellier; in Inghilterra
ad Oxford e Cambridge; in Spagna a Salamanca.
6 – Intermezzo
Ho raccolto una voce dal vivo che mi sembra interpretare sentimenti e risentimenti diffusi
tra i professionisti, non solo tra i più giovani.
Scrive su FB una puntigliosa ed ironica collega che si firma “Na Tizia” (farò qualche
omissione): “Si definisce Architetto una figura mitologica, parte artistica e parte tecnica che, dopo
aver sostenuto 30 esami universitari ed un esame di abilitazione professionale, si ritrova nei primi
dieci anni della sua carriera a "tirar linee" presso lo studio di un collega senior, guadagnando meno
di € 1.000,00/mese. Quando il povero sventurato decide di provare a far decollare la sua attività di
libero professionista deve: iscriversi (a pagamento) all'ordine professionale e all'Inarcassa, versando
il 10% del fatturato (per poi avere, dopo 30 anni di attività, una pensione di 700 euro); stipulare (a
pagamento) una assicurazione professionale; dotarsi (a pagamento) di firma digitale; abbonarsi (a
pagamento) alla piattaforma Sister; curare (anche a pagamento) il continuo e costante
aggiornamento della propria competenza professionale; acquisire almeno 90 crediti formativi
professionali ogni tre anni (con un minimo di 20 all’anno, di cui almeno 4 sui temi della
Deontologia e dei Compensi professionali); dotarsi (a pagamento, circa € 1.200/anno), a partire da
domani, 1 Luglio 2014, di Pos per consentire ai clienti che pagano, di farlo tramite bancomat;
seguire un corso intensivo di circo per imparare a fare i salti mortali in modo da procurarsi lavoro;
dotarsi di scarpe da ginnastica comode per correre dietro ai clienti morosi. Con l’abolizione delle
tariffe, poi, lo sventurato deve giocare al ribasso, rendendosi conto che lavora non chi è più
competente ma chi è più conveniente.
Il povero sciagurato, quando poi decide di uscire per distrarsi un po’, troverà sempre, nel
corso di una cena, una persona che gli dirà «ah sei Architetto, ho in borsa la piantina della casa che
ho appena comprato, mi dai qualche idea al volo?» o peggio ancora «sei Architetto? Anche mia
moglie ha buongusto ..» Allora diamo i numeri!!
Dal rapporto 2013 CNAPPC/CRESME, in Italia ci sono 150.000 architetti, 2,5 per 1000
abitanti, in Europa 1 Architetto ogni 1000 abitanti; in 20 anni gli architetti sono raddoppiati; il 40%
degli architetti è costituito da donne; a 10 anni dal conseguimento del titolo, il reddito mensile
medio netto è € 1300; per il 32 % degli architetti l’insoluto raggiunge il 20% del volume d’affari
annuo ed infine sono necessari 150 giorni per ottenere un pagamento dalla pubblica
amministrazione, 117 dalle Imprese.”
7 – Antipatici conflitti
L’Ordine degli architetti, com’è noto, ha i compiti di tutelare la professione e garantire
corretti rapporti tra gli iscritti. Tuttavia ci sono stati due casi nei quali lo svolgimento di questi
compiti non ha dato risultati apprezzabili. Mi riferisco, innanzitutto alla tutela del progetto che nella
Legge Merloni ha subito i peggiori affronti, come la sua inutile segmentazione e il passaggio dalla
condizione “di opera d’ingegno” a “prestazione di servizio” (a fianco delle pulizie degli uffici).
Non è credibile che una massa di professionisti come la nostra (che percentualmente non ha
pari nel mondo) non abbia potuto far fronte ad un simile oltraggio. Non ricordo una chiamata alle
armi per mobilitare i miei colleghi: l’architetto può solo subire? Dunque, l’Ordine ha fatto cilecca in
uno dei suoi compiti principali.
Ma ricordo anche alcune discussioni con valenti ordinari di due facoltà del nord che
caldeggiavano la trasformazione dei dipartimenti in qualcosa di simile alle società d’ingegneria;
ricordo anche la debole opposizione del CNA di allora. Questa omissione ha avuto le sue
conseguenze e ne cito una: nella ricostruzione dei comuni del terremoto aquilano sembrò opportuno
e legittimo affidare alle facoltà italiane compiti “di progettazione”, malgrado l’opposizione degli
ingegneri (e il mio parere, per quanto potesse valere). Oggi il Tar dell’Abruzzo ha dichiarato
illegittimi tutti i contratti, con danni non indifferenti in termini di tempo. Gli incarichi gireranno
verso i liberi professionisti? Vedremo.
Anche in merito alle progettazioni affidate ai dipendenti pubblici (sempre nella deprecata
Merloni) l’Ordine non s’è fatto sentire con la forza necessaria. Si poteva se non altro obiettare,
come qualcuno ha fatto, che questo era una colossale sottrazione di reddito ai liberi professionisti
per incrementare surrettiziamente i redditi dei professionisti dipendenti (e non solo). Quale è stato
in quella circostanza il criterio usato per la regolazione del rapporto tra gli iscritti? Vinse l’insieme
che portava più moneta? Ora la stortura sembra corretta, ma chi pagherà i danni subiti dai liberi
professionisti?
Sono tutti argomenti da porre in discussione negli “stati generali” che auspico.
P.S. Mi giunge notizia che in sede di firma del decreto contenente l’auspicata eliminazione
della percentuale riservate agli architetti dipendenti pubblici, quell’eliminazione sia stata a sua volta
espunta. Potenza della burocrazia! Permane dunque una sorta di iniqua tassa indiretta per i liberi
professionisti. Mi auguro che in sede di conversione il Parlamento adotti comportamenti più equi.
n – Conclusioni
La mia proposta provocatoria per una sessione di “Stati generali della professione di
architetto” ha ricevuto vari assensi ma pochi contributi. Il più interessante mi sembra quello di
iscrivere all’ordine solo chi fa realmente la professione (più sinteticamente direi, solo chi ha una
partita IVA ed è iscritto alla CNPAIA): una proposta rivoluzionaria che da sola metterebbe in
discussione l’universo degli ordini e dei corsi di laurea.
Un altro contributo riguarda la raccomandazione che condivido totalmente, che gli stati
generali siano un’assise con pochi obiettivi e non diventino una seduta di autocoscienza collettiva.
Aggiungerei che anche le presenze “istituzionali” dovrebbero essere meditate e che sarebbe
particolarmente utile dividere i compiti in base alle specificità dei partecipanti, ben sapendo che
molti sottili legami e convenienze intrecciate condizioneranno ogni loro proposta: la questione
organizzativa richiederebbe, dunque, molti sforzi di messa a punto e molta saggezza.
Non nascondo che dalle analisi svolte sui 7 punti postati nei giorni scorsi ho tratto idee e
proposte, alcune banali, la maggior parte radicali; non ritengo opportuno esprimerle prima di
essermi confrontato con colleghi esperti e competenti.
Mi auguro che prima o poi una rivoluzione del mondo ordinistico diventi indifferibile per
molti.