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Piccolo diario di Lampedusa
(Qui dove finisce l’Europa, o dove comincia)
Un libro è un labirinto e un deserto, e la vera poesia vive tra l’abisso e la sventura, dove passa la strada dei gesti
gratuiti, dell’eleganza degli occhi e della sorte. Perché davvero leggere non è più comodo che scrivere. E leggendo si
impara a dubitare e a ricordare. E la memoria è l’amore.
Roberto Bolaño
21 aprile
Questo viaggio comincia con un abbraccio. Faccio scalo all’aeroporto di Palermo, sulla rotta
di Lampedusa. All’uscita c’è una gran folla, le autorità, il sindaco. Aspettano il Presidente, dice
qualcuno ma pochi passi dietro di me, a comparire, è invece una coppia africana. Si muove lenta,
quasi timida. Lui ha i capelli bianchi e il viso secco, lei è più piccola. Indossano vestiti tradizionali,
stuole azzurre, copricapi. Sono i genitori di un ragazzo del Gambia che all’inizio del mese è stato
ferito in una sparatoria vicino alla stazione di Palermo, nel rione Ballarò, mi dice un signore.
Mi collego al wi-fi dell’aeroporto e cerco in rete. Il ragazzo si chiama Yusupa Susso. È
arrivato a Palermo tre anni fa. Su una barca, minorenne, attraversando l’Africa del Nord, dopo aver
lavorato in Libia. Muratore, minatore, cuoco, falegname. E cantante. Classe 1975. Sembra sia molto
conosciuto e attivo nella sua comunità. Fa anche parte di una squadra di calcio, Life and life, con
cui stava disputando le Amichevoli per la Legalità a Monreale.
Il 2 aprile Yusupa era con un connazionale a via Fiume. I due passeggiavano. Sembra che un
giovane palermitano lo abbia urtato con il motorino e ne sia nata una discussione. Ma altre fonti
dicono che i due erano stati presi di mira. Provocati, offesi. Perché qualche giorno prima Yusupa
era intervenuto a difendere un altro gambiano mettendo in fuga un gruppetto di palermitani. Un
gruppetto che non glielo aveva perdonato. La sequenza è veloce e drammatica. Qualcuno estrae una
pistola, mira alla testa di Yusupa e spara. Poi risale via Maqueda stringendo l’arma in pugno. Le
telecamere lo riprendono. Si saprà dopo che si tratta di un pregiudicato di 28 anni. Yusupa resta a
terra. Un proiettile gli ha attraversato la regione occipitale del cranio e per qualche giorno i medici
lo tengono in coma farmacologico.
Ma stasera, soltanto venti giorni dopo la sparatoria, Yusupa è miracolosamente in piedi,
accanto al sindaco di Palermo, ad accogliere i suoi genitori. Il Comune si è occupato del loro
viaggio, su proposta di un atleta palermitano olimpionico, Rachid Berradi.
Li vedo venire fuori dal tunnel d’uscita. Il figlio si tocca la giacca scura. La coppia avanza, lo
riconosce, va verso di lui. Il padre sembra un mastro Geppetto d’ebano. La madre gli resta al fianco,
composta, nel suo bel vestito rosso. Poi il vecchio crolla. Le lunghe mani nere si mettono a
treamare, scoppia a piangere. E i tre finalmente si abbracciano, mentre decine di telefonini li
fotografano. È un abbraccio antico, pieno di commozione e di vergogna. Tra gente che ritorna da un
continente, da un ospedale, da uno scampato pericolo. Nella mia infanzia l’ho già visto, e lo
riconosco. Mi allontano.
Sì, questo viaggio non poteva che cominciare così, con questa cerimonia. Come il primo
capitolo di un libro degli abbracci.
L’aereo di Lampedusa ha posto per 50 passeggeri. Ce ne sono due al giorno, come i
collegamenti in nave da Porto Empedocle. In volo balla un poco, per il vento. Il mare, nel buio, ha
come dei tatuaggi bianchi. Sono le nuvole. Improvvisamente la luna, piena, illumina l’orizzonte.
L’aereo atterra alle ventuno in punto, che nemmeno in Svizzera. A poche centinaia di metri da
Punta Sottile, il punto più a sud d’Europa.
Mi accoglie Anna, la professoressa che ha organizzato gli incontri e che mi seguirà in questo
fine settimana. Il marito si chiama come me, è un istruttore di educazione fisica, ci facciamo subito
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simpatia. Vivono qui da più di dieci anni. Salgo in macchina e mi conducono al b&b che mi ospita.
Conosco Paola e Melo. Il cane che vive qui intorno e che si chiama due calzini perché ha due zampe
bordate di bianco. E un gatto grigio di nome Gattotopo che mi viene a salutare.
La casa è piena di libri. In una cornice bianca, su un tavolino, c’è un disegno del piccolo
principe che dà la mano a un bambino eritreo su un’isola che ha la forma di Lampedusa, mentre una
tartaruga tira fuori la testa dal mare e li osserva. Ci sediamo a tavola. Spaghettini con brodo di
cernia, e poi triglie fritte. Alla fine, estratti vari, di zenzero, di finocchio. Non ci vuole molto per
entrare in confidenza. Tra un piatto e l’altro cominciano i primi racconti. Di chi è passato da questa
casa. Della biblioteca di Lampedusa e di come la tengono aperta. Della curiosità inopportuna di chi
va a vedere gli sbarchi dei migranti dalla parte alta della banchina per fotografarli. Del modo dei
volontari, invece, di accoglierli, quando arrivano. Toccarli, dargli il benvenuto, offrirgli un tè caldo,
accompagnarli fuori dal mare.
Vado a letto. Non sentivo il mare così vicino da quando ho dormito alla Bahia di Tutti i Santi,
nella città di Jorge Amado. E ho l’impressione che Salvador e Lampedusa siano sullo stesso
parallelo.
22 aprile
È la giornata mondiale della Terra. Mattina e pomeriggio incontro i ragazzi delle medie
dell’istituto Luigi Pirandello. Una seconda, poi una terza, nel pomeriggio due prime. Gli dico subito
che il mio cognome è un errore di grammatica, un congiuntivo sbagliato, e che fino a sei anni
parlavo in dialetto. Perché si può crescere in una lingua, e non in un luogo. Parliamo del significato
di alcune parole e di un’espressione che esiste solo in Sicilia, sciatu mio. Fiato mio. Hanno occhi
attenti. Mi chiedono molte cose. Che cosa fa un bibliotecario. Da dove ti vengono le idee. Com’è
fatto un treno. Chi era lo schiavo Zumbi. Matteo vuole sapere quanto c’è di vero nelle mie storie e
quanto di inventato. Francesca mi recita una sua poesia sul mare. Antonio mi mostra i suoi disegni,
Oscar ha gli occhi che danzano. Orazio mi regala un ritratto. Quasi tutti suonano uno strumento,
molti sanno giocare a scacchi. Soltanto due ragazze non sono italiane, una moldava e l’altra
thailandese, ma solo per metà.
In una pausa, tra un’ora e l’altra, Anna mi porta a vedere la Biblioteca per ragazzi che hanno
messo su. L’edificio è al centro di una piazzetta nel corso. In via Roma. Qui, mi ha ripetuto in
classe, con orgoglio, uno dei mille bambini di Lampedusa: “prima, d’inverno, era la strada dei
fantasmi. Ora c’è una Biblioteca.” Su un lato, è stato dipinto un enorme murales azzurro. Anna
apre la porta, entra, tira su le persiane. La luce illumina un ambiente che sembra un asilo. Due
stanze piene di colori e di libri. Albi illustrati, romanzi d’avventura. Alcuni sono in arabo e in altre
lingue. Il bancone è al centro, come in ogni biblioteca. Molti disegni di bambini sono appesi su un
filo perché dalle pareti si staccherebbero per via dell’umidità. Su un muro è stata disegnata una
casa. Su un altro un treno giallo e rosso, con un vagone solo. Leggo la scritta di una bambina da un
foglio: “IO VOGLIO UNA BIBLIOTECA PERCHÉ COSÌ MI SENTO MENO SOLA E SONO FELICE”.
Ma il destino di questa biblioteca è ancora precario. Non è stata istituzionalizzata. Non fa
ancora parte di nessun sistema bibliotecario. Non si sa se potrà restare in questa piccola ma allegra
sede. Non si sa neppure se potrà continuare a essere aperta. È nata su un progetto di IBBY Italia. E
per ora ci pensano pochi volontari, gli stessi ragazzi, che vengono qui il pomeriggio, e fanno le
tessere, danno i libri. È una biblioteca di frontiera, con piccoli bibliotecari di frontiera che, come
l’uovo di una tartaruga, si è schiusa da sola.
Torno in una classe e dico ai ragazzi che le biblioteche si ammalano. Mi guardano curiosi. Sì,
si ammalano, come gli esseri umani. Prima si prendono un raffreddore, poi gli viene la febbre. A
volte sono malattie mortali. L’anno scorso hanno chiuso trecento biblioteche in Italia. Come fanno a
morire, mi chiede una ragazza e la curiosità le arriccia i capelli. Le tolgono i soldi, non le fanno più
comprare libri, non pagano chi ci lavora, non ne sostengono il progetto, non le assegnano una sede,
e piano piano muoiono. Capisce molto più velocemente di chi avrebbe il potere di farle
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sopravvivere. Ma un po’ già lo sanno, perché questa biblioteca la tengono aperta loro. Se ne
prendono cura.
A casa mia c’erano solo tre libri. Lo ripeto a ciascun alunno. Non avrei mai potuto tentare di
fare quello che ho sempre desiderato fare, cioè scrivere, se nella mia scuola elementare non ci fosse
stata una biblioteca. È l’unica patria che riconosco, come diceva Elias Canetti.
Alla fine dell’ora, un’altra ragazza mi chiede: Ma secondo te è giusto che si debba pagare per
il cibo? Non so rispondere. Ma nelle biblioteche, almeno, le dico, i libri te li danno gratis.
Sì, c’è davvero un equivoco di fondo intorno a questa isola, come prova a spiegarmi la gente
che incontro. C’è una restituzione sbagliata della sua quotidianità. Un racconto distorto.
Santificazione o demonizzazione. Noi non siamo lampedusanti, mi dicono, vorremmo soltanto
avere cose che non abbiamo, che i nostri ragazzi non hanno, come un cinema o un centro sportivo,
una libreria, qualche edicola in più. Una biblioteca, appunto. E che si riconosca la possibile
normalità della gentilezza. Percepisco un senso di ribellione, un’allergia alla spettacolarizzazione
insistita del dolore, della morte, dell’avvilimento di chi approda qui da continenti dimenticati
quanto quest’isola, che non fa altro che anestetizzare ogni empatia, alterare e strumentalizzare ogni
narrazione.
La morte dei migranti è una morte senza nome. Nel cimitero solo due lapidi lo hanno. Il
problema è che si tende sempre a spersonalizzarli. Bisognerebbe lasciare parlare loro, dice Paola,
non ciarlare di noi che siamo qui, da quest’altro lato del molo. Quello che insieme agli altri
volontari facciamo, insiste, non è niente di straordinario. Tentiamo solo di dare quel poco di aiuto
che un essere umano può dare a un altro essere umano. E restituirgli la soggettività che tutti gli
negano.
Mi viene in mente l’arabo ucciso da Mersault nello Straniero di Camus. Un corpo steso su un
bagnasciuga. Come un animale spiaggiato. Ho letto da poco Il caso Mersault, scritto da un algerino.
“Ti riassumo la storia prima di raccontartela: - scrive Kamel Daoud – un uomo che sa scrivere
uccide un arabo che quel giorno non ha neppure un nome – quasi l’avesse lasciato appeso a un
chiodo prima di entrare in scena -, e poi comincia a spiegare che è tutta colpa di un Dio che non
esiste e di ciò che ha capito sotto il sole”. È un libro che ci chiede conto. Racconta la stessa storia,
ma dal punto di vista del morto. Dalla sabbia bagnata della riva. Abbiamo creduto di essere noi gli
stranieri, di portare noi sulle spalle il peso dell’assurdo. Ma abbiamo preso una cantonata. Di
quell’arabo steso per terra non sappiamo nulla, nemmeno il nome.
Paola ha ragione. I migranti continuano a essere invisibili. Da quest’isola transitano. Spesso
non se ne accorge nessuno. È un punto di approdo, di primo soccorso, di smistamento. Passano,
come le nuvole. E continuano ad arrivare, instancabilmente. Ogni due, tre giorni, almeno una volta
alla settimana.
Dopo l’incontro con due prime medie nel pomeriggio, Fabio mi porta a visitare il centro che si
occupa delle tartarughe marine. Ho sempre avuto una passione per questo animale. Per me sono un
simbolo della nostalgia, della resistenza, e di tutte le migrazioni. Mio padre mi raccontava una
favola, da piccolo: le tartarughe sono l’animale più orgoglioso e libero del pianeta, mi diceva, così
libero che furono insofferenti pure di abitare nel giardino di Dio. Per questo Dio le punì, le
costrinse a diventare lente sulla terra e solitarie in mare e a portarsi per sempre la loro casa sulle
spalle.
Nelle vasche del centro ne vedo tre. La prima si chiama Jacopo. Ma solo perché questo è il
nome di chi l’ha recuperata. Le tartarughe vivono di solito fino a cento anni, ma solo a trentacinque
si capisce il loro sesso.
La ragazza che ci accompagna, gentilissima, è una volontaria. Era venuta per tre settimane,
resterà due mesi. Ce ne sono anche altri. Puliscono, fanno da guida ai turisti, li sensibilizzano su
questa specie in via di estinzione.
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Penso all’esigenza di dare un nome che abbiamo, anche agli animali. Per riconoscerli.
Distinguerli. Poterne raccontare la storia. E mi tornano in mente le parole di Paola: tutti hanno
diritto a una storia, meno i migranti. Jacopo aveva un amo nell’esofago che usciva dalla bocca e una
rete fantasma che si trascinava appresso. Le manca una parte di pinna. Forse per il morso di un
palombo, un piccolo squalo del Mediterraneo.
La seconda tartaruga è la più grande: è qui dal 2007. Si chiama Homerous. Ha ricevuto una
botta al carapace e subìto una frattura alla spina dorsale. La pinna danneggiata è quella posteriore, il
timone che la dirige (mentre sono quelle davanti a dare la spinta propulsiva). Se la lasciassero
andare, morirebbe. Non riuscirebbe a mangiare. Ruoterebbe su se stessa. Per questo fa fisioterapia
tutti i giorni. Sperano ancora di salvarla.
L’ultima ha nome Chiara, per il colore. Sembra di miele e non la smette di nuotare nella
vasca. È rimasta impigliata in una rete che le aveva segato la carne fino all’osso. Una pinna stava
andando in cancrena, ma è stata curata e per fortuna non si è dovuta amputarla. La tirano fuori
dall’acqua e me la fanno toccare.
Daniela, la direttrice del centro, mi spiega che le tartarughe sono animali ostinati, solitari,
pieni di tenacia e di perseveranza. Non hanno confini, nessuna barriera. Se scompariranno, in mare
avremo un sovrappopolamento di meduse, di cui sono predatrici: di conseguenza le piante si
ridurranno e così anche l’ossigeno, con tutti gli effetti che possiamo immaginare. Poi mi mostra i
barattoli in fila sopra un tavolo. Sono pieni di piccole tartarughine in formalina, con l’involucro
dell’uovo appena schiuso. Sono quelle che non ce l’hanno fatta a sopravvivere.
Il giorno della Terra, che si celebra oggi, mi dice Daniela, fu istituito il 22 aprile del 1970.
Pure di questo bisogna parlare ai ragazzi. Basta che la temperatura del pianeta aumenti di un altro
grado e mezzo e la situazione diventerà irreversibile. Abbiamo appena trenta, quarant’anni di tempo
per intervenire. E ricordarci che l’uomo di Neanderthal aveva trecento gradi di cervello in più di
noi, ma si è estinto per la glaciazione. Non sopravvive il più forte, ma il più adattabile, sarebbe bene
tenerlo a mente.
Homerous è un po’ come la Terra, come noi, come Lampedusa, penso mentre esco dal centro.
Esseri e isole con una pinna rotta, dal destino incerto.
Torniamo in macchina e Fabio mi porta a vedere la Porta d’Europa. Attraversiamo l’isola.
Pochissimi alberi. Qualche agave. Eppure, un tempo, quest’isola era boscosa. La comprarono i
Borboni dai Tomasi, gli antenati del Gattopardo. Ma i Tomasi non l’hanno mai abitata né visitata.
La diedero in affitto ai maltesi, che non gli pagavano però il censo. Allora decisero di venderla. Il re
di Napoli la acquistò e provò a trasformarla in una colonia agricola. Mandò degli scienziati
dell’epoca per redigere uno studio (su come portare l’acqua dolce, sulla posizione del porto, sulle
condizioni ambientali). Poi spedì un capitano di vascello, Bernardo Maria Sanvisente, con 120
coloni, nel 1843. La storia moderna di Lampedusa comincia da quella data.
Dalla macchina vedo un’insenatura naturale. Si chiama Cala Galera, mi dice Fabio. A fine
Ottocento ci mandavano dei prigionieri. Lampedusa ospitò anche Errico Malatesta, l’anarchico, che
riuscì a fuggire per la Tunisia, andò a Londra, tornò ad Ancona, diede origine alla Settimana Rossa.
Sotto il fascismo, Lampedusa diventò isola di confino. Domicilio coatto, ai limiti estremi della
Nazione. Qui fu relegato un vignettista satirico e caricaturista, Giuseppe Scalarini perché la satira ha
sempre infastidito i regimi (i fascisti lo aggredirono, gli fratturarono una mandibola, poi lo
condannarono a cinque anni tra Lampedusa e Ustica, e alla fine gliene condonarono due). Anche
Guido Picelli vi fu esiliato (prima socialista, poi comunista, poi antistalinista, Picelli aveva fondato
gli Arditi del popolo, guidato il fronte unico antifascista a Parma, era emigrato in Unione Sovietica,
per finire la sua vita nel Poum, battaglione Garibaldi, morendo a 47 anni sul fronte di Mirabuena,
durante la guerra civile spagnola per la sventagliata di un mitra nemico o per un colpo di pistola alle
spalle).
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Parcheggiamo. La Porta d’Europa è un monumento di Mimmo Paladino, per i migranti
deceduti e dispersi in mare. È indirizzata nel luogo in cui avvenne un naufragio e sorge accanto a un
bunker della seconda guerra mondiale. Qualche anno fa, quando Lampedusa venne invasa da una
migrazione di massa di tunisini, questo luogo lo chiamarono la collina della vergogna. Perché ci
dormivano in migliaia.
All’ora in cui arriviamo noi, non c’è nessuno. Fabio mi mostra una specie di camomilla che
cresce solo qui, una pianta endemica. In un viaggio di venticinque anni fa raggiunsi Cabo da Roca,
sopra Lisbona. Il punto più a occidente d’Europa, dove la terra finisce e il mare comincia, secondo
un verso di Camões. Lampedusa è l’isola più a sud. E mi torna alla memoria l’incipit del romanzo
di Saramago che ho amato di più: Qui il mare finisce e la terra comincia.
Parlo con Fabio e mi accorgo che anche i suoi occhi reclamano un’utopia possibile. Niente di
prodigioso o irrealizzabile. Un’isola senza automobili o motorini che non siano elettrici, per
esempio. In fondo, Lampedusa è lunga solo undici chilometri. Ed è battuta dal vento. Si potrebbero
usare altre forme d’energia, non quelle prodotte dai combustibili. Basterebbe un parco di pale
eoliche in mare. Pannelli fotovoltaici. Allora sì che quest’isola diventerebbe per davvero la porta di
una nuova Europa.
In fondo, come diceva Eduardo Galeano, l’utopia è come l’orizzonte che abbiamo di fronte.
Non si potrà raggiungere, ma ci serve per andare avanti. Siamo solo noi che non riusciamo più a
immaginarlo.
23 aprile
All’entrata dell’istituto onnicomprensivo Ettore Majorana-Luigi Pirandello (il primo è il nome
del liceo, il secondo delle medie) c’è la riproduzione di Guernica. È stata dipinta sul muro molti
anni fa. Fabio è in palestra. Alcuni studenti stanno giocando a pallavolo. Mi chiedono se voglio fare
due tiri anch’io. Sono secoli che non tocco un pallone, che non salto contro una rete. Al primo
tocco, la palla va alle stelle. Poi, lentamente, riprendo le misure, cerco la posizione e con un po’ di
fortuna riesco persino a fare un punto.
In classe mi aspettano con le sedie già messe in circolo. Il nome lo sanno, è scritto sul
frontespizio dei libri, ma mi presento lo stesso. Gli racconto la mia storia. Di figlio di emigranti.
Delle nostre spartenze e dei miei desterradi. Della tavola per gli assenti che apparecchiava mia
nonna durante le feste. Degli inventori sfortunati e dei grandi bugiardi che conobbi da bambino e di
come scoprii di essere il nipote del capitano Achab. E infine di come mi ammalai di letteratura.
Alla fine dell’ora hanno molte domande e chiedono alla professoressa di inglese della lezione
successiva un altro po’ di tempo. Hai pensato di smettere di scrivere? Che genere di musica ami?
Gli dico che in musica ci sono due accenti: battere e levare. Noi occidentali ragioniamo in battere,
camminiamo in battere, parliamo in battere. A me invece piacerebbe riuscire a scrivere in levare, in
leggero ritardo, mezza battuta dopo, dando così a ogni periodo un movimento imprevisto, quello
che i portoghesi chiamano balanço, un ondeggiamento. Perché la musica in cui mi riconosco di più
è la bossa nova. Seguendo lo stesso parallelo musicale, finiamo per parlare di Raymond Carver, dei
racconti brevi, che in Italia si pubblicano e si leggono poco, ma che sono i più difficili da scrivere.
Quelli di Carver terminano prima dell’ultimo accordo, con una cadenza evitata, e restano lì, sospesi.
Gli racconto allora la storia di Django Reinhardt e di Garrincha. Un chitarrista monco figlio di un
clown e un calciatore con una gamba più corta di cinque centimetri. Storie di chi ha subito un
danno, ma intorno a quel danno ha inventato una finta per gabbare la vita.
Mezz’ora dopo sono sul corso di Lampedusa. Chiamo Paola. Ci sediamo a prendere un caffè e
una pasta. Un vecchio con i baffi bianchi e la coppola in testa ci saluta, sussurrando un proverbio
che ho sentito tante volte da bambino: Come arrinesce si cunta. Come viene, si racconta.
Prendiamo la macchina e andiamo a vedere l’isola dei conigli.
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Al porto alcuni ragazzini africani giocano a palla in mutande. Sono i primi che vedo. Altri
migranti sono seduti su uno scoglio, hanno un fazzoletto bianco in testa.
Sbagliamo anche le parole: i migranti approdano, gli eserciti sbarcano, mi dice Paola, citando
un suo amico. Ma neppure queste sfumature contano poi così tanto, aggiunge. Vuoi vedere dove
approdano? mi chiede. Faccio segno di sì, e lei gira la macchina.
È in cima al porto. Scendiamo. È qui che Paola e gli altri volontari vengono ad accoglierli.
Stendono un tappeto, gli portano il tè, li salutano, uno ad uno, gli dicono welcome. È un gesto
politico, il loro. Li toccano senza guanti e senza mascherine, ma nessuno si è mai preso la scabbia. I
migranti scendono a piedi scalzi, sotto tre tettoie. I medici gli guardano le dita e la pancia, alzano le
vesti anche alle donne, che sono musulmane e che hanno il problema urgente di fare la pipì, ma non
c’è un posto dove appartarsi, non ci sono bagni chimici. I volontari sollevano dei teli sulle pietre, le
coprono.
La banchina è affollata e divisa in due, quando arrivano le barche. Saranno almeno in
cinquanta, tra poliziotti, medici e guardie costiere. Di notte non c’è nessuna luce, solo un gruppo
elettrogeno. Sulla parte alta c’è gente che scatta le foto. Sotto ti dai da fare. I volontari sono cinque,
sei, sempre diversi. Il primo gruppo di migranti sale su un autobus e parte subito. Gli altri aspettano.
Una mezz’ora almeno. Questo è il momento in cui si parla, si sta un poco insieme. I migranti sono
anglofoni o francofoni. Spesso sono contenti di essere arrivati, dipende da com’è andata. Ti
ringraziano, dice Paola, si mettono a cantare, c’è sempre qualcuno con la maglietta di una squadra
di calcio italiana. Ti mostrano come sanno contare nella nostra lingua.
Altri approdi sono invece drammatici. Scendono in lacrime: c’è chi urla, altri sono in stato
catatonico. Hanno visto morire uomini, donne, parenti, amici. Lo capisci da come attracca la barca,
se sono allegri o disperati. Gli diamo le coperte termiche, continua Paola, i succhi di frutta, le
merendine, il tè, portiamo i giocattoli per i bambini. Ma sono loro i protagonisti di quello che
accade, sono loro che camminano su un tappeto rosso e noi intorno. Sono loro che stanno facendo
una rivoluzione. E speriamo che non si integrino mai del tutto, conclude, ma che ci cambino, che
cambino il nostro modo di essere e di vedere.
Proseguiamo, sempre in macchina.
Il paesaggio mi ricorda quello delle isole Aran. La stessa divisione dei campi a muretti di
pietra. In qualche zona è stata compiuta un’opera di rimboschimento. Ma gli alberi restano bassi.
Crescono in orizzontale. Un gruccione ci passa davanti. Ha le ali blu, il corpo giallo. In alto vola un
falco. Potrebbe essere la strada dove cammina Travis, il protagonista di Paris, Texas, il film di Wim
Wenders.
Ci fermiamo prima nella baia del Mare Morto, vicino al Faro, poi ci dirigiamo dall’altro lato
dell’isola. Parcheggiamo dopo qualche chilometro. C’è un cancello. Si scende. Paola prende da
terra un’erba che si chiama carotina. È strano: la mastichi e senti il sapore della carota. L’isola dei
conigli ci appare al primo belvedere. Da un lato si apre una spiaggia di sabbia chiara, il mare è così
turchese e trasparente che quando ci nuoti vedi la tua ombra sotto, e ti sembra di volare, mi aveva
detto Fabio stamattina, in palestra. La villa che appartenne a Domenico Modugno è a pochi metri
dalla riva. Mangiamo delle arancine comprate in paese. Poi da solo raggiungo la terrazza più in
bassa e scopro l’altro lato della costa. Un panorama così bello l’ho visto solo in Brasile, penso. Si
chiama Cala Tabaccara. A osservarla dall’alto, di taglio la montagna sembra un libro chiuso.
Quando torniamo in paese, ci fermiamo al cimitero.
Le tombe dei migranti sono tutte senza nome. Prima, sulle lapidi di plastica o in alluminio,
c’era scritto “migrante non identificato”. Poi Paola si è presa il compito di curare ogni targa, una per
una. Ci fa incidere il giorno del rinvenimento del corpo da parte degli uomini della guardia costiera,
le cause della morte, se per naufragio o asfissia, dove è avvenuta, vicino a Capo Ponente o nei
pressi di Capo Maluk o di Cala Pisana, il sesso e l’età probabile dell’uomo e della donna che vi
sono sepolti, tra trenta e quarant’anni, tra venti e trenta, e la provenienza, di probabile origine sub
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sahariana. Le tombe sono mescolate a quelle dei lampedusani. La differenza è che mancano i dati
anagrafici, e non è usato il marmo per le lapidi. Tra tante, solo due hanno un nome. La prima è
quella di Ester Ada, 18 anni, nigeriana, nata nel 1991, morta il 16 aprile del 2009. A bordo di
quell’imbarcazione c’era anche suo fratello, per questo sappiamo chi è.
L’altra è Welela, eritrea. Il fratello vive in Svezia. Welela aveva il diritto al ricongiungimento
familiare (quel diritto che gli USA negarono anche ad Anna Frank, respingendo la richiesta della
sua famiglia di essere accolti come rifugiati). In Libia, prima di partire, scoppiò una bombola del
gas. In molti si ustionarono. Anche Welela. Ma si imbarcò lo stesso, per morire durante la
navigazione.
Più avanti ci sono tredici croci a terra di persone morte su un’unica barca. Ci ha pensato il
custode. Noi facciamo così, ha detto, anche se non erano cattolici. Ma se avessi fatto in modo
diverso, sarebbe stato come dire che sono altro da noi, si è giustificato.
In biblioteca, alle quattro, ci sono molti dei ragazzi che ho incontrato. Mi mostrano come
tengono aperta questa struttura. Nel primo tavolo i più piccoli disegnano e giocano. Gli altri, i più
grandi, mi mostrano il registro dei prestiti, un grande quaderno a righe, e mi consegnano la tessera
della biblioteca. Sopra c’è stampata una bambina che disegna il sole. Ci scrivono il mio nome. Mi
chiedono la data di nascita, il telefono, l’indirizzo. È la numero 689, un numero già alto, per
quest’isola. Sono stati davvero bravi, in due anni, a rilasciare tante tessere. Gli prometto che la terrò
nel portafogli, e ne avrò più cura che della patente. L’ho sempre pensato che la nostra carta
d’identità più vera è fatta dei libri che abbiamo letto.
Con i ragazzi parliamo di Torino. Quelli che saranno ospitati dal Salone del Libro sono sette:
Matteo (III media, 13 anni), Maria Sole (I scientifico, 14 anni), Silvia (II media, 13 anni), Gaia (II
media, 12 anni), Antonino (I scientifico, 14 anni), Dalila (III scientifico, 16 anni) e Angela (II
media, 13 anni). Sono eccitati dal viaggio, hanno creato un gruppo whats app al quale mi iscrivono.
Ma partecipano allo stesso entusiasmo anche quelli che non partiranno.
Penso alla storia di Jella Lepman. A come rispose quando alla fine della guerra il governo
statunitense le propose di coordinare un programma di assistenza per le donne tedesche e i loro
figli: “Poco a poco facciamo in modo di mettere questo mondo sottosopra nuovamente nel verso
giusto, cominciando dai bambini.” Penso all’insolita richiesta che Jella indirizzò ai governanti di
venti paesi. In Germania non ci sono più libri. Li hanno bruciati, insieme alle biblioteche.
Spediteceli. Mandateci soprattutto albi di sole figure, che ci aiutino a superare le barriere
linguistiche. Libri universali che possano rallegrare tutti. Penso a come si oppose al rifiuto del
Belgio di foraggiare l’educazione dei figli di chi li aveva invasi due volte. Se non volete essere
invasi la terza volta, gli scrisse Jella, aderite.
Sarebbe contenta, ora, se potesse vedere questi ragazzi. Anche qui, come nella Germania del
dopoguerra, fino a due anni fa non c’era un libro. E neppure una libreria o una cartolibreria. Se
quest’isola è un avamposto, allora lo è anche questa biblioteca.
Chiedo ai ragazzi che forma vorrebbero dare alla loro isola. Una teiera in mezzo al mare? Una
zattera di pietra? Una bambina mi mostra una cartina geografica sul telefono. Lampedusa è una
Sicilia in miniatura. Ha tre angoli, e la stessa sagoma. Ci viene l’idea di sovrapporne il disegno a un
vecchio volume di cui in biblioteca hanno una seconda copia e di intagliarlo lungo la linea
delimitata dalle coste. Così Lampedusa diventerà un libro, dice Orazio. Un’isola a forma di libro. E
in fondo è giusto. Perché ogni libro è un porto, e un’isola, e ogni libro si apre come un abbraccio.
Nel tardo pomeriggio con Paola e Anna andiamo all’archivio storico. Due stanze piene di
manifesti, pubblicazioni e fotografie. Ci sono tre migranti che studiano italiano. Uno ripete i
numeri, e il suo nome. Poi ci legge il primo articolo della costituzione italiana. Viene dal Gambia.
Gli altri due dalla Nigeria.
Il presidente dell’archivio storico mi parla della storia di quest’isola, della sua tradizione, di
quando qui conviveva pacificamente gente di religione diversa. Lampedusa è stata anche un rifugio
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di pirati, e un eremo, mi dice. Qui venne a naufragare la flotta di Carlo V. E ci sono buone ragioni
per credere che sia l’isola della Tempesta di Shakespeare, l’isola di Coriolano. E tira fuori la
fotocopia di un vecchio frontespizio. A disquisition on the scene, origin, date, etc. etc. of
Shakespeare’s Tempest in A letter of Benjamin Heywood Bright, esq. (London, printed by C.
Whittingham, 1839), del reverendo Joseph Hunter. Curioso. Proprio oggi si celebrano i 400 anni
esatti dalla morte di Shakespeare ed è la giornata mondiale del Libro. Non avrei potuto celebrarla
meglio in nessun altro luogo, penso.
Hai notato, mi dice il presidente, che il nome di Lampedusa e di Lampione, la seconda isola
dell’arcipelago delle Pelagie, inizia con la stessa radice? Lamp. Hanno a che fare con la luce, ripete,
o i lampi, e gli occhi gli si illuminano. Mi mostra altre foto. Gli aerei dell’ultima guerra, le bombe
che cadono. I trabaccoli, come si chiamano i due alberi a vela che facevano la pesca delle spugne.
Le foto di tutte le classi elementari del Novecento. Alcune le ha esposte fuori, e c’è sempre
qualcuno che si ferma, si riconosce, cerca di identificare gli altri. Poi Nino mi fa leggere il titolo di
un giornale tedesco. È la recensione a un romanzo dove si racconta che Gesù fu fatto scappare dai
romani e si stabilì proprio qui, dove fece il pastore. L’ultima cosa me la dice sottovoce. È probabile
che pure Cristoforo Colombo, prima di partire per le Indie e per la favolosa isola di Cipango, mi
confida con un sorriso largo e contagioso, andò a trovare un veggente che abitava a Lampedusa, un
eremita di nome Fra Simon.
Andiamo a cena, nella piazzetta davanti la Biblioteca: spaghetti con pomodorini e tonno.
A Paola e Melo chiedo qual è la persona più bella che è passata dalla loro casa. Mi dicono un
pastore in pensione che parlava con i cani. I cani lo capivano, si avvicinavano al portone. Mai come
in quei giorni. Un cucciolo una sera è entrato, e gli si è accucciato ai piedi.
24 aprile
È l’ultimo giorno di questo viaggio. E vorrei ringraziare uno per uno chi lo ha reso possibile.
Due anni fa avevo già partecipato a questo progetto del Salone di Torino che si chiama “Adotta uno
scrittore” e che finora è stato riservato soltanto alle scuole di quella regione. La mia adozione a
Lampedusa è la prima fuori da questi confini piemontesi. Ma per me è stato come riprendere un
discorso interrotto, un filo che unisce luoghi e persone lontane e molto diverse.
Per l’ultimo incontro con gli studenti, due anni fa, ero stato in un liceo musicale di Cuneo,
insieme a Gian Maria Testa, uno dei musicisti che ha cantato i migranti con maggior pudore e
sensibilità, amico di un altro scrittore del Mediterraneo, il marsigliese Jean Claude Izzo. Quella
mattina, in quella scuola, Gian Maria Testa ai ragazzi di Cuneo cantò Il disertore, una canzone
pacifista scritta da Boris Vian. Ora non ci sono più né lui né Izzo né Vian che possano tornare ad
accennarla, ma resta per tutti il loro invito a disertare da molte cose. Dai pregiudizi,
dall’indifferenza e dagli stereotipi, per primo. E poi, per usare un’espressione di uno scrittore
siciliano, Elio Vittorini, anche dalla quiete nella non speranza.
Preparo la valigia ed entro in casa, a fare colazione.
Da un giorno è arrivata una coppia di Genova. Lui è un professore di botanica. A tavola ci
dice che quasi tutto quello che pensiamo appartenga alla vegetazione del Mediterraneo in realtà
viene da fuori. La pomelia (il simbolo di Palermo) arrivò dall’America, la magnolia dal Nord
America (c’era prima della glaciazione), gli agrumi tutti dall’Oriente (ci giunsero in gran parte
attraverso gli arabi), le pesche dalla Cina, le albicocche dalla Persia. No, nessun agrume è
autoctono, ripete il professore, tra la sorpresa generale. L’agave viene dal Messico. I fichi d’India
dall’America centrale. La vite dall’Oriente, direttamente dalle regioni della Bibbia. La bougainville
dal Brasile (grazie a un viaggio del conte di Bougainville, nel quale aveva portato con sé la moglie
travestita da mozzo). Il papavero è arrivato con i cereali, mischiato ai semi. Ma gli esempi sono
infiniti.
Cosa c’è di autoctono, allora, gli chiediamo.
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L’oleandro, risponde. Le tamerici, e poco altro: la palma nana di san Pietro, il mirto, il
cipresso, il leccio. Sull’olivastro si discute ancora, se sia un ceppo originario. Ma lo stesso discorso
vale per l’alimentazione, prosegue: granturco patate pomodori zucchine banane cereali zucche
agrumi mele riso li abbiamo importati da altre parti del mondo. Da noi, prevalentemente, c’erano
solo cavoli e cipolle.
È un argomento affascinante, e mi sembra che il mio viaggio non poteva che finire così, con
questa conversazione su quanto sia ridicolo affermare qualsiasi identità. È tutto mischiato, anche in
natura. È tutto in movimento. Mi rafforza un’idea che vado maturando da un po’ di tempo. Che la
parola identità sia una parola ambigua, e quasi sempre sbagliata. Una parola dietro la quale se ne
nasconde un’altra, che non si può più usare. La parola purezza, nel cui nome - purezza della razza,
religiosa, linguistica, politica - sono stati perpetrati i più grandi crimini dell’umanità. Ha ragione lo
scrittore franco-libanese Amin Maalouf, l’identità serve solo a escludere gli altri. Sia nel bene e nel
male. È per questo che le organizzazioni criminali hanno un culto identitario tanto forte, e così pure
i dittatori. Ma perché, si chiede Paola, ideologia è diventata una brutta parola e identità una parola
bella? In fondo, dovrebbe essere il contrario: le idee le scegli, da dove provieni no.
Sì, vale anche per me quello che ci ha appena spiegato questo professore di botanica. Come
dimostra la vegetazione del Mediterraneo, e come sarà sempre di più, in futuro, la nostra è
un’identità multipla. E lo si capisce con più forza proprio qui, in quest’isola remota e dimenticata.
Adesso comprendo meglio anche perché volevo venire a Lampedusa come un lettore apolide.
Proprio qui, dove finisce l’Europa, o dove comincia.
Dove l’utopia da perseguire è che anche quest’isola possa diventare una terra di tutte le
molteplicità, come lo è la Bahia di Jorge Amado e di Zelia Gattai.
Apolidi sono i profughi, i figli dei profughi, tutti i desterradi della Terra. Ma apolidi sono
anche gli abitanti di un’isola senza libri, e senza biblioteche. Nessuno stato li considera cittadini e di
conseguenza non gli riconosce il diritto a una nazionalità e a un’educazione. In questo i migranti
senza nome che arrivano qui e i mille bambini di Lampedusa hanno la stessa invisibilità giuridica e
culturale.
Ma una biblioteca che nasce è uno sconfinamento. Un capovolgimento. Una biblioteca è un
territorio internazionale e sovranazionale come quello delle ambasciate, perché è lo stesso territorio
della letteratura. Territorio del possibile, prima che del reale. E una biblioteca per bambini e per
ragazzi lo è più di ogni altro posto. Un piccolo uovo di tartaruga. Una diserzione dalla non speranza.
Uno dei pochi luoghi che ci possono restituire l’unica cittadinanza e identità che abbiamo tutti,
quella di esseri umani.
Fabio Stassi, Aprile 2016
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