I passi dentro - elisa nocentini

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I passi dentro - elisa nocentini
I passi dentro
Dicono che merito il mio nome. Dicono che sono in molti a meritarsene uno.
Mi è piombato addosso come un castigo, una vendetta. Qualcuno ha tentato di salvarmi, mentre
qualcun’ altro ha consigliato inconsciamente un destino ancora più impietoso. La mia povera e
sconsiderata zia Brunella per esempio, avrebbe tanto voluto chiamarmi Gioia.
L’unica persona che conosco portare questo fardello è una quarantenne che abita in fondo a Via
degli Eroi e che di certo non si contraddistingue per coraggiosa solarità. Mai marchiare un
innocente con Gioia, Felicia o Letizia, la sorte si ritorce contro per vanità. Mia madre per esempio si
chiama Serena; ogni volta che veniva ad aspettarmi alla fermata dell’autobus, si convinceva che
tutti i solitari sacrifici che stava facendo, un giorno le avrebbero recapitato a casa un senso. Si
metteva alla guida così nervosamente che sembrava che il sangue le bruciasse in corpo fino a
consumarle le ruote. Vestita in tutte le gradazioni del viola, rigorosamente dal più chiaro al più
scuro e viceversa. In perenne Quaresima, in una costante rinuncia vegetariana, volubile, insicura,
insomma non proprio quello che definiresti una mamma “serena”.
Io chi sono? Una ventiseienne diplomata, laureata, masterizzata, con un curriculum pieno di lavori
da studente, tirocini volontari e una famiglia in pezzi, ma chi sono ancora non lo so. Forse è colpa
del mio nome, forse del fatto che le persone non se lo ricordano, oppure è colpa mia o del destino
senza un ruolo. Per ora posso dirvi soltanto dove sto andando.
Vado a Torino. Vado a cercare una targa da appendere alla porta, un nome da scrivere sul
campanello d’ingresso. Seguo il moto perpetuo della gioventù da stage e questa volta farò la
conoscenza della redazione polverosa di una rivista d’informazione culturale, prestigiosa e nata nel
1984, esattamente come me.
Signora redazione buongiorno, io sarei la nuova stagista, questo è mio il ruolo, questo è il mio
nuovo nome…lo sa che abbiamo la stessa età? Eppure lei sembra un po’ più grande…mi scusi se
sono inopportuna…infondo ci siamo appena conosciute...ma il suo modo di portare gli anni è
davvero affascinante, non si deve preoccupare…sarà tutta questa cultura sugli scaffali....e si sa che
contrattare con gli intellettuali non è cosa semplice…anche data la sua esperienza. Su non faccia
quella faccia...non volevo offenderla...io sono profondamente ammirata e invidiosa. In questi anni
non sono stata niente a suo confronto…magari lei potrà consigliarmi...no...non mi chieda di darle
del Tu...non riesco…piuttosto mi insegni un po’ di questa polvere…ho bisogno che qualcuno mi
dica come posso chiamarmi.
Contorsionismi mentali a parte, cosa cavolo mi metto? Come si va a lavorare in una redazione? La
risposta a qualsiasi domanda sono le scarpe. I piedi mi portano, sono contatto con lo strato
superficiale, dove termina il corpo e inizia il confronto. Non ne esistono abbastanza per coprire tutti
i paragoni, non si è mai tranquilli nello stabilire le varie relazioni tra ambiente e personale
sentimento momentaneo.
Tacco no, troppo presuntuoso e autoritario. Sneakers no, troppo sciatto e campagnolo. Stivale
basso? Ballerina? Ci vuole qualcosa di semplice, che dica che sei li ma potresti essere anche da
un'altra parte, che dica che non hai nulla da perdere e ovviamente solo da imparare, e che dia
l’impressione di poter arrivare comodamente alla fotocopiatrice. Allora ricomincio; Salve signora
scarpa da redazione, io sarei la nuova scarpa stagista…che dice? Se lo ricorderà il mio nome?
Preparo situazioni mentali e intanto prendo coscienza lentamente che me ne andrò. Devo trovare
una casa. Si può chiamare casa un posto dove dormirai solo tre mesi della tua vita? Decido in due
ragionati secondi che devono esistere luoghi che potrei chiamare così per molto meno…
-
Pronto?
-
Si ciao, sarò la tua nuova coinquilina.
-
Ah, ciao.
-
Senti ti chiamo per sapere un po’ com’è la casa, ho visto le foto ma…
-
Ah, che vuoi sapere?
-
Bo non lo so, dimmi com’è la zona, se è ben servita?
-
Si, siamo tranquilli. A dieci minuti dal centro. La casa non è nuovissima ma regge.
-
Bene,verrò fra una diecina di giorni e magari ti richiamo per sapere cosa mi devo portare,
cosa manca.
-
Va bene, io mi segno questo numero.
-
Brava, grazie
-
A proposito mi chiamo Cristina.
-
Ciao Cristina.
-
Ciao coinquilina.
Non conosco nessuno che si chiama Cristina o perlomeno non ho mai dormito con qualche
Cristina, neanche vissuto, diviso il bagno o l’armadio, l’aria, il venerdì sera, la domenica
mattina. Ma che nome è Cristina? Un nome. Semplice, pulito, preciso e direi anche piuttosto
pignolo.
Parto, lascio, arrivo, cambio, un attimo un tutt’uno.
Suono al decimo campanello in una ventina di anonimi, voce flebile e pignola risponde. Si apre
il portone di vetro e ferro chiaro, l’atrio spazioso di quattro piani tendonati all’interno con
plastica da imballaggio. Dalla terrazza si affaccia timidamente una ragazza dal volto pulito, mi
sorprende quel livore in perfetta armonia cromatica con il grigio delle pareti tutt’intorno e il
classico cielo plumbeo della domenica pomeriggio. La guardo a lungo aspettando un cenno, ma
la sto studiando, le prendo le misure col mio mondo e in quei venti secondi ci presenta il
silenzio.
Scelgo la voce più squillante e simpatica che riesco a trovare e anche se conosco la risposta,
chiedo alla figura ancora irregolare sopra la mia testa se è la persona che sto cercando.
Risposta affermativa, scala B, terzo piano.
All’entrata un lungo corridoio si spenge in una curvatura buia, la porta vetrata con le rifiniture
dipinte di panna si apre sulla cucina in legno bianco, scrostata e finita dall’impersonale uso
studentesco. Niente lasagne per quel forno, nessun raviolo impastato dal tempo su quel tavolo.
Abbiamo quattro scaffali a testa, i ripiani sono divisi, i miei sono quelli vicini alla finestra, la
mia tazza è quella bianca, stretta, con i fiori rossi e blu dalla parte opposta del manico. La mia
tazza. Non c’è odore qui dentro, posso sceglierne uno tutto per me e ci sarà tempo per farlo. Il
ripiano del frigo che mi appartiene è quello superiore, il primo che incontri, quello che Cristina
mi ha liberato, un vuoto da riempire, un posto da occupare con scelte. Sono sulla terrazza che
poco fa guardavo col naso all’insù, mi sporgo sopra roteata all’indietro, mi affaccio verso il
basso e davanti. C’è un lungo tetto rettangolare dall’altro lato del cortile interno, sopra è
sistemato un tavolo di plastica con delle sedie appoggiate, è una fabbrica di dolciumi e quando
c’è sole gli operai mangiano fuori e profumano di cioccolato il vento. Della mia nuova casa amo
particolarmente il pavimento. Ceramica dipinta a mano di un verde oliva spento, è lucente,
regolare e mi ricorda qualcosa di prezioso cesellato artigianalmente, ne distinguo le pennellate
larghe ed energiche, è uno di quegli oggetti che la volontà tocca inevitabilmente. Credo che ne
amerò ogni rigo, ogni angolo di colore consunto dallo strofinio degli oggetti abituali, ci sono
cose che non si scelgono dettate da un pensiero, riempiono e occupano bisogni estetici come seti
desertiche.
Esco subito a guardarmi intorno. La mole è un fantasma rispettoso e ogni tanto compare a
ricordartelo. Dà il benvenuto all’ingresso di casa e quasi immagino impermeabili e cappotti
appesi alla sua punta, cappelli ad asciugare sui punzoni della sua cupola e ombrelli lasciati
gocciolanti alle pareti. Quando entri in città come in casa, sei così attratto dall’interno da
dimenticarti in un secondo di essere passato dalla porta principale, solo intravedendone le
rifiniture ricordi d’improvviso dove sei e da dove sei venuto. Un faro, un richiamo che non sa
essere invadente, scegli tu se guardare. La nebbia poi, in certi mesi deve essere la sola unità di
misura del tutto e allora se non ne rimani affascinato o ti stanchi di esserlo, quella torre discreta
può aiutarti ad uscire anche dal più flebile stato d’angoscia.
Sono ancora una piccola bimba che cammina per la prima volta dentro una città sconosciuta,
tutto è bello e niente lo è, sono io che decido. Salgo nell’autobus e guardo intorno. Non c’è poi
molta differenza tra l’uno e l’altro, è la direzione che banalmente conferisce un senso. Cerco
curiosa di allungare l’orecchio in attesa di captare un dialetto sconosciuto, qualcosa d’impreciso
che mi aspetto abbia un suono rotondo, ma questa è un’ ora tarda, non vedo anziani piemontesi
andare da qualche parte e dovrò aspettarne i sproloqui da mercato per ricevere la lingua in
regalo. Le facce sono per lo più straniere e diversificate, immediatamente penso a mio padre che
prima di partire mi aveva incoraggiato dicendomi che sarei tornata correndo dopo una settimana
xenofoba. Scaccio il pensiero riflesso involontariamente sul vetro appiccicoso, mi dispiace ma
non ho tempo per questo.
Il Regio parco, l’Auditorium, i portici di via Po’ con la Grande Madre in fondo, le piazze
rotonde con le statue in mezzo, tutte uguali e tutte serene nel tempo. Mi specchio nelle
pasticcerie dalle insegne in legno dorato e rimango folgorata quando per caso un raggio di sole
squarcia la facciata della Biblioteca Nazionale. Questo è un giro veloce, ancora conosco solo i
nomi delle cose, le ascolto semplicemente e con il tempo imparerò a distinguerne le abitudini, le
sfumature diverse nelle diverse ore del giorno…chissà se qualcuno con me farà lo stesso.
A ritroso ripercorro con il mezzo pubblico la via verso casa, ho uno scintillante mazzo di chiavi
che ospita ben quattro accessi; in ordine il portone d’ingresso, l’ascensore, il cancelletto al piano
e ultima ma non per importanza la porta di casa. Apro frastornata dal tardo pomeriggio, seguo
con la punta del naso la punta dei miei piedi, un passo dopo l’altro, e se il cemento qui sotto
sprofondasse fresco? E se lasciassi orme grandi come laghi? La voce sottile e leggera di un
bimbo mi costringe a staccarmi dalle estremità inferiori, saltella avanti e indietro, proprio verso
la mia scala e indica qualcosa che dal punto in cui sono ancora non riesco a vedere.
- Guarda cosa c’è qui? Vieni a vedere cosa c’è qui? Non mi parla, non vuole parlarmi!
Lo seguo avvicinandomi incuriosita e come la natura mi porta a fare quando m’intenerisco,
inclino leggermente la testa verso destra e sorrido con tutto quello che ho.
- Cosa c’è lì? Non lo so, vengo a vedere!
Ho quasi timore di scoprire il mistero che si cela dietro la rampa, così meraviglioso da suscitare
un tale interessere, così straordinario da non poter parlare con quel bimbo lucente, e se
l’ingenuità tipica dei bambini facesse apparire sublime qualcosa di oscuro alla fanciullezza? E
se mi ritrovassi a tu per tu con un cadavere? Non può essere che questa creatura luccicante si
emozioni per qualcosa di buio, coraggio pochi passi, seguo l’indice millimetrico del piccolo
errante che supplica….un gatto per una risposta.
Un gatto dagli occhi smeraldo appollaiato sul terzo gradino, lusingato da tanto interesse posa
altero lo sguardo sul bambino e ora anche su di me.
-
È un gatto.
È strano come sparisca ogni mistero quando si riesce a dare un nome alle cose.
- Si ma non mi risponde..non dice nulla!
Guardo meglio il mio interlocutore saltellante, non ha smesso un minuto di estasiarsi contrariato
per quella scortesia felina e attende da me un motivo, un consiglio o forse soltanto un gioco
condiviso in quell’immenso atrio deserto.
- Prova a miagolare, magari non parla la tua lingua!
- Ma io sono un bambino mica posso mettermi a miagolare!
Con un candore disarmante comincia a fissarmi come io non oserei mai. Si presenta, si chiama
Saladino e in un secondo divento io in persona il centro di tutto il suo interesse, avrà all’incirca
tre anni e occhi grandi come il paese da cui deve aver ereditato quella pelle d’oliva.
Avrei voluto abbracciarlo forte, sedermi sul primo gradino in rispettoso ossequio al gattone che
ho scoperto chiamarsi Nimun e stare per ore a meravigliarmi di niente.
Purtroppo come in tutte quelle occasioni speciali che accadono mentre stai andando verso
qualche inutile posto, succede che non ti soffermi, che non riesci a distinguere il momento e
soltanto più tardi quando salendo in ascensore ti chiedi perché ti senti leggero e perché cavolo
non ti sei trattenuto..
Ciao grande Nimun, ciao magico Saladino. Mi sbagliavo, forse c’è ancora molto mistero, forse
anch’io posso finalmente nominarmi dentro un luogo o lasciare che questo lo faccia al mio
posto. Gli chiedo un bacio, sorride, mi tende le braccia, mi bacia, arrossisco.
Per il mio primo giorno mi sono vestita di nero brillante, ho scelto un foulard verde che si
accordasse meglio al mio viso pallido in tutta quell’oscurità e ho appuntato i capelli perché non
cadessero sciatti sugli occhi. Non mi sono truccata o meglio il trucco non può definirsi tale,
appena una riga nera contorno occhi per aiutare chi mi guarda per la prima volta a non perdersi
altrove. Se proprio qualcuno deve confondersi su di me, preferirei che si perdesse dentro il
grigino verde spento delle mie iridi, piuttosto che sul naso ingobbito, sulle labbra carnose o su
un nome che non ho. Gli occhi non sono un vezzo, esistono, sono lì e parlano anche in mezzo al
niente. Ho colorato leggermente di rosa le guance, mi piacciono, sono sintomo di salute e sanno
d’innocenza. Chi potrebbe mai prendersela con una rachitica stagista bionda, slavata con le
guance rosee e gli occhi stinti? Spero che nessuno s’interessi così tanto a me, come spero che
nessuno si dimentichi distratto.
Oltrepasso la Dora, un leggerissimo odore dolciastro mi raggiunge impetuoso. Gente qualunque
mi passa accanto, sfiora alzando leggere le ciglia del foulard.
La giornata è chiara e si possono vedere le Alpi, innevate e maestose scorrono diluite sotto di
me. Prendo l’autobus emozionata, la mia fermata sarà la quinta, lo so, ho fatto le prove.
Fisso la porta, so che sarà importante ed è per questo che decido di fare due passi prima di
suonare; non può succedermi niente, che non sia come inzupparmi d’aria lavata, non posso
piangere niente, che non sia gia stato singhiozzo, non posso vedere niente, che non sia come un
abito nuovo, posso soltanto e suono.
Odora di polvere e carta ingiallita ammucchiata dagli anni sugli scaffali. Copertine a colori
coprono pareti inesistenti, questo luogo non ha mura non avverto limiti che isolano movimenti.
Che mi importa se non mi pagano, chi se ne frega se dimenticheranno il mio nome. Prendetemi
tutto quello che volete e comunque non riuscirete mai ad abusare di me come io lo farò di voi.
La mia tutor istituzionale, dal latino difendere e sostenere si chiama Monica e sembra una
caramella. Quelle gommose e zuccherate all’esterno, gusto lampone tra i tanti aciduli e
insignificanti. Sorride sempre allegra e sapiente, gira per l’ufficio con gonne leggere di
primavera e occhi blu che non hanno bisogno di matite nere per essere annunciati.
Estremamente gentile come lo zucchero appiccicoso che la ricopre nella mia fantasia, mi
guarda, mi spiega.
Questa signora è una donna di oggi, quelle delle riviste patinate dalle parrucchiere, interviste
nelle rubriche di cultura e società,. Dinamica come questa brutta parola, viva di letteratura e di
arte e becera come l’ultima comare zitella. Ha le calze smagliate, di un nero velato e setoso
proprio come quelle che portava Suor Paola, ovvero il mio primo retaggio d’autorità benevola.
Lei le indossava sempre sotto i gonnellini azzurri con il grembiule bianco abbinato ai polsini,
per non sporcarsi, per non disturbare quella macchia di cielo “stoviglia” in cui era avvolta.
Cammina come lei, abbondante e materna, emana da dentro una perfetta andatura vitale,
profuma di acqua di rose, porta un retrogusto francese.
- Cara siamo molto contenti che tu sia qui..abbiamo sempre bisogno di nuovi stagisti.
- La ringrazio anche io sono molto contenta di essere qui..è tutto nuovo, è tutto così diverso.
- Ti sei sistemata bene? Da che parte abiti? Ma che studi hai fatto?..che bello..l’arte..magari
puoi scriverci qualcosa…saprai un sacco di cose interessanti...lo sai? Sei così....
…Così come? Rimango aggrappata a quella frase senza fine mentre irrompe deciso nella stanza
il direttore. Mi stringo sempre di più sotto le spalle, voglio sparire e sento la guance avvampare
in ogni tono di colore possibile. Squarcia con sicurezza l’aria dell’ufficio, non saluta e non
accenna, si dirige verso Monica con le bozze in mano chiedendole qualcosa che ora suona
incomprensibile. Non sento. Sto pensando che da un momento all’altro potrà voltarsi e notare
tutta la mia estraneità ai fatti. Avrà tutto il diritto di assumere una smorfia interrogativa
domandandosi chi diavolo io possa mai essere, in fondo c’ ho scambiato solo qualche mail e le
sue risposta non sono state delle più disponibili. Un uomo impegnato è un uomo impegnato! Un
giornalista, uno che ha visto la “cosa” estera, che dirige, che viaggia e che ha un’idea chiara su
tutto lo scibile. Uno che non ha bisogno di un nome, perché il suo mondo lo precede. Ora ho
paura. Persino la sua altezza incute timore. Cosa posso dire di nuovo o interessante, neanche un
semplice “buongiorno, molto lieta sono la nuova stagista” potrebbe servire, non basterebbe, non
sarebbe mai abbastanza. Capirebbe subito che c’è da colmare un mare di distanze e inesattezze
sulla mia faccia e sono sicura che mi guarderebbe senza trovare alcuna naturale risposta. Lei
invece non ha paura, sostiene il suo sguardo con grazia, azzarda pure un sorriso e una battuta e
con magistrale confidenza materna straccia in un attimo tutta quella severità. Io al contrario
spero non mi guardi, spero non domandi, non si soffermi.
Fortunatamente esce dalla stanza, io sono invisibile, non ho messo abbastanza matita nera
contorno occhi. Infondo io mi chiamo E lisa e non si può andare contro il destino; il mio nome
sparisce lentamente e come una stoffa logora dall’uso, si consuma pronunciandolo.
Elisa Nocentini